Il custode delle anime

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Il custode delle anime © Maurizio Bonfiglio, 2012 TUTTI I DIRITTI RISERVATI

© 2012 zero91 s.r.l., Milano Prima edizione: maggio 2012 Copertina: ©Eduardo Manzana/Arcangel Images ISBN 978–88–95381–49– 7 La riproduzione di parti di questo testo, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma senza autorizzazione scritta è severamente vietata, fatta eccezione per brevi citazioni in articoli o saggi.

Stampato in Italia nel mese di maggio 2012 presso GECA S.p.A. – Cesano Boscone (MI) www.gecaonline.it

Questo libro è stampato su carta FSC amica delle foreste. Il logo FSC identifica prodotti che contengono carta proveniente da foreste gestite secondo i rigorosi standard ambientali, economici e sociali definiti dal Forest Stewardship Council.

La casa editrice è impegnata contro l’editoria a pagamento. La realizzazione di questo libro non ha richiesto nessun tipo di contributo da parte dell’autore, né l’acquisto di copie.

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Io ho ciò che ho donato. G.A. Rol


Questo libro è un’opera di fantasia. Fatti, luoghi, nomi e personaggi sono frutto dell’immaginazione dell’autore, o sono usati in maniera fittizia. La figura di Gustavo Rol (Torino, 1903-1994) è presente a scopo narrativo.


Prologo Ecce Crucem Domini Fugite partes adversae Vicit Leo de tribu Juda Radix David Alleluia

L’uomo, seminudo e tremante, giaceva a terra nell’oscurità più profonda, paralizzato dal panico. Senza forze, non urlava e nemmeno provava più a dimenarsi, cercando solo di controllare l’affannoso respiro e il battito incontrollato del cuore. Legato a una colonna con una pesante corda nautica ben stretta ai polsi e la camicia ancora indosso, percepiva perfettamente l’odore del posto, il gusto amaro della saliva mista a sudore e lacrime che deglutiva a fatica. Dove sono? Cosa mi è successo? Perché mi ha fatto questo? Aprì ancora una volta le palpebre, sforzandosi di focalizzare meglio qualche ombra di fronte a sé, ma percepì solo quella che doveva essere per lui una pila grezza di mattoni, cementati a vista, senza intonaco. Senza occhiali poi, gli era impossibile distinguere qualsiasi cosa. Qualcuno lo aveva legato lì, come un cane, ed era andato via. Un conato di vomito lo fece sobbalzare in avanti, tossendo e sputando via anche l’anima. Disperato, comprese che forse sarebbe stato meglio a quel punto l’esser già morti. Il dolore delle corde strette nella carne era nulla in confronto alla paura provata in quei momenti, ma per un istante ebbe l’impressione di 1


percepire un’immagine rassicurante, accompagnata da una voce. Dio mio, non mi abbandonare. Leva da me questo calice amaro, mio Dio, ti prego, aiutami. Chi stava parlando nella sua testa? Per un attimo pensò di svenire nuovamente, perché il dolore misto alla sensazione di soffocamento gli stava procurando un nuovo attacco di panico. Istintivamente, cercò di cacciarsi le dita tra gola e colletto della camicia, avvicinandosi il più possibile alla colonna, ansimando a fatica. «Aiuto! Aiuto! Qualcuno mi sente?», urlò disperato, buttando fuori tutto il fiato dei polmoni. «Vi prego, qualcuno mi può aiutare? Vi prego…», rantolò accasciandosi nuovamente a terra. Perché mi fai questo? Cosa ti ho fatto di male? Ti prego, ascoltami. Nella sua testa, la sua anima continuava a urlare domande senza risposte, pompando sangue impazzito nei timpani, ovattati ormai quasi alla sordità. Iniziò lentamente a declamare il Padre Nostro, cantilenando le parole, sottovoce. A modo suo. Padre mio, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome. Era l’unica cosa che in quel momento lo sollevava da ogni paura. Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà. Come in cielo, così in terra. «Il tuo Dio non ti salverà più.» Qualcuno aveva parlato. L’uomo alle sue spalle, giunto dal nulla nell’oscurità più totale, lo prese forte per i capelli, strattonandogli il capo all’indietro, mentre l’altra mano gli serrava la gola. «L’unica preghiera che ti rimane da recitare è l’estrema unzione. Hai capito ora? Fallo, ma fallo in silenzio. Non sopporto queste cose inutili. Poi, sarai tutto per me», disse alitandogli nell’orecchio tutto l’odio di questo mondo, scaraventandolo con forza a terra. La mia ora è giunta. Fai di me quello che vuoi, perdona i miei peccati e conducimi alla vita eterna. Amen. 2


Il primo colpo arrivò all’improvviso, fortissimo. L’uomo a terra rantolò di dolore, colpito alla schiena da qualcosa di assolutamente indefinito. No, pietà, ti prego, pietà. Il secco sibilo tagliente marcò l’aria per una seconda volta, e questa volta il colpo arrivò dritto all’orecchio destro e alla nuca. Colpo impreciso, si doveva fare meglio. Era troppo buio. «Ora facciamo le cose per bene», disse l’uomo violento, estraendo dalla tasca un paio di stick glow fluorescenti, capaci di illuminare perfettamente la scena. Dopo averli azionati, piegandoli in due, li gettò a terra. Ora ci vedeva molto meglio. Il flagrum romano, costruito con le sue mani esperte, era pronto ad abbattersi con tutta la rabbia possibile. Strappò la camicia dell’uomo ormai d’ingombro, liberandolo anche da una madida maglietta bianca con un coltello da caccia, che tagliò di netto la stoffa, senza problemi. La schiena ora era perfettamente in vista. Esaltato dal momento, fece due passi indietro per prendere meglio la mira, posizionandosi a gambe aperte. E iniziò il lavoro. «Ora si fa sul serio! Vediamo quanto resisti. Avanti!», urlò pieno di sé, caricando il colpo a piena potenza. Il dolore inferto in quel momento non era paragonabile a null’altro mai provato fino allora. L’urlo straziante esaltò il carnefice, esasperato nei gesti compiuti. Tutta la potenza del creato stava passando finalmente attraverso le sue braccia, per abbattersi crudelmente senza pietà. Dopo le prime sferzate, l’uomo in ginocchio si accasciò definitivamente a terra, mentre i colpi continuavano tremendi a trafiggergli la schiena. Le sferette metalliche legate al flagello con due strisce di cuoio stavano lavorando alla perfezione. Quello che l’uomo ora vedeva sotto i suoi occhi, era ciò che per molto tempo aveva solo sognato di mettere in atto. «È perfetto. Sì… è perfetto!», esclamò compiaciuto, controllando i lividi sanguinanti, misti a carne e frammenti di ossa dilaniati. A 3


ogni colpo, le urla sembravano diminuire d’intensità, anche se l’uomo violento non pareva avere alcuna intenzione di smettere. Aveva calcolato circa ottanta sferzate, e non era nemmeno a metà. Finché accadde l’imprevisto. L’uomo a terra smise di urlare. Dopo un rantolo di dolore estremo, tutto si fermò. Anche il suo cuore. Con una smorfia di disprezzo, il violento smosse il corpo a pedate, voltandolo verso di sé. Il gesto rivelò il viso, sfigurato nella sofferenza. Bocca e occhi spalancati, mani contratte sul petto. «Sia fatta la mia volontà», disse l’uomo, pulendosi la bocca con il dorso della mano. Poi scaraventò a terra il flagello, reo di aver agito troppo in fretta.

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Torino, 1988

Richard Setti scese dal taxi, dopo aver lasciato quasi distrattamente il resto nella mano del giovane taxista. A Torino da un paio giorni, la ricordava in maniera completamente differente. Le strade erano più grandi, il traffico meno intenso. Certo, non era New York, e nella mente i ricordi cambiano notevolmente d’aspetto. Setti, criminologo e antropologo, nonché collaboratore dell’FBI, non era a Torino per caso. Si fermò un istante lungo il corso a osservare la vita, il traffico, la gente. Tutto gli era familiare, tranne il fatto di sentirsi esattamente come un pesce fuor d’acqua. Da molti anni all’estero, continuava a sentirsi e a pensare in italiano, e in italiano erano anche i suoi sogni, che vantava essere spesso a colori. Chissà cosa mi aspetta, pensò, concentrandosi sulle lancette dell’orologio montato su un lampione pubblicitario. Per un attimo, il suo tempo si fermò, poi un clacson tonante lo riportò velocemente alla realtà. Un notaio lo stava attendendo e lui, forse, era già in ritardo. Attese il verde del semaforo e accostandosi a un gruppo di studenti in gita turistica, attraversò la strada, infilandosi con perfetta andatura nell’androne del numero 58, via Cernaia. Notaio 5


Calvi, riportava l’elegante dicitura sul display ottonato del citofono di casa. Suonò il campanello. «Ho un appuntamento con il notaio… Mi chiamo Richard Setti.» «Secondo piano, prima porta a sinistra», intonò una voce femminile, cantilenante. Fatte le scale velocemente, trovò la porta dello studio già aperta. «È permesso?» «Venga, le faccio strada.» Il notaio aveva un ché di familiare. Il viso non gli era nuovo. Alto, elegante, leggermente stempiato, portava il pizzetto con l’eleganza di un moschettiere del Settecento. Nel posare la pesante borsa in pelle lungo il fianco di una pregiata poltrona primi Novecento, Richard si soffermò a osservare lo studio, ben arredato, con quadri d’epoca e una buona biblioteca personale, colma di tomi notarili e voluminosi libri antichi. «Perdoni il ritardo, ma devo abituarmi ai ritmi italiani.» «Nessun problema dottor Setti, ho il pomeriggio libero. Quando è arrivato?» «L’altro ieri. Volo diretto New York-Parigi. Parigi-Torino. Una faticaccia. Comunque ho viaggiato bene. Adoro l’Italia, e questo imprevisto, se di imprevisto si tratta, lo ritengo un regalo che volevo farmi da molto tempo. Anche se americano di adozione, il mio cuore è rimasto qui. Ora però sono impaziente… Dopo aver ricevuto la vostra comunicazione, non riesco a pensare ad altro. Di che si tratta esattamente?» Richard aveva ricevuto la notifica notarile un mese prima. Impegnato in una recente inchiesta dell’FBI, aveva deciso di non perdere tempo e, in un momento di stasi delle indagini, era partito per Torino. Era stato messo al corrente della morte di uno zio e di una possibile eredità. «Non ha caldo vestito così?», chiese Calvi, con leggera impertinenza. «Qui in primavera si respira già aria d’estate a volte… le posso offrire qualche cosa da bere?» 6


«No, grazie, sto bene così.» «Dunque… Iniziamo. Come avrà saputo dalla nostra corrispondenza, suo zio, fratello di suo padre Guglielmo, Rodolfo Setti, si è spento il mese scorso, all’età di ottantanove anni. È morto in pace, ben assistito e non di un male incurabile. Era vecchio, tutto qui. Ho ricevuto direttamente da suo zio, come da suo desiderio, l’incarico di curare la parte testamentaria, e di notificare a lei, quale unico erede, il quanto. Qui c’è la lettera con le ultime volontà. Eccola.» Con fare delicato, la mostrò a Richard, impugnando la busta tra pollice e indice della mano destra. Richard si limitò a un breve cenno del capo. «Suo zio ha trascorso gli ultimi due anni della sua vita in un ricovero per anziani. Vendette l’appartamento e l’arredo per arrotondare con i proventi la pensione, ma trattenne questo unico oggetto, destinato a lei», rispose Calvi, notando sul volto di Richard una leggera smorfia di disincanto. «Di che si tratta?», chiese Richard, leggermente imbarazzato. «È un mobile. Per la precisione uno scrittoio, nemmeno tanto pregiato. Il testamento parla chiaro. Ora leggo.» Il notaio, inforcando gli occhiali da lettura, tolse dalla busta intestata a grandi caratteri un foglio scritto a mano, iniziando a leggere ad alta voce. È mio desiderio lasciare in eredità al mio unico nipote Riccardo Setti, americanizzato in Richard, l’antico scrittoio ereditato già dal papà Guglielmo. Tale oggetto si trova ora custodito in un deposito mobiliare in V. San Donato a Torino, al n. 229. Anche l’intero contenuto, avvenuta la mia morte, sarà di proprietà del giovane Riccardo. Desidero inoltre che venga restaurato a dovere, prima del suo trasporto in America. Queste sono le mie ultime volontà. Rodolfo Setti. 7


PS Richard non dovrà sapere nulla del contenuto della presente fin tanto che sarà in America. Prego il notaio di convocarlo in Italia, mantenendo il massimo riserbo inerente l’eredità, a seguito mia morte. «Segue la firma. Mi spiace per lei dottor Setti, ma non ci sono denari in vista. Sinceramente non penso che da questo oggetto lei possa ricavare un granché. Perdoni anche il silenzio mantenuto durante i primi contatti. Ora avrà compreso il motivo», disse Calvi, giustificando la riservatezza nel contattare Richard. Richard alzò per un istante entrambe le mani, in gesto di resa. Osservò il notaio che, con calma, togliendosi gli occhiali dal volto, posava la lettera sulla scrivania. «Domani stesso mi recherò al deposito per prendere visione dello scrittoio. Non ho intenzione di venderlo. Il testamento è chiaro. Lui vuole che io lo faccia restaurare e poi lo porti in America. Seguirò le volontà dello zio. Se ha stabilito così, un motivo ci sarà… Non crede?» «Lei insegna antropologia?», chiese Calvi, cambiando direzione al discorso, con fare interessato, passando la lettera nelle mani di Richard. «No. Non più. Ora collaboro con l’FBI come criminologo ed esperto di killer seriali. Perché questa domanda?» «No, vede, mi scusi sa… ma vestito così mi pareva proprio il classico professore universitario americano. Giacca pesante in lana a spina di pesce, cravatta a tema color beige, pantaloni a coste.» In effetti Richard era addobbato da professore e decisamente fuori stagione con le prime calure primaverili che il tempo aveva deciso di regalare a Torino. «Non ho intenzione di trattenermi a lungo e, sinceramente, non pensavo alla situazione meteorologica italiana. In ogni caso, se avrò caldo, acquisterò qualche cosa di ade8


guato alla stagione», rispose con fare scostante e disinteressato. «Bene dottor Setti. È stato un piacere conoscerla. Tenga la copia della lettera e per il mio onorario non si preoccupi. Suo zio ha pensato a tutto, anche a questo.» Richard si alzò dalla poltrona e strinse la mano del notaio. Lo fissò attentamente, con fare pensoso. «Il suo viso non mi è nuovo. Ci siamo già incontrati da qualche parte?», chiese finalmente, rompendo l’attesa. «Lei era giovane. Non si può ricordare di me», rispose Calvi. «Non dimentico mai un volto.» «Conobbi suo zio negli anni Cinquanta. Era… diciamo… un amico di un comune amico. Siamo sempre rimasti in contatto. Mi capitò di incontrare lei con i suoi genitori. A proposito, come stanno?» «La mamma è deceduta l’anno scorso. Mio padre vive bene la sua vecchiaia. Non smette mai di lavorare. Come sa, si conobbero qui a Torino.» «Certo, ricordo la loro storia. Guglielmo s’innamorò della sua collega americana, Elisabeth Sanders… se non ricordo male, vero? Poi si trasferì in America, e cambiò nome in William. Giusto?» «Corretto. Sono parecchi anni che non torno in Italia, ma l’ultima volta era stata una vacanza studio e lavoro. Amo veramente questo paese», rispose alzandosi in piedi, con fare garbato. «Se si trattiene a lungo, non manchi di tornare a farmi visita. Ah… dimenticavo. Ecco il biglietto da visita di un buon restauratore. È il mio di fiducia. L’ho già avvisato. Vedrà, si troverà bene.» «Grazie ancora notaio, arrivederci», rispose Richard, ponendo il biglietto nel taschino della giacca.

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Richard uscì dallo studio pensando al da farsi. L’indomani sarebbe andato al deposito per prendere visione dello scrittoio, lo avrebbe fatto restaurare alla meglio per poi tornare in America. Tornato in strada, si guardò attorno, soffermandosi un attimo per fare mente locale. Passò la borsa in pelle nella mano sinistra, poi alzò il braccio destro per chiamare un taxi, come si usava fare a New York. «Al Royal Hotel», disse.

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La hall del Royal Hotel di Torino era praticamente vuota. Erano le diciotto e trenta, ora di solito destinata all’aperitivo, ma stranamente il bar era vuoto. Un gruppo di congressisti attendeva la chiusura dei lavori pomeridiani, ma erano ancora tutti impegnati nella sala congressi principale. Richard si accomodò al tavolo più vicino al bar, ordinando un caffè americano, che in Italia significa un cappuccino molto annacquato. Tolse dalla borsa la copia della lettera dello zio, e iniziò a studiarla con calma. La grafia era nitida, i caratteri grandi e ben delineati. Non sembrava una lettera scritta da un ottantenne. Ma l’idea di far analizzare la scrittura da un perito grafologo lo accompagnò per meno di un minuto. Non era necessario. Bevve il caffè a brevi sorsi, assaporandone il gusto, continuando nel frattempo a fissare la lettera, motivo del suo viaggio fino a qui. L’atmosfera serena dell’ambiente gli permise di rilassarsi per bene. Terminò di gustare il caffè con calma e leggera malinconia. Il cartello VIETATO FUMARE gli ricordò ben presto che non avrebbe terminato il classico rituale con il suo sigarillo pre11


ferito. Peccato, pensò, è un guaio. Si alzò di scatto, pagò il conto al barista di turno, e si apprestò a uscire, con in mano la scatola dei sigari già aperta. Passando di fronte alla bacheca, notò i giornali. Quelli di sempre. La Stampa, il Corriere, e altri quotidiani locali. Ne prese uno e uscì in strada. Le aperture dei titoli erano simili. Sfogliò velocemente le prime pagine e si soffermò sulla cronaca locale. Chissà che succede qui, pensò. Notò il primo articolo: Nessuna svolta nell’omicidio De Santis. Gli investigatori proseguono le indagini. L’ispettore Fabio Giuliano si dichiara scettico sulle prove. Fabio Giuliano… non mi dire che è proprio lui. NO!… Impossibile. Anche lui in polizia… non lo sapevo. Richard rimase sorpreso nell’apprendere che un suo amico d’infanzia fosse diventato ispettore di polizia. Non lo aveva saputo. Possibile fosse lui? L’articolo recitava: A un mese esatto dal ritrovamento del cadavere di padre Aurelio De Santis, le indagini sono a un punto fermo. Non c’è movente, non ci sono testimoni e l’efferatezza dell’assassinio non porta a nessuna conclusione. L’ispettore Giuliano si dice deluso dalle prove fornite dalla Scientifica e rinnova l’appello. Chiunque sia in grado di fornire qualche particolare, si faccia avanti. Chiami la questura al numero 113. Richard rilesse due volte l’articolo, ripiegò il giornale e rientrò in hotel. Ancora con il sigaro in bocca, venne rapidamente richiamato dalla receptionist. «Non si può fumare qui… mi scusi, ma lo deve spegnere.» «Scusi lei, ha ragione…», disse cercando con lo sguardo un posacenere. «Dove posso fare una telefonata?» «La cabina pubblica è in fondo a destra», rispose la donna. Spense il sigaro con fretta, e si diresse verso la cabina con il giornale sotto braccio e la borsa lungo il corpo. Tro12


vò un elenco telefonico locale e cercò il nome di Giuliano. Fabio Giuliano. Non c’era. Era possibile. Meglio evitare di far sapere dove si abita se si svolge un lavoro come il suo. Decise quindi di chiamare il numero pubblico fornito dalla questura. Compose il numero. «Questura di Torino. Buonasera. Questo è il centralino, cosa posso fare per lei?» «Mi chiamo Richard Setti, buonasera. Cerco l’ispettore Fabio Giuliano.» «Vuole fare una denuncia o ha delle informazioni per una caso in particolare?», chiese la voce. «No. A dire il vero sono appena arrivato dall’America, e avevo piacere di parlare con lui.» «Questo è il numero del centralino. L’ispettore sa del suo arrivo?» «Non credo, non lo vedo da anni ormai.» «Attenda, le passo l’interno», disse la voce mal celando un certo fastidio. Attese qualche secondo. «Pronto, chi parla?» «Fabio… sono Riccardo, ti ricordi di me?» «Mi scusi, l’ispettore è fuori questura in questo momento. Sono il suo vice… può dire a me.» «Mi chiamo Richard Setti ma l’ispettore mi ha sempre chiamato Riccardo. Sono a Torino da due giorni. Mi farebbe piacere vederlo. Se può, gli riferisca che l’ho cercato. Se desidera, io alloggio al Royal Hotel, e penso di trattenermi fino alla prossima settimana. Gli riferisca anche questo… la mummia. Ricorderà.» «Bene signor Setti. Ho preso nota. Gli lascerò un appunto. Buonasera.» «A lei, e grazie», chiuse Richard. Nulla di fatto. Avrebbe voluto sorprendere il suo vecchio amico d’infanzia con una telefonata. Come stai? Ti ricor13


di, vero? Come te la passi? Flashback di gioventÚ. Richard aveva trascorso molte estati qui in Italia dai nonni paterni e aveva conosciuto Giuliano in quegli anni. Si ricordava bene di lui, come ricordava particolari di Torino, di gite, di momenti felici di giochi e spensieratezza. Giuliano era il suo amico italiano. Abitava nello stesso stabile dei nonni, al piano terreno. Giocavano spesso a guardia e ladri. Giuliano, nemmeno a dirsi, faceva la guardia. Sorrise al pensiero. In polizia, pensò, lo vedo bene.

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La sveglia dell’hotel risuonò tramite il telefono della camera. Ore otto, annunciava. Richard Setti si svegliò riposato e finalmente fuori del jet-lag che lo aveva accompagnato fino alla sera prima. Si vestì velocemente, cercando tra gli abiti quali fossero i più leggeri. Aveva una giacca misto lana meno pesante della precedente. Intonò una camicia al colore marrone della giacca e scelse una cravatta meno istituzionale. In effetti, pensò, non faceva freddo. Guardò fuori dalla finestra e si accorse che un sole pallido si stava affacciando al nuovo giorno. Sarebbe stata una bella giornata. Scese le scale e, dopo aver consumato una buona colazione americana, chiese informazioni sulla via dove doveva andare. Con sorpresa, scoprì che poteva benissimo arrivarci a piedi, girando l’isolato. Il deposito era ancora chiuso. SI APRE ALLE ORE DIECI, recitava il cartello sulla serranda. Decise così di fare una passeggiata. Cercò di fare mente locale, camminando lentamente, orientandosi a fatica tra quegli ingorghi di traffico, clacson tonanti, vecchi tram stridenti e rotaie consumate. Finalmente il deposito aprì. Sentì da lontano il rumore 15


metallico delle serrande che si stavano alzando automaticamente. Un omino stava manovrando con le serrature all’esterno. Gli corse incontro. «Buongiorno. Ho una notifica testamentaria di un mio parente, Rodolfo Setti… dovrei ritirare un mobile custodito qui dentro», disse mostrando all’uomo la lettera testamentaria. «Venga, entri pure», disse l’omino entrando dalla porta a vetri principale. «Ora controlliamo… Ecco lo schedario… Setti … Setti Rodolfo… eccolo qui. Catalogato con numero 137/b in data 23 ottobre 1970. Se le termiti non se lo sono mangiato in questi anni, il suo scrittoio dovrebbe essere laggiù in fondo. Venga.» L’uomo accompagnò Richard in fondo al magazzino, tra la montagna di mobili impolverati e coperti con pesanti lenzuola bianche. Ci mise un attimo a individuarlo. «Eccolo lì. Il mobile sembra ben conservato, ma di certo suo zio non sapeva che farsene se ha deciso di lasciarlo qui tutto questo tempo. Il conto è pagato fino al 1990. Forse sapeva di morire prima. In ogni caso, gli dia un’occhiata. Se ha bisogno, mi trova laggiù.» «Grazie. Farò presto», disse Richard salutandolo con un gesto. Lo scrittoio era davvero in buono stato. Richard lo controllò per bene, annotando sul suo fidato Moleskine lo schizzo con le eventuali rifiniture che il restauratore avrebbe dovuto apportare. Non c’era granché da pensare. Ormai aveva visto di che si trattava. Ricoprì lo scrittoio e, facendosi largo tra la montagna di mobili ammassati, tornò dal custode. «Posso fare una telefonata?», chiese all’omino seduto alla scrivania metallica. «Certo. Ecco il telefono», disse l’uomo porgendogli l’apparecchio. 16


«Devo chiamare il restauratore. Verrà lui a prendersi l’oggetto?», chiese posando il taccuino sulla scrivania. «Di solito fanno così», rispose il curatore. «Chieda prima di fissare l’appuntamento. Altrimenti ci pensiamo noi con una ditta di traslochi.» «Bene… ora sentiamo», rispose componendo il numero riportato sul biglietto da visita. Salvatore Tommasi, Restauratore in Torino era la dicitura. «Buongiorno. Mi ha dato il suo numero il notaio Calvi. Avrei un mobile, uno scrittoio da far restaurare. Da quel che vedo non c’è molto lavoro. Venite voi a prenderlo?» «Buongiorno dottor Setti. Il notaio mi ha avvisato l’altro giorno. Sì, veniamo noi. È nel deposito di via San Donato?… Se mi dà mezz’ora di tempo, sarò lì con il furgoncino, così lo portiamo via subito. Non si preoccupi. Ci penso io.» «Benissimo, allora l’aspetto qui.» Richard ripose il biglietto da visita nella sua agenda. Se le cose fossero andate come si era prefissato, non sarebbe rimasto a Torino per più di una settimana. Tommasi arrivò puntuale, con il suo furgone anni Sessanta, parcheggiando in seconda fila di fronte al deposito. «Venga, le mostro l’articolo… raro», disse Richard quasi ridendo. Lo accompagnò di fronte allo scrittoio e, con un gesto quasi plateale, tolse il lenzuolo con entrambe le mani. «Mio zio ha voluto giocarmi uno scherzo anche dopo la sua morte. Ne sono convinto. Sono arrivato dall’America per un pezzo che vale più o meno cento dollari. Bello scherzetto. Grazie zio.» «In effetti», disse l’uomo guardando il pezzo, «questo scrittoio non è una rarità nel campo dell’arte. Non è nemmeno tanto mal messo. Se mi dà una settimana, lo rimetto a nuovo con una bella lucidata. Copro qualche buco e il gioco è fatto. Se lo porterà in America?», chiese Tommasi, 17


passando una mano sul fianco del mobile, come per accarezzarlo. «Lo zio ha giocato pesante. È scritto anche questo nel testamento, oltre al fatto che ha voluto espressamente ribadire che non solo tale pezzo d’arte rimane di mia proprietà, ma anche l’intero contenuto. Era pazzo. Lo scrittoio è vuoto!» Richard salutò e ringraziò anche il custode che si era prodigato nell’aiutare Tommasi a caricare il mobile su un furgoncino. Siamo a cavallo, pensò. Ancora una settimana e poi si torna al lavoro. Casa dolce casa. A casa però non lo attendeva nessuno. Richard si era separato cinque anni prima da sua moglie Annie. Annie Spencer, docente di Letteratura all’Università di Atlanta, non sopportava la vita frenetica e troppo pericolosa del marito. La sua collaborazione con l’FBI aveva compromesso il matrimonio e, nonostante si sentisse ancora in colpa, si rasserenava all’idea con la convinzione che fosse stato giusto così. Non avevano figli. Era nell’FBI da alcuni anni. Come semplice collaboratore prima. Come esperto criminologo ora. La passione per le indagini gliel’aveva trasmessa il nonno materno, John Sanders, ufficiale di polizia al distretto di Atlanta. Ammirava il suo lavoro. Ogni sera gli chiedeva delle indagini, voleva gli mostrasse il distintivo e la pistola. Ogni tanto si faceva accompagnare al distretto. Conosceva tutti laggiù. Era la mascotte dei poliziotti. Anni più tardi, si laureò in Antropologia, specializzandosi in Criminologia con ottimi risultati. Il suo nome era legato a ottime indagini che avevano fatto il giro degli States. Teneva conferenze in merito. Era un ottimo relatore. Si fermò ancora al deposito per fare quattro chiacchiere con il custode, e decise di tornare in hotel per il pranzo e nel pomeriggio chiamare un taxi per raggiungere il centro. Voleva camminare un po’. Sarebbe tornato al quartiere che 18


da bambino aveva frequentato durante le vacanze estive. I nonni paterni erano morti da tempo, e la casa alienata subito dopo. Avrebbe rivisto con piacere però lo stabile, le vie, e forse le persone che da bambino aveva conosciuto. Ricordò di non esser venuto per il funerale. Suo nonno Francesco morì d’infarto all’età di sessantotto anni. La nonna lo trovò riverso in poltrona al mattino presto. Non ci fu nulla da fare. Lei morì un anno dopo. Si conoscevano da sempre. Si erano amati. E senza di lui, aveva lasciato che la fine della vita li ricongiungesse.

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La sala da pranzo del Royal Hotel era di una rara eleganza. Lunghi drappi alle finestre, tavole imbandite a festa, un colore tenue alle pareti, che donavano dolcezza e tranquillità all’intero ambiente. Richard Setti stava comodamente consumando il suo pasto, quando fu avvicinato da un inserviente. «Dottor Setti, c’è una chiamata per lei dalla questura. Può prenderla dalla cabina della reception.» «Vado subito. La ringrazio.» Allungò il passo, pensando alla sorpresa che avrebbe voluto fare al suo amico Fabio. «Riccardo… allora sei davvero tu!!! Ho trovato il tuo messaggio e ho richiamato subito. Sei a Torino, vero? Quanto tempo…! Quando me l’hanno detto, non ci credevo. Ma che ci fai da queste parti?», chiese Giuliano sogghignando con tono ilare. «Diciamo che è per una questione ereditaria. Un caro zio ha lasciato una cosa per me. Ha espressamente chiesto che venissi a ritirarla di persona. Ed eccomi qui.» «Devi assolutamente venire a cena da me. Non accetto un rifiuto… capito vecchio mummificatore?» 20


La mummia. Da ragazzini, durante un’estate molto calda Richard e Fabio, dopo aver visitato con i parenti il famoso Museo Egizio torinese, avevano deciso di provare l’esperienza della mummificazione. Naturalmente su una cavia umana. Convinsero un loro amico, poco entusiasta nel farsi bendare completamente da capo a piedi, e completarono l’opera con una buona dose di colla vinilica, che trasformò l’ignaro ragazzino in una mummia vivente che cominciò ad andare in privazione d’aria per il caldo e la disidratazione. Per fortuna, i genitori di Giuliano erano intervenuti in tempo e, di quello scherzo, ora rimaneva solo il ricordo di una grande paura. Terminato il pranzo, Richard si gustò il suo sigarillo direttamente in strada, in attesa del taxi che lo avrebbe accompagnato a San Salvario, quartiere che ricordava meno caotico e molto più torinese. Le vie erano le stesse ma non le persone. Torino era cambiata nel tempo, come tutte le grandi città in divenire. Facce, razze e costumi di ogni colore iniziavano a intravedersi timidamente dai quartieri più poveri e periferici a quelli centrali. La zona era costantemente vigilata dalle forze dell’ordine. Meno male, pensò, ma se c’è tanta polizia, vuol dire che le cose non vanno così bene. Rivide con piacere lo stabile, dove aveva soggiornato con i nonni. Ricordava particolari interessanti, ma mancavano all’appello alcuni punti fermi che pensava nostalgicamente di poter rivedere. La latteria della signora Castelli, la sala giochi all’angolo, il negozio di giocattoli che ormai era diventato un bar per universitari. Quanti ricordi che il tempo aveva scontornato.

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Fabio Giuliano viveva con la famiglia in un condominio di recente costruzione. La casa era ben arredata, in stile moderno ma non troppo signorile. Francesca, la moglie, era una bella donna. Alta, mediterranea, occhi scuri e un sorriso aperto con cui accolse subito Richard. Lei e Fabio si erano conosciuti a Napoli ed era stato amore a prima vista. Per un attimo Richard provò una certa invidia per quell’atmosfera ormai lontanissima da lui. Da buon italiano, conservava stretto il valore della famiglia, dei figli e di tutto quello che inevitabilmente era entrato in contrasto con il suo lavoro. Si era trovato nella scomoda posizione di fare una scelta. E aveva scelto il lavoro. «Spero che la cena sia di suo gradimento», disse Francesca. «Tommaso, Giulia… venite a conoscere Riccardo», interruppe il dialogo Giuliano, cercando con la voce i suoi due figli. Tommaso arrivò per primo, correndo. «Piacere…», disse il bambino che si era posizionato sugli attenti di fronte a Richard. «Lei è un poliziotto, vero? Mio papà conosce solo poliziotti.» 22


«Sì, più o meno sono un poliziotto, ma un poliziotto americano», disse Richard stringendo la piccola mano con atteggiamento solenne e voce impostata. «Non mi dire che anche tu da grande vuoi fare il poliziotto?», gli chiese Richard con tono serio. «Sì. Come te, in America, e con il cappello e la stella. M’insegni qualche cosa dopo?», chiese il bambino rapito dalla figura magica che si trovava di fronte a lui. «Okay sceriffo. Dopo ti mostro qualche cosa… ma prima si mangia. Va bene?» «Lei è Giulia… di’ ciao a Richard», interruppe Giuliano indicando la bambina. Richard le si accovacciò di fronte, accarezzandole i lunghi capelli castano chiaro. «Ciao Giulia. Io sono Riccardo… un amico di papà. Che bella bambina…» «Ciao Riccardo…», disse timidamente la graziosa Giulia imitando il gesto usato dal fratello maggiore un attimo prima. «Insegni anche a me a fare il poliziotto?», chiese. «Va bene, ma solo se ti comporti bene, Okay?» «Okay», disse la bimba, piegando leggermente il capo a sinistra e osservando Richard che nel frattempo era tornato in piedi. «Avete due figli meravigliosi.» Giuliano scrollò le spalle come per non dare troppo peso a quel complimento ma, in realtà, era davvero orgoglioso della sua famiglia. Dopo cena, Giuliano fece accomodare Richard in salotto e gli mostrò le foto dei nonni, e quelle dove comparivano i due amici da ragazzini. «Guarda Ric. Ti ricordi questa? Quel giorno in montagna. Che camminata.» «Ricordo che hai fatto un bel volo da un piccolo crepaccio… E io giù a rincorrerti per la scarpata. Bei tempi vero?» 23


«Bei tempi Ric. Ogni tanto ritorno in quei posti. Ti farebbe piacere rivederli?» chiese con tono allegro Giuliano. «Certo che sì… Ma immagino che tu ora non abbia molto tempo libero. O sbaglio?» «Allora… sai delle indagini?» «So quello che scrivono i giornali.» «Il prete è stato trovato nelle campagne qui vicino, completamente nudo. Era morto da almeno due giorni. Non ci sono testimoni, lo ha trovato un contadino. Era sepolto per metà sotto terra, vicino a un ruscelletto.» «Forse chi lo ha ammazzato lo ha portato in macchina fino a lì, per poi cercare di seppellirlo.» «Non ci sono segni di pneumatici. L’assassino però potrebbe averli cancellati.» «Come è stato ucciso?» «Questa è la parte più drammatica Ric… Quel poveretto è stato legato a un palo e flagellato fino alla morte. Sulla schiena. Il cuore non ha retto. È morto d’infarto. Aveva sessantasette anni», disse Giuliano visibilmente scosso. «Insomma…» continuò, «se vuoi uccidere qualcuno gli spari e basta. Non capisco tanta crudeltà. E non credo alla pista del satanismo che vorrebbero farmi seguire solo per mettere sotto torchio qualche depravato. Questo caso non mi dà pace. La frusta usata per la flagellazione era come quella che usavano i romani al tempo di Cristo. Ho contato i colpi. Più di un centinaio. La Scientifica e il medico legale non avevano mai visto nulla del genere. Pensa a quel povero prete… Che fine orrenda.» Richard provò a visualizzare la scena. L’uomo legato con le braccia in avanti intento nell’abbraccio mortale con un totem sacrificale. Nudo e senza difese. «Secondo te, è stato sedato prima del trattamento?» 24


«Perdonami Ric. Mi aiuta molto parlarne con te. Ma tu sei qui per rilassarti. Non voglio farti lavorare anche adesso», disse Giuliano toccando un braccio a Richard. «Non ci pensare. È il mio lavoro, no? Allora, è stato sedato?», domandò nuovamente con fare più deciso. «No. Non è stato sedato. Nel sangue non sono state trovate tracce di alcun sedativo. Pensiamo che l’assassino lo abbia coinvolto con qualche scusa a casa sua. Forse lo conosceva già. Non ci sono altri segni di violenza sul corpo. Insomma, non lo ha rapito. Padre De Santis era un bravo prete. Abbiamo cercato nel suo passato. Studi a Verona, Milano e poi Torino. Ordinazione negli anni Quaranta e poi attività nelle missioni. Tornato in Italia, ha insegnato Religione e Storia dai gesuiti. Da qualche anno si era ritirato a vita privata. Viveva solo. Non ha parenti prossimi. La sorella è malata e non è intervenuta al funerale. Non c’è nessun elemento che possa giustificare tanta violenza.» «Non si uccide un uomo così senza un motivo, e lo sai bene», disse Richard guardandolo fisso negli occhi. «Sì, lo so. Ma dobbiamo ancora trovarlo il movente. Forse è presto per fare delle supposizioni. Magari è stato solo il gesto estremo di un pazzo… mi auguro solo di arrivare alla verità. E di farlo presto» concluse Giuliano. «Ucciderà ancora!», rispose Richard con tono sicuro. «Già. È quello che penso anch’io. Purtroppo.» Giuliano si alzò dal divano per recarsi nello studio. Dal terzo cassetto chiuso a chiave della scrivania, prese il fascicolo targato De Santis. Pregò la moglie di mettere a letto i bambini. «Guarda qui», disse Giuliano passando alcune fotografie nelle mani di Richard. Le immagini erano nitide e mostravano il corpo di un cadavere, seppellito supino per metà. Le gambe erano fuori. La schiena era coperta da terraglia scura, erba e qualche scarafaggio. Il capo era completamente interrato. Le foto 25


successive evidenziavano le tumefazioni sulla schiena. Aveva le braccia distese lungo il corpo. Probabilmente il killer era stato disturbato nella sua azione finale. «Guardale bene. Io ci ho passato le notti. Queste invece sono quelle dell’autopsia», disse porgendogli la seconda serie. «Che cosa è quella sostanza oleosa che vedo sul corpo?», chiese Richard. «Quale sostanza? Qui non c’è scritto nulla. Sarà sudore o rugiada mattutina.» «No, non credo. Ci sono segni di violenza sessuale sul corpo?», chiese allora Richard. «Assolutamente no! Non ci sono tracce di sperma sul corpo, e nemmeno impronte digitali. Solo i segni della flagellazione», precisò Giuliano. «Jesus… una morte terribile!» «Hai detto bene… Ma Cristo resse al suo dolore.» Richard guardò con estrema attenzione le fotografie. Il viso dell’uomo lo colpì profondamente. L’espressione era dolorante, ma quasi serena, come se avesse chiesto lui stesso di espiare una colpa. «Avete perquisito la sua casa?», chiese Richard. «Sì, certo. Ma nulla di fatto. E poi che vuoi che ci trovassimo, la foto del killer?… Il palazzo dove stava è abitato da gente anziana. Nessuno ha visto nulla. Abbiamo controllato le telefonate. Nessuna ricevuta nella settimana antecedente all’omicidio. Non aveva segreteria telefonica. Nessuna lettera che riportasse qualche cosa di sospetto. Come ti ho detto, nulla di nulla.» Giuliano aprì il frigo e tirò fuori due birre fresche che sembravano pronte per essere stappate. Guardò lungo la porta il volto di Richard, che nel frattempo aveva ripreso in mano le fotografie. «Secondo me», disse Richard «quest’uomo conosceva il suo assassino. E forse si fidava di lui. Non ci sono segni 26


di colluttazione sul corpo. Probabilmente ci si è messo lui in ginocchio, abbracciando il palo, come per mostrare una postura.» «Nudo?… ma sei impazzito?», disse Giuliano. «Nudo… No di certo. Vedi, da queste foto si nota chiaramente che i primi colpi non sono così profondi come i successivi. Quando si comincia un’azione, la forza è maggiore e l’intensità anche. Qui parrebbe il contrario», analizzò Richard. «E come fai a capire quali sono i primi colpi?», chiese Giuliano sorpreso dall’acuta osservazione. «Sono questi, vedi?… Quelli meno precisi, quelli sparsi. Nuca, scapole laterali, orecchio destro. Lui si trovava alla sua sinistra, in piedi. Nella foga, non ha preso la mira, e probabilmente si è scagliato sulla sua vittima che era ancora vestita. Le ha legato i polsi con una corda molto pesante. In seguito, dopo le prime lacerazioni dell’abito o della camicia… non si capisce bene, lo ha spogliato. Vedi?», disse Richard puntando l’indice sui punti indicati. Giuliano guardò Richard con ammirazione. «Se si potesse analizzare il cadavere, salterebbero fuori delle prove in merito. Troveremmo delle tracce di fibra sintetica su qualche colpo, inferto all’uomo ancora vestito. Ne sono certo.» «Sarà difficile chiedere la riesumazione del corpo», rispose l’ispettore alzando le spalle in un gesto di sconforto. «Avete controllato le tempistiche? La luna, il giorno, qualche scadenza particolare?», chiese Richard. «Sì, ma nulla da fare. Luna calante, giorno normale e nessuna scadenza precisa. Ripeto, nessun collegamento valido con qualche gruppo satanista o cose del genere. Non c’erano segni di Satana sul corpo, e quando i satanisti agiscono, di solito, amano lasciare i loro biglietti da visita. E tu lo sai bene.» «La notte porta consiglio, caro Fabio. Fatti una bella 27


dormita… Hai delle borse sotto gli occhi che si vedono fin dalla Mole», concluse Richard, sorridendo, dirigendosi verso l’ingresso principale. «Ti chiamo un taxi, okay?» Richard Setti uscì dal palazzo con in mente le foto della scena dell’omicidio. Si accese un sigarillo e attese l’arrivo del taxi, camminando nervosamente lungo il marciapiede. Cominciò a chiedersi se non ci fosse una strana e indefinibile connessione tra quelle indagini, il suo arrivo a Torino, il testamento e l’incontro con Giuliano. Arrivò una macchina e i pensieri svanirono di colpo. «Royal Hotel», disse.

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6

Il giorno seguente, Richard non aveva impegni importanti. Decise di prendersela comoda e vivere finalmente una giornata da vero turista. Consumò la sua colazione da bravo americano, ricca di uova, pancetta, corn flakes e cappuccino annacquato, e uscì dall’hotel verso le nove, senza una meta precisa. La temperatura era mite, anche se le previsioni prevedevano un piccolo acquazzone nel pomeriggio. Comprò i giornali e decise di passare un po’ di tempo al Parco del Valentino, un polmone verde decisamente suggestivo della Torino d’epoca. Il parco era stato realizzato verso la metà dell’Ottocento, su un progetto di Jean Pierre Barillet-Dechampes, e si estende lungo la riva del Po con un’ampia superficie quadrata. Al suo interno si trovano il Castello del Valentino, l’Orto botanico, il Borgo medievale e il Palazzo di Torino Esposizioni, nonché un ampio spazio riservato esclusivamente a pedoni e ciclisti che amano trascorrere qualche ora in piena libertà. Richard camminò per circa mezz’ora. Decise poi fosse meglio abituarsi a usare i mezzi pubblici per lo spostamento rapido in città. Torino è ben fornita di tram e autobus, 29


nonostante qualcuno reclami a gran voce la costruzione di una metropolitana. Si informò su quali mezzi fossero in grado di raggiungere il Valentino e comprò due biglietti al chiosco dei giornali più vicino. Salì sul primo tram, e si divertì durante il tragitto a studiare la quotidianità torinese, i volti dei giovani, la moda e il linguaggio così diverso da come se lo ricordava. Annotò mentalmente alcuni passaggi storici che ricordava di aver visto con i nonni, e nel cambiare i mezzi, a ogni fermata, si guardava ben bene attorno, giocando con la memoria a ubicare questo o quel monumento nella sua personale piantina topografica. Giunse al parco con aria soddisfatta. Era riuscito nell’intento e ora i quotidiani lo attendevano con una buona panchina non troppo isolata, accanto a un chiosco di bibite e caffè. Richard sfogliò le prime pagine, si avvide delle notizie più importanti, e raggiunse la pagina della cronaca locale con fare lento e scrupoloso. Nessun articolo però parlava dell’omicidio De Santis. Se fossi arrivato oggi, non avrei visto l’articolo, e nemmeno ritrovato Giuliano, pensò. Vedi tu il caso… lo zio, nella sua follia, mi ha comunque fatto un bel regalo. Consumò un caffè, e si accese un sigarillo, guardandosi attorno, con aria compiaciuta. La giornata era serena, e si chiese come le previsioni potessero prevedere acqua per il pomeriggio. Un leggero vento teso ma non freddo staccava dolcemente le foglie dagli alberi e le spingeva accarezzandole in fruscianti mulinelli di svariati movimenti. In quell’istante, alcuni ragazzi passarono davanti a lui in bicicletta. Due di loro colpirono la sua attenzione. C’era un qualcosa di strano nel loro atteggiamento, e il loro fare si mostrò alquanto sospetto. Raggiunta la parte opposta del parco, fecero dietro front, avvicinandosi nuovamente al punto in cui si trovava Richard. Uno dei due, vestito con jeans e 30


maglietta chiari, continuava a voltarsi all’indietro. L’altro, quello più grande di età, puntava l’andatura pacata di una giovane donna, che proseguiva il cammino con passo leggero e borsetta nella mano destra, penzolante. Bastò un gesto tra i due. Era come aveva supposto. I due non andavano a passeggio, ma stavano piazzando uno scippo. Partì il primo. Con scatto felino e fare deciso, si alzò sui pedali, iniziando la corsa verso la donna. Le passò accanto, disorientandola con una spallata sul lato sinistro. Il secondo, quello più giovane, approfittò del momento e le strappò la borsetta dalla mano, facendola cadere a terra. Corsero via in direzione del chiosco. La ragazza urlò qualche frase sconnessa. Richard li vide arrivare, si lanciò verso il secondo, e senza pensarci un istante, lo buttò a terra, bicicletta compresa. Lo aveva braccato. «Fermo… Stai fermo. Sono della polizia. Dammi la borsetta», disse ansimando, accovacciato sul ragazzo steso a terra. «Non mi puoi arrestare… Sono minorenne.» L’accento non era italiano, ma Richard questo non lo capì. «Qualcuno chiami una volante… Presto!», disse alzandosi in piedi, cercando testimoni con lo sguardo. «Arrivano… Li ho appena avvisati!», disse l’uomo del chiosco testimone della scena. «Ma è tempo perso. Questo non è italiano ed è pure minorenne. Domani sarà fuori e dopodomani è di nuovo qui… Lasci perdere, mi ascolti.» Arrivò la volante in meno di due minuti. Richard si ricompose, e nel frattempo si assicurò della salute della donna. «Questo è il ladruncolo che ho beccato… Il suo amico è riuscito a scappare», disse al primo poliziotto sceso dalla macchina. «Lei sta bene?… Si è fatta male?», chiese voltandosi verso la donna che giunse in quel momento. «Solo un grosso spavento… La ringrazio. Della borsa 31


non m’importa, non c’è nulla di prezioso… Grazie…», rispose la donna, sistemandosi il vestito. «Se li avessi lasciati fuggire, non me lo sarei perdonato. Tenga, ecco la borsa», disse Richard. «Mi deve dare i suoi dati signora. Dobbiamo fare la denuncia. E anche lei mi deve dire chi è e cosa ha fatto», disse il poliziotto di fronte a loro, mentre il collega aveva già ammanettato e caricato sulla volante il piccolo scippatore. «Lasci perdere la denuncia… La borsa l’ho recuperata. E poi è minorenne… Lo lasci andare.» «È vero. Lo porti in questura, ma se la signora non vuole sporgere denuncia, lo lasci andare. Per quanto mi riguarda, l’ispettore Giuliano mi conosce bene. Mi chiamo Riccardo Setti», rispose sistemandosi i vestiti, pulendosi la polvere dai pantaloni. «Okay, come volete voi», rispose l’uomo in divisa. «Vuole che informi Giuliano dell’accaduto?», chiese annotandosi il nome di Richard sul taccuino di servizio. «Non credo sia il caso… Ha cose più importanti da fare ora.» «Va bene. Allora noi andiamo…», il poliziotto fece cenno a un collega e lo raggiunse alla volante. Richard volle assicurarsi che quella donna stesse davvero bene. Le offrì un caffè. «Lei si fida troppo… Se fossero stato in moto, con quella borsa messa così, le avrebbero potuto strappare un braccio.» «Ha ragione, non ci ho proprio pensato… Qui è sempre tranquillo. Ci sono in giro parecchi poliziotti e di solito non succede mai nulla… Meno male che c’era lei», rispose la donna sorseggiando il suo caffè. «Io comunque sono Sara. Piacere», disse porgendogli la mano destra accompagnata da un sorriso timido. «Piacere, Richard… ma mi può chiamare Riccardo.» «Ha un accento strano. Turista fai da te?», disse Sara, 32


ridendo, per stemperare l’atmosfera decisamente imbarazzante. «Mio padre è italiano, mia madre era americana. Io sono cresciuto tra l’America e l’Italia. A Torino venivo dai nonni, durante le vacanze estive.» «Allora lei è un angelo trovato per caso. La solita fortuna.» «Magari lo fossi. Comunque, l’importante è che lei stia bene.» Sara era una bella ragazza. Richard non si preoccupò di osservarne l’aspetto fisico, fin tanto che non reputò che la situazione fosse sotto controllo. Lunghi capelli castani, aveva occhi chiari e non più di trent’anni. «Posso chiederle che ci fa in giro da sola?…», intonò Richard. «Dovrei chiedere io a lei che ci fa un mezzo italiano caduto dal nulla pronto a salvarmi la vita. In ogni caso, lavoro il pomeriggio e la mattina sono sempre libera. Ho visto la bella giornata, avevo deciso per una passeggiata in mezzo al verde. Non avrei mai immaginato…», rispose passandosi una mano tra i capelli e sistemandoli alla meglio. «Per fortuna è andato tutto bene. Li ho tenuti d’occhio per un po’… Deformazione professionale.» «Ma lei è un poliziotto?», chiese Sara. «In realtà» rispose Richard, «sono un antropologo con una specializzazione in criminologia. In America collaboro con l’FBI. Ecco spiegata la mia cosidetta “deformazione professionale”.» «Io ora non so come sdebitarmi ma se le serve un passaggio in auto per tornare dove alloggia, la accompagno volentieri. Ho la macchina parcheggiata qui vicino…», intonò sicura la donna, con chiara intenzione di proseguire l’incontro. «Ho una stanza al Royal Hotel. Se davvero non la disturba accompagnarmi, accetto volentieri», rispose Richard. Sara accompagnò Richard al parcheggio e durante il 33


tragitto si fece spiegare del suo lavoro e del perché fosse arrivato a Torino in quei giorni. Richard saltò sull’auto, una vecchia utilitaria comperata a rate con i primi guadagni da supplente, e lei gli raccontò del suo incarico come assistente dentista, e della laurea in Lettere che per ora le aveva procurato solo qualche supplenza saltuaria e molto precaria. Era quasi l’una del pomeriggio. Giunti al Royal, Richard scese dalla macchina, salutando Sara con una gentile stretta di mano. Lei volle lasciargli il suo numero di telefono e l’indirizzo. Non si sa mai, disse. Richard entrò in hotel, indaffarato e leggermente in ritardo rispetto alla tabella di marcia. Doveva pranzare e il pomeriggio avrebbe cercato di riordinare un po’ le idee sul delitto De Santis. Giuliano era un caro amico e Richard voleva aiutarlo. Non aveva ancora deciso come, però. La situazione era delicata, e fuori dalla sua competenza. Lui era a Torino per altro. Salì in camera e si sbrigò velocemente con una rinfrescata al volto e un cambio di abito. Prese con sé i sigarilli, il Moleskine e il portafogli, e scese nella hall. Giuliano lo stava attendendo. Inaspettato. «Fabio… Ma che ci fai qui?», chiese Richard, sorpreso e imbarazzato. «Mi hanno riferito della tua avventura… Stai bene? Da quel che ho saputo, te la sei cavata bene come Superman locale.» «Mi trovavo lì per caso… In ogni modo, tutto bene. La ragazza non si è fatta male…», rispose Richard, gesticolando con le mani come per mimare la scena. «Il ragazzo lo conosciamo da un po’. Ma non ci possiamo fare nulla. La donna non ha sporto denuncia. Domani sarà fuori. Mi sono solo preoccupato per te… Ma da quello che vedo, stai benone», rispose Giuliano, abbozzando una pacca sulle spalle di Richard. 34


«Benissimo, grazie. Pranzi con me?», chiese Richard. «Non posso, ma ti ringrazio. Devo tornare in ufficio. Ero passato anche per questo. Ti volevo lasciare il mio numero di ufficio diretto, senza passare dal centralino. Così saprai sempre come rintracciarmi, e se non ci dovessi essere il mio vice mi passerà la telefonata via radio» disse Giuliano, porgendogli un biglietto da visita con il numero. «Perfetto. Spero di non avere mai il bisogno di disturbarti, ma nel caso… grazie mille… sei un vero amico.» «Di nulla. Non mi piace l’idea che giri solo per la città senza un recapito o un sostegno. Al limite non lo usi, ma perlomeno ce l’hai. Okay?» «Sì. Grazie» Richard Setti tirò un lungo respiro. Come di un sollievo sopravvenuto. Un amico. Ecco chi era Fabio Giuliano. Un vero amico in una città familiare e, al contempo, misteriosa e piena di sorprese.

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LE STORIE

William Kotzwinkle, E cadde la neve, (LSM) Camilla Morgan-Davis, Il canto delle ombre Alessandro Zaltron, Manuale per i(n)felici amanti Miriam Mastrovito, Il mistero dei libri perduti Miguel Ruiz Montáñez, La tomba di Colombo Joshilyn Jackson, La ragazza che parlava agli angeli Daniele Vecchiotti, La signorina cuorinfranti Giambattista Passarelli, Di sabbia e di vento (2° edizione) Alessandro Camilletti, La guerra di Dio Amy Greene, La magia dei petali sparsi Marin Ledun, Quasi innocenti William Kotzwinkle, L’orso che venne dalla montagna Tiffany Baker, La ragazza gigante della contea di Aberdeen Camilla Morgan-Davis, Il canto della notte Kevin J. Anderson, Gli ultimi giorni di Krypton


Vitobenicio Zingales, Da mezzanotte a zero Alessandro Esposito, Manuale del perfetto venditore di droga Stefano Ceccarelli, Camilla Portafortuna (2° edizione) Miguel Ruiz Montáñez, Il Papa Mago Paolo De Lazzaro, Quello che manca (2° edizione) Pedro Ugarte, Un padre Erika Moak, Eudeamon Luigi Pelazza, Un mondo quasi perfetto (2° edizione) Dario D’Amato, Morire in fondo è trendy Jesús Moncada, Amore fatale Imogen Edwards-Jones, Fashion Babylon Imogen Edwards-Jones, Air Babylon Corrado Farina, L’invasione degli Ultragay Ariëlla Kornmehl, Il mese delle farfalle Diego Astori, Vengo e mi spiego Imogen Edwards-Jones, Hotel Babylon Pierfrancesco Diliberto, Piffettopoli, le fatiche di un quasi vip Pieter Toussaint, La biciletta volante Costantino Margiotta, Mafia, dalla mattanza a Provenzano




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