Amore

Page 1



Amore



«Dammi un cuscino.» Si alza. La porta a vetri è aperta sull’anticamera. Esce. Chiudo gli occhi. Oltre la stanza, fuori, si odono uno, due rintocchi dell’orologio del campanile. Lo immagino nello spazio. La via, la chiesa incastrata fra le abitazioni sull’altro lato. Il campanile svetta sopra i tetti nel cielo rischiarato dal riverbero dei neon. La casa di fronte alla chiesa, all’ultimo piano della quale sono salito. La tromba delle scale. L’ appartamento all’ultimo piano. La camera, il letto. Il letto sul quale giaccio. Passa del tempo. Sento scattare la porta, l’ha chiusa. Il cuscino gettato sul letto fa un tonfo. Apro gli occhi. Va di nuovo verso il tavolo. Stropiccio il cuscino grande e me lo sistemo dietro la schiena, in modo da farle posto, nel caso volesse sdraiarsi accanto a me. Si siede al tavolo. Sto comodo così, con il cuscino dietro la schiena; la comodità dell’attimo. Posso guardarla. Le forme note del suo corpo avvolto in un vestito verde. Sfrigola il cellofan, dal pacchetto estrae una sigaretta con il filtro, smuove il tabacco con un fiammifero, attenta a non lacerare la sottile cartina. I frammenti di tabacco si riversano su un foglio di carta, nel profondo silenzio si riesce quasi a sentirne il rumore. Seduti al tavolo ne abbiamo già fumata una. Ero seduto davanti al tavolo, in poltrona, seminudo. Sul tavolo gli strumenti. Un pacchetto di sigarette. L’ erba nella bustina di plastica. Forbici, fiammiferi. Un foglio di carta pulito. Prende una sigaretta dal pacchetto e un fiammifero dalla scatola. Con il fiammifero estrae il tabacco dall’involucro, usando ogni cautela, per non lacerare il velo cartaceo. Non mi appoggio 7


allo schienale. La mia camicia sul bracciolo della poltrona, sopra la quale è steso il suo vestito verde. Le piace girare nuda; fa caldo. Il tabacco si sparge sul foglio di carta. I seni le tremano in modo appena percettibile, seguono in ritardo il ritmo dei movimenti delle mani; il capezzolo sfiora il bordo del tavolo. È piacevole vederla indaffarata. Quando l’involucro è quasi vuoto lo appoggia davanti a sé; sta in piedi sopra il filtro. Preleva dell’erba dalla bustina di plastica e la infila con cura nell’involucro. Poi con la punta delle dita raccoglie il tabacco, un tabacco ordinario, ma l’involucro si rovescia. Lo rimette in piedi. Vi infila il tabacco e un’altra presina d’erba dalla bustina. La rintuzza con la capocchia di fosforo del fiammifero. «Non hai sete?» domanda. Un altro po’ di tabacco e di erba, qualche filo di tabacco ancora, rintuzzato con la tonda capocchia del fiammifero. «Ti porto qualcosa. Subito.» Con i palmi delle mani arrotola l’involucro riempito di tabacco e di erba. Taglia con le forbici il filtro. Alza lo sguardo su di me. «Passami il vestito.» Allungo la mano per prendere il vestito verde. «Perché?» Si alza in piedi. «In cucina mi vedono.» Solleva il vestito sopra la testa, sulla pancia si tende il solco bianco della cicatrice, la vita le si restringe; se lo infila. Mi appoggio allo schienale. Esce. Da qui, dalla poltrona, la stanza è bene in vista. La porta sul balcone è aperta. Esco sul balcone. Fa leggermente più fresco. Il vicolo, laggiù in fondo, è vuoto e buio. Le ombre sono al loro posto. Dovrei dirglielo che qui non verrò più. Passa un po’ di tempo. L’ ampio portale della chiesa sembra aprire un canale sotterraneo; acqua di fogna. So già che non glielo dirò, la sua ingenuità è disarmante. Torno dentro. È al centro della stanza, non l’ho nemmeno sentita arrivare. Tiene due bicchieri in mano sotto il lampadario antico. È bella. «Non ti induce in tentazione questo balcone?» Ride. Quando ride le scompaiono gli occhi. «Io non esco mai sul balcone!» «La ringhiera è troppo bassa per non pensarci.» «Ti viene da scavalcarla, vero? Comunque evito di andarci! Di solito apro la porta, ma mai una volta che sia uscita.» «Mai?» «Mai, credo.» Prendo uno dei bicchieri. È Amore


limonata. La bevo. Mi rimetto a sedere in poltrona, poggio il bicchiere sul tavolo, tintinna. Non dovremmo affrontare argomenti così estremi. Forse è meglio parlare del nulla. Anche lei si siede, di fronte a me, ma solo sul bordo della sedia. Solleva la sigaretta, se la infila fra le labbra, con un gesto rapido la accende. Avrei voluto fumarla sdraiato sul letto insieme a lei. Inala e ingoia il fumo. Del fumo nulla va sprecato. Me la passa. Faccio un’energica tirata anch’io. Il ben noto sapore in bocca, poi in gola. Cerco di mandarlo giù, più che posso. Mi viene da tossire; gliela restituisco; tira un’altra boccata. Non devo tossire. Se espellessi il fumo tossendo, sarebbe uno spreco. Chiudo gli occhi e immagino, sento le vescichette dei polmoni piene. Tossisce. Me la restituisce, sono costretto a riaprire gli occhi. La sigaretta arde intensamente. Faccio una tirata, crepita. Il fumo si espande ovunque, libero. Mi chino sopra una voluta e la inalo, con il naso e con la bocca. Gliela passerei di nuovo, ma con un cenno mi fa capire che adesso non vuole. Due tirate sono mie. Le donne sanno preparare bocconcini saporiti. I polmoni si stanno riempiendo, stanno assorbendo il fumo. Esalo lentamente gli ultimi residui prima di una nuova boccata, ma non ci sono residui. Una tirata ancora e gliela passo. Sarebbe bello potersi sdraiare sul letto e lì aspettare. Me la restituisce. Quello che resta è sufficiente per altre due, forse tre tirate. Le dita avvertono il calore della cenere, buona parte del fumo si disperde e viene sprecata. Gliela allungo, facendo attenzione a non ustionare la sua mano e le mie dita. Fuma con gli occhi chiusi, probabilmente la cenere le brucia le labbra. Un dono sbagliato. Mi alzo in piedi. Mi sfilo i pantaloni e li getto sulla poltrona. Ancora nulla. Spegne la cicca nel posacenere, tossisce esalando il fumo. «Mi daresti un lenzuolo? Vorrei sdraiarmi.» Si alza. Va alla credenza. Sopra, fra libri, giornali e riviste ticchetta una sveglia da cucina. Estrae il cassetto, mi passa il lenzuolo. Spinge in dentro il cassetto scricchiolante. Stendo il lenzuolo sul letto. Mi sdraio. Al solito posto. Con le spalle e la testa contro il muro, come sempre. Torna al tavolo, si siede. «Ne preparo un’altra. Va bene?» «Va bene.» Nella bella luce del lampa8

9


dario; sotto un bel lampadario; vorrei ritrarmi da lei; vorrei ritrarmi da tutto. «Spegneresti la luce per favore?» Si alza. Passa davanti alla credenza, si avvicina all’interruttore. Spegne la luce. L’ applique è accesa sopra la mia testa. Sto scomodo, la parete preme alle mie spalle, il tappeto appeso alla parete punge. Vorrebbe tornare a sedersi al tavolo. Le comodità possono mitigare le spiacevoli percezioni corporee. Si siede. «Passami un cuscino.» Si alza. La porta a vetri è aperta sull’anticamera buia. Esce. Non mi sono mai guardato intorno nell’anticamera. Tengono lì la biancheria da letto? Chiudo gli occhi. Bisognerebbe chiudere anche la porta. Rimarremmo soli. Fuori, da qualche parte sopra la mia testa, suona la campana. Mi do una collocazione nello spazio. Una camera al sesto piano. Passa del tempo prima di sentire lo scatto della porta. L’ ha chiusa. Il cuscino gettato sul letto fa un tonfo. Apro gli occhi. Stropiccio il grande cuscino e lo sistemo dietro la schiena, ma non occupo tutto lo spazio, le lascio il posto, nel caso volesse sdraiarsi accanto a me. Si siede al tavolo. Da qui, dal letto, tutto è facilmente inquadrabile. Sta seduta al centro dell’ orizzonte. Nel vestito verde le forme note del suo corpo. Tira fuori una sigaretta dal pacchetto, sfrigola il cellofan; con un fiammifero estrae il tabacco con cura, per non lacerare la sottile superficie dell’involucro. Il tabacco si sparge sulla carta, cala il silenzio, si sente il lieve rumore. Nulla di speciale ancora. Tutto così com’è. Sta seduta al tavolo, dove ne abbiamo già fumata una. Giù in strada passa stridendo una macchina. Sento che se mi consegnassi alla stanchezza potrei addormentarmi, e non andrebbe bene. Sarebbe un peccato dormire proprio mentre fa effetto. Magari agirebbe nel profondo dei miei sogni, ma ne ho abbastanza anche dei miei sogni. Fa caldo in camera. Eppure la finestra sopra il letto è aperta. È aperta la porta sul balcone, così come anche l’ altra finestra; vorrei togliermi le mutande, mi fanno sudare, ma mi sentirei a disagio sdraiato nudo con le gambe spalancate. Non voglio vedere il mio corpo. Sul termosifone una cartella contenente un manoscritto voluminoso; domani dovrò leggerlo, in realtà Amore


avrei dovuto leggerlo già oggi, o ieri, perché può darsi che oggi sia già domani. Sulla cartella il mio orologio, potrei guardarlo e controllare se è oggi o domani, ma il movimento disturberebbe l’equilibrio interno che si sta via via creando. Accanto al mio orologio un posacenere, un pacchetto di sigarette, dei fiammiferi. Potrei accendermi una sigaretta. La tranquillità che conduce all’indifferenza pare irraggiungibile. «Non è che disturba il rito se accendo una sigaretta?» Devo riempire il tempo con qualcosa, con un movimento, o almeno un pensiero. «Aspetta un attimo. Vado a prenderla subito.» Bisogna aspettare. Pesca un ciuffetto d’erba dalla bustina di plastica, lavora piano, con calma. «Stai sentendo qualcosa?» Ha la voce piena, in armonia con il suo corpo. «No, nulla. Sono solo stanco. E tu?» «Nulla.» Anche i suoi movimenti sono pieni; lavora con pacata attenzione per fare bene ciò che fa. Ogni suo gesto è appropriato e privo della tensione dovuta al raggiungimento di un obiettivo. Come se fosse sola nella stanza, come se io non fossi presente, non l’ho mai vista così insospettabilmente tranquilla. Come se lo fossi anch’io. Come se mi fossi anch’io liberato della necessità di essere attento. Non osservo, mi limito a vedere. E non mi spiego ciò che vedo, l’immagine mi raggiunge senza alcun contatto fisico. Lei mi raggiunge senza alcun contatto fisico. Fa rotolare fra i palmi l’involucro ricolmo. Il suo braccio pieno e abbronzato nel vestito verde senza maniche. Il suo corpo sa ancor più di corpo. Anche il tavolo sembra più lontano dal letto. A una distanza colmabile. Quando verrà qui sentirò la sua pelle sulla mia. L’ attesa è una dimensione favorevole: al suo interno convivono l’inesistente e il possibile, l’inimmaginabile e l’immaginabile. Faremo l’amore. L’indifferenza avvolge ogni cosa intorno. Distanza fra due punti. Uno dei quali è il corpo in preda a se stesso, là, al tavolo: una figura femminile che non smette mai di attrarmi; l’altro punto sono io, sdraiato qui, con le gambe nude e pelose, le cosce, le mie cosce spalancate, una collinetta ricoperta dalle mutande. Due punti tuttavia congiungibili. Il corpo è un qualcosa di risibile, debole, ridicolmente semplice; potrei togliermi le mutande; inutile. Se però penso 10 11


all’inutilità delle mosse, ecco che si fa sentire. L’ indifferenza che mi permette di vedere più nitidamente il mondo intorno a me, nel momento in cui smetto di esercitare il mio controllo. L’ indifferenza è la completezza dell’ esistente, privo di ciò che è stato e di ciò che può essere. Solleva le forbici, taglia il filtro all’estremità della sigaretta. «Stai sentendo qualcosa?» Il filtro cade sul tavolo. «Forse. E tu?» «Sì. Mi sembra che stia per iniziare.» Si alza. Si avvicina al letto. Tiene in mano la sigaretta. Colma la distanza. Incerta. «Lo vedo. Si capisce da come ti muovi.» Si passa la mano sulla fronte, sorride. «Sì. Ma solo un poco appena.» Scompare dall’immagine. Dovrei girarmi, per vederla di nuovo. Il letto si abbassa, si è seduta. Posa la sigaretta sul comodino. Fra gli oggetti. Registratore. Libro. Telefono. Limonata nel bicchiere. Non l’ha ancora bevuta. Il suo sorriso appena percettibile diventa essenziale, significativo, mi trascina nel suo sorriso come verso una dolce linea di confine oltre la quale sento che c’è soltanto un sorriso infinito. Tuttavia è spaventoso; dovrei fuggire. Un sorriso si dischiude dentro di me; distanza che ora non è più fuori ma dentro di me, ed è infinita. L’infinito è l’estrema compensazione. Ma è ciò che desideravi! E che ora invece ti appare spaventoso. Non lo voglio, non voglio nulla, non voglio difendermi. La guardo. Il suo sorriso è un oggetto, può penetrarmi, può aprire distanze, può essere mio se non oppongo resistenza, ma fra di noi prevale ancora una certa distanza reale. Tuttavia non allungo il braccio. Si tratta di una distanza esterna, mentre lei sorride a se stessa in una distanza interna, sorride a se stessa, non a me. Ciononostante quel suo sorriso è mio. Si muove. Si gira, tira su le gambe sopra il letto, poggia la schiena contro la parete, non sul cuscino dove le ho fatto spazio. Vuole essere distante, eppure è vicina anche così. Nella sua comodità, non nella mia. Dovrei stringerla a me, ora, almeno finché non si interrompe la percezione reciproca; dovrei sdraiarla, ora, e strapparle il vestito di dosso. Indossa delle mutandine, io degli slip. Le mosse immaginabili sono troppo complicate per poter essere eseguite. Giro la testa. Amore


Un qualcosa di bianco, distante, e ancora bianco. Ai bordi dell’immagine ci sono la porta aperta del balcone e i riflessi del vetro. Va bene così. Questa non è più attesa. Va bene tutto. Forse non dovremmo fumarne un’altra. Oggetti nel silenzio divenuto morbida distesa. Uno scaffale per i libri, il battente aperto della porta del balcone, una parete bianca. Una mano compare nel quadro, la sua. Come se a lungo mi fossi scordato che stava qui, con me. Tiene la sigaretta tra le dita. Come se mi fossi scordato della mia stessa presenza; sono diventato quello che ho visto; eppure è passato solo poco tempo. Devo aprire la bocca! La apro. La infila fra le mie labbra, la mano mi copre la visuale, serro le labbra intorno alla sigaretta. Il braccio disteso lungo il fianco. Il palmo della mano, le dita aperte sul lenzuolo bianco, nella luce giallognola dell’applique che mi sovrasta. Si china sopra di me, un viso pulito, un sorriso mite. Mi fa accendere. Sento lo sfrigolio del fiammifero, ma da lontano, oltre la distanza visibile. Devo prendere la sigaretta tra le dita, la bocca è priva di forze. Sollevo la mano, la afferro come si deve. Si accende, faccio un tiro, la cenere brucia. Ecco, questo è il sapore vero. Soffocante. Stimola la tosse. Se tossissi, però, il fumo andrebbe sprecato. Gliela passo. Bisogna inalare il fumo il più possibile, trattenerlo a lungo. La profondità in cui ho spinto il fumo sembra ancora più profonda. Si abbassano le sue lunghe ciglia. Le palpebre sono piene, come il suo corpo, come la sua voce. È piacevole vederla fumare; osservo le rughe dell’attenzione fra le sopracciglia, le sue spalle che si sollevano e si arrestano immobili dentro al vestito verde senza maniche, nel breve spazio di una tirata. Stringerla a me. Non il corpo, ma l’attenzione rivolta a sé, il suo desiderio di essere mia. Ma prima fumiamola fino in fondo. Le sue ciglia si sollevano, nella luce giallognola dell’applique i suoi occhi sono azzurri, di un azzurro intenso. Non sorride. Il fumo le fa venire la tosse, si tocca la gola, il corpo si scuote, lotta, tossisce. Prendo io la sigaretta. Tiro una boccata senza percepire alcunché; vedo soltanto che sto fumando; la mia percezione non è la solita; non c’è la gioia di mandare giù il fumo o del semplice gesto, non è il palato 12 13


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.