Jesús Moncada
Amore Fatale
Amore Fatale
Amore Fatale è la prima raccolta italiana dello scrittore catalano.
L’uomo, la donna che uscivano, erano ancora carcasse colme di sogni sognati a metà, di ombre verdastre, di oscurità umide, di sudori e di radici spezzate, che guardavano il giorno istupiditi.
Jesús Moncada
Jesús Moncada, (1941-2005) è considerato universalmente uno scrittore di rara eleganza e una delle firme più prestigiose della letteratura catalana. La sua Opera è stata caratterizzata anche da riferimenti al mondo del fumetto e del cinema. Ha pubblicato - con le Edicions 62 di Barcellona - tre raccolte di racconti, Històries de la mà esquerra i altres narracions (Storie della mano sinistra e altri racconti), El Cafè de la Granota (Il Caffè della Ranocchia), Calaveres atònites (Teschi attoniti), e tre romanzi Camí de Sirga (Cammino d’alzaia), La galeria de les estàtues (La galleria delle statue), Estremida memòria (Ricordi frementi).
Foto © Neil Overy/Getty Images
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Le opere di Jesus Moncada non sono mai state tradotte in Italia. Amore Fatale è un primo passo per colmare questa inspiegabile lacuna
Un incontro di calcio, un’inattesa vendita di sardine, una corsa precipitosa, l’arrivo di una notizia apparentemente banale. Sono movimenti quotidiani dai quali l’Autore prende l’avvio per una descrizione minuziosa di fatti apparentemente insignificanti – in toni a volte umoristici, altre volte più decisamente sarcastici e con una punta di vetriolo – che conducono a delle conclusioni decisamente assurde e tuttavia presentate come la normale evoluzione di un accadimento di ordinaria amministrazione. C’è la corsa sfrenata di Elia, tesa a raggiungere la corriera in partenza per risparmiare la spesa di un medicinale ormai inutile; la sosta dinanzi alla vetrina di un antiquario con la sconcertante scoperta di una testa parlante; le immagini sacre di una chiesa che finiscono con il cantare l’internazionale per evitare di essere distrutte dalla folla in rivolta; il vecchio tranviere che, il giorno prima dell’ineluttabile pensione, s’impadronisce del suo tram cercando una via di fuga che non può esistere; l’inondazione del campo di calcio che permette ai giocatori locali di stravincere una partita contro avversari più forti ma non abituati a giocare con dieci centimetri d’acqua. Sono eroismi piccoli ma volontari, che ci fanno amare fatalmente la nostra esistenza.
Titoli originali: Debat d’urgència Història de dies senars Conte del vell tramviaire Futbol de ribera Un enigma i set tricornis A l’Hèctor el que és de l’Hèctor La Plaga de la Ribera Paraules des d’un oliver L’assassinat de Roger Ackroyd Informe provisional sobre la correguda d’Elies Senyora Mort, carta de Miquel Garrigues Amarga reflexió sobre un manat de cebes L’ull esquerre de Tomàs d’Atura Aparició providencial de la sardina Amor fatal en decúbit supí Cinc cobriments de cor al casal dels Mora A cura di Giuseppe Tavani The translation of this work has received a grant from the Institut Ramon Llull.
© 1981 e 1986 Edicions 62, Barcellona © 1999 RBA Libros (Cinc cobriments de cor al casal dels Mora - Aparició providencial de la sardina) © 2008 zero91 s.r.l., Milano Printed in Italy I Edizione novembre 2008 ISBN 978-88-95381-09-1
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JesĂşs Moncada
AMORE FATALE a cura di Giuseppe Tavani
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Portico
Se si ammettesse l’esistenza di rapporti genealogici nella letteratura catalana dell’assurdo, in particolare nella narrativa breve del secondo Novecento, il riferimento d’obbligo – quale modello per Jesús Moncada e per altri – non potrebbero essere che i racconti di Pere Calders1, in cui un umorismo apparentemente bonario ma in effetti corrosivo si nutre del paradosso, dell’assurdo elevato a norma. In Calders, l’avvio alla vicenda può essere anche soltanto una frase fatta, priva di implicazioni metaforiche, assunta alla lettera e portata alle estreme conseguenze, come nella lapidaria Storiella militare: l’ufficiale aveva acquistato un tale ascendente sui suoi uomini che «Se avesse chiesto loro di saltare dalla finestra, lo avrebbero fatto quasi con gioia, perché confidavano ciecamente in lui. Finché un giorno ordinò loro di saltare dalla finestra, e allora disertarono tutti, perché di un uomo che dà disposizioni del genere non c’è da fidarsi». Ma lo spunto può anche essere offerto da una situazione paradossale sviluppata nei modi della più canonica ovvietà, come nella storia, non meno lapidaria, del viaggiatore, intitolata L’espresso: «Nessuno voleva dirgli a che ora sarebbe passato il treno. Lo vedevano tanto carico di valigie, che non avevano il coraggio di spiegargli che lì non c’erano mai stati né binari né stazione». L’insolito di Calders si colloca indifferentemente nel presente (i diseredati della bidon1
Barcellona 1912-1994: in italiano una raccolta di racconti (Cronaca del giorno ripetuto, a c. di G. Tavani, L’Aquila 1989) e il volumetto a cura di F. Ardolino, La vergine dei binari, Roma 1996 (che comprende, oltre al racconto eponimo, “Qui riposa Nevares”). 5
Portico
Racconti ordinariamente assudi
ville messicana allagata dall’inondazione che si trasferiscono quietamente nel cimitero dei ricchi) o in un futuro in cui un martedì può ripetersi per vari giorni consecutivi, gettando il mondo nel caos: e comunque esso si pone come spunto di situazioni vissute dai personaggi in perfetta sincronia con la banalità del quotidiano e sviluppate nell’irreale ma nel pieno rispetto delle convenzioni del reale. Questa tipologia narrativa – che tra noi conta, sia pure con tonalità diverse, nomi come Massimo Bontempelli, Gianni Celati e Luigi Malerba – non è ovviamente invenzione di Pere Calders: a parte il debito – da lui stesso riconosciuto – contratto con Bontempelli, il paradosso, o meglio la letteratura dell’assurdo, ha radici antiche, e anche senza risalire ai greci2 e ai latini, l’exemplum tanto in voga nel medio evo si muove spesso in questo ambito: basterebbe ricordare quanto riferisce Petrarca3 sull’uomo che sogna di essere morso da un leone di marmo – di quelli che si trovano nel protiro delle chiese – e che, ridendone con i suoi compagni di fronte ad una testa di leone (ugualmente di marmo, ma reale, stavolta), introduce la mano nelle fauci aperte e viene punto mortalmente da uno scorpione che vi si era annidato. Ma il sogno che tracima nella vita reale, pur provocando interferenza tra realtà e irrealtà, non solo non si configura come irrazionale ma legittima il fantastico del quale i connettori razionali convalidano l’attendibilità. Quel che interessa qui è però soprattutto lo sviluppo del paradosso nella letteratura del Novecento e in un particolare ambito culturale, quello catalano, in cui, come si
è detto, il racconto di un assurdo trasferito nel quotidiano viene ripreso soprattutto da Pere Calders. Ed è il modello elaborato da Pere Calders a suggerire modalità narrative analoghe, anche se non perfettamente coincidenti tra loro e con quella che a mio avviso è la matrice di entrambi, a due autori che hanno a lungo praticato questo genere letterario: Quim Monzó4 e, appunto, Jesús Moncada5. Due scrittori di successo, non solo in patria ma anche fuori, tradotti più volte in numerosi paesi europei e non, ciascuno dei quali ha dato del retaggio caldersiano una propria originale lettura, privilegiando l’assurdità nella norma più che la normalità dell’assurdo: né Moncada né Monzó giocano con il fantastico come Calders, dove il cognato del narratore si costruisce un razzo nel giardino di casa per recarsi sulla luna, altri sperimentano una macchina del tempo fatta di stecche colorate ma che catapulta in un’altra, sconosciuta dimensione la graziosa modella assunta per la dimostrazione di prova, o ancora gente che vive in paesi apparentemente normali le cui autorità hanno inventato la morte programmata o hanno imposto l’uso dell’anello al naso a tutti i cittadini. Moncada e Monzó preferiscono tingere di assurdo la normalità, adottando però ciascuno ritmi diversi e ciascuno eleggendo personaggi e ambienti propri: l’attivismo frenetico della borghesia barcellonese Monzó, la nativa Mequinensa placidamente provinciale o la Barcellona più schiettamente popolare Moncada. Lo scenario preferito da quest’ultimo è infatti la cittadina dove è nato, dove è a lungo vissuto e ha per qualche
2
L’exemplum è già codificato dalla precettistica aristotelica – nelle due forme della parabola e della favola – e di qui si è insediato al centro della tecnica retorica, e dunque della letteratura. 3 Sezione «De Somnis» dei Rerum Memorandarum Libri. 6
4
Barcellona 1952; alcuni volumi di racconti sono pubblicati da Marcos y Marcos e Einaudi. 5 Mequinensa 1941-Barcellona 2005: due racconti tradotti da chi scrive e pubblicati nella rivista “Trame” dell’Università di Cassino, n. 2, I semestre 2001, pp. 51-79. 7
Portico
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ville messicana allagata dall’inondazione che si trasferiscono quietamente nel cimitero dei ricchi) o in un futuro in cui un martedì può ripetersi per vari giorni consecutivi, gettando il mondo nel caos: e comunque esso si pone come spunto di situazioni vissute dai personaggi in perfetta sincronia con la banalità del quotidiano e sviluppate nell’irreale ma nel pieno rispetto delle convenzioni del reale. Questa tipologia narrativa – che tra noi conta, sia pure con tonalità diverse, nomi come Massimo Bontempelli, Gianni Celati e Luigi Malerba – non è ovviamente invenzione di Pere Calders: a parte il debito – da lui stesso riconosciuto – contratto con Bontempelli, il paradosso, o meglio la letteratura dell’assurdo, ha radici antiche, e anche senza risalire ai greci2 e ai latini, l’exemplum tanto in voga nel medio evo si muove spesso in questo ambito: basterebbe ricordare quanto riferisce Petrarca3 sull’uomo che sogna di essere morso da un leone di marmo – di quelli che si trovano nel protiro delle chiese – e che, ridendone con i suoi compagni di fronte ad una testa di leone (ugualmente di marmo, ma reale, stavolta), introduce la mano nelle fauci aperte e viene punto mortalmente da uno scorpione che vi si era annidato. Ma il sogno che tracima nella vita reale, pur provocando interferenza tra realtà e irrealtà, non solo non si configura come irrazionale ma legittima il fantastico del quale i connettori razionali convalidano l’attendibilità. Quel che interessa qui è però soprattutto lo sviluppo del paradosso nella letteratura del Novecento e in un particolare ambito culturale, quello catalano, in cui, come si
è detto, il racconto di un assurdo trasferito nel quotidiano viene ripreso soprattutto da Pere Calders. Ed è il modello elaborato da Pere Calders a suggerire modalità narrative analoghe, anche se non perfettamente coincidenti tra loro e con quella che a mio avviso è la matrice di entrambi, a due autori che hanno a lungo praticato questo genere letterario: Quim Monzó4 e, appunto, Jesús Moncada5. Due scrittori di successo, non solo in patria ma anche fuori, tradotti più volte in numerosi paesi europei e non, ciascuno dei quali ha dato del retaggio caldersiano una propria originale lettura, privilegiando l’assurdità nella norma più che la normalità dell’assurdo: né Moncada né Monzó giocano con il fantastico come Calders, dove il cognato del narratore si costruisce un razzo nel giardino di casa per recarsi sulla luna, altri sperimentano una macchina del tempo fatta di stecche colorate ma che catapulta in un’altra, sconosciuta dimensione la graziosa modella assunta per la dimostrazione di prova, o ancora gente che vive in paesi apparentemente normali le cui autorità hanno inventato la morte programmata o hanno imposto l’uso dell’anello al naso a tutti i cittadini. Moncada e Monzó preferiscono tingere di assurdo la normalità, adottando però ciascuno ritmi diversi e ciascuno eleggendo personaggi e ambienti propri: l’attivismo frenetico della borghesia barcellonese Monzó, la nativa Mequinensa placidamente provinciale o la Barcellona più schiettamente popolare Moncada. Lo scenario preferito da quest’ultimo è infatti la cittadina dove è nato, dove è a lungo vissuto e ha per qualche
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L’exemplum è già codificato dalla precettistica aristotelica – nelle due forme della parabola e della favola – e di qui si è insediato al centro della tecnica retorica, e dunque della letteratura. 3 Sezione «De Somnis» dei Rerum Memorandarum Libri. 6
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Barcellona 1952; alcuni volumi di racconti sono pubblicati da Marcos y Marcos e Einaudi. 5 Mequinensa 1941-Barcellona 2005: due racconti tradotti da chi scrive e pubblicati nella rivista “Trame” dell’Università di Cassino, n. 2, I semestre 2001, pp. 51-79. 7
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Racconti ordinariamente assudi
tempo insegnato prima di trasferirsi nella capitale: Mequinensa, per l’appunto, un luogo assolutamente normale, situato alla confluenza tra il Segre e l’Ebro, arricchitasi saltuariamente con l’estrazione e il commercio della lignite, abitata da agricoltori, minatori e fiumaroli che con i loro famosi battelli – i llaguts (‘leuti’ o ‘leudi’ nella terminologia italiana) – trasportavano fino al mare il prodotto delle miniere. Un luogo dunque assolutamente normale, antico di secoli, ma che quarant’anni fa una diga ha completamente sommerso in un bacino idroelettrico, costringendo gli abitanti a trasferirsi sulle rive del nuovo lago, in una riedizione moderna dell’abitato che ha purtroppo cancellato la storia. Un luogo tuttavia che Moncada è riuscito a far rivivere, nei suoi racconti e nei suoi romanzi, ricostruendo con precisione topografica il vecchio habitat, resuscitando i personaggi che l’avevano popolato, rievocando la storia minuta di chi vi è era vissuto tra le due guerre mondiali, tra repubblica e dittatura, descrivendo i tratti caratteriali della gente comune e dei maggiorenti, e trascrivendo gli eventi banali o singolari di una quotidianità interpretata in toni ironicamente paradossali, ma anche causticamente satirici, quando entrano in gioco problemi di etica comportamentale. Jesús Moncada, scrittore di rara eleganza, si è misurato anche con il romanzo6, ma è nei racconti che manifesta la sua vena più originale, in una prosa che va assaporata come un gustoso manicaretto, La scelta antologica di questo volume offre per la prima volta7 al lettore italiano l’essenza stessa della narrativa moncadiana: una narrativa in
cui lo spunto è dato da un fatto quotidiano, dal quale l’autore prende l’avvio per una descrizione minuziosa di una serie di eventi apparentemente insignificanti – in toni a volte umoristici, altre volte più decisamente sarcastici (con una punta di vetriolo) – che conducono ad uno scioglimento della vicenda decisamente assurdo e tuttavia presentato come la normale conclusione di un accadimento di ordinaria amministrazione: della corsa sfrenata di Elia si esaminano le successive tappe cronometrate da testimoni oculari, per accertare che il motivo è evitare la spesa di un medicinale ormai inutile; la sosta dinanzi alla vetrina di un antiquario con la sconcertante scoperta della testa parlante di un nobile gigliottinato dai sans-culottes; le immagini sacre di una chiesa che, dopo un acceso dibattito, finiscono con il cantare l’internazionale per accattivarsi la folla rivoluzionaria; il vecchio tranviere che, alla vigilia della pensione, s’impadronisce del suo non meno vecchio tram cercando un binario di fuga che non può esistere; l’inondazione del campo di calcio che permette ai giocatori locali di stravincere una partita contro avversari più forti ma non abituati a giocare su dieci centimetri d’acqua; la lettura continuamente interrotta di un giallo di Agata Christie che provoca una reazione esplosiva contro l’ultimo disturbatore che rivela il nome dell’assassino; il suicidio di un nobile sull’orlo della bancarotta, evitato dall’arrivo della pescivendola con le sardine fresche; un occhio di vetro dimenticato sul cassettone che potrebbe rivelare ad un marito il tradimento della moglie, e così avanti. Quale che sia lo scenario in cui colloca i suoi personaggi – quasi sempre la Mequinensa nativa, più raramente la Barcellona in cui lavora – Moncada ricrea con maestria il microcosmo nel quale essi agiscono, trattandoli quasi sempre con bonomia e umana partecipazione, a volte con ironia sottile, generosa con la gente semplice, ma che può
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Camí de Sirga (L’Alzaia), La galeria de les estàtues (La galleria delle statue), Estremida memòria (Ricordi pungenti), Calavères atònites (Teschi attoniti). 7 Gli unici racconti finora tradotti erano i due citati nella nota precedente, pubblicati in una rivista accademica. 8
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Portico
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tempo insegnato prima di trasferirsi nella capitale: Mequinensa, per l’appunto, un luogo assolutamente normale, situato alla confluenza tra il Segre e l’Ebro, arricchitasi saltuariamente con l’estrazione e il commercio della lignite, abitata da agricoltori, minatori e fiumaroli che con i loro famosi battelli – i llaguts (‘leuti’ o ‘leudi’ nella terminologia italiana) – trasportavano fino al mare il prodotto delle miniere. Un luogo dunque assolutamente normale, antico di secoli, ma che quarant’anni fa una diga ha completamente sommerso in un bacino idroelettrico, costringendo gli abitanti a trasferirsi sulle rive del nuovo lago, in una riedizione moderna dell’abitato che ha purtroppo cancellato la storia. Un luogo tuttavia che Moncada è riuscito a far rivivere, nei suoi racconti e nei suoi romanzi, ricostruendo con precisione topografica il vecchio habitat, resuscitando i personaggi che l’avevano popolato, rievocando la storia minuta di chi vi è era vissuto tra le due guerre mondiali, tra repubblica e dittatura, descrivendo i tratti caratteriali della gente comune e dei maggiorenti, e trascrivendo gli eventi banali o singolari di una quotidianità interpretata in toni ironicamente paradossali, ma anche causticamente satirici, quando entrano in gioco problemi di etica comportamentale. Jesús Moncada, scrittore di rara eleganza, si è misurato anche con il romanzo6, ma è nei racconti che manifesta la sua vena più originale, in una prosa che va assaporata come un gustoso manicaretto, La scelta antologica di questo volume offre per la prima volta7 al lettore italiano l’essenza stessa della narrativa moncadiana: una narrativa in
cui lo spunto è dato da un fatto quotidiano, dal quale l’autore prende l’avvio per una descrizione minuziosa di una serie di eventi apparentemente insignificanti – in toni a volte umoristici, altre volte più decisamente sarcastici (con una punta di vetriolo) – che conducono ad uno scioglimento della vicenda decisamente assurdo e tuttavia presentato come la normale conclusione di un accadimento di ordinaria amministrazione: della corsa sfrenata di Elia si esaminano le successive tappe cronometrate da testimoni oculari, per accertare che il motivo è evitare la spesa di un medicinale ormai inutile; la sosta dinanzi alla vetrina di un antiquario con la sconcertante scoperta della testa parlante di un nobile gigliottinato dai sans-culottes; le immagini sacre di una chiesa che, dopo un acceso dibattito, finiscono con il cantare l’internazionale per accattivarsi la folla rivoluzionaria; il vecchio tranviere che, alla vigilia della pensione, s’impadronisce del suo non meno vecchio tram cercando un binario di fuga che non può esistere; l’inondazione del campo di calcio che permette ai giocatori locali di stravincere una partita contro avversari più forti ma non abituati a giocare su dieci centimetri d’acqua; la lettura continuamente interrotta di un giallo di Agata Christie che provoca una reazione esplosiva contro l’ultimo disturbatore che rivela il nome dell’assassino; il suicidio di un nobile sull’orlo della bancarotta, evitato dall’arrivo della pescivendola con le sardine fresche; un occhio di vetro dimenticato sul cassettone che potrebbe rivelare ad un marito il tradimento della moglie, e così avanti. Quale che sia lo scenario in cui colloca i suoi personaggi – quasi sempre la Mequinensa nativa, più raramente la Barcellona in cui lavora – Moncada ricrea con maestria il microcosmo nel quale essi agiscono, trattandoli quasi sempre con bonomia e umana partecipazione, a volte con ironia sottile, generosa con la gente semplice, ma che può
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Camí de Sirga (L’Alzaia), La galeria de les estàtues (La galleria delle statue), Estremida memòria (Ricordi pungenti), Calavères atònites (Teschi attoniti). 7 Gli unici racconti finora tradotti erano i due citati nella nota precedente, pubblicati in una rivista accademica. 8
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Portico
Racconti ordinariamente assudi
inasprirsi in satira contro certi esponenti privi di scrupoli, soprattutto se si tratta di rappresentanti del potere costituito. Ma a questo punto, lasciamo la parola allo scrittore, perché la letteratura non ammette di essere raccontata, non può essere filtrata dalla parola altrui: occorre leggerla direttamente, con i propri occhi e con la propria sensibilità: al più ammette di essere introdotta da qualche breve nota interpretativa, come quella che precede. E quella che viene qui proposta è una lettura da non perdere, per scoprire uno scrittore di razza.
Riunione d’urgenza
Giuseppe Tavani
10
«Ragazzi, ho cattive notizie. Devo dirvi che la nostra situazione non potrebbe essere più critica; siamo in un mare di guai», disse l’immagine di San Liborio, situata a sinistra dell’altar maggiore, sotto due cherubini dipinti a olio, di un rosa stucchevole, che sostenevano con grazia discutibile una ghirlanda di gelsomini e dalie. Le parole inquietanti risuonarono sotto le navate della chiesa vuota, illuminata da candele dalla fiammella giallastra e tremolante, che bruciavano sugli altari. Quel mondo tenebroso dominato dal puzzo di cera, dal tanfo di umidità e dal profumo d’incenso, fu scosso dall’annuncio agghiacciante di San Liborio; santi e sante, angioletti e beati, assorti abitualmente nei loro sogni di legno e di gesso, uscirono dalla loro estasi; esclamazioni di sorpresa e di allarme rimbalzarono di cappella in cappella, tra quell’accozzaglia di sculture, di quadri anneriti, di cornici dorate, di colonnine salomoniche, di candelabri di ottone e di vasi pieni di fiori appassiti. Perfino nell’anonimo trittico accanto all’ambone, la casta nudità del seno di una martire sul punto di essere divorata dai leoni, si agitò in un battito incipiente e suggestivo, che obbligò Sant’Ilario, un po’ controvoglia, a sviare lo sguardo verso un bassorilievo di marmo, dove alcuni serafini, inoffensivi e pacificanti, suonavano arpe, cennamelle e lire. Solo San Cassiano, una statua di legno incastrata in una nicchia, restò impassibile, lo sguardo perduto in chissà quali visioni beatifiche, in mezzo alla concitazione generale. «Cassiano!», gridò San Liborio. 11
Portico
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inasprirsi in satira contro certi esponenti privi di scrupoli, soprattutto se si tratta di rappresentanti del potere costituito. Ma a questo punto, lasciamo la parola allo scrittore, perché la letteratura non ammette di essere raccontata, non può essere filtrata dalla parola altrui: occorre leggerla direttamente, con i propri occhi e con la propria sensibilità: al più ammette di essere introdotta da qualche breve nota interpretativa, come quella che precede. E quella che viene qui proposta è una lettura da non perdere, per scoprire uno scrittore di razza.
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«Ragazzi, ho cattive notizie. Devo dirvi che la nostra situazione non potrebbe essere più critica; siamo in un mare di guai», disse l’immagine di San Liborio, situata a sinistra dell’altar maggiore, sotto due cherubini dipinti a olio, di un rosa stucchevole, che sostenevano con grazia discutibile una ghirlanda di gelsomini e dalie. Le parole inquietanti risuonarono sotto le navate della chiesa vuota, illuminata da candele dalla fiammella giallastra e tremolante, che bruciavano sugli altari. Quel mondo tenebroso dominato dal puzzo di cera, dal tanfo di umidità e dal profumo d’incenso, fu scosso dall’annuncio agghiacciante di San Liborio; santi e sante, angioletti e beati, assorti abitualmente nei loro sogni di legno e di gesso, uscirono dalla loro estasi; esclamazioni di sorpresa e di allarme rimbalzarono di cappella in cappella, tra quell’accozzaglia di sculture, di quadri anneriti, di cornici dorate, di colonnine salomoniche, di candelabri di ottone e di vasi pieni di fiori appassiti. Perfino nell’anonimo trittico accanto all’ambone, la casta nudità del seno di una martire sul punto di essere divorata dai leoni, si agitò in un battito incipiente e suggestivo, che obbligò Sant’Ilario, un po’ controvoglia, a sviare lo sguardo verso un bassorilievo di marmo, dove alcuni serafini, inoffensivi e pacificanti, suonavano arpe, cennamelle e lire. Solo San Cassiano, una statua di legno incastrata in una nicchia, restò impassibile, lo sguardo perduto in chissà quali visioni beatifiche, in mezzo alla concitazione generale. «Cassiano!», gridò San Liborio. 11
Riunione d’urgenza
Racconti ordinariamente assudi
L’altro conservò l’atteggiamento estatico. «Cassiano!!!». «Che succede?», chiese alla fine una vocetta stonata. «Dico che la situazione non potrebbe essere più critica!». «Vogliono offrirmi una messa?». «Ma no! Dico…». «Lascia perdere, Liborio; non caverai un ragno dal buco» intervenne l’immagine di San Pasquale, vedendo che l’altro perdeva la pazienza. «Ormai non si rende più conto di niente. Si vede che l’anobio che aveva all’orecchio destro adesso gli è passato al sinistro e gli sta rosicchiando il timpano. Tra quattro giorni sarà sordo come una campana». «Che hai detto che ha, all’orecchio, Pasquale?» chiese Santa Casilda, un tantino allarmata. «Un anobio». «E che cos’è?». «Un tarlo». «Un tarlo? O Dio mio! Mi hanno detto che queste bestiole sono tra le più contagiose, ed io non sono vaccinata! Pensate che non ci risparmierà e che provocherà un’epidemia? Dovremmo metterlo in quarantena». «Non fare l’ingenua, Casilda» replicò San Pasquale. «Di tarlo, possiamo soffrirne solo noi immagini di legno, e tu sei di gesso». «Ci risiamo! Ecco che rispunta la questione sociale! Vuoi spiegarmi che colpa ne ho io se la parrocchia che mi ha commissionato era povera, e quella gente a mala pena aveva i soldi per il gesso? Eh? O forse per questo sono meno immagine delle altre?». «Donna, non prendertela» disse l’altro, conciliante. «Non volevo offenderti». «Sì, sì… Fatto sta che se non tiri fuori le unghie, come
se niente fosse ti mettono i piedi in testa. E ne ho già le tasche piene, di discriminazioni e favoritismi! Lo sai perché non sto nella cattedrale di Lleida, io? Be’, perché quando ho fatto domanda per un posto che si era reso vacante, le immagini romaniche hanno protestato. Si ritenevano sminuite dalla mia vicinanza e non si sono date pace finché non hanno ottenuto che la mia istanza venisse respinta e, per colmo di misura, che mi spedissero qui, in questo villaggio di miscredenti. E poi vengono a parlarmi di uguaglianza. Siamo messi proprio bene!». «Su, adesso basta con questo tono» tagliò corto San Liborio. «Smettetela con le discussioni, che così non combineremo niente. Se cominciamo a litigare, non la finiremo più. Veniamo al dunque. Vi stavo dicendo che la situazione non potrebbe essere più critica…». «Non sapete il piacere che mi fa quest’offerta di una messa!» interruppe il sordo, gridando. «È tanto di quel tempo che non mi succedeva! La devozione era calata molto, in questo villaggio. Soprattutto da quando hanno vinto le elezioni questi che chiamano del Fronte Popolare!». «Sì, Cassiano, sì. Vogliono offrirti una messa. E con quattro preti!» gridò San Liborio, un po’ nervoso. «E adesso zitto, e non frastornarmi!». «Che dici?». «Sta zitto!». «No, le tre di mattina mi sembra troppo presto. Non ci sarà un’anima!». Quando San Liborio stava per perdere le staffe, dal coro si staccarono alcune note di armonium. «Ecco! Ci mancava solo questa. Senti, Pietro: non ti dispiacerebbe di lasciare la musica per dopo? Lo dico perché dobbiamo parlare di cose molto serie, e non abbiamo voglia di concerti».
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Riunione d’urgenza
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L’altro conservò l’atteggiamento estatico. «Cassiano!!!». «Che succede?», chiese alla fine una vocetta stonata. «Dico che la situazione non potrebbe essere più critica!». «Vogliono offrirmi una messa?». «Ma no! Dico…». «Lascia perdere, Liborio; non caverai un ragno dal buco» intervenne l’immagine di San Pasquale, vedendo che l’altro perdeva la pazienza. «Ormai non si rende più conto di niente. Si vede che l’anobio che aveva all’orecchio destro adesso gli è passato al sinistro e gli sta rosicchiando il timpano. Tra quattro giorni sarà sordo come una campana». «Che hai detto che ha, all’orecchio, Pasquale?» chiese Santa Casilda, un tantino allarmata. «Un anobio». «E che cos’è?». «Un tarlo». «Un tarlo? O Dio mio! Mi hanno detto che queste bestiole sono tra le più contagiose, ed io non sono vaccinata! Pensate che non ci risparmierà e che provocherà un’epidemia? Dovremmo metterlo in quarantena». «Non fare l’ingenua, Casilda» replicò San Pasquale. «Di tarlo, possiamo soffrirne solo noi immagini di legno, e tu sei di gesso». «Ci risiamo! Ecco che rispunta la questione sociale! Vuoi spiegarmi che colpa ne ho io se la parrocchia che mi ha commissionato era povera, e quella gente a mala pena aveva i soldi per il gesso? Eh? O forse per questo sono meno immagine delle altre?». «Donna, non prendertela» disse l’altro, conciliante. «Non volevo offenderti». «Sì, sì… Fatto sta che se non tiri fuori le unghie, come
se niente fosse ti mettono i piedi in testa. E ne ho già le tasche piene, di discriminazioni e favoritismi! Lo sai perché non sto nella cattedrale di Lleida, io? Be’, perché quando ho fatto domanda per un posto che si era reso vacante, le immagini romaniche hanno protestato. Si ritenevano sminuite dalla mia vicinanza e non si sono date pace finché non hanno ottenuto che la mia istanza venisse respinta e, per colmo di misura, che mi spedissero qui, in questo villaggio di miscredenti. E poi vengono a parlarmi di uguaglianza. Siamo messi proprio bene!». «Su, adesso basta con questo tono» tagliò corto San Liborio. «Smettetela con le discussioni, che così non combineremo niente. Se cominciamo a litigare, non la finiremo più. Veniamo al dunque. Vi stavo dicendo che la situazione non potrebbe essere più critica…». «Non sapete il piacere che mi fa quest’offerta di una messa!» interruppe il sordo, gridando. «È tanto di quel tempo che non mi succedeva! La devozione era calata molto, in questo villaggio. Soprattutto da quando hanno vinto le elezioni questi che chiamano del Fronte Popolare!». «Sì, Cassiano, sì. Vogliono offrirti una messa. E con quattro preti!» gridò San Liborio, un po’ nervoso. «E adesso zitto, e non frastornarmi!». «Che dici?». «Sta zitto!». «No, le tre di mattina mi sembra troppo presto. Non ci sarà un’anima!». Quando San Liborio stava per perdere le staffe, dal coro si staccarono alcune note di armonium. «Ecco! Ci mancava solo questa. Senti, Pietro: non ti dispiacerebbe di lasciare la musica per dopo? Lo dico perché dobbiamo parlare di cose molto serie, e non abbiamo voglia di concerti».
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Sentendo la voce di San Liborio, lo spirito di Pietro Santacroce, sagrestano soffia canne e fantasma titolare della parrocchia, sollevò le mani dalla tastiera e rimase immobile, aspettando il permesso di continuare il suo concerto quotidiano, che cominciava sempre alle undici meno un quarto di notte, tranne il giovedì, giorno in cui giocava la partita a scacchi con il becchino e faceva festa. «Ah! Se non fosse perché Liborio assicura che il momento è tanto critico, direi a Pietro di suonare Il Danubio blu» sospirò una tal Santa Quitèria situata vicino alla porta e che passava le ore morte rimirando la pila dell’acqua benedetta. «Mi piacciono tanto i valzer!». «Questa Quitèria è sempre stata una fraschetta» borbottò l’immagine di Sant’Apollonia, in stile tardo-gotico, all’orecchio del vescovo Goffredo, un legno dorato di scuola castigliana, dall’aspetto tragico, lo sguardo febbrile e le membra scarnificate, dissanguato dalle ferite del martirio. «Glieli darei io, glieli darei! Altro che valzer! Cilicio e digiuni! Perché credimi, Goffredo, quella dei valzer è un’invenzione del demonio! L’altro giorno, proprio costui, Pietro, ne ha suonato uno ed era tutto un incitamento alla concupiscenza, alla lubricità e alla dissolutezza! Mi è venuto un tale pizzicore alla schiena che, anche se non riesci a crederci, stavo quasi per mettermi a ridere, e si sa che il riso è una trappola del demonio. Ti dirò solo che per cacciar via le tentazioni ho dovuto flagellarmi per una settimana di seguito. Dobbiamo impedirlo, Goffredo; se facciamo passare i valzer, poi chiederanno quella roba che chiamano charleston, o una rumba, che è pure peggio, e in capo a quattro giorni questa chiesa sembrerà una balera». «Oggi, la gioventù è perduta, Apollonia» sentenziò la voce stridula del vescovo. «E tutto perché siamo stati troppo deboli; ci siamo lasciati andare e il nemico ne
approfitta. L’ho sempre detto: troppa libertà!». «Ah, puoi dirlo» replicò la gotica. «Il male si sta infiltrando dovunque. Non ci mancava che la Repubblica! E si trattasse solo di politica, passi! Ma ti ricordi quando si venne a sapere, due o tre anni fa, che quell’angioletto di una chiesa del villaggio giù a valle, che aveva fama di trovare marito a tutte le zitelle, era in realtà un Cupido romano?». «Taci, Apollonia; non farmici ripensare! Che scandalo! Ospitare la concorrenza in casa propria!». «Ebbene, senti questa: qualche settimana fa, il parroco di un paesetto in riva al Cinca ha portato a restaurare l’immagine della santa patrona, e sai che hanno scoperto, i restauratori?». «Non turbarmi, donna! Che?». «Che si trattava di una statua di marmo di Afrodite! Sai che intendo dire, no? Quella svergognata di greca…». «Ma che mi dici?». «Hai sentito bene. E chissà da quanti secoli se ne stava lì, quella furbacchiona, travestita da santa! Adesso si capisce perché succedevano certe cose in quel paesetto: le donne si dipingevano, andavano senza calze e tutte scollate; la gente correva al ballo tutte le domeniche; tutte le coppie facevano Pasqua prima delle Palme… un’orgia!». «Che sfrontatezza! Suppongo che il prete abbia fatto rompere a martellate quella sgualdrina. Ho sempre detto che l’epurazione dei pagani non si è fatta come si doveva, e adesso ne subiamo le conseguenze. Quando mi tornano in mente i tempi dell’Inquisizione, mi prende una nostalgia che non ti dico. Allora sì, che le cose andavano bene! Ricordi, Apollonia, quegli autos de fe, quel profumo di eretici alla brace, d’infedeli arrosto, di giudei in graticola? E adesso, ti guardi intorno, e che vedi? Afroditi, repubbliche, elezioni, gozzoviglie… troppa libertà, troppa
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libertà! Non c’è più decenza! Andiamo dritti alla perdizione! «Puoi ben dirlo, Goffredo; hai più ragione di un santo». «Figlioli» insistette San Liborio, irritato. «Se non state zitti, con concluderemo un bel niente. Sembra di stare al mercato». «Via, ragazzi» gli venne in aiuto San Pasquale. «Vediamo se ci riesce a stare un po’ attenti e di non approfittare del fatto che Nostro Signore e sua madre sono andati a passare le acque a Fontcalda, per comportarci male e far cagnara come gli alunni quando non c’è il maestro!». «Grazie, Pasquale. Be’, come dicevo prima, la nostra situazione non potrebbe essere più critica». «Come parla bene!» sospirò Santa Quitèria, assorta. «Sembra un predicatore!». «Silenzio in piccionaia!» ordinò il vescovo, severo. «Devo comunicarvi, per incarico del signor parroco, che l’esercito d’Africa si è ribellato al governo e che molte guarnigioni della penisola si sono unite alla rivolta. Ciò vuol dire che il paese è diviso, in questo momento, in due zone: quella che resta fedele a quest’odiosa Repubblica e quella dominata dai nostri, i militari ribelli». «Era ora!» esclamò il vescovo. «Vediamo se adesso si riesce a ripristinare l’ordine e i valori morali!». «Benissimo!». «Facciamo una bella pulizia!». «Potremo uscire di nuovo in processione!». «Abbasso la Repubblica!». «Abbasso, abbasso!». «Io non griderei tanto» suggerì l’oratore «perché si dà il caso che noi ci troviamo nella zona repubblicana!». «Come, come?».
«L’abbiamo fatta bella!». «Oh, signore! Volete dire che ci avranno sentito?». «Questo significa» continuò San Liborio «che siamo in un vespaio, circondati da socialisti, comunisti, anarchici, massoni e ogni altra specie di gentaglia, che adesso vorrà vendicarsi su di noi». «Il mondo è pieno d’ingrati!». «Ci ribelliamo per il loro bene e ci ripagano a calci!». «Alleva serpi...». «Credo che sto per svenire» gemette l’immagine di Santa Quitèria. «Senti, ragazza, non cominciare a dar spettacolo, eh?» disse Santa Casilda. «Avrai tutto il tempo di farlo quando ci daranno fuoco o ci butteranno nel fiume». «Signorine» bofonchiò il vescovo, «mantengano la loro dignità! Che significa? Se dovremo andare al rogo, lo faremo a testa alta. Signor Liborio, dov’è il parroco?». «É fuggito questa sera travestito da contadino, con un fazzolettone in testa e un cestino pieno di melanzane, per mimetizzarsi». «Ma che bello!» esclamò, sarcastica, Santa Casilda. «E gli altri faranno lo stesso!». «Non prendertela con lui, eh?» replicò Santa Quitèria. «Sappiamo tutti che non ti era simpatico, perché non ti faceva mai uscire in processione». «Quitèria, bada che…». «Signorine, non costringetemi a mettervi faccia al muro!» minacciò il vescovo. «Non è questo il momento di discutere né di mettere in piazza i panni sporchi» intervenne San Liborio. «Quel che serve, adesso, è pensare al modo di sfangarla finché arrivino i nostri, visto che non possiamo aspettarci aiuto da nessuno. Se qualcuno ha qualche idea, lo dica, ma senza divagare».
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libertà! Non c’è più decenza! Andiamo dritti alla perdizione! «Puoi ben dirlo, Goffredo; hai più ragione di un santo». «Figlioli» insistette San Liborio, irritato. «Se non state zitti, con concluderemo un bel niente. Sembra di stare al mercato». «Via, ragazzi» gli venne in aiuto San Pasquale. «Vediamo se ci riesce a stare un po’ attenti e di non approfittare del fatto che Nostro Signore e sua madre sono andati a passare le acque a Fontcalda, per comportarci male e far cagnara come gli alunni quando non c’è il maestro!». «Grazie, Pasquale. Be’, come dicevo prima, la nostra situazione non potrebbe essere più critica». «Come parla bene!» sospirò Santa Quitèria, assorta. «Sembra un predicatore!». «Silenzio in piccionaia!» ordinò il vescovo, severo. «Devo comunicarvi, per incarico del signor parroco, che l’esercito d’Africa si è ribellato al governo e che molte guarnigioni della penisola si sono unite alla rivolta. Ciò vuol dire che il paese è diviso, in questo momento, in due zone: quella che resta fedele a quest’odiosa Repubblica e quella dominata dai nostri, i militari ribelli». «Era ora!» esclamò il vescovo. «Vediamo se adesso si riesce a ripristinare l’ordine e i valori morali!». «Benissimo!». «Facciamo una bella pulizia!». «Potremo uscire di nuovo in processione!». «Abbasso la Repubblica!». «Abbasso, abbasso!». «Io non griderei tanto» suggerì l’oratore «perché si dà il caso che noi ci troviamo nella zona repubblicana!». «Come, come?».
«L’abbiamo fatta bella!». «Oh, signore! Volete dire che ci avranno sentito?». «Questo significa» continuò San Liborio «che siamo in un vespaio, circondati da socialisti, comunisti, anarchici, massoni e ogni altra specie di gentaglia, che adesso vorrà vendicarsi su di noi». «Il mondo è pieno d’ingrati!». «Ci ribelliamo per il loro bene e ci ripagano a calci!». «Alleva serpi...». «Credo che sto per svenire» gemette l’immagine di Santa Quitèria. «Senti, ragazza, non cominciare a dar spettacolo, eh?» disse Santa Casilda. «Avrai tutto il tempo di farlo quando ci daranno fuoco o ci butteranno nel fiume». «Signorine» bofonchiò il vescovo, «mantengano la loro dignità! Che significa? Se dovremo andare al rogo, lo faremo a testa alta. Signor Liborio, dov’è il parroco?». «É fuggito questa sera travestito da contadino, con un fazzolettone in testa e un cestino pieno di melanzane, per mimetizzarsi». «Ma che bello!» esclamò, sarcastica, Santa Casilda. «E gli altri faranno lo stesso!». «Non prendertela con lui, eh?» replicò Santa Quitèria. «Sappiamo tutti che non ti era simpatico, perché non ti faceva mai uscire in processione». «Quitèria, bada che…». «Signorine, non costringetemi a mettervi faccia al muro!» minacciò il vescovo. «Non è questo il momento di discutere né di mettere in piazza i panni sporchi» intervenne San Liborio. «Quel che serve, adesso, è pensare al modo di sfangarla finché arrivino i nostri, visto che non possiamo aspettarci aiuto da nessuno. Se qualcuno ha qualche idea, lo dica, ma senza divagare».
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«Potremmo fare un miracolo» suggerì una voce dall’abside. «Come no! Potremmo fuggire volando!». «Proposta respinta» tagliò corto San Liborio. «Non ne abbiamo il tempo. Sapete tutti le pratiche che bisogna fare per ottenere l’autorizzazione a compiere miracoli: domanda in triplice copia, accompagnata da un certificato del parroco attestante che la persona destinataria della grazia tiene buona condotta religiosa, morale e soprattutto politica; certificato penale, informazioni favorevoli della commissione tecnica del rispettivo dipartimento, ecc., ecc. E non ho bisogno di spiegarvi come funziona la burocrazia, no? Tra una cosa e l’altra, due mesi, se tutto va bene. E questo se poi le carte non si confondono, come quella volta che chiesi il permesso di curare un porro che era spuntato al sindaco sulla nuca e mi arrivò l’autorizzazione a inviare una piaga di cavallette sui campi di grano della Russia». «Non pretenda di intendere i disegni segreti della Provvidenza, signor Liborio» redarguì il vescovo Goffredo. «Se le cose sono andate così, qualche motivo ci sarà stato!». «Ben detto!» esclamò la gotica. «Ci mancherebbe solo che un tizio qualsiasi si permettesse di criticare le decisioni della gerarchia!».
lò via, lieve e silenziosa come un furetto. «Chi era?». «Che è venuta a fare?». «Ci sono notizie?». «Dai, Toni, parla!». «Era la Caterina, quella di via del Castello» disse, alla fine, l’immagine di Sant’Antonio. «La strega?». «Sissignori, proprio lei». «E che voleva, se è lecito?» chiese San Liborio, tra il crepitio di voci scandalizzate provocato dalla rivelazione dell’identità della visitatrice. «Propormi un patto». «Ci mancava solo questo!». «Non veniamo a patti con le streghe!». «A che si doveva arrivare». «Al rogo!». «Signore mio!» si lagnò Santa Quitèria. «Non parlate di fuoco, per favore, ché mi viene la pelle d’oca!». «Per cortesia, non agitatevi e lasciate che Toni si spieghi». «È molto semplice. L’asina di Tommaso di Castelló si è ammalata; siccome pare che anche il veterinario se la sia squagliata, come il prete, e la povera bestia sta per morire, hanno chiamato la Caterina, per vedere se può curarla con un incantesimo. Ma non le riesce. Le sue specialità sono i filtri d’amore, la chiromanzia, i tarocchi francesi e altra roba del genere. Di asine, non ne capisce niente. Ha provato a dirle l’orazione per le gravide, tanto per fare qualche cosa, ma la bestia non migliora. E la Caterina è venuta a propormi che se io, che sono il patrono degli animali, le faccio fare una bella figura curando l’asina, lei mi farà un incantesimo che mi renderà invulnerabile al ferro, all’acqua e al fuoco».
«Zitti! Sembra che entri qualcuno». Una delle porte laterali, dalla parte del vangelo, si era aperta con un cigolio e una donna vestita di nero, con un fazzoletto in testa, sgusciò di pilastro in pilastro fino all’altare di Sant’Antonio Abate; qui, accese un cero che aveva portato con sé, lo infilò in un candelabro di bronzo ai piedi dell’immagine e, dopo essersi fermata in raccoglimento dinanzi all’altare, ma senza inginocchiarsi, sgattaio18
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«Potremmo fare un miracolo» suggerì una voce dall’abside. «Come no! Potremmo fuggire volando!». «Proposta respinta» tagliò corto San Liborio. «Non ne abbiamo il tempo. Sapete tutti le pratiche che bisogna fare per ottenere l’autorizzazione a compiere miracoli: domanda in triplice copia, accompagnata da un certificato del parroco attestante che la persona destinataria della grazia tiene buona condotta religiosa, morale e soprattutto politica; certificato penale, informazioni favorevoli della commissione tecnica del rispettivo dipartimento, ecc., ecc. E non ho bisogno di spiegarvi come funziona la burocrazia, no? Tra una cosa e l’altra, due mesi, se tutto va bene. E questo se poi le carte non si confondono, come quella volta che chiesi il permesso di curare un porro che era spuntato al sindaco sulla nuca e mi arrivò l’autorizzazione a inviare una piaga di cavallette sui campi di grano della Russia». «Non pretenda di intendere i disegni segreti della Provvidenza, signor Liborio» redarguì il vescovo Goffredo. «Se le cose sono andate così, qualche motivo ci sarà stato!». «Ben detto!» esclamò la gotica. «Ci mancherebbe solo che un tizio qualsiasi si permettesse di criticare le decisioni della gerarchia!».
lò via, lieve e silenziosa come un furetto. «Chi era?». «Che è venuta a fare?». «Ci sono notizie?». «Dai, Toni, parla!». «Era la Caterina, quella di via del Castello» disse, alla fine, l’immagine di Sant’Antonio. «La strega?». «Sissignori, proprio lei». «E che voleva, se è lecito?» chiese San Liborio, tra il crepitio di voci scandalizzate provocato dalla rivelazione dell’identità della visitatrice. «Propormi un patto». «Ci mancava solo questo!». «Non veniamo a patti con le streghe!». «A che si doveva arrivare». «Al rogo!». «Signore mio!» si lagnò Santa Quitèria. «Non parlate di fuoco, per favore, ché mi viene la pelle d’oca!». «Per cortesia, non agitatevi e lasciate che Toni si spieghi». «È molto semplice. L’asina di Tommaso di Castelló si è ammalata; siccome pare che anche il veterinario se la sia squagliata, come il prete, e la povera bestia sta per morire, hanno chiamato la Caterina, per vedere se può curarla con un incantesimo. Ma non le riesce. Le sue specialità sono i filtri d’amore, la chiromanzia, i tarocchi francesi e altra roba del genere. Di asine, non ne capisce niente. Ha provato a dirle l’orazione per le gravide, tanto per fare qualche cosa, ma la bestia non migliora. E la Caterina è venuta a propormi che se io, che sono il patrono degli animali, le faccio fare una bella figura curando l’asina, lei mi farà un incantesimo che mi renderà invulnerabile al ferro, all’acqua e al fuoco».
«Zitti! Sembra che entri qualcuno». Una delle porte laterali, dalla parte del vangelo, si era aperta con un cigolio e una donna vestita di nero, con un fazzoletto in testa, sgusciò di pilastro in pilastro fino all’altare di Sant’Antonio Abate; qui, accese un cero che aveva portato con sé, lo infilò in un candelabro di bronzo ai piedi dell’immagine e, dopo essersi fermata in raccoglimento dinanzi all’altare, ma senza inginocchiarsi, sgattaio18
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«Che faccia tosta!». «È una svergognata!». «Un’alleata del demonio!». «Mi ha detto però che se accetto, devo sbrigarmi, perché sa da fonte sicura che non arriveremo all’alba». «Muoia l’asina!». «E la Caterina!». «In graticola!». «Non siate precipitosi» consigliò una voce prudente. «Non varrebbe la pena di studiare un po’ la questione dell’incantesimo contro ferro, acqua e fuoco? Mettendo come condizione che ce lo faccia a tutti, è chiaro». «Scendere a patti con una stregaccia? Non se ne parla neppure!» sentenziò il vescovo Goffredo. «E poi, abbiamo già appurato che non c’è tempo per miracoli!». «Allora, che dobbiamo fare? Aspettare che ci appicchino il fuoco?». «Ascoltate» disse San Liborio, dopo essersi schiarita la gola con un paio di colpetti di tosse. «Io penso che così come stiano le cose, l’unica strada che ci resta, anche se spinosa, è di tentare un negoziato con i repubblicani. Che ve ne pare? In fin dei conti, la gente del villaggio ci conosce da una vita! Senza andare troppo lontano, Stefano, il capo degli anarchici, ha fatto il chierichetto un sacco di anni, quando era piccolo». «Questo è il guaio» filosofò Santa Casilda. «Ci conoscono bene! Malgrado tutto, non abbiamo altra scelta ed è il caso di guadagnar tempo. Forse, intanto, arrivano i nostri. Poi…». «Ah, poi!». «Se l’aspettino!». «Allora che si fa? Trattiamo?». «Sì, sì!».
«Anch’io sono d’accordo». «Io pure». «L’importante è salvare la pelle». «Traditori!» gridò allora il vescovo. «Siete dei traditori, dei codardi, peggio ancora, dei rinnegati!». «Bravo, Goffredo, così parla un uomo!» incoraggiò la gotica. «Cantagliele a questo pollaio!». «Malgrado tutto, non vi riuscirà!» continuò l’altro. «Io e questa signora saremo qui a impedirlo. Non vi vergognate di contrattare con gentaglia di sinistra? Preferisco finire nel fiume o sul rogo piuttosto che degradarmi a tal punto! Meglio ciocco che disertore. Moriremo a testa alta. E le ricordo, signor Liborio, che il decano di questa parrocchia sono io e che non permetterò mai…». Lo strepito di una vetrata andata in frantumi, immediatamente seguito dallo sparo di un fucile, interruppe l’infuocata diatriba del vescovo Goffredo. «Ostia!» gridò qualcuno. «Un pelo più a destra e mi prendeva in pieno!». «Chi è questo blasfemo screanzato?». «Il sagrestano, signora Apollonia, il sagrestano!» accusò, con voce sdolcinata, il beato Eliseo, che era un lecchino. Da fuori, entrò un clamore confuso che coprì gli improperi della gotica. «Mi sembra che stiano venendo!» esclamò Sant’Emanuele. «Ecco che mi sono riaddormentato» biascicò il sordo, in quella baraonda. «Ma se non avessi sentito suonar messa, direi che non è neppure mezzanotte». «Che ci riceva confessati!» piagnucolava Santa Quitèria.
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Tuttavia, malgrado lo sbigottimento delle immagini, in 21
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«Che faccia tosta!». «È una svergognata!». «Un’alleata del demonio!». «Mi ha detto però che se accetto, devo sbrigarmi, perché sa da fonte sicura che non arriveremo all’alba». «Muoia l’asina!». «E la Caterina!». «In graticola!». «Non siate precipitosi» consigliò una voce prudente. «Non varrebbe la pena di studiare un po’ la questione dell’incantesimo contro ferro, acqua e fuoco? Mettendo come condizione che ce lo faccia a tutti, è chiaro». «Scendere a patti con una stregaccia? Non se ne parla neppure!» sentenziò il vescovo Goffredo. «E poi, abbiamo già appurato che non c’è tempo per miracoli!». «Allora, che dobbiamo fare? Aspettare che ci appicchino il fuoco?». «Ascoltate» disse San Liborio, dopo essersi schiarita la gola con un paio di colpetti di tosse. «Io penso che così come stiano le cose, l’unica strada che ci resta, anche se spinosa, è di tentare un negoziato con i repubblicani. Che ve ne pare? In fin dei conti, la gente del villaggio ci conosce da una vita! Senza andare troppo lontano, Stefano, il capo degli anarchici, ha fatto il chierichetto un sacco di anni, quando era piccolo». «Questo è il guaio» filosofò Santa Casilda. «Ci conoscono bene! Malgrado tutto, non abbiamo altra scelta ed è il caso di guadagnar tempo. Forse, intanto, arrivano i nostri. Poi…». «Ah, poi!». «Se l’aspettino!». «Allora che si fa? Trattiamo?». «Sì, sì!».
«Anch’io sono d’accordo». «Io pure». «L’importante è salvare la pelle». «Traditori!» gridò allora il vescovo. «Siete dei traditori, dei codardi, peggio ancora, dei rinnegati!». «Bravo, Goffredo, così parla un uomo!» incoraggiò la gotica. «Cantagliele a questo pollaio!». «Malgrado tutto, non vi riuscirà!» continuò l’altro. «Io e questa signora saremo qui a impedirlo. Non vi vergognate di contrattare con gentaglia di sinistra? Preferisco finire nel fiume o sul rogo piuttosto che degradarmi a tal punto! Meglio ciocco che disertore. Moriremo a testa alta. E le ricordo, signor Liborio, che il decano di questa parrocchia sono io e che non permetterò mai…». Lo strepito di una vetrata andata in frantumi, immediatamente seguito dallo sparo di un fucile, interruppe l’infuocata diatriba del vescovo Goffredo. «Ostia!» gridò qualcuno. «Un pelo più a destra e mi prendeva in pieno!». «Chi è questo blasfemo screanzato?». «Il sagrestano, signora Apollonia, il sagrestano!» accusò, con voce sdolcinata, il beato Eliseo, che era un lecchino. Da fuori, entrò un clamore confuso che coprì gli improperi della gotica. «Mi sembra che stiano venendo!» esclamò Sant’Emanuele. «Ecco che mi sono riaddormentato» biascicò il sordo, in quella baraonda. «Ma se non avessi sentito suonar messa, direi che non è neppure mezzanotte». «Che ci riceva confessati!» piagnucolava Santa Quitèria.
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Tuttavia, malgrado lo sbigottimento delle immagini, in 21
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quel momento l’agitazione per le strade non superava il livello di una sagra paesana un po’ più vivace del solito, ed era stato un caso – un caso anticlericale, se volete – che il piombo della fucilata avesse centrato la vetrata della chiesa. D’altra parte, trasformare un gruppo di gente festosa in una turba rivoluzionaria richiede del tempo, e trascorse una buona mezz’ora tra il piagnucolio di Santa Quitèria e il momento in cui – esaltata da un’arringa magistrale di Pietro Pei, di professione sarto, nella quale le parole d’ordine rivoluzionarie si mescolavano insidiosamente ad allusioni malevole alle idee politiche dell’altro sarto del paese – la moltitudine decise di darsi da fare e s’incamminò verso la piazza della chiesa. Ma in quella mezz’ora nel tempio erano successe molte cose; cosicché, quando la turba vi penetrò arrivando dietro le pile dell’acqua benedetta – nelle quali più di uno smemorato immerse le dita segnandosi – tutti rimasero pietrificati dalla sorpresa. Lampadari, lanterne, lumini, ceri e candele erano accesi, e dalla cupola cadeva una pioggia di coriandoli rossi, gialli e viola, mentre la voce di San Liborio tuonava: «Compagni, dopo secoli e secoli di oppressione e di oscurantismo, è arrivata l’ora, tanto attesa, della nostra liberazione! Questi istanti gloriosi rimarranno scolpiti per sempre nei nostri cuori! Compagni, salutiamo i nostri liberatori! Gridate con me: viva la Repubblica!». E tutte le immagini – tranne il vescovo Goffredo, la gotica, il beato Eliseo e il sordo, che qualcuno aveva rinchiuso, imbavagliati, nell’armadio della sagrestia, sotto una pila di casule, albe e piviali – risposero, mentre lo spirito del sagrestano cominciava a suonare l’inno di Riego: «Evviva!!!».
Storia di giorni dispari
22
A quel tempo dividevo la soffitta di una casa di via Girona con un gatto che si chiamava ‘Caius’. Ero senza lavoro e per vivere dipingevo in serie, battaglie navali, tramonti e paesaggi con cervi, per i quali mi davano una miseria. Il minimo indispensabile per mangiar male e digerire peggio. Di notte scrivevo storie di gente semplice e parlavo con il gatto. Caius era un felino da comignoli; un vagabondo tettaiolo avvezzo a vivere alla giornata e a schivare la sassata. Ciò l’aveva reso molto comprensivo e passava ore e ore ad ascoltare le mie fantasie. «Vedrai Caius, un giorno tutti leggeranno le mie storie. Allora mi sposerò con una bella ragazza e viaggeremo in tutto il mondo. Visiteremo la Francia, l’Italia, l’Inghilterra... andremo anche in Cina!». Il gatto, seduto sul tavolo, mi guardava fisso. Di tanto in tanto muoveva lentamente la coda e chiudeva l’occhio sinistro. Spesso, dopo queste conversazioni, ce ne andavamo a ‘La Perla di Cuba, Cantina-bar’ a vedere gli amici. Altrimenti uscivamo sull’altana a sorprendere i sogni della città addormentata. Dal porto arrivavano fino a noi i fischi di misteriose sirene di navi. «E questa dove andrà, Caius? In Africa? Nei mari del Nord? Forse nelle Antille...?». Qualche volta ce la svignavamo di casa, a vagabondare tutta la notte per le strade. Rientravamo, una mattina, da una di quelle escursioni, soddisfatti perché la sortita era stata fruttuosa. Si era fatta 23
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quel momento l’agitazione per le strade non superava il livello di una sagra paesana un po’ più vivace del solito, ed era stato un caso – un caso anticlericale, se volete – che il piombo della fucilata avesse centrato la vetrata della chiesa. D’altra parte, trasformare un gruppo di gente festosa in una turba rivoluzionaria richiede del tempo, e trascorse una buona mezz’ora tra il piagnucolio di Santa Quitèria e il momento in cui – esaltata da un’arringa magistrale di Pietro Pei, di professione sarto, nella quale le parole d’ordine rivoluzionarie si mescolavano insidiosamente ad allusioni malevole alle idee politiche dell’altro sarto del paese – la moltitudine decise di darsi da fare e s’incamminò verso la piazza della chiesa. Ma in quella mezz’ora nel tempio erano successe molte cose; cosicché, quando la turba vi penetrò arrivando dietro le pile dell’acqua benedetta – nelle quali più di uno smemorato immerse le dita segnandosi – tutti rimasero pietrificati dalla sorpresa. Lampadari, lanterne, lumini, ceri e candele erano accesi, e dalla cupola cadeva una pioggia di coriandoli rossi, gialli e viola, mentre la voce di San Liborio tuonava: «Compagni, dopo secoli e secoli di oppressione e di oscurantismo, è arrivata l’ora, tanto attesa, della nostra liberazione! Questi istanti gloriosi rimarranno scolpiti per sempre nei nostri cuori! Compagni, salutiamo i nostri liberatori! Gridate con me: viva la Repubblica!». E tutte le immagini – tranne il vescovo Goffredo, la gotica, il beato Eliseo e il sordo, che qualcuno aveva rinchiuso, imbavagliati, nell’armadio della sagrestia, sotto una pila di casule, albe e piviali – risposero, mentre lo spirito del sagrestano cominciava a suonare l’inno di Riego: «Evviva!!!».
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A quel tempo dividevo la soffitta di una casa di via Girona con un gatto che si chiamava ‘Caius’. Ero senza lavoro e per vivere dipingevo in serie, battaglie navali, tramonti e paesaggi con cervi, per i quali mi davano una miseria. Il minimo indispensabile per mangiar male e digerire peggio. Di notte scrivevo storie di gente semplice e parlavo con il gatto. Caius era un felino da comignoli; un vagabondo tettaiolo avvezzo a vivere alla giornata e a schivare la sassata. Ciò l’aveva reso molto comprensivo e passava ore e ore ad ascoltare le mie fantasie. «Vedrai Caius, un giorno tutti leggeranno le mie storie. Allora mi sposerò con una bella ragazza e viaggeremo in tutto il mondo. Visiteremo la Francia, l’Italia, l’Inghilterra... andremo anche in Cina!». Il gatto, seduto sul tavolo, mi guardava fisso. Di tanto in tanto muoveva lentamente la coda e chiudeva l’occhio sinistro. Spesso, dopo queste conversazioni, ce ne andavamo a ‘La Perla di Cuba, Cantina-bar’ a vedere gli amici. Altrimenti uscivamo sull’altana a sorprendere i sogni della città addormentata. Dal porto arrivavano fino a noi i fischi di misteriose sirene di navi. «E questa dove andrà, Caius? In Africa? Nei mari del Nord? Forse nelle Antille...?». Qualche volta ce la svignavamo di casa, a vagabondare tutta la notte per le strade. Rientravamo, una mattina, da una di quelle escursioni, soddisfatti perché la sortita era stata fruttuosa. Si era fatta 23
Storia di giorni dispari
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amicizia con una guardia notturna che sapeva un sacco di storie di maghi e di sposine abbandonate. Alla stazione di Francia avevamo assistito alla malinconica partenza dei treni notturni. Quando cominciava a far chiaro, stavamo sbadigliando sulla piazza del Born mentre scaricavano i camion di frutta e verdura. Al mercato, una pescivendola materna che ci conosceva da altre scorribande e sapeva che eravamo artisti poveri, aveva regalato una sardina a Caius. Verso le sette ci eravamo seduti su una panchina e ci restammo fino al momento in cui cominciarono ad annaffiare le strade. Quello sì che dava gusto! Che piacere tornare a casa sui marciapiedi bagnati e guardare la gente. Silvestre, il cieco, già cantava le sue strofette all’angolo. Lo salutammo. «È parecchio che non vi si vede alla cantina» disse «ci siete mancati». «Stasera veniamo» gli promettemmo. Prima di salire alla soffitta proposi al gatto di dare un’occhiata alla vetrina del rigattiere davanti casa. Erano almeno due mesi che non ci fermavamo a curiosare e ne avevo una gran voglia. Quel mondo polveroso, logoro, dentro il quale si ammonticchiavano tutti i vecchiumi possibili e immaginabili – sedie zoppe, un sassofono tutto ammaccato, grammofoni a manovella, candelieri, quadri, armadi a specchi appannati di nostalgia – acquistava, attraverso il sudiciume immemoriale della vetrina, apparenze irreali e misteriose. A prima vista non notammo niente di nuovo. Dopo aver salutato cortesemente un manichino con i baffetti e lo sparato inamidato che stava sulla sinistra, gettammo uno sguardo distratto ad alcune teste di cartapesta allineate su un vecchio tavolino. Ci sembrò che fossero le solite – il pirata guercio, la strega, i signori con gli occhiali e il
pagliaccio scemo – e, senza badarci più di tanto, continuammo l’ispezione. Stavamo per andarcene, quando guardai un’altra volta, non so perché, la fila di teste. Mi accorsi allora che ce n’era una nuova, tra il pirata e la strega. Era una testa di mezz’età e portava la parrucca. La sua fisionomia era di un realismo straordinario, tanto che, quando ci strizzò l’occhio, non ci sorprendemmo affatto. Per un momento sospettammo che si trattasse del bottegaio che stava prendendoci in giro, ma l’uomo leggeva tranquillamente il giornale in fondo alla sua bottega. Intanto la testa ci sorrise. Calcolai rapidamente lo stato delle mie finanze. Il risultato fu desolante: centocinquantatré pesetas. Ed era mercoledì. Questo voleva dire che con quei soldi dovevamo arrivare a sabato, giorno in cui mi avrebbero pagato, se me li pagavano, le battaglie navali e i paesaggi commissionati da ‘La Cornucopia Dorata’. Sbirciai il gatto con la coda dell’occhio; poi la testa della vetrina. «Caius, anche questa settimana ce la passeremo maluccio». Ed entrammo. «In che posso servirvi, giovanotto?». «Voglio comprare quella testa che avete in vetrina». «La strega?». «No. Quella accanto. Con la parrucca». «Eh, giovanotto! Vi contentate di poco... questa testa è un pezzo storico!». «Già». «Una reliquia!». «Ma che mi dite?». «Proprio così. È una copia della testa del re di Francia». «Per la miseria! E di quale?».
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amicizia con una guardia notturna che sapeva un sacco di storie di maghi e di sposine abbandonate. Alla stazione di Francia avevamo assistito alla malinconica partenza dei treni notturni. Quando cominciava a far chiaro, stavamo sbadigliando sulla piazza del Born mentre scaricavano i camion di frutta e verdura. Al mercato, una pescivendola materna che ci conosceva da altre scorribande e sapeva che eravamo artisti poveri, aveva regalato una sardina a Caius. Verso le sette ci eravamo seduti su una panchina e ci restammo fino al momento in cui cominciarono ad annaffiare le strade. Quello sì che dava gusto! Che piacere tornare a casa sui marciapiedi bagnati e guardare la gente. Silvestre, il cieco, già cantava le sue strofette all’angolo. Lo salutammo. «È parecchio che non vi si vede alla cantina» disse «ci siete mancati». «Stasera veniamo» gli promettemmo. Prima di salire alla soffitta proposi al gatto di dare un’occhiata alla vetrina del rigattiere davanti casa. Erano almeno due mesi che non ci fermavamo a curiosare e ne avevo una gran voglia. Quel mondo polveroso, logoro, dentro il quale si ammonticchiavano tutti i vecchiumi possibili e immaginabili – sedie zoppe, un sassofono tutto ammaccato, grammofoni a manovella, candelieri, quadri, armadi a specchi appannati di nostalgia – acquistava, attraverso il sudiciume immemoriale della vetrina, apparenze irreali e misteriose. A prima vista non notammo niente di nuovo. Dopo aver salutato cortesemente un manichino con i baffetti e lo sparato inamidato che stava sulla sinistra, gettammo uno sguardo distratto ad alcune teste di cartapesta allineate su un vecchio tavolino. Ci sembrò che fossero le solite – il pirata guercio, la strega, i signori con gli occhiali e il
pagliaccio scemo – e, senza badarci più di tanto, continuammo l’ispezione. Stavamo per andarcene, quando guardai un’altra volta, non so perché, la fila di teste. Mi accorsi allora che ce n’era una nuova, tra il pirata e la strega. Era una testa di mezz’età e portava la parrucca. La sua fisionomia era di un realismo straordinario, tanto che, quando ci strizzò l’occhio, non ci sorprendemmo affatto. Per un momento sospettammo che si trattasse del bottegaio che stava prendendoci in giro, ma l’uomo leggeva tranquillamente il giornale in fondo alla sua bottega. Intanto la testa ci sorrise. Calcolai rapidamente lo stato delle mie finanze. Il risultato fu desolante: centocinquantatré pesetas. Ed era mercoledì. Questo voleva dire che con quei soldi dovevamo arrivare a sabato, giorno in cui mi avrebbero pagato, se me li pagavano, le battaglie navali e i paesaggi commissionati da ‘La Cornucopia Dorata’. Sbirciai il gatto con la coda dell’occhio; poi la testa della vetrina. «Caius, anche questa settimana ce la passeremo maluccio». Ed entrammo. «In che posso servirvi, giovanotto?». «Voglio comprare quella testa che avete in vetrina». «La strega?». «No. Quella accanto. Con la parrucca». «Eh, giovanotto! Vi contentate di poco... questa testa è un pezzo storico!». «Già». «Una reliquia!». «Ma che mi dite?». «Proprio così. È una copia della testa del re di Francia». «Per la miseria! E di quale?».
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«Ma come, di quale! Sembra incredibile. Non sapete che il re di Francia lo chiamano Luigi? Be’, questa è una riproduzione della sua testa. Un oggetto che non ha prezzo!». «Ve ne do venticinque pesetas». «Non la vendo nemmeno per mille». «Venti!». «Non correte tanto, giovanotto. Quante pesetas avete detto la prima volta?». «Venticinque». «Ve l’incarto?».
vetrina. Rimasero per un bel po’ a guardarmi con la bocca aperta. Non mi spiegavo quell’interesse, perché non avevo neppure strizzato l’occhio, al fine di evitare interpretazioni maliziose. Cominciai a preoccuparmi. Alla fine, le due monache entrarono nella bottega. Tesi l’orecchio per cercare di capire di che si trattava. Spaventoso. Mi avevano preso per la testa di San Bartolomeo e volevano mettermi nella cappella del convento, tra un’immagine di Santa Caterina e un’altra di Santo Stefano. Passai un momento di angoscia. Immaginate quale sarebbe stato il mio destino? Tutto il giorno a sorbirmi e mattutini, e none, e vigilie... e non vi dico del puzzo dei ceri, io che ho sempre avuto una pituitaria sensibilissima! Per fortuna, le monache e il bottegaio non si misero d’accordo sul prezzo. Quando le vidi uscire, mi sentii tanto alleviato che quella sera mi parvero sopportabili perfino i concerti notturni del rigattiere. «Perché, russava?». «Peggio. Suonava il clavicordio. Un caso tipico di vocazione musicale. Sul tardi, dopo aver chiuso la bottega, quel tale si dedicava a comporre sonate fino all’alba. Spaventoso, giovanotto, spaventoso. Al punto che perfino la testa che stava alla mia destra, del tutto insensibile alle cose dello spirito, a quelle stonature si faceva venire una serie di tic nervosi». «Quale testa? Quella del pirata?». «Banchiere, giovanotto, banchiere. Non siate così caustico. È necessario distinguere». Per qualche minuto restammo in silenzio. Dalla strada saliva il rumore di ferraglia dei tram. Caius stava prendendo confidenza con la testa e gli annusava un orecchio. «Posso chiedervi un favore?». «Dite». «Vi dispiacerebbe togliermi la parrucca?».
Una volta in soffitta, disfeci il pacchetto consegnatoci dal bottegaio. La testa, evidentemente abbacinata, batté per qualche istante le palpebre. Poi gettò un’occhiata a destra e a sinistra, fin dove glielo consentiva il movimento delle pupille. Alla fine guardò me e il gatto, che gli stavamo davanti, e sorrise. «Siete pittore, voi?». Malgrado me lo aspettassi, mi fece una strana impressione sentirlo parlare. Aveva una voce gradevole, un po’ sottile, come quella dei vecchi dischi, e pronunciava l’erre alla francese. «Così mi guadagno da vivere» risposi. «Ma vi prego di non badare alle porcherie che vedete. Questo è un gatto amico mio. Si chiama Caius e vive anche lui qui». «Piacere. Parla?». «Caius è troppo intelligente». «Capisco. Be’, giovanotto. Vi sono molto grato per quel che avete fatto. Senza di voi, non so quanto tempo ci avrei passato, in quel posto. E sì che se ne ferma di gente, lì davanti! Trascorrevo le ore facendo l’occhietto a tutti. Neppure mi vedevano. Un giorno, tuttavia, richiamai l’attenzione di due monache che si erano fermate davanti alla 26
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«Ma come, di quale! Sembra incredibile. Non sapete che il re di Francia lo chiamano Luigi? Be’, questa è una riproduzione della sua testa. Un oggetto che non ha prezzo!». «Ve ne do venticinque pesetas». «Non la vendo nemmeno per mille». «Venti!». «Non correte tanto, giovanotto. Quante pesetas avete detto la prima volta?». «Venticinque». «Ve l’incarto?».
vetrina. Rimasero per un bel po’ a guardarmi con la bocca aperta. Non mi spiegavo quell’interesse, perché non avevo neppure strizzato l’occhio, al fine di evitare interpretazioni maliziose. Cominciai a preoccuparmi. Alla fine, le due monache entrarono nella bottega. Tesi l’orecchio per cercare di capire di che si trattava. Spaventoso. Mi avevano preso per la testa di San Bartolomeo e volevano mettermi nella cappella del convento, tra un’immagine di Santa Caterina e un’altra di Santo Stefano. Passai un momento di angoscia. Immaginate quale sarebbe stato il mio destino? Tutto il giorno a sorbirmi e mattutini, e none, e vigilie... e non vi dico del puzzo dei ceri, io che ho sempre avuto una pituitaria sensibilissima! Per fortuna, le monache e il bottegaio non si misero d’accordo sul prezzo. Quando le vidi uscire, mi sentii tanto alleviato che quella sera mi parvero sopportabili perfino i concerti notturni del rigattiere. «Perché, russava?». «Peggio. Suonava il clavicordio. Un caso tipico di vocazione musicale. Sul tardi, dopo aver chiuso la bottega, quel tale si dedicava a comporre sonate fino all’alba. Spaventoso, giovanotto, spaventoso. Al punto che perfino la testa che stava alla mia destra, del tutto insensibile alle cose dello spirito, a quelle stonature si faceva venire una serie di tic nervosi». «Quale testa? Quella del pirata?». «Banchiere, giovanotto, banchiere. Non siate così caustico. È necessario distinguere». Per qualche minuto restammo in silenzio. Dalla strada saliva il rumore di ferraglia dei tram. Caius stava prendendo confidenza con la testa e gli annusava un orecchio. «Posso chiedervi un favore?». «Dite». «Vi dispiacerebbe togliermi la parrucca?».
Una volta in soffitta, disfeci il pacchetto consegnatoci dal bottegaio. La testa, evidentemente abbacinata, batté per qualche istante le palpebre. Poi gettò un’occhiata a destra e a sinistra, fin dove glielo consentiva il movimento delle pupille. Alla fine guardò me e il gatto, che gli stavamo davanti, e sorrise. «Siete pittore, voi?». Malgrado me lo aspettassi, mi fece una strana impressione sentirlo parlare. Aveva una voce gradevole, un po’ sottile, come quella dei vecchi dischi, e pronunciava l’erre alla francese. «Così mi guadagno da vivere» risposi. «Ma vi prego di non badare alle porcherie che vedete. Questo è un gatto amico mio. Si chiama Caius e vive anche lui qui». «Piacere. Parla?». «Caius è troppo intelligente». «Capisco. Be’, giovanotto. Vi sono molto grato per quel che avete fatto. Senza di voi, non so quanto tempo ci avrei passato, in quel posto. E sì che se ne ferma di gente, lì davanti! Trascorrevo le ore facendo l’occhietto a tutti. Neppure mi vedevano. Un giorno, tuttavia, richiamai l’attenzione di due monache che si erano fermate davanti alla 26
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Era un posticcio simile a quelli che portavano i cortigiani francesi alla fine del Settecento. Le tarme se l’erano quasi del tutto mangiata e tra i capelli afflosciati trovai pagliuzze, ragnatele e una mezza dozzina di mosche morte. «È proprio malridotta, la parrucca» gli dissi. «Ha fatto il suo servizio, poveretta. La porto dalla rivoluzione francese». «E ne sono passati di anni! Che ci facevate, voi, nella rivoluzione?». «Ero marchese». «Io sono per la democrazia» lo avvertii, a scanso di equivoci. «Non occorre che facciate una dichiarazione di principi, giovanotto. Acqua passata». Il cranio rasato del marchese sembrava un guscio d’uovo. Ebbi paura che prendesse freddo, malgrado si fosse in estate e facesse un caldo torrido. «Non vi raffredderete, adesso? Togliervi così, d’improvviso, la parrucca dopo averla portata notte e giorno per quasi due secoli, può essere pericoloso. Se volete, posso darvi un berretto tirolese». «Raffreddarmi, io? Sono un pensatore, giovanotto, mi pongo al di sopra di queste miserie corporali. Vi ringrazio della vostra buona intenzione, ma non ho bisogno del berretto. D’altra parte, non ho i problemi alimentari né di abbigliamento della gente comune. Sotto quest’aspetto, non dovete affatto preoccuparvi per me. Risulto piuttosto economico». Era quasi mezzogiorno e, tra una cosa e l’altra, non avevo combinato niente. Le tele lasciate a metà si accatastavano accanto al cavalletto. Dovevo finirle. Ad arrivare a sabato con i soldi che ci erano rimasti, tra stenti e difficoltà si poteva anche farcela, ma stiracchiare centoventot-
to pesetas per tutta un’altra settimana era gastronomicamente impossibile. «Non v’importa se mi metto al lavoro?» gli chiesi «Devo finire queste porcherie». «Non datevi pensiero per me. Fate quel che vi pare. Io, da parte mia, mediterò. Ma suppongo che pranzerete prima di cominciare, no?». «Oggi siamo piuttosto inappetenti». Il marchese diventò tutto rosso. «Mi dispiace di aver squilibrato il vostro bilancio». «Non preoccupatevi. Spesso passiamo intere giornate senza mangiare. E non perché ci manchino i soldi, vero Caius? È che così abbiamo la testa più lucida». Mi misi a lavorare come un pazzo. La testa aveva chiuso gli occhi e sembrava astratto in profonde riflessioni. Sospettai tuttavia che, ogni tanto, schiacciasse un pisolino. Cominciava a far buio. Ero andato molto avanti nel lavoro. Mi sentivo stanco. Gettai pennelli e spatole in un angolo e mi sdraiai per terra. Il fresco dei mattoni mi riposava. «Avete meditato molto, marchese?». «Abbastanza, ma devo confessarvi che ho anche fatto una bella siesta. Immaginate che cosa significa poter dormire senza che ti sveglino le stonature del clavicordio del bottegaio?». Mi fece una buona impressione la sua sincerità nel dirmi che aveva dormito. Dopo cena, mi ricordai che avevo promesso a Silvestre, il cieco, che saremmo andati a La Perla di Cuba. Chiesi al marchese se voleva venire con noi. «Pronti!» rispose. «Ho voglia di parlare con la gente». Avvolto in carta di giornale, lo mettemmo in un cestino e uscimmo. In strada, una brezzolina di mare faceva muovere le foglie degli alberi.
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Era un posticcio simile a quelli che portavano i cortigiani francesi alla fine del Settecento. Le tarme se l’erano quasi del tutto mangiata e tra i capelli afflosciati trovai pagliuzze, ragnatele e una mezza dozzina di mosche morte. «È proprio malridotta, la parrucca» gli dissi. «Ha fatto il suo servizio, poveretta. La porto dalla rivoluzione francese». «E ne sono passati di anni! Che ci facevate, voi, nella rivoluzione?». «Ero marchese». «Io sono per la democrazia» lo avvertii, a scanso di equivoci. «Non occorre che facciate una dichiarazione di principi, giovanotto. Acqua passata». Il cranio rasato del marchese sembrava un guscio d’uovo. Ebbi paura che prendesse freddo, malgrado si fosse in estate e facesse un caldo torrido. «Non vi raffredderete, adesso? Togliervi così, d’improvviso, la parrucca dopo averla portata notte e giorno per quasi due secoli, può essere pericoloso. Se volete, posso darvi un berretto tirolese». «Raffreddarmi, io? Sono un pensatore, giovanotto, mi pongo al di sopra di queste miserie corporali. Vi ringrazio della vostra buona intenzione, ma non ho bisogno del berretto. D’altra parte, non ho i problemi alimentari né di abbigliamento della gente comune. Sotto quest’aspetto, non dovete affatto preoccuparvi per me. Risulto piuttosto economico». Era quasi mezzogiorno e, tra una cosa e l’altra, non avevo combinato niente. Le tele lasciate a metà si accatastavano accanto al cavalletto. Dovevo finirle. Ad arrivare a sabato con i soldi che ci erano rimasti, tra stenti e difficoltà si poteva anche farcela, ma stiracchiare centoventot-
to pesetas per tutta un’altra settimana era gastronomicamente impossibile. «Non v’importa se mi metto al lavoro?» gli chiesi «Devo finire queste porcherie». «Non datevi pensiero per me. Fate quel che vi pare. Io, da parte mia, mediterò. Ma suppongo che pranzerete prima di cominciare, no?». «Oggi siamo piuttosto inappetenti». Il marchese diventò tutto rosso. «Mi dispiace di aver squilibrato il vostro bilancio». «Non preoccupatevi. Spesso passiamo intere giornate senza mangiare. E non perché ci manchino i soldi, vero Caius? È che così abbiamo la testa più lucida». Mi misi a lavorare come un pazzo. La testa aveva chiuso gli occhi e sembrava astratto in profonde riflessioni. Sospettai tuttavia che, ogni tanto, schiacciasse un pisolino. Cominciava a far buio. Ero andato molto avanti nel lavoro. Mi sentivo stanco. Gettai pennelli e spatole in un angolo e mi sdraiai per terra. Il fresco dei mattoni mi riposava. «Avete meditato molto, marchese?». «Abbastanza, ma devo confessarvi che ho anche fatto una bella siesta. Immaginate che cosa significa poter dormire senza che ti sveglino le stonature del clavicordio del bottegaio?». Mi fece una buona impressione la sua sincerità nel dirmi che aveva dormito. Dopo cena, mi ricordai che avevo promesso a Silvestre, il cieco, che saremmo andati a La Perla di Cuba. Chiesi al marchese se voleva venire con noi. «Pronti!» rispose. «Ho voglia di parlare con la gente». Avvolto in carta di giornale, lo mettemmo in un cestino e uscimmo. In strada, una brezzolina di mare faceva muovere le foglie degli alberi.
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La Perla di Cuba era allo stesso angolo di strada dove Silvestre, il cieco, seduto su una sedia pieghevole, cantava ogni giorno le sue strofette con voce rassegnata. Quattro tavoli vecchi, scrostati, e sette o otto sedie costituivano tutto il mobilio della cantina-bar. Di notte, La Perla di Cuba, trasformata in dormitorio, si popolava di sogni. Desiderio, il padrone, dormiva sempre su due tavoli accostati; il cieco, sul bancone. Jim, il lustrascarpe, non aveva un posto fisso. Era un tipo irrequieto. Poteva sdraiarsi sotto le botti del vino come su una fila di sedie e aveva incubi spaventosi nei quali si vedeva vestito da prete panciuto a cantar messe da requiem nel coro di una grande cattedrale tenebrosa e deserta. Desiderio, lui, sognava di guidare cariche di cavalleria in grande stile nella guerra franco-prussiana del 1871. Con i suoi urli di assalto spaventava ‘Rebecca’, una gatta romantica che faceva gli occhi languidi quando vedeva Caius. Il cieco faceva sempre un sogno molto semplice: qualcuno gli bagnava gli occhi con acqua fresca. Da fuori, già sentivamo Desiderio raccontare la storia del Reno. «Fu terribile! Dinanzi al mio reggimento di ussari prussiani, mi lanciai all’attacco dell’avanguardia francese. Non starebbe a me dirlo, ma cariche di cavalleria come quella si possono contare sulle dita di una mano... poveri francesi! Li conciai così male e mi fecero tanta pena che, l’indomani, passai dalla loro parte per aiutarli contro i prussiani». «Che generosità!» esclamò Jim. «Che volete farci» rispose Desiderio «Quando si è fatti così...». «E non avete detto nessuna frase celebre?» interloquì Torrents, un drammaturgo che di tanto in tanto capitava a La Perla di Cuba «In occasioni del genere fanno sempre
molto effetto». «Certo che l’ho detta! Credete che dorma, io? Purtroppo, nei libri non c’è. Da due giorni ero passato dalla parte dei francesi, che, neanche a dirlo, mi avevano già fatto colonnello di un reggimento di dragoni. Si aspettava un attacco dei prussiani, ed io ebbi un brutto presentimento. Fu allora che dissi la frase al cuoco, che, nelle ore libere, faceva da portastendardo del reggimento». «Al cuoco?» si stupì il drammaturgo. «Ma è chiaro. A chi, sennò? Sembra incredibile che, alla vostra età, ancora non vi siate reso conto dell’importanza che hanno i cuochi nel corso della storia. Dietro ogni avvenimento storico, soprattutto le guerre, c’è sempre un cuoco. È risaputo». «E che gli avete detto?» «Oh, be’! Ripetere una frase celebre non ha senso. È il momento che conta, la situazione...». «Ce ne rendiamo conto, ma in ogni modo ci piacerebbe sentirla». «E va bene. Giacché insistete... mi avvicinai al cuoco e gli dissi: “Monsieur Dupont, questi prussiani rompono proprio le scatole”». «Ammirevole!». «Che laconicità». «Profetica!». «Non esageriamo» disse Desideri, modesto. In quel momento entrammo noialtri. Silvestre, il cieco, alzò la testa coma a domandare chi era. Dall’alto del bancone, la gatta Rebecca assunse un atteggiamento seducente per irretire Caius. «Che avete lì dentro?» mi chiese Desiderio. Li tenni un po’ sulla corda. Alla fine, scoperchiai il cestino. La testa, sorridente, guardò i miei amici, che l’osservavano incuriositi.
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La Perla di Cuba era allo stesso angolo di strada dove Silvestre, il cieco, seduto su una sedia pieghevole, cantava ogni giorno le sue strofette con voce rassegnata. Quattro tavoli vecchi, scrostati, e sette o otto sedie costituivano tutto il mobilio della cantina-bar. Di notte, La Perla di Cuba, trasformata in dormitorio, si popolava di sogni. Desiderio, il padrone, dormiva sempre su due tavoli accostati; il cieco, sul bancone. Jim, il lustrascarpe, non aveva un posto fisso. Era un tipo irrequieto. Poteva sdraiarsi sotto le botti del vino come su una fila di sedie e aveva incubi spaventosi nei quali si vedeva vestito da prete panciuto a cantar messe da requiem nel coro di una grande cattedrale tenebrosa e deserta. Desiderio, lui, sognava di guidare cariche di cavalleria in grande stile nella guerra franco-prussiana del 1871. Con i suoi urli di assalto spaventava ‘Rebecca’, una gatta romantica che faceva gli occhi languidi quando vedeva Caius. Il cieco faceva sempre un sogno molto semplice: qualcuno gli bagnava gli occhi con acqua fresca. Da fuori, già sentivamo Desiderio raccontare la storia del Reno. «Fu terribile! Dinanzi al mio reggimento di ussari prussiani, mi lanciai all’attacco dell’avanguardia francese. Non starebbe a me dirlo, ma cariche di cavalleria come quella si possono contare sulle dita di una mano... poveri francesi! Li conciai così male e mi fecero tanta pena che, l’indomani, passai dalla loro parte per aiutarli contro i prussiani». «Che generosità!» esclamò Jim. «Che volete farci» rispose Desiderio «Quando si è fatti così...». «E non avete detto nessuna frase celebre?» interloquì Torrents, un drammaturgo che di tanto in tanto capitava a La Perla di Cuba «In occasioni del genere fanno sempre
molto effetto». «Certo che l’ho detta! Credete che dorma, io? Purtroppo, nei libri non c’è. Da due giorni ero passato dalla parte dei francesi, che, neanche a dirlo, mi avevano già fatto colonnello di un reggimento di dragoni. Si aspettava un attacco dei prussiani, ed io ebbi un brutto presentimento. Fu allora che dissi la frase al cuoco, che, nelle ore libere, faceva da portastendardo del reggimento». «Al cuoco?» si stupì il drammaturgo. «Ma è chiaro. A chi, sennò? Sembra incredibile che, alla vostra età, ancora non vi siate reso conto dell’importanza che hanno i cuochi nel corso della storia. Dietro ogni avvenimento storico, soprattutto le guerre, c’è sempre un cuoco. È risaputo». «E che gli avete detto?» «Oh, be’! Ripetere una frase celebre non ha senso. È il momento che conta, la situazione...». «Ce ne rendiamo conto, ma in ogni modo ci piacerebbe sentirla». «E va bene. Giacché insistete... mi avvicinai al cuoco e gli dissi: “Monsieur Dupont, questi prussiani rompono proprio le scatole”». «Ammirevole!». «Che laconicità». «Profetica!». «Non esageriamo» disse Desideri, modesto. In quel momento entrammo noialtri. Silvestre, il cieco, alzò la testa coma a domandare chi era. Dall’alto del bancone, la gatta Rebecca assunse un atteggiamento seducente per irretire Caius. «Che avete lì dentro?» mi chiese Desiderio. Li tenni un po’ sulla corda. Alla fine, scoperchiai il cestino. La testa, sorridente, guardò i miei amici, che l’osservavano incuriositi.
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«Che è? Che è?» chiedeva Silvestre. «Sembra una testa» chiarì il lustrascarpe. Feci le presentazioni. Ogni volta il marchese si scusava educatamente: «Mi scusi se non le do la mano. Non è per superbia». «Senza complimenti» disse Desiderio. «Fate conto di stare in casa vostra. Sentite, piuttosto, per caso non vi trovavate alla battaglia di Sedan? Mi sembra di avervi visto». La risposta negativa del marchese sembrò deludere il cantiniere. Ci sedemmo tutti. Il marchese stava su un angolo del tavolo, accanto a Silvestre. Come sempre, Desiderio ci fece credito di una bottiglia di rum, e mentre questa girava, si prese a chiacchierare. Il drammaturgo dichiarò che non gli veniva il terzo atto dell’opera alla quale stava lavorando. «Fatela solo di due» suggerì il marchese «Nessuno se ne accorgerà. E se qualcuno se ne accorge, farà finta di niente per paura di cadere nel ridicolo». Il marchese era riuscito proprio simpatico a La Perla di Cuba, e la conversazione scorreva fluida. A momenti, quando si faceva silenzio, si poteva sentire il lamento del lustrascarpe. «Chi sono io? Qual è il mio posto in questo mondo?». «Voi e i vostri problemi! Se foste stato a Sedan...!». Jim era un uomo in crisi permanente, ossessionato da dubbi capitali. Il suo problema di fondo era trovare se stesso e perciò cambiava molto spesso mestiere. Era stato clarinetto in un gruppo jazz di Nuova Orleans, guerrigliero in Cile, pirotecnico a Hong-Kong, e guida di carovane nell’Asia Centrale. Ora faceva il lustrascarpe, ma tutti temevamo che non sarebbe durato a lungo. Un giorno o l’altro avrebbe preso il volo. Dopo qualche tempo avremmo ricevuto una delle sue straordinarie lettere, con l’annuncio che era diventato venditore di babbucce in un
bazar d’Oriente, pescatore di baccalà nei mari del Nord o stregone in una qualche tribù africana. Qualsiasi cosa. Fu Silvestre a porre la domanda che ci bruciava tutti dentro e che nessuno osava formulare. «Sentite» disse al marchese «Che ne avete fatto del vostro corpo? Sempre che sia lecito saperlo!». «È una lunga storia e ho paura di annoiarvi». «È una storia d’azione?» volle indagare Desiderio. «Un po’ di tutto». «Avanti, allora!».
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«Tutto è cominciato con la caduta dell’Ancien Régime in Francia. A quell’epoca ero un aristocratico, non già per vocazione, ma per eredità. Mi spiego! Il mio bisnonno, marchese; il nonno, marchese; mio padre, lo stesso. Era inevitabile: anch’io sono stato marchese. Tuttavia, a parte il lignaggio, che mi faceva piuttosto schifo, nulla in me faceva intuire un membro delle classi privilegiate. Non mi attiravano né le partite di caccia né i balli a corte né gli intrighi di Versailles. In cambio, forse per la mia costituzione malaticcia o chissà se per retaggio di qualche antenato dedito alla necrofilia, avevo una passione folle per le lingue morte. Il latino, il sanscrito, il greco erano le mie delizie. Comunque, non potevo dedicare tutto il mio tempo allo studio. Mi scocciavano con tutta una serie di atti protocollari, cerimonie, baciamano... al punto che quando è cominciata la rivoluzione me ne sono rallegrato. A filo di logica, pensavo che se ghigliottinassero la causa, cioè l’aristocrazia, sarebbe scomparso l’effetto. Sarebbero finiti i baciamano, gli intrighi, le partite di caccia, ed io avrei potuto dedicarmi pienamente alla mia vocazione. Tuttavia, nel mio ragionamento avevo trascurato un dettaglio che aveva la sua importanza, cioè che per nascita facevo parte della causa ghigliottinabile. Me ne resi conto, 33
Storia di giorni dispari
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«Che è? Che è?» chiedeva Silvestre. «Sembra una testa» chiarì il lustrascarpe. Feci le presentazioni. Ogni volta il marchese si scusava educatamente: «Mi scusi se non le do la mano. Non è per superbia». «Senza complimenti» disse Desiderio. «Fate conto di stare in casa vostra. Sentite, piuttosto, per caso non vi trovavate alla battaglia di Sedan? Mi sembra di avervi visto». La risposta negativa del marchese sembrò deludere il cantiniere. Ci sedemmo tutti. Il marchese stava su un angolo del tavolo, accanto a Silvestre. Come sempre, Desiderio ci fece credito di una bottiglia di rum, e mentre questa girava, si prese a chiacchierare. Il drammaturgo dichiarò che non gli veniva il terzo atto dell’opera alla quale stava lavorando. «Fatela solo di due» suggerì il marchese «Nessuno se ne accorgerà. E se qualcuno se ne accorge, farà finta di niente per paura di cadere nel ridicolo». Il marchese era riuscito proprio simpatico a La Perla di Cuba, e la conversazione scorreva fluida. A momenti, quando si faceva silenzio, si poteva sentire il lamento del lustrascarpe. «Chi sono io? Qual è il mio posto in questo mondo?». «Voi e i vostri problemi! Se foste stato a Sedan...!». Jim era un uomo in crisi permanente, ossessionato da dubbi capitali. Il suo problema di fondo era trovare se stesso e perciò cambiava molto spesso mestiere. Era stato clarinetto in un gruppo jazz di Nuova Orleans, guerrigliero in Cile, pirotecnico a Hong-Kong, e guida di carovane nell’Asia Centrale. Ora faceva il lustrascarpe, ma tutti temevamo che non sarebbe durato a lungo. Un giorno o l’altro avrebbe preso il volo. Dopo qualche tempo avremmo ricevuto una delle sue straordinarie lettere, con l’annuncio che era diventato venditore di babbucce in un
bazar d’Oriente, pescatore di baccalà nei mari del Nord o stregone in una qualche tribù africana. Qualsiasi cosa. Fu Silvestre a porre la domanda che ci bruciava tutti dentro e che nessuno osava formulare. «Sentite» disse al marchese «Che ne avete fatto del vostro corpo? Sempre che sia lecito saperlo!». «È una lunga storia e ho paura di annoiarvi». «È una storia d’azione?» volle indagare Desiderio. «Un po’ di tutto». «Avanti, allora!».
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«Tutto è cominciato con la caduta dell’Ancien Régime in Francia. A quell’epoca ero un aristocratico, non già per vocazione, ma per eredità. Mi spiego! Il mio bisnonno, marchese; il nonno, marchese; mio padre, lo stesso. Era inevitabile: anch’io sono stato marchese. Tuttavia, a parte il lignaggio, che mi faceva piuttosto schifo, nulla in me faceva intuire un membro delle classi privilegiate. Non mi attiravano né le partite di caccia né i balli a corte né gli intrighi di Versailles. In cambio, forse per la mia costituzione malaticcia o chissà se per retaggio di qualche antenato dedito alla necrofilia, avevo una passione folle per le lingue morte. Il latino, il sanscrito, il greco erano le mie delizie. Comunque, non potevo dedicare tutto il mio tempo allo studio. Mi scocciavano con tutta una serie di atti protocollari, cerimonie, baciamano... al punto che quando è cominciata la rivoluzione me ne sono rallegrato. A filo di logica, pensavo che se ghigliottinassero la causa, cioè l’aristocrazia, sarebbe scomparso l’effetto. Sarebbero finiti i baciamano, gli intrighi, le partite di caccia, ed io avrei potuto dedicarmi pienamente alla mia vocazione. Tuttavia, nel mio ragionamento avevo trascurato un dettaglio che aveva la sua importanza, cioè che per nascita facevo parte della causa ghigliottinabile. Me ne resi conto, 33
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della mia distrazione, il giorno in cui ho visto le turbe rivoluzionarie alla porta del mio palazzo. Non persi tempo a chiedere che volevano, e sono fuggito dalla porta del giardino. Travestito da sans-culottes, sono andato a nascondermi in un villaggio che si chiamava Chalons-surLoire. Quella sì che era pace! Chiuso in una cameretta, passavo le ore lavorando. Niente mi disturbava. Sentivo soltanto di quando in quando il campanaccio di qualche mucca ma, visto che stavo traducendo le Bucoliche di Virgilio, quel suono mi serviva più che altro da stimolo. A Chalons-sur-Loire, la rivoluzione non si notava. Un giorno, tuttavia, è arrivato da Parigi l’ordine di decapitare i giacobini del villaggio. A Parigi badavano molto ai dettagli, perché là si faceva la rivoluzione che poi sarebbe uscita nei libri di storia. Avevano una carretta per portare i condannati al patibolo, una ghigliottina nuova di zecca, un carnefice pagato dallo Stato – come tutti quelli della sua professione – donne che facevano la calza durante le esecuzioni, e tutto funzionava alla perfezione. A Chalons-sur-Loire, invece, bisognava improvvisare. La prima difficoltà era costituita dalla carretta. Il Municipio non ne aveva e se ne dovette usare una di un contadino. Della ghigliottina meglio non parlarne. Sembrava una trinciatrice, e l’impressione era resa ancora più evidente dal fatto che era il macellaio del villaggio a fare da carnefice. Alla fine, tra mille difficoltà, i preparativi furono completati. Il giorno stabilito, tutta Chalons-sur-Loire si era concentrata in piazza per assistere allo spettacolo. Il sindaco pronunciò un discorsetto nel quale accusava i giacobini condannati – il pasticcere e un muratore – di diverse cose non troppo convincenti. Poi fecero salire i rei sulla carretta. In verità, la carretta non era necessaria, perché dal Municipio al patibolo c’erano sì e no trenta passi,
ma si doveva fare come nella capitale. In quel momento arrivò un messaggero a cavallo. A Parigi avevano fatto un colpo di stato e comandavano i giacobini. Adesso, l’ordine era di decapitare i girondini che avevano governato fino a quel momento. Ci fu un po’ di confusione. Alla fine, fecero scendere dalla carretta i giacobini e ci fecero salire il sindaco. Fu allora il pasticcere a pronunciare il discorso, muovendo al sindaco le stesse accuse che questo aveva mosso a loro. Arriva un altro messo. A Parigi si erano di nuovo imposti i girondini e si tornava alla situazione di prima. Il sindaco era l’accusatore e i giacobini le vittime. Terzo messo. Tutto al contrario. A mezzogiorno le cose non si erano ancora chiarite e la gente cominciava ad averne le tasche piene dal vedere salire e scendere dalla carretta il sindaco e i giacobini. “Un altro!” gridava il pubblico ogni volta che arrivava un messo. “E siamo a dodici!”. Il proprietario della carretta la reclamava perché doveva andare all’orto. La gente sbadigliava. Dal patibolo, il macellaio faceva quel che poteva per distrarre gli spettatori. Ora aggiustava un pezzo della ghigliottina, ora tirava su la lama, la lasciava cadere, l’affilava. Alla fine, anche lui si annoiò e si sdraiò a fare la siesta sotto la piattaforma della macchina. Io, per non destare sospetti, assistevo allo spettacolo. Verso le tre del pomeriggio, l’ufficiale di giustizia del villaggio venne a dirmi che il sindaco mi aspettava. Lo trovai in una sala del Municipio con i due giacobini. Sembravano tutti e tre stremati. Forse dal tanto salire e scendere dalla carretta. “Avete visto come stanno le cose” mi disse il sindaco, preoccupato. “Non ci si capisce più niente e, se non met-
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della mia distrazione, il giorno in cui ho visto le turbe rivoluzionarie alla porta del mio palazzo. Non persi tempo a chiedere che volevano, e sono fuggito dalla porta del giardino. Travestito da sans-culottes, sono andato a nascondermi in un villaggio che si chiamava Chalons-surLoire. Quella sì che era pace! Chiuso in una cameretta, passavo le ore lavorando. Niente mi disturbava. Sentivo soltanto di quando in quando il campanaccio di qualche mucca ma, visto che stavo traducendo le Bucoliche di Virgilio, quel suono mi serviva più che altro da stimolo. A Chalons-sur-Loire, la rivoluzione non si notava. Un giorno, tuttavia, è arrivato da Parigi l’ordine di decapitare i giacobini del villaggio. A Parigi badavano molto ai dettagli, perché là si faceva la rivoluzione che poi sarebbe uscita nei libri di storia. Avevano una carretta per portare i condannati al patibolo, una ghigliottina nuova di zecca, un carnefice pagato dallo Stato – come tutti quelli della sua professione – donne che facevano la calza durante le esecuzioni, e tutto funzionava alla perfezione. A Chalons-sur-Loire, invece, bisognava improvvisare. La prima difficoltà era costituita dalla carretta. Il Municipio non ne aveva e se ne dovette usare una di un contadino. Della ghigliottina meglio non parlarne. Sembrava una trinciatrice, e l’impressione era resa ancora più evidente dal fatto che era il macellaio del villaggio a fare da carnefice. Alla fine, tra mille difficoltà, i preparativi furono completati. Il giorno stabilito, tutta Chalons-sur-Loire si era concentrata in piazza per assistere allo spettacolo. Il sindaco pronunciò un discorsetto nel quale accusava i giacobini condannati – il pasticcere e un muratore – di diverse cose non troppo convincenti. Poi fecero salire i rei sulla carretta. In verità, la carretta non era necessaria, perché dal Municipio al patibolo c’erano sì e no trenta passi,
ma si doveva fare come nella capitale. In quel momento arrivò un messaggero a cavallo. A Parigi avevano fatto un colpo di stato e comandavano i giacobini. Adesso, l’ordine era di decapitare i girondini che avevano governato fino a quel momento. Ci fu un po’ di confusione. Alla fine, fecero scendere dalla carretta i giacobini e ci fecero salire il sindaco. Fu allora il pasticcere a pronunciare il discorso, muovendo al sindaco le stesse accuse che questo aveva mosso a loro. Arriva un altro messo. A Parigi si erano di nuovo imposti i girondini e si tornava alla situazione di prima. Il sindaco era l’accusatore e i giacobini le vittime. Terzo messo. Tutto al contrario. A mezzogiorno le cose non si erano ancora chiarite e la gente cominciava ad averne le tasche piene dal vedere salire e scendere dalla carretta il sindaco e i giacobini. “Un altro!” gridava il pubblico ogni volta che arrivava un messo. “E siamo a dodici!”. Il proprietario della carretta la reclamava perché doveva andare all’orto. La gente sbadigliava. Dal patibolo, il macellaio faceva quel che poteva per distrarre gli spettatori. Ora aggiustava un pezzo della ghigliottina, ora tirava su la lama, la lasciava cadere, l’affilava. Alla fine, anche lui si annoiò e si sdraiò a fare la siesta sotto la piattaforma della macchina. Io, per non destare sospetti, assistevo allo spettacolo. Verso le tre del pomeriggio, l’ufficiale di giustizia del villaggio venne a dirmi che il sindaco mi aspettava. Lo trovai in una sala del Municipio con i due giacobini. Sembravano tutti e tre stremati. Forse dal tanto salire e scendere dalla carretta. “Avete visto come stanno le cose” mi disse il sindaco, preoccupato. “Non ci si capisce più niente e, se non met-
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tiamo subito tutto in chiaro, ci sarà una rivoluzione. La gente è sovreccitata. Ci abbiamo pensato su, e l’unica via d’uscita che abbiamo escogitato è di decapitare un neutrale. Così nessuno potrà lamentarsi. Né i girondini né i giacobini. Voi…” e qui ebbe un attimo di esitazione “voi, a quanto ci risulta, siete la persona adatta. Neutrale, e forestiero per giunta. Né giacobino, né girondino, né nient’altro…”. “Come!”dissi piccato “Proprio nient’altro!”. “Scusatemi. Sono molto nervoso. Volevo dire che siete il decapitato ideale. Ed io, in nome di Chalons-sur-Loire, vi prego di sacrificarvi”. Mi emozionai. Sacrificarmi per un paese! Era bello. Ma non crediate che in me ci fosse solo altruismo. Avevo nelle mie mani la salvezza di Chalons-sur-Loire, ma anche la possibilità di liberarmi del mio corpo. Un colpo di lama, e via. Da una parte il corpo con le sue esigenze, i suoi raffreddori, i suoi mal di stomaco. Dall’altra la mia testa, cioè io, assolutamente libero di dedicarmi alla riflessione e allo studio delle lingue morte. “D’accordo!” dissi “Pongo solo una condizione”. “Tutto quel che volete”, rispose in tutta fretta il sindaco, forse nel timore che mi tirassi indietro. “Non seppellite la mia testa”. “E che volete che ne facciamo, noi?”. “Mettetela in una scatola, mandatela a Parigi e che la lascino dentro un portone qualsiasi”. “Affare fatto. E grazie a nome di Chalons-sur-Loire. Devo però chiedervi un altro favore...”. “Quale?”. “Di che posso accusarvi? Non mi viene niente in mente”. “Accusatemi di essere un aristocratico. In questa fase della rivoluzione potrà risultare un po’ démodé, ma qui, in
provincia, farà il suo effetto”. Tutto sommato, l’operazione risultò un po’ squallida. Dopo le parole del sindaco, mi fecero salire sulla carretta. Effettuammo tre giri della piazza, per creare l’atmosfera. Ma non ci fu niente da fare. La gente si era stancata e quel che volevano era di tornarsene, al più presto, ciascuno a casa propria. Dall’alto del patibolo si vedeva tutta Chalons. Un sole pallido dorava le brume che salivano dalla Loira. L’unica cosa che ricordo, subito dopo, è un gruppetto di donne che faceva la calza davanti al tavolato e il suono del tamburo dell’ufficiale di giustizia. Come lo suonava male quel disgraziato!».
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Quando il marchese diede per conclusa la sua storia, nella Perla di Cuba si fece un silenzio interrotto poco dopo da Desiderio. «E come siete arrivato a Barcellona?». «Dopo una serie di avventure, che non mi pare il caso di raccontare adesso». «Vi siete ritrovato da solo?» volle sapere Jim. «Ve lo dirò un’altra volta». «Siete un tipo in gamba» disse Desiderio al marchese, mentre ce ne andavamo a dormire. «La sola cosa che mi secca è che non eravate alla battaglia di Sedan».
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tiamo subito tutto in chiaro, ci sarà una rivoluzione. La gente è sovreccitata. Ci abbiamo pensato su, e l’unica via d’uscita che abbiamo escogitato è di decapitare un neutrale. Così nessuno potrà lamentarsi. Né i girondini né i giacobini. Voi…” e qui ebbe un attimo di esitazione “voi, a quanto ci risulta, siete la persona adatta. Neutrale, e forestiero per giunta. Né giacobino, né girondino, né nient’altro…”. “Come!”dissi piccato “Proprio nient’altro!”. “Scusatemi. Sono molto nervoso. Volevo dire che siete il decapitato ideale. Ed io, in nome di Chalons-sur-Loire, vi prego di sacrificarvi”. Mi emozionai. Sacrificarmi per un paese! Era bello. Ma non crediate che in me ci fosse solo altruismo. Avevo nelle mie mani la salvezza di Chalons-sur-Loire, ma anche la possibilità di liberarmi del mio corpo. Un colpo di lama, e via. Da una parte il corpo con le sue esigenze, i suoi raffreddori, i suoi mal di stomaco. Dall’altra la mia testa, cioè io, assolutamente libero di dedicarmi alla riflessione e allo studio delle lingue morte. “D’accordo!” dissi “Pongo solo una condizione”. “Tutto quel che volete”, rispose in tutta fretta il sindaco, forse nel timore che mi tirassi indietro. “Non seppellite la mia testa”. “E che volete che ne facciamo, noi?”. “Mettetela in una scatola, mandatela a Parigi e che la lascino dentro un portone qualsiasi”. “Affare fatto. E grazie a nome di Chalons-sur-Loire. Devo però chiedervi un altro favore...”. “Quale?”. “Di che posso accusarvi? Non mi viene niente in mente”. “Accusatemi di essere un aristocratico. In questa fase della rivoluzione potrà risultare un po’ démodé, ma qui, in
provincia, farà il suo effetto”. Tutto sommato, l’operazione risultò un po’ squallida. Dopo le parole del sindaco, mi fecero salire sulla carretta. Effettuammo tre giri della piazza, per creare l’atmosfera. Ma non ci fu niente da fare. La gente si era stancata e quel che volevano era di tornarsene, al più presto, ciascuno a casa propria. Dall’alto del patibolo si vedeva tutta Chalons. Un sole pallido dorava le brume che salivano dalla Loira. L’unica cosa che ricordo, subito dopo, è un gruppetto di donne che faceva la calza davanti al tavolato e il suono del tamburo dell’ufficiale di giustizia. Come lo suonava male quel disgraziato!».
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Quando il marchese diede per conclusa la sua storia, nella Perla di Cuba si fece un silenzio interrotto poco dopo da Desiderio. «E come siete arrivato a Barcellona?». «Dopo una serie di avventure, che non mi pare il caso di raccontare adesso». «Vi siete ritrovato da solo?» volle sapere Jim. «Ve lo dirò un’altra volta». «Siete un tipo in gamba» disse Desiderio al marchese, mentre ce ne andavamo a dormire. «La sola cosa che mi secca è che non eravate alla battaglia di Sedan».
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Jesús Moncada
Amore Fatale
Amore Fatale
Amore Fatale è la prima raccolta italiana dello scrittore catalano.
L’uomo, la donna che uscivano, erano ancora carcasse colme di sogni sognati a metà, di ombre verdastre, di oscurità umide, di sudori e di radici spezzate, che guardavano il giorno istupiditi.
Jesús Moncada
Jesús Moncada, (1941-2005) è considerato universalmente uno scrittore di rara eleganza e una delle firme più prestigiose della letteratura catalana. La sua Opera è stata caratterizzata anche da riferimenti al mondo del fumetto e del cinema. Ha pubblicato - con le Edicions 62 di Barcellona - tre raccolte di racconti, Històries de la mà esquerra i altres narracions (Storie della mano sinistra e altri racconti), El Cafè de la Granota (Il Caffè della Ranocchia), Calaveres atònites (Teschi attoniti), e tre romanzi Camí de Sirga (Cammino d’alzaia), La galeria de les estàtues (La galleria delle statue), Estremida memòria (Ricordi frementi).
Foto © Neil Overy/Getty Images
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Le opere di Jesus Moncada non sono mai state tradotte in Italia. Amore Fatale è un primo passo per colmare questa inspiegabile lacuna
Un incontro di calcio, un’inattesa vendita di sardine, una corsa precipitosa, l’arrivo di una notizia apparentemente banale. Sono movimenti quotidiani dai quali l’Autore prende l’avvio per una descrizione minuziosa di fatti apparentemente insignificanti – in toni a volte umoristici, altre volte più decisamente sarcastici e con una punta di vetriolo – che conducono a delle conclusioni decisamente assurde e tuttavia presentate come la normale evoluzione di un accadimento di ordinaria amministrazione. C’è la corsa sfrenata di Elia, tesa a raggiungere la corriera in partenza per risparmiare la spesa di un medicinale ormai inutile; la sosta dinanzi alla vetrina di un antiquario con la sconcertante scoperta di una testa parlante; le immagini sacre di una chiesa che finiscono con il cantare l’internazionale per evitare di essere distrutte dalla folla in rivolta; il vecchio tranviere che, il giorno prima dell’ineluttabile pensione, s’impadronisce del suo tram cercando una via di fuga che non può esistere; l’inondazione del campo di calcio che permette ai giocatori locali di stravincere una partita contro avversari più forti ma non abituati a giocare con dieci centimetri d’acqua. Sono eroismi piccoli ma volontari, che ci fanno amare fatalmente la nostra esistenza.