L'esca

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David Albahari

L’ esca Traduzione di Alice Parmeggiani



«Da dove devo cominciare» dice mia madre. Nello stesso istante allungo la mano e premo il pulsante sul magnetofono. Il magnetofono è vecchio. Per giorni interi ho girato i negozi a chiedere di un apparecchio così, non importa di che marca. I commessi erano gentili, sorridevano, si stringevano nelle spalle, mi mostravano i modelli più recenti di registratori. Uno di loro, in un centro commerciale nella zona nord della città, ha ammesso di non aver mai visto un magnetofono. Pensava, a dire il vero, che suo padre, più esattamente il patrigno, avesse un “aggeggio” del genere. Non trovava una parola più adatta di quella, ha detto, perché rispetto agli apparecchi attuali, ha detto, e intanto sfiorava tutta una serie di nuovi modelli giapponesi, in effetti non si poteva usare un altro termine. Mi ha dato il suo biglietto da visita. Per ogni evenienza, ha detto, nel caso cambiassi idea. Ricordava anche le bobine dei nastri, che non aveva il permesso di toccare, a parte quelle vuote, di plastica nera o trasparente, che qualche volta, questo gli era concesso, faceva rotolare sul pavimento. Di una cosa sola era sicuro, ha detto, il suo patrigno ascoltava di continuo registrazioni di Buddy Holly. Il biglietto da visita l’ho messo nel taschino superiore della giacca. Nella stessa giacca, mentre mi preparavo alla partenza, avevo sistemato i miei nastri. La giacca, piegata, si trovava in cima alla valigia, e non avrebbe potuto proteggerli in caso di forti colpi, li avrebbero protetti di più, comunque, le scatole di cartone in cui erano impacchettati, ma le maniche della giacca che vi avevo incrociato sopra, fissandole con le bande elastiche, rendevano meno acuta l’insicurezza che provavo. Non avevo voglia 4

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di partire, così come non avevo voglia di rimanere, e il vuoto delle maniche che tenevano abbracciata la voce trasformata in traccia elettromagnetica poteva solo contribuire ai miei dubbi, eppure proprio quei due spazi vuoti mi hanno fatto abbassare il coperchio della valigia e chiudere le serrature. Ho piegato la lista delle cose che avevo messo in valigia – indumenti, asciugamani, alcuni libri, pantofole, oggetti da toilette – e l’ho infilata fra le carte con gli indirizzi e i numeri di telefono nel portafoglio. I nastri non si trovavano in quell’elenco. Li ho aggiunti in seguito, quando la valigia era già al completo. Stavo facendo i bagagli in ginocchio sul pavimento, quando mi sono alzato, mi sono avvicinato alla libreria e lì, da dietro i tomi del Vocabolario della lingua serbo-croata edito dall’Accademia, il posto dove si trovavano sin dal momento in cui erano stati registrati, ho estratto le polverose scatole rosse dei nastri. Non li toccavo da quattordici anni, se non si considera l’ultima tinteggiatura delle pareti, sette anni fa, quando avevo tolto tutti i libri dagli scaffali, spolverandoli a uno a uno con uno straccio morbido e scuotendoli, per sistemarli poi in grandi scatole, ammucchiate in mezzo alla stanza, sotto il lampadario avvolto in un sacco di plastica. Anche se non ero ancora andato via, in realtà sono tornato indietro per loro, ho pensato mentre sollevavo la parte superiore della giacca, li inserivo fra le falde del tessuto e li coprivo con le maniche ripiegate. Quattordici anni fa, anzi no, sedici anni fa, è morto mio padre. È morto in fretta, in un battito di ciglia, come diceva mia madre, anche se io ero convinto che stesse morendo pian piano da anni, e che la morte l’avesse infettato nell’istante in cui, quarant’anni prima, si era trovato dietro al filo spinato del lager tedesco per ufficiali prigionieri. Mia madre, naturalmente, lo negava. Si muore una volta sola, diceva, nessuno va in giro come un morto vivente. I miei amici stavano dalla sua parte. Tu guardi alla storia, dicevano, come un romantico, vedi il destino come una scena pastorale dove, in disparte, stanno in agguato spiriti malvagi. No, dicevo, esistono fili che legano un uomo ai momenti L’ esca


critici, quando l’anima cede, e la vita, dopo, è solo lo srotolamento della bobina, finché il filo, giunto alla fine, tira e strappa, non c’è altra parola, l’anima dalla sua logora dimora. Gli amici scuotevano la testa, mia madre aggiungeva grappa nei bicchierini, le donne portavano dalla cucina piccoli chifel1 al formaggio caldi. Questo avveniva dopo il funerale. Il rabbino aveva intonato le orazioni con voce così sommessa che la gente si era alzata in punta di piedi per sentirlo meglio. Il giorno dopo, quando ancora ci scontravamo nel nuovo spazio vuoto venutosi a creare nell’appartamento, avevo detto a mia madre che volevo registrare la sua storia. Avvolgo il nastro e premo il pulsante su cui è scritto “Start”. «Da dove devo cominciare» dice mia madre, e nello stesso istante fermo di nuovo il nastro. Non sapevo che cosa dirle. Eravamo seduti al tavolo della sala da pranzo, davanti a me stava un foglio su cui il giorno prima avevo scritto “Mia madre: vita”, davanti a lei, sui piedini di metallo impigliati nella tovaglia all’uncinetto, stava il microfono, le bobine giravano a vuoto, e io fissavo i suoi occhi marrone scuro, profondamente incassati sotto le sopracciglia. Suppongo che adesso sia quel silenzio a farmi paura. Per prima cosa, in realtà, mi hanno spaventato le sue parole. Erano due anni che non sentivo la mia lingua, non potevo certo sentirla tanto spesso lontano com’ero, nel Canada occidentale, in una città dove tutti sono immigrati, e quando è rimbombata – questa è la parola giusta per la casetta in cui abito – dall’altoparlante del magnetofono, sono semplicemente crollato. Se sul tavolino dove avevo sistemato il magnetofono ci fosse stato più spazio, avrei appoggiato la guancia sulla liscia superficie e mi sarei immediatamente addormentato. La sera prima avevo riso di un vecchio italiano il quale affermava che nella parola “Sicilia” c’è più significato che nel più grande dei vocabolari, ma ora ero pronto a credere che quattro parole che non dicono niente potessero raccontare una vita intera. Mia madre aspettava, 1

Panini a forma di mezzaluna. [N.d.T.] 6

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sapeva aspettare. Era mio padre quello che saltava sempre su dalla sedia, correva al telefono, sussultava quando suonava il campanello della porta. Avevo disegnato una stella a sei punte, due triangoli incrociati, in un angolo del foglio. Non sapevo che cosa dirle. Non sapevo dove le cose iniziano, dove finiscono. Avvertivo solo un senso di mancanza e la fiducia, che nel frattempo ho perduto, che le parole possano compensare tutto. Questo le farebbe piacere, questa perdita di fiducia nelle parole. Ogni fiducia è buona, diceva, ma chi non sa tacere non può sperare di trovare consolazione nelle parole. Da qui l’espressione di disagio sul suo viso mentre sistemavo il magnetofono, inserivo il microfono, svolgevo i cavi. Non aveva mai voluto fingere. Guardava le persone dritto negli occhi e mostrava ciò che pensava, ciò che provava, ciò che intendeva dire. Mille volte ho cercato di imitare quel gesto, ma sempre lo sguardo mi scivolava via, le labbra si stringevano, le guance cedevano, la fronte si aggrottava. Poi ha detto: «Una volta sola ho desiderato morire, poi è stato più facile». Allungo la mano verso i pulsanti del magnetofono. Non è il silenzio quello che ci fa paura, ma ciò che segue: l’ineluttabilità della scelta, l’impossibilità di cambiare, l’inconfutabilità del tempo, l’ordinamento delle cose nell’universo. Le bobine ricominciano a girare. Il silenzio, come anche tutto il resto nel nostro ricordo, dura molto meno. Quella volta, là, avevo pensato che, se avessimo continuato in quel modo, le mie riserve di nastri non sarebbero state sufficienti; ora, qui, non sono sicuro di aver scritto, in quel lasso di tempo, qualcosa su quel foglio di carta davanti a me. Se avessi una penna proverei, mentre il nastro gira, a rifare la stella a sei punte, o forse disegnerei un quadrato e sopra un triangolo, poi una sottile spirale che trasformerebbe il tutto nell’abbozzo di una casa con un camino, l’immagine ombreggiata che tracciavo assiduamente sui margini dei libri e negli angoli dei quaderni durante le lezioni, alle serate letterarie, nelle pause dei concerti, durante le riunioni di lavoro. Mentre le bobine girano, qualche perno non lubrificato o una cinghia essiccata, come sostiene DoL’ esca


nald, produce un suono stridulo, sommesso, come il verso di un topo dietro all’armadio. Il paragone con il topo non è mio, perché non ho mai sentito un topo, ma di Donald, il quale l’ha trovato mentre cercava di convincermi che il suo vecchio magnetofono era in grado di funzionare. Eravamo nella cantina della casa dei suoi genitori, un locale stipato di attrezzi, vecchi apparecchi domestici, decorazioni natalizie e pile di riviste polverose, chini sul magnetofono. Abbastanza percettibile, abbastanza insistente, quel suono suscitava in me il dubbio, avevo detto a Donald, che non sarei riuscito a sentire la voce di mia madre. Tendevo ora l’orecchio sinistro, ora quello destro. Donald ha scosso la testa. Non era un tuono, ha detto, tale da perforare i timpani, ma una sommessa protesta del materiale, niente di più del verso di un topo dietro all’armadio. Gli europei credono talmente al dubbio, ha affermato, che sono più felici che mai quando non sono costretti a prendere una decisione. In questo continente, ha detto, chi dubita rimane per sempre sul fondo o all’inizio, il che, almeno per quanto lo riguarda, è la stessa cosa. Donald è uno scrittore. Si è ricordato del suo magnetofono mentre, in un ristorante situato sulla grande isola fluviale trasformata in parco urbano, gli raccontavo dei miei tentativi senza successo di trovare un apparecchio su cui riascoltare i nastri con la voce di mia madre. Pensava di averlo ancora da qualche parte nella cantina della loro vecchia casa di famiglia, anzi, era sicuro che si trovasse là perché suo padre non aveva mai buttato via niente, tutto, sosteneva, può essere riusato, tutto è in attesa di un nuovo momento, cosa che, ha detto Donald, si è dimostrata esatta, almeno in questo caso, anche se lui, Donald, aveva sempre odiato quel magnetofono a causa dei nastri con vecchie canzoni ucraine e cori religiosi che il padre portava continuamente in camera sua chiedendo di riascoltarli una sola volta ancora. Mio padre, ho detto, non ha mai usato il mio magnetofono. In realtà era una di quelle piccole bugie grazie alle quali riusciamo a rimanere in vita. Grazie alle quali io riesco a rimanere in vita, dovrei dire, in 8

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