Clara

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Friedrich Wilhelm Joseph Schelling

Clara ovvero

Sulla connessione della natura con il mondo degli spiriti a cura di Markus Oph채lders Premessa di Giampiero Moretti Con una nota conclusiva di Alfred Baeumler


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Tra Clara e Séraphîta di Giampiero Moretti

Poco tempo fa, introducendo la nuova edizione italiana del Séraphîta di Honoré de Balzac,1 scrivevamo di un romanzo il cui percorso conduce ad affacciarsi sull’invisibile; un invisibile, tuttavia, che i sensi umani, se adeguatamente stimolati e pronti, riescono a percepire. Ora, con il Clara di Schelling – anch’esso presentato in una nuova edizione, arricchita peraltro da un importante e inedito scritto di Alfred Baeumler – abbiamo la possibilità di proseguire quella riflessione, approfondendone almeno in piccola parte origine ed esiti. Da luogo di passaggio e di paesaggio, oltre che di innumerevoli incontri e scontri tra culture, il confine renano tra la Francia e la Germania assume, nel momento in cui queste due opere si fissano reciprocamente, l’aspetto di un legame spirituale paragonabile a quello che secondo Schelling sussiste tra Natur e Geisterwelt, ovvero tra natura e mondo degli spiriti. Proviamo allora a prendere brevemente in esame alcuni temi di questo legame, senza con ciò sovrapporci alle considerazioni del Curatore, né a quelle di Alfred Baeumler. Poca, pochissima attenzione gli interpreti hanno accordato al Clara.2 Ma non è affatto un male, è anzi un bene prezioso, spe1

Nella bella traduzione italiana di Pia Cigala Fulgosi (Zandonai, Rovereto 2008).

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Basti vedere come, nel suo Leggere Schelling (2004), Wilhelm G. Jacobs non conceda a Clara spazio alcuno (trad. it. di Carlo Tatasciore, Guerini e Associati, Milano 2008). Molto recentemente Davide Sisto, con il suo Nell’attesa di un giorno notturno: il legame divino tra natura e spirito nel Clara schellinghiano (in “Estetica”, 2/2008, pp. 115-125) e, soprattutto, con il suo importante lavoro di Dottorato di Ricerca in Filosofia dal titolo In cammino verso

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cialmente per il lettore privo di preconcetti. Il motivo per cui i filosofi di professione si sono disfatti con facilità e senza eccessive remore di questo stravagante scritto è proprio la ragione del suo notevole interesse. Riprendendo per un istante l’immagine del confine tra Francia e Germania, tra natura e mondo degli spiriti, possiamo dire che Schelling scrive il suo Clara 3 come affacciandosi dal parapetto di un ponte tra le due sponde del Reno, mentre da lontano scorge Séraphîta che guarda verso di lui. In questo spazio franco e come sospeso, che dista da filosofia e letteratura tradizionalmente intese all’incirca quanto distano tra loro le due sponde del Reno, Schelling si sofferma a contemplare un paesaggio strano, e racconta ciò che vede con una freschezza forse maggiore dello stesso Balzac, il quale pare a tratti più timoroso di infrangere i confini del romanzo di quanto Schelling non lo sia stato nei confronti dei limiti della filosofia sistematica. Se infatti prendiamo le mosse da quella che qui è indicata come l’Introduzione di Schelling (non sappiamo in realtà se a un altro scritto coevo e parallelo, oppure al Clara stesso, ma questo non è importante), constatiamo immediatamente qual è la preoccupazione che ha mosso il filosofo alla stesura del Clara: la tendenza dell’epoca, e la tensione, tradizionalmente intrinseca alla filosofia stessa, a “spiritualizzare” ogni cosa che essa tematizza, ha condotto la filosofia delle scuole a “sbarazzarsi” troppo frettolosamente della “natura”. Parrebbe allora, a prima vista, di trovarsi nuovamente di fronte alla risaputa polemica di Schelling con Fichte sul signila trasfigurazione. La malinconia della natura nello Schelling intermedio (1809-1815), ha invece meritatamente riportato l’attenzione degli studiosi sugli aspetti essenziali di quest’opera di Schelling. Per quanto concerne l’importante questione della melanconia, rinviamo qui alla bella scelta antologica, intelligentemente curata da Roberto Gigliucci, dal titolo La melanconia (BUR, Milano 2009). 3

La nostra lettura di Clara ha i suoi presupposti in Schelling: il lampo e la notte oscura; in Schelling: dalla Natura al mondo degli Spiriti; e in Arte natura e “vita dell’anima”. La Rede schellinghiana del 1807, tutti contenuti in G. Moretti, La segnatura romantica. Filosofia e sentimento da Novalis a Heidegger, Hestia, Cernusco L. 1992, pp. 95-162. Per quanto concerne alcuni aspetti del rapporto tra Schelling e Swedenborg (e non solo), si veda il volume di Tonino Griffero, Il corpo spirituale. Ontologie “sottili” da Paolo di Tarso a Friedrich Christoph Oetinger (Mimesis, Milano 2006), che però soffre di alcune curiose amnesie bibliografiche.

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Tra Clara e Séraphîta

ficato della filosofia della natura per la compiutezza sistematica del pensiero filosofico, una riedizione insomma di quanto era accaduto circa un quindicennio prima. Tuttavia non è così. Da un lato, infatti, i bersagli polemici di Schelling sono adesso semmai Hegel e tutti coloro che non hanno compreso il vero significato dialettico della sua filosofia della natura, ma, d’altro canto, con il Clara Schelling entra in polemica anche con se stesso, o, per meglio dire, con il proprio sé sistematico. Ed è proprio quest’ultimo aspetto, a nostro avviso, il più importante del Clara. Stando alle indicazioni del figlio di Schelling, come accennato, è incerto se l’Introduzione faccia espressamente parte del Clara, oppure se Schelling l’avesse pensata per un vero e proprio trattato su quello che gli apparve come il necessario passaggio dalla filosofia della natura alla filosofia del mondo degli spiriti. Di fatto, il Clara e questa Introduzione rappresentano quanto ci resta di uno Schelling “visionario” come non mai. Una visionarietà, va tuttavia immediatamente aggiunto, che rivendica per sé il ruolo di “avvistamento” di quel passaggio dalla natura al mondo degli spiriti che, nell’impossibilità di essere compreso e comunicato filosoficamente, si affida per scelta alla narrazione, al colloquio, al dialogo. Non commettiamo allora l’errore di credere di trovarci di fronte, con il Clara, alla riscoperta o alla riproposizione del genere platonico del dialogo, come talvolta è stato scritto e come se il dialogo platonico fosse un “genere” cui il pensiero filosofico può impunemente attingere. Siamo invece dinanzi al dato di fatto per molti versi stupefacente per cui, come lo stesso Schelling precisa, avendo di mira «unicamente il passaggio scientifico dall’ambito della natura a quello del mondo spirituale», il filosofo non soltanto non trova altra strada che alludere a tale passaggio in una narrazione visionaria affidata alle voci di alcuni personaggi, ma sceglie di farlo in un esperimento narrativo visionario. Tuttavia, ed è questo per così dire il senso del passaggio visionario dal regno della natura al mondo degli spiriti, nonché tra di essi, non se ne può parlare se non mentre già la Natur scorge la Geisterwelt, il mondo degli spiriti; la deduzione “logica” della necessità dell’esistenza della GeisterIX


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welt non basta: occorre, infatti, che la natura la veda, e faccia della visione una sperimentazione nel linguaggio. Il compito di tale anticipazione visionaria è il compito proprio dell’uomo. La cosiddetta filosofia “positiva”, quella che secondo Schelling non può e non deve accontentarsi dell’esistenza meramente concettuale, “negativa” della realtà, è dunque già all’opera in Clara. Eppure. Non sarebbe stato ben più semplice e ovvio parlare di spiritualità come insieme di valori, trascendenti e condivisi, o di spiritualità come universo morale, religioso, teologico perfino? Cos’è, invece, che “costringe” Schelling a parlare di mondo degli spiriti e non semplicemente di mondo spirituale, sfidando così i sorrisi degli ambienti accademici che «non possono neanche udire l’espressione Geisterwelt» senza arricciare il naso? Non era sufficiente, per questo Schelling, e non lo era poiché il mondo spirituale di cui parlano la filosofia e la teologia è privo di quella “carne”, che invece gli spiriti, nel “loro” mondo e naturalmente a “loro” modo, continuano per Schelling a possedere. Il Clara costituisce dunque la pre-visione del regno in cui la natura (l’elemento fisico dell’uomo e, con ciò, anche il suo corpo),4 ridotta a essenza dalla morte, si rovescia nel tempo e nello spazio in cui lo spirito, e non più la materia (come invece nel nostro mondo) è (sarà) sostanziale. Pre-visione, abbiamo detto. La filosofia, che si trascende in sentimento, sentimento dello spirituale nelle leggi della corporeità fisica, questa filosofia si confronta con il pre, quella dimensione a un tempo anticipatrice e categoriale che rappresenta al meglio anche la sua tensione all’“a priori”. La letteratura (che nel Clara, come dicevamo in precedenza, corre sempre il rischio di essere scambiata e persino offuscata dall’eco del dialogo platonico erroneamente inteso come un genere tra gli altri) prende ora su di sé, a metà del ponte

4 Non possiamo naturalmente affrontare in questa sede la questione, peraltro essenziale, del rapporto tra la posizione schellinghiana e la dottrina cristiana dell’Incarnazione. Segnaliamo qui l’interessante contributo di Guido Boffi, La natura, il tempo, la morte dell’uomo. Necessità dell’antropologia: Schelling (1809-1821), in C. Tatasciore (a cura di), Dalla materia alla coscienza. Studi su Schelling in ricordo di Giuseppe Semerari, Guerini e Associati, Milano 2000, pp. 273-308.

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Tra Clara e Séraphîta

tra Francia e Germania, il carico di una scrittura che non può non essere “visione” e racconto, infrangendo così, ancor prima che fossero saldi, i confini tradizionali del romanzo nel mentre la filosofia come sogno sistematico si consuma da sé. Non è, tutto ciò, genuinamente romantico? Non fa compagnia questo Schelling ai suoi vecchi “amici” Hölderlin e Novalis? Il Clara è insomma anche il tentativo “genuinamente romantico” di dare risposta a due insufficienze, vissute e sentite come tali dal romantico Schelling: in primo luogo, quella della filosofia, incapace di dare un volto all’invisibile se non in negativo, in astratto, mancanza che di lì a non molti anni avrebbe preso la forma della cosiddetta filosofia positiva; e, in secondo luogo, l’insufficienza del linguaggio tradizionalmente romanzesco a raccontare, se non per metafore individuali e arbitrarie, sentimentalismi irrazionali, quanto quel volto dell’invisibile splende, in realtà già fin da questa vita, e universalmente, e non come interiorità della coscienza, bensì nella sua realtà più umana e “fisica”. Queste due insufficienze Schelling denuncia nel Clara con una forza altrove – probabilmente – mai più raggiunta, e ciò sia perché vi è spinto dal dolore abissale per la morte dell’amata, sia perché quel dolore, in virtù di un esercizio ancor più doloroso, viene nella sua scrittura come “depurato” dall’elemento irrazionale e arbitrario della singolarità, per divenire infine visione. Un monito e un’indicazione all’artista e a chiunque voglia incamminarsi sul sentiero dell’opera d’arte, un sentiero che – così pare – deve immancabilmente conoscere la medesima rarefazione, pena il proprio consegnarsi alla caducità priva di speranza. Cosa c’è, in apparenza, di più caduco, di maggiormente destinato a passare, di un legame, di una connessione? Eppure, proprio la connessione, dice Schelling, è quanto vi è di massimamente destinato a permanere, sia pure in modi che non escludono la trasformazione, anzi, la richiedono. La connessione tra Natur e Geisterwelt è dunque, per Schelling (e come, prima di lui, per Novalis), ciò che permane nell’uno e nell’altro stato della vita, è vero e proprio Zustand, una condizione che appartiene anche alla trasformazione della coXI


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scienza umana in entrambi i regni. Qui pre-visione. E “lì”? Forse, immaginazione in atto, espressione di cui però subito la filosofia tradizionale si impadronisce, a meno di non riuscire nell’impresa di soffermare lo sguardo principalmente su quell’esser-relato, proprio intimamente della connessione, che non diviene mai “relativo” finché l’immaginazione e il sentimento lo sostengono offrendogli in sacrificio la “realtà”. La prima realtà sacrificale è però costituita dalla “propria” anima, che è l’esperimento che l’uomo ha più vicino a sé, nel senso che è destinato a viverlo, di connessione in atto tra natura e mondo degli spiriti. Il racconto dell’arte è allora il racconto dell’anima come connessione tra Natur e Geisterwelt, un racconto che è autentico se è pre-visione del destino dell’anima stessa. “Autentico” qui vuol dire: l’anima si manifesta come quella relazione tra mondi, che essa già sempre è, né l’interrompe, né la rende unilaterale (indirizzandola verso uno dei due poli soltanto). L’arte è la custodia di questa relazione, e nelle pagine, davvero ispirate, in cui Schelling parla di fantasia-immaginazione come facoltà aperta al “peccato”, essa è custodia in forma proprio della relazione dinamica, d’anima, tra Natur e Geisterwelt. In quella custodia, l’arte garantisce che i due poli siano autenticamente in contatto. Lungi perciò dall’essere, quello di Clara, uno Schelling lontano o persino indifferente al mondo dell’arte, come spesso si legge, ci troviamo di fronte a un’implicita rivendicazione, e affermazione, della facoltà artistico-estetica come unica e vera facoltà in grado di custodire la relazione tra i due regni, custode cioè del continuo trapasso dell’un regno nell’altro, che l’opera d’arte racconta, come dicevamo all’inizio, non più nei termini tradizionali di contenuto e forma, né di genere. L’arte autentica trasforma e mostra in opera il frutto della pre-visione: ma lì, e quando, l’immaginazione diviene chiaroveggenza. In quell’attimo la necessità di filosofia e letteratura si azzera, come la loro stessa distinzione.

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