Camilla Portafortuna

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Stefano Ceccarelli

Le persone che ti restano dentro sono quelle che avresti voluto accanto. Camilla Portafortuna

In copertina foto © GettyImages/Betsie Van der Meer

Grafica: zero91 s.r.l.

Camilla Portafortuna

Stefano Ceccarelli (Roma, 1963) è uno sceneggiatore di commedie per cinema e tv. Con il corto Riduzione di personale ha vinto il Premio Kodak 2002, come Miglior corto italiano; nel 2005 ha scritto Credevo non arrivassi più, un film interpretato da Lorenza Indovina. Nel 2009, ha scritto la sceneggiatura di Due mamme di troppo, diretto da Antonello Grimaldi e interpretato da Angela Finocchiaro, Lunetta Savino, Sabrina Impacciatore e Giorgio Pasotti. Camilla Portafortuna è la sua prima fatica letteraria.

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Camilla vive in provincia ed è solo un’altra ragazza invisibile che non sarà mai amata da un eroe coraggioso come quelli dei fotoromanzi o da Bruno, il figlio del padrone di una fabbrica di infissi. Camilla però ha un dono che ancora non conosce. Porta fortuna a chi le sta intorno. Per seguire un sogno, si trasferisce a Roma dove lavora come impiegata alle poste e, anche lì, dispensa frammenti di fortuna (e consigli rubati dalle pagine dei fotoromanzi) ai colleghi e ai clienti che cominciano a conoscerla e a volerle bene. Il destino tramato da una favola le fa rincontrare Bruno e sarà pure una coincidenza ma, da quel momento, ogni cosa per lui comincia a girare per il verso giusto. E così, quel giovane – gentile quanto ambizioso – progressivamente non fa più un passo senza avere a fianco la sua Camilla portafortuna. Per alcuni, però, la vita non è sempre una favola. Le principesse non sono mai timide e goffe come la nostra Camilla. Il principe bello, in questa storia, ha il cuore occupato e la Fortuna non sempre cede il passo all’Amore.



Stefano Ceccarelli

CAMILLA PORTAFORTUNA romanzo

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Camilla Portafortuna Copyright © 2010 Stefano Ceccarelli Copyright © 2010 zero91 s.r.l. Viale Molise 51 20137 - Milano Stampato in Italia Prima edizione: maggio 2010 ISBN 978–88–95381–21–3

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Dedico questo romanzo a Sylvie Vartan (ma non so perchĂŠ)



E tu, stella polare cancelli i miei “mai”, i pregiudizi di sale, i miei “poi”, tutte le notti ritornerai. (L’avventura, La Bottega dell’Arte, 1979)



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Ci sono luoghi e persone che difficilmente restano nella memoria anche del più arguto degli osservatori. E se ti capitasse di incontrare quelle stesse persone in questi luoghi, al massimo avrai l’impressione di osservare un’anonima istantanea scattata in un’altrettanto anonima provincia. Anche i ricordi sembrano meno nitidi in quei piccoli paesetti con un panorama comune a tanti altri, con il campanile al centro della piazza e il vecchio bar dove il caffè non lo sanno fare, con abitanti le cui facce si fanno dimenticare mentre le incroci per i vicoli. Eppure è proprio in un posto del genere, dal poco rutilante nome di Roccafredda, che iniziò tutto. E proprio qui viveva una ragazza a cui sarebbe risultato difficoltoso cambiare una ruota forata e che invece cambiò la vita di molti. Il suo nome era Camilla. Il suo cognome era Capelli. Camilla Capelli. Si era diplomata come segretaria d’azienda all’istituto tecnico di Mongirano, a dieci chilometri da casa. Negli anni della scuola non era mai stata rimandata, ma non aveva nemmeno mai brillato per la sua bravura. Che i professori spiegassero la partita doppia, la geografia o come rapinare un treno, per lei era la stessa cosa. La interrogavano, rispondeva, andava a posto con la sua sufficienza ed era soddisfatta così. Non faceva mai domande, non alzava mai la mano per ribattere a qualche quesito a trabocchetto 9


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posto dagli insegnanti e, quando uscivano i quadri, a giugno, non aveva l’ansia per la loro ostensione nelle bacheche della scuola. Sapeva che sarebbe stata promossa, che la media dei suoi voti avrebbe dato come risultato un sei e osservava quegli elenchi di nomi, voti e giudizi proprio come se fossero stati dei quadri di una mostra dove era capitata per caso. Durante quelle lunghe giornate tra i banchi, Camilla non aveva creato particolari legami con i compagni e le compagne di scuola. Sapeva che il giorno dopo la maturità, se per caso si fossero incontrati per strada, nessuno avrebbe risposto al suo pur timido saluto. Avrebbe attribuito questa distanza non a un gesto di scortesia ma a un’inevitabile indolenza dettata dal tempo. E poi, nonostante fossero passati tanti anni, l’eco del successo del Gioca Jouer di Claudio Cecchetto, a Roccafredda, non si era mai spenta del tutto. Molti in paese (compreso il bar e il ristorante di Zì’ Commare) tenevano incorniciate, con un orgoglio fuori misura, le foto ormai malinconiche con quel dj ciondolante. Un’estate lo avevano invitato a presentare lo spettacolo per la festa di Ferragosto e tutti gli abitanti della vallata, radunati sotto il palco, avevano ballato e mimato ogni passaggio di quel tormentone d’annata, scatenandosi agli ordini perentori di «Ballare!», «Autostop!», «Sciare!». E poi, purtroppo, anche «Capelli!». Da quel giorno, chiunque avesse chiamato Camilla per cognome avrebbe dato il via libera a tanti stupidi soldatini che, portandosi le mani tra le chiome, avrebbero piegato la testa a destra e a sinistra, in religiosa obbedienza all’indimenticato sacerdote del Gioca Jouer. Durante i pomeriggi assolati, Camilla faceva risuonare nella sua testolina un’altra musica, fatta di altre note. Ascoltava l’eco sorda dei suoi passi sui ciottoli delle strade e lasciava che componessero armonicamente l’incedere lento di una passeggiata solitaria. Una volta, si era allontanata un po’ più del solito, stava per superare il bivio con l’indicazione del campo sportivo (che

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era sempre rimasto un campo, appunto, ma privo di quegli elementi indispensabili per conferirgli lo status di “sportivo”, come per esempio dei pali di legno, altrimenti detti “porte”) quando incontrò Sor Angela, l’anziana levatrice del paese. «Camì, sto andando da tua madre. Mi deve fare la permanente.» «Ma non sono passate due settimane dall’ultima volta. È già ora di andare al cimitero?» «Tié!» rispose secca la vecchina anche se aveva capito che Camilla non aveva inteso riferirsi a una imminente dipartita. Ogni due settimane, Sor Angela si faceva acconciare la permanente a quello zucchero filato che aveva in testa. Lasciava che Giovina le modulasse quella chioma impertinente ogni volta che andava a trovare la sorella e il marito al cimitero. L’anziana levatrice desiderava infatti che loro la vedessero sempre a posto. Sor Angela aveva scoperto che il compianto Sor Gino – prima di lasciare le spoglie mortali – l’aveva tradita per cinquant’anni con sua sorella. Sapendo però quanto il defunto ci tenesse che alla moglie non mancasse mai nulla, la vedova aveva comunque deciso di rincuorarlo anche da morto. Quindi, allo scadere dei quindici giorni, si comprava un vestito nuovo, ridava tono all’acconciatura e si dirigeva con un piglio deciso al camposanto. Portava sempre dei fiori per la sorella e, soprattutto, per il Sor Gino traditore, poi dedicava loro un pensierino di cordoglio: «Alla faccia vostra! Mo’ mi diverto io!» e via, di ritorno a casa a preparare una piccola valigetta con l’indispensabile per un viaggio last minute per i fedeli di Roccafredda. Così, nell’arco di un lustro, Sor Angela si era girata tutta l’Italia con i pellegrinaggi organizzati dal parroco di Roglianico. Anche a Bellaria era stata, a mezza pensione, nonostante la ridente cittadina fosse fuori dai circuiti di devozione. Quella mattina però i capelli della vecchina avrebbero avuto bisogno di un ritocco fuori programma che aveva disorientato l’incedere equilibrato della vita di Camilla. 11


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«Comunque è presto, mamma è uscita con papà che l’accompagnava al mercato. È giovedì, prima delle dieci non torna.» «E va bene, io aspetto fuori casa. È che sabato arriva un signore, ’na brava persona, che siamo stati insieme al monastero di Subiaco. L’ho invitato a pranzo.» «Ah, e lo sa che sei vedova?» «Vedovo pure lui.» «Ah, meno male. So’ contenta...» disse Camilla accompagnando la frase con una nuvola di fiato che si disperse portato via dall’aria fredda. «Perché?» «Beh, magari vi fate compagnia. Dice mamma che se continui a farti la permanente così spesso o è perché ti vuoi sposare un’altra volta o perché il colore ti è entrato nel cervello...» «A tua madre, il casco che adopera, gli faccio entrare nel cervello! Ma quale sposare e sposare! Quello sabato viene a vedere il vigneto di mio marito. Me lo voglio vendere, ma non a qualcuno del paese. Nemmeno se s’ammazzano! Anzi, Camì, meno male che t’ho incontrata!» «Perché?» «Perché tu porti bene! T’ho fatto nasce io, ricordatelo sempre! Stavi in braccio a me e ho sentito la scossa. Adesso sono sicura che, quando quello arriva, il terreno se lo compra subito! È il tuo destino Camì, tu porti bene!» «Eh! Meglio così» commentò la ragazza. L’anziana levatrice riprese a camminare nella direzione opposta alla sua, mentre un po’ di luce si infranse sui riflessi d’argento ancora addomesticati dalla permanente precedente. E mentre Sor Angela si allontanava, Camilla la sentì commentare l’insediarsi prepotente dell’inverno su tutta la regione. «Brrr, che freddo, stamattina s’è gelata pure l’acqua santa!» Poi la vide sparire, come avvolta dal fiato di quelle ultime parole che continuava a uscire denso, come benzina dal tubo di scappamento.

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Camilla avrebbe voluto chiederle ancora della notte in cui era nata, di quella scossa che aveva attraversato il già esile corpo della levatrice ma, non appena la sagoma di Sor Angela svanÏ dalla sua visuale, quel pensiero si dissolse come un sospiro dentro una coltre d’inverno.

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Giovina ricordava bene la sera in cui Camilla aveva deciso di mettere i piedi di fuori, per affacciarsi per la prima volta sul mondo. Il tempo naturale era scaduto già da nove giorni e il fagottino non dava segni di voler incrementare la popolazione di Roccafredda. «Vuoi vedere che decide di nascere proprio stasera che fanno l’ultima puntata del Principe senza paura? È tutta la settimana che l’aspetto» aveva detto la donna contorcendosi a intervalli regolari. Presagiva che ogni minuto avrebbe potuto essere quello giusto e, in quell’attesa estenuante, trascinava la mente altrove sicura che, se fosse stato un maschio, avrebbe portato il nome di Julio Iglesias che in quel periodo la sobillava dalla radio, pregandola di pensarlo tanto tanto intensamente. E lei, in cuor suo, non chiedeva di meglio, tanto ne era innamorata. Così fortemente innamorata che, in tutti quegli anni, aveva cercato strenuamente di individuare in Pasquale (o almeno nelle fotografie del loro matrimonio) anche la più piccola, infinitesimale traccia di somiglianza con il cantante spagnolo. La verità era che quell’unione aveva preso il largo già da parecchio e questa innocente fantasia appariva a Giovina come la panacea più lieve e meno dolorosa per soffocare le considerazioni sui perché e percome si era sposata con Pasquale, anziché provare a non seguire il destino che sua madre, il paese, la gente (e anche lei stessa) avevano deciso per lei. 15


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Se la creatura che timidamente sembrava stiracchiarsi all’interno della sua pancia fosse stata invece una femminuccia, Giovina non avrebbe avuto alcun dubbio: Mariagiovannaelmi. Sapeva benissimo che era una cosa quanto meno azzardata e che non avrebbe potuto dare alla figlia il nome (e soprattutto il cognome!) di un’annunciatrice televisiva. Ma non c’era nulla da fare. Niente riusciva a farle cambiare idea. «È così bella che pare un rinfresco di Michelangelo» ripeteva al marito ogni volta che l’eterea “signorina buonasera” appariva sullo schermo: con i suoi occhioni grandi che rilucevano nonostante il loro televisore fosse in bianco e nero. «E allora se è maschio lo voglio chiamare Antoniocabrini!» urlava Pasquale, quando rientrava a casa la sera, stanco e abbrutito dal suo eterno girovagare con la divisa da postino. E così, come un rituale quotidiano, la discussione era ben lontana dal trovare una conclusione. Quella sera, la voce da fatina buona dell’annunciatrice più bella del mondo stava ricordando a tutti che il termine utile per rinnovare l’abbonamento era quasi scaduto. Pasquale aveva avuto l’impressione che, nello specificare la differenza di tariffa tra chi aveva un apparecchio a colori e chi no, quella figura delicata e graziosa rivolgesse una piccola smorfia di disappunto – un trattenuto e impercettibile disprezzo – verso di lui e Giovina che pagavano la cifra più bassa perché non erano ancora passati al colore. «Quant’è carina. Ah, se nasce femmina ed è come lei, giuro, regalo il vestito da sposa a qualche poveretta che non se lo può comprare!» Pasquale aveva taciuto. Di naftalina ne avevano a sufficienza in casa. Considerò che lui era moro, che i suoi occhi erano neri come due olive baresane e che anche la moglie poco aveva dei morbidi tratti di quell’incantatrice. Si rassegnò con fare sornione all’idea che l’abito da sposa sarebbe rimasto nell’armadio ancora per parecchio tempo, anche perché Giovina aveva ereditato dalla madre “il principio della conserva”. Pur di non regalare

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qualcosa che un giorno avrebbe potuto tornare utile, si sarebbe fatta tagliare una mano. Avevano avuto ragione i vecchi che aveva incontrato al bar giù in paese: il tempo era bello ma in serata sarebbe nevicato. Pasquale si era affacciato alla finestra e lo spettacolo dei fiocchi che cadevano in silenzio, come se il mondo fuori avesse abbassato il volume, era iniziato già da un po’. Era rimasto a osservare il cielo compatto, lattiginoso, proprio come lo schermo del televisore quando era spento. Allora cercò di ricordare quale similitudine facesse da ragazzino prima dell’avvento delle trasmissioni, ma non gli tornò in mente nulla. Sua moglie, come se gli avesse letto nel pensiero, lo sorprese con gli occhi ancora alla finestra. «Certo, un televisore a colori ci manca come il pane, eh, Pasquà?» «Il pane ce l’abbiamo, per il televisore vediamo... Mio fratello se l’è comprato ma...» ...Ma il rumore della bottiglia andata in frantumi lo aveva interrotto e fatto voltare di soprassalto, come alla fine di un brutto scherzo. Giovina si era seduta, respirava affannosamente. «Mi sa che ecco... Pasquale!» continuava a dire, cercando di controllare il respiro. «Non ti muovere dalla sedia!» «E chissà dove vado così?!» «Vado a mettere in moto la macchina e ti porto all’ospedale! Aspetta qui» gli aveva ordinato lui risoluto e pronto. La 127 lo era molto meno e restava ferma e muta alle sollecitazioni della chiave d’avviamento. Il cruscotto faceva fatica a illuminarsi non potendo contare su una batteria ormai al capolinea. Pasquale rientrò con il fiato corto. La sua intenzione era di telefonare a Guerino, che abitava nella casa più vicina, cinquecento metri buoni, e chiedergli di venirli a prendere e portarli a Roglianico. Quando era rientrato, però, Giovina gli 17


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aveva detto che non c’era tempo. Il pavimento, sotto la sedia dove s’era seduta, era bagnato. «Chiama Sor Angela, che venisse subito!» gli aveva urlato lei, tenendosi la pancia per le forti contrazioni. «Mariagiovannaelmi, stai buona che mo’ arriva Sor Angela ed esci!» Quando Sor Angela aveva sollevato il ricevitore del telefono stava cenando con suo marito, Sor Gino, e sua sorella, più giovane di lei di qualche annetto. Rassicurò Pasquale promettendogli che lei sarebbe arrivata prima che la testa del ragazzino fosse venuta fuori e gli ordinò di mettere una pila di acqua calda a scaldare sul gas. Non era la prima volta che la donna aiutava qualcuno a partorire in casa. Aveva ereditato l’esperienza di sua madre, mammana della zona, andata in pensione quando avevano aperto l’ospedale più vicino all’inizio degli anni sessanta, dopo averlo inaugurato per ben tre volte nei dieci anni precedenti. Sor Angela aveva lasciato marito e sorella, zuppa e coniglio senza pensarci due volte, s’era infilata il cappotto ed era uscita. Appena arrivata, aveva fatto stendere Giovina sul letto, poi aveva dato a Pasquale un sacchetto con delle foglie secche. «Tiè, bruciale nel camino, ma subito, prima che nasce...» L’uomo era rimasto in piedi, al bordo del letto e guardava la moglie come a chiedere conferma. Sor Angela s’era subito innervosita. «Sono foglie di lampone e di sanguisorba! Disinfettano l’aria e aiutano a me e a lei! E muoviti!» aveva spiegato mentre sistemava le gambe a Giovina. Poi, rimasta sola con lei, aveva trovato il tempo per sorriderle. «È femmina, te lo dico io. Si sente dal fiato che hai.» «Dite? E sarà bella come...» Una contrazione più forte le aveva azzoppato il respiro. Il resto era stato una passeggiata. Mentre dal camino le erbe versate sulla brace spandevano la loro essenza in tutta la casa,

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Giovina non aveva dovuto faticare troppo per far uscire la bambina. Pasquale aveva tentato di entrare un paio di volte ma Sor Angela, trasformatasi in una specie di capo d’armata, gli aveva intimato di restare sul ballatoio, ad affumicarsi come un salmone e a portare acqua calda e asciugamani. Poco dopo avevano sentito il primo, esitante, tentativo di pianto della piccola che non sembrava molto convinta di palesarsi e che, probabilmente, se ne avesse avuto la possibilità, anziché vagire, avrebbe preferito esclamare: «Eeeeeh, sto qui». Nel momento in cui Sor Angela l’aveva presa in braccio la luce era saltata e la donna aveva avvertito una leggera, velocissima scossa elettrica che proveniva dalla neonata. Da dietro la porta si erano uditi i passi concitati di Pasquale scendere le scale verso l’interruttore generale e la voce di Giovina a cui la fatica cominciava a presentare il conto con la febbre. La levatrice l’aveva tranquillizzata subito. «Non è il contatore. È lei» le aveva detto con gli occhi accesi per la sorpresa, indicando quelle zampette rosa che stringeva al petto, quando la luce era tornata. «Questa è una fortuna, Giovì, una gran fortuna.» «Che, per caso, sapete come è andato a finire Il Principe senza paura?» aveva chiesto esausta la giovane mamma.

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Quando Giovina, un paio di giorni dopo la nascita della figlia, era stata ricoverata in ospedale, Pasquale, sostituita la batteria alla macchina, era andato agli uffici del comune per registrare la bambina. Aveva avuto subito un forte senso di protezione verso quella polpetta che stava sempre buona, mangiava senza protestare e raramente disturbava i loro sonni. Era amore paterno, certo che sì ma, un po’ per il nuovo ruolo da genitore che si trovava ad affrontare, un po’ perché Sor Angela aveva detto che quella ragazzina aveva portato con sé qualcosa di miracoloso, Pasquale aveva deciso che quella figlia doveva essere la cosa più importante per lui, più della salute e molto, molto più del lavoro. Perché Pasquale detestava il suo lavoro, non ne poteva più di consegnare lettere dalla mattina alla sera, di tornare esausto, zuppo d’acqua o di sudore. Non erano trascorsi nemmeno mille giorni dalla sua assunzione che il conto alla rovescia che lo separava dalla pensione era stato innestato. Ogni riforma varata dai governi che si succedevano era un supplizio non solo perché allontanava la data più bella della sua vita ma anche perché, per calcolarla, ci sarebbero voluti i computer della NASA. Eppure lui continuava a sognare a occhi aperti quel giorno. E cercava di caldeggiarlo, pianificando la sua futura giornata da ex lavoratore come se, da quel momento, lo separasse una sola notte e non nove olimpiadi. 21


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Durante il tragitto dall’ospedale al comune si era ritrovato in coda dietro a una macchina che trainava una barca di piccole dimensioni, con un piccolo motore fuoribordo da pochi cavalli. Probabilmente la stavano portando al rimessaggio vicino, in riva al lago. Aveva invidiato l’uomo al volante di quell’auto, la sua faccia paciosa, appagata dal tempo e dalle rughe. Certamente doveva essere il proprietario anche di quella bagnarola che stava trasportando. E lì c’era tutto quello che Pasquale desiderava: andare in pensione, comprare una barchetta, anche a remi, e pescare lucci e coregoni tutto il giorno. La giornata uscita fuori era una meraviglia. Il sole diffondeva luce e calore dappertutto. La neve caduta la sera in cui Camilla era nata si era sciolta e ne erano rimaste tracce sulle due vette più alte e ai lati della strada. Il cielo era così azzurro che la barca, anziché essere trainata, sembrava avanzare in un’acqua calma e limpida. La sua 127 si affiancò al carrello che la trasportava. Pasquale abbassò il finestrino. Doveva essere stata verniciata da poco perché era lucida e l’odore della tinta ancora riconoscibile. Era verde con una riga blu e una bianca. Ne lesse il nome dipinto a prua: Camilla. Non ebbe più dubbi. Sua figlia si sarebbe chiamata così. Camilla. E tanti saluti a Mariagiovannaelmi.

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La Tondini Infissi in Alluminio snc era la piccola ditta dove Camilla Capelli aveva iniziato a lavorare il giorno del suo venticinquesimo compleanno. Nel tratto di strada che la divideva dal lavoro, l’ombra di Camilla sembrava aver imprigionato i toni più gravi del papà Pasquale che aveva sempre sconsigliato alla figlia di avventurarsi con l’automobile. «Non puoi ingranare la prima sotto casa e la seconda a Ronco Bilaccio! La frizione non è un poggiapiedi!» Camilla, a meno che non avesse diluviato, aveva così deciso di andare a piedi. In quel caso, suo padre l’avrebbe depositata davanti al cancello della ditta ma con un certo anticipo sull’apertura, dato che lui prendeva servizio un’ora prima della figlia. In alternativa, ci sarebbe stato il pullman delle linee regionali che però si fermava a due chilometri e mezzo dalla ditta ed «era un cavolo e tutt’uno spendere i soldi per il biglietto se poi si doveva tornare indietro a piedi». Questo le avrebbero detto, dall’ombra leggera sulla strada, i picchi della voce della madre Giovina. Era anche vero, però, che la fermata del pullman era praticamente di fronte casa dello zio Primo, un fratello del padre, che usciva per andare al consorzio proprio all’ora in cui Camilla avrebbe potuto scendere dal bus. Quindi l’avrebbe potuta riaccompagnare lui con la moto Ape per i due chilometri e mezzo da percorrere per tornare alla Tondini. Il fatto è che lo zio Primo quando attaccava a parlare non la smetteva più e, quando era 23


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nell’impeto di spiegare alla nipote perché, secondo lui, il sindaco, «oltre ad avere le corna, gli dovevano anche sparare per via dello scandalo della cantina sociale», ogni volta superava il cancello della Tondini e Camilla avrebbe rischiato di passare la giornata a fare avanti e indietro, come una sentinella impazzita, prima di potersi sedere alla sua scrivania. «Sindaco maledetto! Che potesse guardà i fiori dalla parte delle radici!...» avrebbe detto Zio Primo se l’avesse incontrata. «Zio, ricordati che è tuo genero» avrebbe potuto rispondere Camilla.

Quando Camilla, per la prima volta, varcò la soglia del suo piccolo ufficio, il padrone della Tondini sembrava posseduto dal demonio. Il motivo di tanto gonfiarsi di vene sul collo era dovuto al fatto che, proprio quella mattina, il reparto spedizioni al completo, nella persona dell’unico fattorino, si era dato malato. E proprio il giorno di una consegna. «Trentotto di febbre! Io andavo a lavorare anche con quaranta! E me la facevo a piedi da Torresalina a San Galdino!» Timidamente Camilla fece osservare al signor Tondini che, in effetti, da Torresalina alla sua destinazione era tutta in discesa ma quello, per niente grato della precisazione della nuova impiegata, rincarò la dose delle urla sgraziate. A Camilla davano fastidio le parolacce quindi, se – come in quel momento – le capitava di trovarsi di fronte a una slavina di improperi, faceva tesoro del placido suggerimento che a lei, come a tutti i bambini che facevano il ritiro per la Comunione, davano sempre Suor Filomena e Suor Tommasina: «Ogni volta che qualcuno dice una parolaccia fate finta di sentire, al posto di quella brutta parola, il rintocco di una campana e ve la dimenticherete subito. Altrimenti la Madonnina piange».

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Forse Camilla ricordava male il consiglio delle religiose, fatto sta che, quella mattina, anche con le migliori intenzioni, sarebbe stato impossibile metterlo in pratica senza riuscire a visualizzare, al posto dell’invasato datore di lavoro, il campanile del duomo nel giorno del santo patrono. «Qui, se continua così, andiamo tutti a vendere le fusaglie sui gradini della chiesa!» urlava lui. Camilla vedeva ma riusciva a non ascoltare lo snocciolamento di santi che Tondini faceva seguire dopo ogni esclamazione. «E tu? Che stai lì, imbambolata?! Dammi una mano! A che pensi?!» le chiese poi a bruciapelo, mandandole in pezzi tutte le campane. «Eeeeeeh, alle suore» rispose lei candidamente. Tondini si zittì. La scrutò come si guarda una pazza che dietro l’espressione a metà tra l’angelico e il neutro è capace di tirare fuori una lama di trenta centimetri e conficcarla nel collo dell’interlocutore. Camilla, da parte sua, osservava Tondini come se fosse diventato veramente un campanile, però diroccato e prossimo al crollo. «Le suore?» chiese lui sicuro di aver capito male. La ragazza fu incapace di replicare ma, miracolosamente, le venne in soccorso il campanello elettrico che segnalava l’arrivo di qualcuno. Tondini si voltò e impallidì. Da un vecchio pulmino erano scese due suore e una aveva già fatto il suo ingresso. «C’è nessuno?» chiese la prima che di spalle ricordava tanto Belfagor. Tondini guardava ora le suore, ora Camilla. Camilla faceva altrettanto, girando la testa verso il padrone e verso le religiose. Lui avrebbe voluto chiederle come aveva fatto a sapere del loro arrivo. Ma non c’era tempo. Si affrettò a raggiungerle verso il bancone. «Eccomi, sorelle. Buongiorno...» esclamò affrettando il passo. «Sia lodato Gesù Cristo» lo salutò il fantasma del Louvre. 25


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«Con piacere» rispose impreparato Tondini. Camilla si sistemò finalmente al suo posto. Quello fu il giorno del suo circoscritto trionfo. Furono le ore che la consacrarono ancella e dispensatrice della dea fortuna, complici le infiltrazioni d’acqua degli ultimi duecento anni. Sì, perché il convento da dove erano giunte le due monache – e che era segnalato anche sulla guida turistica del parco nazionale – era stato interessato negli ultimi due secoli dalle esondazioni del fiume e del lago, dagli smottamenti del terreno circostante e perfino dal terremoto, come se il maligno non avesse fatto altro, in tutti quegli anni, che cercare di espugnare quel luogo di pace e serenità con un assedio continuo. Invano. Qualche mese prima se ne era venuto giù il muro portante del refettorio ma la Provvidenza aveva fatto arrivare i soldi per il restauro e per i nuovi infissi. Quando le suore consegnarono a Tondini l’acconto per le dieci finestre, lui fu sul punto di inginocchiarsi e chiedere i voti. L’invasato di poco prima aveva repentinamente lasciato il posto a un agnellino mansueto che avrebbe fatto tenerezza dentro la cornice di un presepe vivente! Le due sorelle lasciarono la ditta in gaiezza e serenità e lui – non appena quelle uscirono dal parcheggio dopo aver bruciato la frizione e intossicato mezza vallata a forza di dare gas prima di immettersi nella carreggiata – raggiunse Camilla. Lei alzò gli occhi e lo vide. Tondini era davanti a lei e la guardava in un modo impossibile da decifrare. Sembrava sollevato nel trovarla ancora lì, neanche fossero passati tre anni dal loro ultimo incontro. A osservarlo meglio, dava l’impressione di stare lì lì per piangere. Camilla era impietrita. Finalmente Tondini le si fece avanti. «Come stai?» le chiese. Aveva assunto una posa tra il ridicolo e l’austero, onorevole compromesso tra la timidezza e la volontà di voler sembrare autoritario e paterno allo stesso tempo. Mosè con la tavola della legge in mano, in confronto, sarebbe sembrato una majorette.

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«Grazie! Grazie! Grazie!» proruppe, infine, senza smetterla più, all’indirizzo della ragazza. «Prego, prego, prego... di che?» chiese lei rinunciando allo sforzo di capirci qualcosa. «Le suore, il convento. Tu lo sapevi!» «Ma le pare...! Per così poco...» replicò Camilla, con la prima frase di circostanza che le venne a tiro. Tondini pareva davvero un miracolato. Se il semestre precedente era stato un disastro per ordinativi e fatturato, da quella mattina, sembrava che tutto il mondo fosse in mezzo agli spifferi e avesse un assoluto bisogno di finestre, delle sue finestre! Le commesse alla ditta di infissi non tardarono a moltiplicarsi e i conti a migliorare. Il padrone, superstizioso com’era, aveva la convinzione che il momento d’oro che stava vivendo fosse merito di Camilla. Quindi, ogni giorno, arrivato al lavoro, la salutava con grande calore, voleva a tutti i costi stringerle la mano per poterla toccare come una reliquia. Sapeva benissimo che di infissi in alluminio e di programmazione aziendale la ragazza non ne capiva un’acca. Ciononostante si era ritrovato più di una volta a chiederle un parere. «C’è un pezzetto di terreno che vendono qui dietro. Che dici, Camì, lo compro per il capannone nuovo che ho in mente?» Lei lo guardava da dietro le sue lenti da lettura, incapace, almeno all’inizio, di capire se il vecchio parlasse davvero con lei o da solo. Ma era proprio il suo parere che lui voleva. Lei restava lì, con lo sguardo immobile, succube del pensiero di dover rispondere qualunque cosa, perché Tondini se lo aspettava. Poi, conscia di non aver recepito se non un vago concetto di quello che lui le stava chiedendo, aveva imparato con i giorni a calibrare una smorfia, accompagnata da una rientranza del collo nelle spalle. La cosa più vicina – considerate le sue possibilità mimiche – a un sorriso da furbetta. Ma il giorno in cui il suo capo, quasi con timore, le si sedette di fronte per sottoporle il gran quesito se rottamare il vecchio furgoncino e acquistare il nuovo modello, 27


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lei intuì – strano a dirsi – che la moina fino ad allora usata, quella volta, non sarebbe servita granché. E siccome esiste un dio dei rotocalchi, l’occhio di Camilla cadde su una pagina di Telegossip che stava sfogliando durante la pausa pranzo, aperta su una pubblicità che recitava: «È proprio ora di cambiarla». Per la prima volta le sembrò un segno, un aiuto che non poteva rifiutare. Guardò la parete di fronte a sé, come se vi potesse trovare scritta la risposta che l’uomo attendeva. «È proprio ora di cambiarla...» si sentì poi rispondere a Tondini. Lui – ignaro del fatto che lo slogan si riferiva alla possibilità di una nuova dentiera – non voleva sentirsi dire altro, anche perché il suo più diretto concorrente, la Mondialinfiss di Eredi Cianchella Maurilio, mandava i suoi operai in giro con il nuovo mezzo, un tdi con filtro antiparticolato. Il principale la ringraziò con gli occhi che brillavano, come avrebbe potuto fare un fanatico di una setta religiosa di fronte al suo fondatore, ricevendo una carezza sulla pelata. Da quella volta Camilla vaticinò spesso per lui, tentando di nascondere le copie di Supervip, Salute&Donna e di ogni altro settimanale che apriva a casaccio, puntandoci sopra il dito. Tutto questo mentre sua madre si chiedeva dove sparissero le riviste che metteva a disposizione delle sue clienti, nel suo atelier di coiffeur in garage, e che si era procurata rubandole nella sala d’attesa del dentista «che tanto i soldi ce li aveva e le comprava nuove ogni settimana». Fu così che la mattina in cui consegnarono il nuovo automezzo, Tondini volle che fosse proprio Camilla a inaugurarlo. E non si arrabbiò nemmeno un po’ quando, insistendo perché la ragazza assaggiasse come gli altri impiegati un sorso di spumante, lei non trovò altro luogo dove vomitare tutta la colazione se non sul cofano rosso fiammante. Tondini, sebbene atterrito, non si perse d’animo. «Che gli fa?! Porta bene, porta bene!» ripeteva, guardandosi dal soccorrerla, al contrario degli altri che l’aiutavano a sedersi

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su uno sgabello, subito apparso tra le mani di un operaio. Fu in quel momento cosÏ intimo che Bruno, il figlio di Tondini, appena rientrato da Roma con la sua moto e con un bel trenta e lode sul libretto, le venne in aiuto. Prese dei fazzoletti di carta dal suo zaino in tono col giubbotto da motociclista che lo faceva somigliare a un Power Ranger, e glieli porse. Camilla si sentÏ subito meglio, anche se il cuore aveva cominciato a fare rumore nel suo petto e lei, per paura che anche Bruno se ne accorgesse, si portò una mano lÏ dove batteva con la speranza di silenziarlo.

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Camilla Portafortuna

La sera a casa, davanti al brodo di cappone (e non a quello di luccio come avrebbe desiderato suo padre) Camilla rimestava il cucchiaio nella scodella, ma le sembrava di rigirare il coltello nella ferita che si riapriva ogni volta che quel Bruno lambiva i suoi pensieri. «Camì, ti sei persa gli orecchini nel piatto? So’ due ore che giri e giri...» «No, no, gli orecchini li ho tolti prima, mò finisco.» Giovina scosse la testa, come spesso faceva, poco convinta che le risposte della figlia fossero solo una mancanza di spirito. Intercettò quindi lo sguardo di Pasquale che osservava la figlia con tenerezza, dandole poi una carezza sui capelli. Qualcuno bussò alla porta e la radiosa cugina Deborah entrò in cucina. Era appena tornata da qualche giorno sulla neve, ospite del suo ragazzo, un conteso veterinario. Il taglio e il colore che la zia le aveva fatto il giorno prima della partenza le facevano risaltare gli occhi vispi e il trucco costoso ma eccessivo. «Come stai bene, bella di zia» le disse Giovina, affrettandosi a liberare la sedia vuota dai panni da stirare e sperando che la nipote si ricordasse che le doveva ancora pagare la messa in piega. «Grazie, zì! Ah, ricordami di dire a mamma di portarti i soldi.» «Ma sì, non ti preoccupare, quello è l’ultimo pensiero che devi avere» mentì la zia. 31


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Camilla, con un sorriso poco sveglio per la stanchezza, osservava il peluche che la cugina aveva posato sul tavolo di fronte a lei. Anche negli occhi dipinti di arancione di quella improbabile tartaruga, uno aperto e uno chiuso, come a tentare di catturare la sua attenzione, anche in quegli occhi, Camilla rivedeva quelli belli, luminosi e penetranti di Bruno Tondini. «Ti piace?» le domandò Deborah. «Caruccio.» «Un regalino per te. L’abbiamo vinto io e Luigi al Karaoke. Le risate! Che vergogna, però!» «Eh, certo...» rispose Camilla senza rifletterci molto perché, intanto, pensava a quanto, al posto della cugina, avrebbe preferito rintanarsi in camera sua massaggiando il suo gatto fino a trasformarlo in un persiano di razza, anziché esibirsi di fronte a degli sconosciuti. «E come va alla Tondini? Lo sai che un’amica mia di Milano è amica della fidanzata di quel bonone del figlio, Riccardo, mi sembra che si chiama così...» «Bruno» la corresse lei decisa. «Sì, l’ho visto una volta che ero andata a ballare al Velenoso. Mamma mia, quant’è bello. Mi pare che studia ingegneria, quasi quasi cambio facoltà, tanto per gli esami che ho fatto manco se ne accorgono...» «Architettura, fa architettura» la corresse di nuovo la cugina. Sua madre, a questa nuova puntualizzazione, colorita da un pizzico di nervosismo nella voce, ebbe l’impressione che se Camilla non aveva ancora finito di mangiare il brodo di cappone, la colpa non era dello spumante bevuto e vomitato la mattina. Ma di fronte alla frangetta, al trucco, alla giacca di pelle della nipote, che aveva impregnato la cucina del profumo che usava, cercò di non pensarci. Mica come quel disgraziato del marito che non ci pensava proprio, ma in un altro senso. Quando sua moglie accennava al fatto che Camilla mai e poi mai aveva mostrato un guizzo, un particolare entusiasmo per qualcosa come

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un lavoro, un regalo, un compagno di scuola, qualunque cosa che nei suoi coetanei avrebbe destato una bramosia, un’invidia, o almeno una notte insonne, suo marito le diceva che non doveva preoccuparsi, che la loro figlia stava bene così, era appagata da quello che aveva e che c’era tempo per farsi venire le smanie per qualcos’altro. Poi, visto che Giovina non sembrava mai convinta della sua spiegazione razionale, al momento di andare a dormire, si soffermava sull’uscio della camera della figlia, la sentiva serenamente ronfare, intravedeva la peluria del gatto che si alzava e si abbassava al ritmo del suo respiro. Allora si diceva che suo marito poteva avere ragione. In corridoio tenevano appesa una foto ingrandita fatta a Camilla all’epoca delle elementari. Aveva già un naso “da grande” e gli occhiali di Breznev e, guardandola, sua madre sperava fortemente che suo marito avesse ragione.

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Stefano Ceccarelli

Le persone che ti restano dentro sono quelle che avresti voluto accanto. Camilla Portafortuna

In copertina foto © GettyImages/Betsie Van der Meer

Grafica: zero91 s.r.l.

Camilla Portafortuna

Stefano Ceccarelli (Roma, 1963) è uno sceneggiatore di commedie per cinema e tv. Con il corto Riduzione di personale ha vinto il Premio Kodak 2002, come Miglior corto italiano; nel 2005 ha scritto Credevo non arrivassi più, un film interpretato da Lorenza Indovina. Nel 2009, ha scritto la sceneggiatura di Due mamme di troppo, diretto da Antonello Grimaldi e interpretato da Angela Finocchiaro, Lunetta Savino, Sabrina Impacciatore e Giorgio Pasotti. Camilla Portafortuna è la sua prima fatica letteraria.

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Camilla vive in provincia ed è solo un’altra ragazza invisibile che non sarà mai amata da un eroe coraggioso come quelli dei fotoromanzi o da Bruno, il figlio del padrone di una fabbrica di infissi. Camilla però ha un dono che ancora non conosce. Porta fortuna a chi le sta intorno. Per seguire un sogno, si trasferisce a Roma dove lavora come impiegata alle poste e, anche lì, dispensa frammenti di fortuna (e consigli rubati dalle pagine dei fotoromanzi) ai colleghi e ai clienti che cominciano a conoscerla e a volerle bene. Il destino tramato da una favola le fa rincontrare Bruno e sarà pure una coincidenza ma, da quel momento, ogni cosa per lui comincia a girare per il verso giusto. E così, quel giovane – gentile quanto ambizioso – progressivamente non fa più un passo senza avere a fianco la sua Camilla portafortuna. Per alcuni, però, la vita non è sempre una favola. Le principesse non sono mai timide e goffe come la nostra Camilla. Il principe bello, in questa storia, ha il cuore occupato e la Fortuna non sempre cede il passo all’Amore.


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