Eudeamon

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6-12-2008

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Erika MOAK

Erika Moak è nata in Arkansas nel 1975. Ha una laurea in storia dell'arte. Da anni scrive racconti ed Eudeamon è il suo primo romanzo pubblicato.

Erika MOAK

EUDEAMON

Ora conosco il mio nome. Il mio nome è Inverno.

EUDEAMON

foto © Shutterstock Images TTphoto/Indigo Fish Progetto Grafico Giacomo De Panfilis

€ 0 .0 15

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Questo romanzo racconta una storia di prigionia volontaria che diventa l’estasi d’amore di un’anima sola. Nell’immaginaria città di Eudemonia, i criminali possono scegliere di scontare la loro pena in una sorta di prigione mobile – il banesuit – il cui perimetro è dato da una seconda pelle che li isolerà dal mondo. Katrina Nichols, una giornalista caparbia e coraggiosa, decide di avviare un’inchiesta per verificare se non si tratti di una punizione disumana e ingiusta. Riesce a scambiare la propria identità con una ragazza in procinto di essere condannata e diventa così un Bane, un detenuto che vaga indisturbato ma che percepisce il mondo solo attraverso la voce del suo Custodian. Eppure, in quell’isolamento, qualcuno le insegnerà l’Amore, quello stato di grazia dirompente che frangerà gli argini del passato. Attraverso la sua protagonista, Erika Moak traccia un viaggio avvincente e malinconico come il riflesso più nitido dei nostri desideri, delle nostre fantasie e dei mille condizionamenti che ci impediscono di manifestare pubblicamente quello che siamo. Eudeamon ci condanna a condividere i doni più straordinari della vita. Prendono il nome di una stagione commovente e piena di gioia che valica l’elaborazione del lutto, il desiderio di vendetta e, in ultima analisi, l’amore per il Prossimo.



Erika MOAK

EUDEAMON Tradotto da:

Winthorpe Foghorn Zinnemann

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Titolo originale dell’opera: Eudeamon Traduzione: Winthorpe Foghorn Zinnemann

Copyright © 2008 Erika Moak Copyright © 2008 zero91 s.r.l., Milano Stampato in Italia

I Edizione gennaio 2009 ISBN 978-88-95381-12-1

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Katrina Nichols seguì il Bane solitario nel parco buio. La pioggia non cessava di cadere e Katrina era completamente fradicia, nonostante l’impermeabile. Aveva un ombrello ma le sarebbe stato di impaccio per scivolare fra alberi e cespugli. Comunque, il Bane avrebbe sicuramente notato il saltellare di un ombrello alle sue calcagna e si sarebbe dileguato con un balzo come facevano sempre loro. Katrina voleva solo avvicinarne uno per intervistarlo… in qualche modo. Il parco era avvolto dall’oscurità notturna e in giro non c’era nessuno che potesse vederli – forse avrebbe avuto finalmente una chance senza correre alcun rischio. Il Bane era femmina e mostrava un atteggiamento insolito. Insolito per una persona, almeno, anche se forse non per un Bane. Si comportavano spesso in modo strano, ma come biasimarli? Chiunque avrebbe cominciato a fare stranezze dopo essere stato un Bane per un po’. Ma era stato proprio questo ad attrarre l’attenzione di Katrina: mentre passeggiava lungo un marciapiede di Eudemonia, aveva notato il Bane che danzava – danzava, davvero incredibile – in mezzo al parco, incurante della pioggia che gli scrosciava sulla pelle nuda e nera. Molti dei Bane che aveva cercato di contattare erano scontrosi e, con ogni più piccolo movimento, non esprimevano che la miseria del loro stato. Era comprensibile. Nel migliore dei casi assumevano un’aria di paziente rassegnazione nel vedere la vita che attorno a loro proseguiva. Ma alcuni, come questo nel parco, sembravano perfettamente felici della loro situazione. Katrina era molto curiosa di conoscerli meglio.

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Il Bane continuò a svicolare fra gli alberi e più volte Katrina rischiò di perderne di vista la sagoma, flessuosa e scura. La pioggia si ridusse a un’acquerugiola petulante. Il coro delle raganelle arboree e il picchiettare delle gocce sulle foglie attutivano i suoni della città fuori dal parco. Il Bane scivolò fuori dalla macchia, andò a fermarsi in un prato aperto e piegò la testa all’indietro a guardare le nuvole. Katrina fu costretta ad accovacciarsi ai margini della foresta: se il Bane si fosse spaventato e fosse partito di corsa attraverso il campo, non sarebbe mai riuscita a raggiungerlo. A disagio, contorse le spalle sperando che si desse una mossa. Dalle foglie, gocce di pioggia le colavano nel colletto della camicia scorrendole giù fra le scapole. Finalmente, dopo essere stata immobile in campo aperto per alcuni minuti, il Bane scese lungo la lieve pendenza dell’argine di un ruscelletto e, con qualche spruzzo, si fece strada nell’oscurità sotto un basso ponte pedonale. Katrina lo seguì, scivolando sull’erba bagnata della riva, e con cautela si avvicinò al ponte. La luce dei lampioni le consentiva a malapena di intravedere la figura del Bane, che sembrava in procinto di sistemarsi per la notte. «Salve?» si arrischiò a dire Katrina. All’istante, il Bane balzò in piedi. Palesemente allarmato, rimase immobile, col corpo leggermente arcuato, pronto a fuggire da un momento all’altro. «Aspetta!» gridò in fretta Katrina. «Non scappare, ti prego non scappare. Non ti farò del male, lo prometto. Voglio solo parlarti.» Il Bane, teso e diffidente come un animale, inclinò la testa. Certo che doveva sentirsi confuso. Probabilmente era la prima volta da anni che qualcuno gli rivolgeva la parola. Almeno non era ancora scappato via. «Non ti farò del male. Mi chiamo Katrina Nichols. Sono una giornalista. Non sono di qui. Non abito a Eudemonia. Parlare con me non è pericoloso, lo prometto. Non ti metterò nei guai.

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Voglio solo parlare.» ‘Parlare’ era un termine relativo, Katrina lo sapeva bene: i Bane non erano in grado di far sentire la loro voce. Ma per comunicare c’erano altri sistemi. Trattenne il fiato per l’eccitazione quando il Bane, lentamente e con mille esitazioni, si avventurò piano piano fuori da sotto il ponte. Finalmente! Il Bane si raddrizzò e rimase in piedi a pochi passi da lei. La pioggia gli imperlava il casco, scivolando via lungo la superficie neutra. Solo il petto ansante ne rivelava l’agitazione. Trovarsi lì nel parco deserto, sola con quella bizzarra visione, era un’esperienza che la intimoriva un po’. Ma Katrina era abbastanza certa di non correre rischi: le restrizioni comportamentali imposte ai Bane dovevano impedirgli ogni atto di violenza nei confronti dei civili. In teoria, almeno. Mentre lo guardava, Katrina avvertì una lieve pulsione erotica, come ogni volta che ne vedeva uno. Un’attrazione segreta che, fin dall’inizio, l’aveva trascinata a indagare sul mondo segreto dei Bane. Benché non l’avesse mai indossato davvero, aveva sempre provato una fascinazione inspiegabile per il lattice di gomma, e il Bane era tutto lattice. Ne era ricoperto completamente, dalla testa alla punta dei piedi. Lattice nero, luccicante. Il completo non lasciava nulla all’immaginazione e allo stesso tempo non rivelava niente. Era molto più che aderente; non aveva cuciture, cerniere lampo né alcun tipo di apertura. Non c’erano pieghe o punti usurati che permettessero di identificarlo come un normale abito di lattice, o qualsiasi altro tipo di indumento. Sembrava più una seconda pelle che un completo, quasi che fosse dipinto direttamente sul corpo. Ma la pelle scintillante era solo una parte della stranezza dell’insieme. Il Bane indossava anche una specie di casco completamente privo di fattezze – la testa era racchiusa da un guscio ovoidale, il volto intrappolato dietro a una superficie vetrosa completamente liscia, nera e sfavillante. Aderiva perfettamente ai contorni della testa e aveva a malapena lo spazio per i linea-

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menti, anche se non era possibile vederli. Non c’era nemmeno una minima sporgenza che potesse suggerire orecchie o naso. Era come se il volto fosse stato cancellato. Katrina sapeva che il Bane, in qualche modo, era in grado di vedere al di fuori, ma gli oculari erano invisibili, perfettamente mimetizzati nel casco. Nel complesso, più che un essere umano sembrava una bambola senza volto rivestita di gomma. L’impressione era ancora accentuata dalla figura perfetta del Bane – una figura mozzafiato per cui Katrina, ormai trentacinquenne, provava anche una certa invidia. Sapeva che, grazie alle limitazioni alimentari, i Bane sviluppavano spesso un fisico notevole, ma la perfezione innaturale delle curve di quella donna racchiusa nel lattice non sembrava attribuibile a una semplice dieta. Katrina si domandò chi fosse stato questo Bane, e che razza di crimine potesse aver commesso per ridursi in uno stato così miserevole.

I Bane, la definizione gergale di quelli che erano stati messi al bando, erano i soggetti di un sistema penale in fase di sperimentazione nella città di Eudemonia. Eudemonia era stata progettata dalle fondamenta, uno dei molti centri abitati di media grandezza nati via via che la gente fuggiva dalla congestione e dalla sovrappopolazione delle metropoli. I fondatori la consideravano una comunità idilliaca ma i detrattori della città ne parlavano come di un opprimente stato di Polizia. A dispetto di qualsiasi critica esterna sulla gestione, la crescita della città era stata rapida. I vantaggi che poteva offrire erano molti: strade pulite, architettura curata, parchi numerosi, scarsa disoccupazione, un basso livello di criminalità e un bel po’ di posti di lavoro nell’high tech. Era un luogo abbastanza piacevole dove farsi una casa, per chi non aveva problemi a obbedire alle regole e non si curava dei Bane in circolazione.

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Alcuni anni prima, quando il problema dell’affollamento delle carceri aveva prodotto numerosi progetti sperimentali di riabilitazione e punizioni alternative, Eudemonia aveva tentato una strada nuova. Con l’aiuto della Ashton Technologies, un istituto di ricerca del luogo che era stato fra i principali responsabili nella fondazione della città stessa, il consiglio cittadino aveva istituito il Progetto Banishment. Se la messa al bando e l’emarginazione erano forme antiche di punizione, Eudemonia utilizzava tecnologie all’avanguardia per portare il concetto a un livello superiore e ben più inquietante. L’idea era che ogni criminale, invece di affollare la cella di un carcere, divenisse la propria prigione ambulante. I Bane, come presto vennero chiamati, erano lasciati liberi di vagare per la città come paria. La cittadinanza era tenuta a ignorarli e trattarli come se non esistessero. In effetti, si poteva essere multati anche solo per aver parlato a un Bane – era una Violazione del Banishment. Un Bane non poteva essere trattato con gentilezza né con crudeltà, non era ammesso nemmeno riconoscerne in alcun modo la presenza. Tentare di aiutare un Bane, o ospitarne uno, era un reato da codice penale.

In un tempo sorprendentemente breve, i primi Bane cessarono a tutti gli effetti di esistere agli occhi della comunità di Eudemonia. Essere messi al bando e completamente esclusi dalla società era considerato una punizione terribile. I Bane potevano osservare la vita proseguire attorno a loro, ma non parteciparvi in alcun modo. Non era loro permesso prendere contatto con gli amici o con la famiglia. Non potevano entrare in alcuna struttura, pubblica o privata, che non fosse stata progettata appositamente. I sensori di prossimità contenuti in ogni completo li punivano se anche solo tentavano di entrare in qualche edificio o uscire dalle aree designate. Non era loro consentito avvicinarsi troppo ad altri

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Bane, perché non potessero offrirsi reciprocamente conforto o compagnia. Essere un Bane significava trovarsi sempre solo nel mezzo di una città operosa. A rendere le cose peggiori per i Bane, era il Banesuit che erano costretti a indossare. Non solo li privava dell’identità ma anche di qualsiasi aspetto umano: il volto spariva dietro a un casco aderente e privo di fattezze, i segni particolari erano coperti dalla aderentissima seconda pelle in lattice nero. Fatte salve le differenze di sesso, peso e altezza, apparivano tutti identici. Il fatto che l’assoluta aderenza del completo al corpo ne rivelasse ogni dettaglio era considerato una ulteriore umiliazione, poiché li rendeva praticamente nudi. Il Banesuit proteggeva chi lo indossava ma si diceva che ne attenuasse il senso del tatto: oltre al contatto con gli altri veniva negato anche il diritto di provare le sensazioni del proprio corpo. Come parte della punizione, ma anche come strumento di riabilitazione, la Ashton Technologies utilizzava i più recenti computer tecno-organici a tecnologia nanorobotica. Li chiamavano Custodian. Mediante un’intelligenza artificiale semplificata, il computer che ciascun Bane portava con sé dentro al casco poteva attingere alle onde cerebrali del prigioniero. Seguendo un rigido codice di regole, il computer Custode era in grado di ‘leggere’ i pensieri del soggetto e modificarne la condotta applicando punizioni fisiche. Diventava un secondino personalizzato, costantemente intento a osservare le azioni e le intenzioni di un Bane, pronto ad ammonirlo o a impartire punizioni secondo necessità. Ciò eliminava la necessità di pagare gente che tenesse traccia di tutti i Bane della città: i Banesuit pensavano a tutto. Non c’era nulla che il prigioniero potesse fare illudendosi di passarla liscia, per quanto potesse essere attento: il Custodian era sempre all’erta. Non solo, ma monitorava i segni vitali del suo ospite per individuare possibili problemi di salute – le cure di emergenza erano la sola occasione di contatto umano che fosse consentito

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nel corso della detenzione. Per i Bane, ignorati dall’esterno e castigati dall’interno, la vita era un incubo semovente. La loro esistenza era un solitario e perpetuo confino. Sul Progetto Banishment non si sapeva altro – o forse erano i cittadini di Eudemonia che non ci tenevano troppo a saperne di più. La tecnologia utilizzata era di per sé un segreto protetto con attenzione. La principale responsabile dell’invenzione, la dottoressa Ashton, aveva abbandonato il progetto da anni (non si era capito se per protesta o per sfuggire alle inevitabili polemiche sociali) e si era ritirata dalla scena pubblica, di fatto cedendo così al consiglio comunale ogni controllo sul Progetto Banishment. Né i funzionari comunali né la Ashton Technologies erano disposti a rilasciare ulteriori informazioni ai reporter curiosi o ai gruppi per la difesa dei diritti civili. C’era chi si chiedeva se tutto il progetto non fosse in pratica solo una sperimentazione umana legalizzata, con i prigionieri come cavie. Molti, come il quotidiano on-line per cui lavorava Katrina Nichols, sostenevano il dubbio che si trattasse di una violazione dei diritti civili. Benché fosse senza dubbio una punizione crudele e insolita, veniva comunque applicato ancora su base volontaria. I prigionieri che accettavano di aderire al Progetto Banishment, invece di affrontare il sistema penale tradizionale, avevano la sentenza ridotta di un terzo. I criminali violenti non erano ammessi al banishment; i cittadini non volevano certo trovarseli in giro. È vero che i Custodian dei Banesuit erano programmati in modo da impedire atti di violenza nei confronti dei cittadini, ma nessuno era disposto a fidarsi troppo. Anche i reati per cui la sentenza, ridotta, fosse inferiore ai cinque mesi non davano diritto all’opzione, dato che una pena così breve non consentiva alcun risparmio economico. Quelli che finivano per diventare Bane provenivano in genere dal ceto impiegatizio, o erano prostitute, scassinatori, spacciatori e altri. Come ulteriore deterrente, chi si offriva volontario per partecipare al Progetto non aveva più la scelta di rientrare nel

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sistema regolare se, in seguito, avesse commesso un altro reato – sarebbe tornato dritto al banishment. Di fatto, il metodo si stava rivelando efficace e, a parte questo vantaggio, costava poco. Una volta fatto l’investimento iniziale per il completo e il Custodian, il costo del mantenimento ordinario per un Bane richiedeva solo una frazione di quello richiesto per un carcerato. I livelli del crimine erano bassi. Chi optava per scontare la sua sentenza come Bane, di rado commetteva nuovi reati. La punizione, da parte di chi l’aveva provata di persona, era considerata estremamente severa. Alcuni ex-Bane avevano bisogno di essere ricoverati in istituti di riabilitazione prima di potersi reintegrare normalmente nella società. Quasi tutti erano fin troppo contenti di mettersi l’esperienza alle spalle e si sforzavano di diventare membri produttivi della società Eudemoniana – questo quando non si trasferivano troppo lontano dalla città. Si poteva ben dire che avessero imparato la lezione… ed erano quelli che avevano vissuto come Bane per meno di un anno. Gli effetti di lungo termine erano ancora sconosciuti, semplicemente perché il Progetto non era stato avviato da molto. Non si poteva affatto escludere che i prigionieri che scontavano la pena per periodi più lunghi potessero perdere la ragione. I cittadini non avevano dati certi ma, poiché la vita a Eudemonia era così piacevole, in pochi facevano pressione per saperne di più. Anche in assenza di risposte concrete circa gli effetti a lunga scadenza, altre città stavano prendendo in esame l’idea di implementare progetti simili. La curiosità dell’opinione pubblica era in crescita. Un turista che avesse passeggiato per le vie di Eudemonia sarebbe stato salutato dalla vista di numerosi Bane in nero che gironzolavano per la città. A centinaia. Acquattati o in piedi, accanto agli edifici, attenti a cercare di evitare la folla durante l’ora di punta, rannicchiati in un vicolo o semplicemente intenti a girovagare senza meta o proposito. Non avevano altro da fare.

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Molti si concentravano nei parchi e nelle aree verdi della città, dove potevano evitare il traffico pedonale delle strade. Ma quel turista avrebbe visto che nessuno osava interagire con i Bane. Era come se due diverse società esistessero nello stesso spazio, a malapena consapevoli una dell’altra. L’unico momento di contatto si aveva se un Bane finiva tra i piedi di qualcuno. La persona poteva aggirarlo, ma era più frequente che lo scansasse bruscamente, talvolta sbattendolo a terra. Questo tipo di contatto non si considerava Violazione del Banishment, poiché ci si aspettava che un Bane fosse trattato come se non esistesse, e i Bane dovevano tenersi fuori dai piedi. Se il turista, mosso da curiosità o compassione, avesse cercato di parlare a un Bane, qualche cittadino di passaggio gli avrebbe forse consigliato sottovoce di lasciar perdere. Il più delle volte, sarebbe stato il Bane stesso a scappare, temendo una estensione della sentenza se avesse dato l’impressione di essere lui a cercare l’interazione con qualcuno. Se il civile insisteva nei suoi tentativi, poteva ricevere un avvertimento secco dalla Polizia e una bella multa, arrivando a rischiare anche l’arresto e la detenzione. Non era un segreto per nessuno che la Polizia era stata incoraggiata a usare poca tolleranza nell’affrontare la gente di fuori – attivisti e affini – che venivano in città per fare scenate e turbavano il nuovo stile di vita Eudemoniano. A portare Katrina a Eudemonia era stata la speranza di scoprire sul Progetto Banishment qualche notizia riservata, oltre al desiderio di saperne di più sulla vita e le esperienze dei Bane. Cercare di raccogliere informazioni, come previsto, si era rivelato difficile. Nessuno era disposto a parlare. Nemmeno gli ex-Bane che era riuscita a intervistare erano stati molto disponibili. Si limitavano grosso modo a dire che l’esperienza era stata un inferno, estremamente noiosa, solitaria e a volte dolorosa. Un ferreo impegno al silenzio sottoscritto all’atto della scelta del banishment non consentiva loro di rivelare alcun dettaglio sulla

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procedura cui erano stati sottoposti, o sulla natura stessa del Banesuit. Nessuno era disposto a correre il rischio di essere bandito di nuovo. A causa dei suoi tentativi di prendere contatto con i Bane, Katrina aveva già ricevuto diverse ammonizioni. Aveva cercato perciò di trovarne qualcuno nei parchi o nelle aree verdi, lontana dagli occhi delle autorità, ma i Bane che aveva incontrato la evitavano come le timide creature del bosco. Qualcuno era giunto a cercare di mandarla via con gesti arrabbiati. Uno di essi, un grosso maschio dalla muscolatura asciutta, le era rimasto vicino solo il tempo necessario a rispondere con un gestaccio alle sue richieste, poi si era allontanato scuotendo le spalle con una risata silenziosa. Un Bane femmina, addirittura, l’aveva bellamente ignorata e aveva continuato tutto il tempo a strusciarsi contro il tronco di un albero, godendosi quello che sembrava un orgasmo, quasi che la corteccia ruvida le offrisse una sorta di sensuale beatitudine. Era stata una visione strana, resa ancora più inquietante dai visitatori del parco che, passando accanto alla creatura, ne ignoravano l’attività masturbatoria come se nulla stesse accadendo.

Ora Katrina aveva finalmente davanti a sé un Bane che, per qualche motivo, non sembrava temere di essere punito dal Banesuit per aver violato le regole di contatto. Katrina sperava solo che il completo non potesse, in qualche modo, fare un rapporto a distanza su quanto stava facendo; il suo direttore, Benjamin Mellon, si sarebbe incazzato di dover pagare una cauzione per tirarla fuori di galera, o aiutarla a pagare una multa. «Solo qualche domanda. Puoi sentirmi, vero? Mi capisci?» chiese, non sapendo fino a che punto quei caschi interferissero con l’udito di un Bane. Il Bane assentì col capo, in apparenza leggermente più tranquillo, ma pur sempre all’erta.

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«Puoi dirmi il tuo nome? Da quanto tempo sei così? Non è che puoi, non so, scriverlo?» Katrina cominciò a frugarsi nella borsa alla ricerca di un blocchetto e una penna, ma il Bane aveva già trovato una soluzione. La pioggerella che gli imperlava la schiena gli ruscellò lungo i fianchi mentre si chinava a raccogliere un bastoncino, con cui si mise a scrivere sui sedimenti fangosi della riva del fiume. Barbara/Eden, scrisse. 3 anni. «Barbara Eden? Come l’attrice di quel vecchio film?» si stupì Katrina. La testa si scosse in un secco diniego. Il Bane cancellò le parole dal fango e scrisse ancora. Sono Barbara. Barbara Bane ora. Anche Eden. Katrina restò a fissare l’incomprensibile messaggio. Dopo tutto quel tempo passato in isolamento, la poveraccia doveva essere andata fuori di testa. Chissà se ai funzionari cittadini fregava qualcosa di quello che accadeva alla mente di questi prigionieri, o se ci si limitava a metterli in un angolo e dimenticarsene. «Wow. Tre anni sono un sacco di tempo. Sono la prima persona che, ehm, che è venuta a parlarti in tutto questo tempo, Barbara?» chiese Katrina. Un rapido sì con la testa. Il bastoncino scrisse ancora. Perché 6 qui? «Come dicevo, sono una giornalista. Cerco di saperne di più su questo Progetto Banishment. La gente vuole sapere. Alcuni dicono che sia disumano. Tu sei il primo Bane… voglio dire… la prima persona con cui riesca a parlare. Allora puoi dirmelo? Lo è?» chiese. «È disumano?» Barbara si strinse nelle spalle. Dipende a ki kiedi, scrisse. Fece quella che visibilmente era una risatina e si strinse nelle braccia. «Lo chiedo a te. Voglio aiutarti. Non vuoi che qualcuno racconti la tua storia?»

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Il linguaggio corporeo di Barbara espresse esitazione. Poi il Bane scrisse, in uno stampatello dal tono definitivo: NO. Katrina emise un grugnito di frustrazione. Così vicina eppure così lontana. «Perché no? Hai paura della punizione? Prometto che ti terrò del tutto anonima. Nessuno saprà mai che sei stata tu a parlare con me. Non vuoi che la gente sappia quello che hai passato? Non vuoi che tutto questo finisca?» Per un attimo parve che Barbara avesse qualche difficoltà a scegliere le parole, poi si chinò a scrivere di nuovo. Finire mai. Non sai. Non puoi sapere. Mai. Triste ke tu 6 tu. Spiace X te. «A te dispiace per me? Perché? Cosa vuoi dire?» chiese Katrina in preda alla confusione. «Cos’è che non posso sapere? Sei tu che devi dirmelo, è per questo che sono qui.» Non posso. Tu 6 umana. Tenere segreto. «Un segreto, eh? Io sono brava con i segreti. Un sacco di gente si fida di me. Se non vuoi che lo dica ad altri, io non lo farò. Parliamo ufficiosamente, allora. Dammi solo qualcosa su cui possa lavorare.» Barbara scosse la testa ostinatamente. Okay, si disse Katrina. Ricordati che è un po’ pazza, per cui non ti ci incazzare. Cerca solo di farla uscire dal guscio. «Va bene, allora niente segreti. Ma se io sono umana, tu allora cosa sei? Questo puoi dirmelo?» Io sono 1 BANE!! Sono perfezione. Tu 6 smarrita. Sono smarrita? Su questo ci hai preso, sorella, pensò Katrina. «Dammi una mano. Voglio solo capire.» Barbara ci pensò un momento. Ripulì il fango e scrisse lentamente, con attenzione. Non puoi capire. Solo bane capiscono. Bellezza oltre parole. Così felice. Eden Xfezione X me. Cessò di scrivere un momento e di nuovo si strinse nelle braccia. Piacere ke tu non immagini. Amore ke mai conoscerai. Sottolineò la parola ‘amore’ più volte per enfatizzarla. Mentre Katrina cercava di interpretare le sue parole, Bar-

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bara drizzò la testa di scatto. Katrina guardò attorno. Un paio di ombrelli si avvicinavano lungo il sentiero, ma erano ancora abbastanza distanti. Il Bane doveva avere un udito eccellente. Barbara si voltò, pronta alla fuga. «Aspetta!» disse Katrina. «Non ho ancora capito. Voglio raccontare la tua storia! Possiamo rivederci?» Barbara scosse la testa, palesemente in preda ad una evidente agitazione. Si mise in ginocchio, cancellò con l’avambraccio le scritte sul fango e riprese a scrivere in fretta, tenendo il bastone con entrambe le mani. Si voltò e scattò via, svelta come una gazzella. Il corpo rivestito di lattice scomparve nell’oscurità senza lasciare traccia. Katrina abbassò lo sguardo sulla parola singola che era scritta profondamente nel fango. EUDEAMON.

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Katrina andò a sedersi nel separé di una tavola calda notturna poco lontana dal parco. Era un’occasione per asciugarsi e cercare di capire la strana conversazione scritta che aveva appena avuto con il Bane. Non c’erano dubbi che la donna avesse sbroccato, anche se magari non del tutto. Perché mai non voleva che la sua storia venisse raccontata? Aveva paura delle ripercussioni? O semplicemente si era a tal punto abituata alla vita da Bane che aveva dimenticato come si potesse vivere in altri modi? Katrina aveva sentito parlare di prigionieri che erano rimasti in carcere così a lungo che avevano perso la capacità di fare alcunché una volta usciti. Poteva succedere qualcosa del genere anche a un Bane, nonostante la vita tremenda di privazioni che era loro imposta? Be’, decise Katrina, anche se tutte quelle scritte si fossero rivelate prive di senso, l’incontro non era stato del tutto inutile. Le personali illusioni di Barbara sembravano sostenere la teoria che un banishment di lungo periodo, se poteva spingere una persona a un simile livello di pazzia, fosse un crimine di per sé. Forse non era tutto un’illusione. Magari il Bane sapeva qualcosa, qualche segreto che la Ashton Technologies non voleva fosse reso di dominio pubblico. E poi, c’era quella parola che Barbara aveva scritto… Eudeamon. Katrina si rese conto che non era stata la prima volta che la leggeva. Esplorando la città, l’aveva vista scritta in giro. Dipinta

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sui muri, incisa sulle panchine, intagliata nella corteccia degli alberi – quella medesima parola appariva più volte. Fino a ora l’aveva ignorata, considerandola un semplice graffito, una distorsione intenzionale o meno del nome della città. Certo, come errore ortografico era curioso, soprattutto visto che si ripeteva ogni volta. Cosa può significare? Si chiese. È un codice? Un individuo, magari? Si stava avvicinando al banco per rabboccare il caffè – un caffè più che decente, fra l’altro – quando nel locale entrò un poliziotto fradicio di pioggia. L’agente tirò indietro il cappuccio del suo poncho nero, rivelando un volto poco più giovane di lei. Katrina si irrigidì, temendo che fosse venuto a cercarla. Forse qualcuno l’aveva vista inseguire i Bane nel parco, o magari il Banesuit di Barbara aveva fatto rapporto su entrambe. Con la coda dell’occhio seguì il poliziotto, che si accostò al banco per ordinare un caffè e una fetta di meringata al limone. Katrina tornò a rilassarsi. «Mi sa che se l’è beccata peggio di me, eh agente?» chiese con un tono distrattamente affabile, gettandosi alle spalle i capelli bagnati e scivolando a sedere su uno dei panchetti. L’uomo si rivolse a lei e ridacchiò. «Già, mi sa di sì. C’è un bel diluvio, là fuori, stasera. Va tutto bene?» «Oh, sì, grazie. È stata solo una lunga giornata. Un giorno di quelli.» Sorseggiò il caffè. «Spero di non darle fastidio. È che mi sento un po’ sola al momento. Non conosco nessuno da queste parti.» L’uomo fece un gesto per rassicurarla. «Ah, non c’è problema.» «Mi chiamo Katrina Nichols» disse lei porgendogli la mano. «Michaels.» Aveva una stretta forte ma gentile. Non era neanche male. «Allora non è di qui?» «Oh, no, sono solo di passaggio.» Continuò a lavorarselo con chiacchiere spicciole e qualche accorta civetteria. Era abbastanza

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sicura che il suo fascino funzionasse ancora. Dopo un po’, gli disse: «È un po’ che medito di venire a stare da queste parti. Cioè, è un po’ di tempo che ci faccio un pensierino. La città è molto carina e la gente è simpatica. È solo che…» «Oh. I Bane» disse Michaels, completando la frase per lei. Le fece un sorriso triste. «Tutti i turisti chiedono di loro.» Lei rise. «Be’, l’ultima cosa che vorrei sembrare è una turista curiosa. Ma… veramente, com’è trovarseli dappertutto? Sembra una cosa tanto strana.» Lui si strinse nelle spalle. «Tecnicamente non dovremmo neanche parlarne. Fa parte di tutta la cosa dell’evitarli, no? Davvero, ci si abitua abbastanza presto. Ma sono solo persone, sa, non animali. Anche se c’è chi li tratta… come se.» Le parve di cogliere qualcosa nella voce di lui. Era avversione? «Non le piace l’idea del banishment?» Di nuovo spallucce. «Ah, sono solo uno sbirro. Quello che penso non conta. Non sono io che faccio le leggi, io devo solo farle rispettare» aggiunse in tono troppo zelante e con un sorriso di forzata modestia. Katrina gli rispose con un largo sorriso e rimase in silenzio. «Certo, immagino di avere una qualche simpatia per loro. Cioè, magari è anche una buona idea, sembra che funzioni… ma ho visto quello che succede ad alcuni di loro. I pestaggi. Li chiamano pesta-Bane.» «Credevo fosse illegale.» «Oh, lo è» disse lui. «Decisamente. Ma quando mai dire che qualcosa è illegale ha impedito a un gruppo di ragazzini ubriachi di spassarsela come gli pare? E quelli non possono nemmeno difendersi. Almeno non accade spesso.» «Ma, a parte questo, funziona, giusto? Cioè, deve avere una sua efficacia. Non commettono più altri reati, giusto? I Bane, dico.» L’agente Michaels fece un sorrisetto fra sé e sé. «Così dicono» bofonchiò.

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Katrina drizzò le orecchie. «Dicono così? mi sembra di capire che ci sia dell’altro.» «Bah, non dovrei parlare di queste cose» disse lui, ma il modo nervoso in cui rigirava la forchetta fra le dita diceva che voleva farlo. L’esperienza aveva insegnato a Katrina che alcune persone sono pronte ad aprirsi in modo sorprendente davanti a uno sconosciuto che si comporta in modo amichevole, così rimase a sbirciarlo con la massima attenzione, evitando di spingere o apparire troppo curiosa. Alla fine l’agente riprese. «Ho sentito certe cose. Visto certe cose. Cose che mi fanno pensare che non ci dicano tutto.» «Tipo… cosa?» «Be’…» disse lui, strofinandosi la nuca. «Boh, non so. È che il mio settore, di recente, ha dovuto affrontare sempre più spesso certi comportamenti inspiegabili. Cioè, ora che le sentenze di alcuni dei Bane a tempolungo cominciano a scadere. Sa, quelli che sono stati banditi per un paio d’anni o giù di lì. Cioè, se sei stato un Bane per due anni, dovresti essere parecchio eccitato a sapere che la tua pena sta per concludersi, no?» «Penserei di sì.» «Già, anch’io. Terresti la testa bassa, cercheresti di non attirare l’attenzione, aspettando che il tempo scada. Giusto? E alcuni lo fanno. Ma ci sono altri che, proprio verso la fine della pena, si scatenano: vandalismo, Violazione del Banishment, danneggiamento di proprietà. È gente che – be’, molti di loro, almeno – non ha sgarrato una sola volta durante tutta la pena. E poi, all’improvviso, quando è quasi finita, danno fuori di matto? Aggiungendo anni alla sentenza? Non ha senso. Queste stronzate uno se le aspetta da qualcuno che è del tutto nuovo al banishment, che magari ha uno scatto di insofferenza, un impulso a ribellarsi. Invece quelli non lo fanno – in teoria non possono proprio farlo – ma i tempolungo invece sì. E a noi non ci permettono nemmeno di parlarne, tantomeno fare domande. E questo mi rode.»

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«Ma credevo che i Banesuit impedissero di fare cose di quel genere.» «Questo è un altro problema» disse lui, animandosi ancora di più. «Non lo impediscono più. Non in quelle situazioni. Oh, funziona alla grande con i tempocorto, ma quanto più la sentenza è lunga, tanto meno sembra che gli inibitori funzionino. Penso che magari sia il programma, che dopo un po’ si guasta. Imperfezioni che non hanno ancora piallato. Cavolo, magari è pure qualcuno che riesce a penetrare nel sistema, magari un attivista anti-banishment che cerca di fare casino. Quale che sia la verità, la Ash-Tech non ci dice niente.» «Quindi mi sta dicendo che gli inibitori comportamentali si rompono?» «Non so. Fa parte del mistero. Gli incidenti di quel genere si sono un po’ ridotti, di recente, e comunque non sono mai stati frequenti. Per cui forse era solo un baco e l’hanno risolto ma, come dicevo, tutto il resto del tempo si comportavano bene. Non hanno mai compiuto atti di violenza nei confronti dei cittadini» aggiunse un po’ in fretta. «Non c’è nulla di cui preoccuparsi. No, quello che mi preoccupa di più è la sicurezza dei Bane che stanno là fuori. Per dirgliela tutta, se fossero in grado di difendersi da soli, non è che mi spiacerebbe vedere uno di quei teppisti pesta-Bane che si becca quello che si merita. Non mi spiacerebbe nemmeno un po’.» «Wow.» «Ma non mi fraintenda» disse con un sorriso rassicurante. «Non voglio darle un’impressione negativa o roba del genere. Non è che sia tutto ‘sto gran problema. A parte qualche domanda senza risposta, Eudemonia è davvero un bellissimo posto per vivere.»

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«C’è decisamente sotto qualcosa, Ben» disse al direttore in video-chiamata. Aveva appena finito di fargli un primo rapporto sull’esperienza e si stava rilassando, nel piccolo appartamento dove abitava, dopo le due ore sul treno mag-lev da Eudemonia. Era sempre piacevole rientrare, anche se casa sua era piccola e stipata di cose. «Certo, sono notiziole interessanti, ma non è che ci sia molto su cui lavorare, no? Però è vero che tutto conferma alcuni particolari scoperti da Verne» disse Benjamin, il cui viso rotondo riempiva lo schermo video da margine a margine. Si riferiva a Verne Sawyer, un tecno-geek stipendiato dal giornale. Katrina qualche volta ci aveva lavorato. Non era proprio un giornalista, ma la sua esperienza coi computer e le sue capacità di hacker avevano in passato contribuito a tirar fuori informazioni preziose. «Lavora da tempo sulla Ashton Technologies e la sicurezza di quel posto è estremamente rigida. Lui però è riuscito a tirar fuori dal sistema un memo che non era stato eliminato correttamente. Qualcosa sul trattamento di pazienti catatonici o che hanno avuto una tendenza al suicidio dopo essere stati liberati dal banishment. C’è un frammento in cui si ‘raccomanda la costrizione fisica di tutti i pazienti dopo il suicidio del paziente T-5067’, e anche un po’ di altri dettagli.» «Onestamente non mi stupisce» disse Katrina. «Il modo in cui viene trattata questa gente, che siano o meno di criminali, è

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sbagliato e basta. Sarei sorpresa che qualcuno riuscisse ancora a funzionare normalmente dopo una simile tortura psicologica. Per non dire dell’umiliazione. La gente deve sapere, essere informata di quello a cui i Bane sono sottoposti. Il problema è che non mi è riuscito di far parlare nessuno degli ex-Bane. Diavolo, ho cavato più roba da quel poliziotto che da uno di loro. Sembrano proprio terrorizzati.» «Puoi biasimarli? Lo sai qual è la pena per chi vìola l’accordo di non divulgazione in città? Banishment automatico. Dì una sola parola e torni dritto in abito scuro. Non c’è male come posto di blocco, no?» Le labbra di Benjamin si torsero in una smorfia. «Penso solo che non ci sia molto altro che possiamo farci, ora come ora. Mi ci vuole qualcosa di più delle dicerie di uno sbirro o di qualche Bane pazzo e perduto in se stesso che scrive nel fango pessime poesie.» «Ma Ben…» «Lo so, mica devi dirmelo tu. Ma certo non possiamo far circolare congetture e accuse senza prove solide. Lasciamolo fare agli altri. Noi abbiamo una nostra integrità. Se non salta fuori qualcuno che decide di farsi avanti, o se il sistema non crolla da solo, il fatto è che non abbiamo materiale a sufficienza per una storia vera e propria.» «Benjamin. Potrebbe non accadere mai.» «Forse, forse no. È nella natura dell’universo che i sistemi crollino» disse Benjamin. «Non fare il metafisico con me. Quella gente sta soffrendo adesso.» «In realtà era termodinamica, non metafisica» la corresse, asciutto. «So quanto questa faccenda ti stia a cuore, Nichols, te l’assicuro. Ma a meno che tu non mi trovi una gola profonda o convinca uno di quei Bane a parlare per dire qualcosa che abbia senso, non c’è molto che possa fare.»

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Più tardi, quella sera, Katrina era sbracata a letto con il laptop. Aveva cercato di fare qualche ricerca sulla parola eudeamon, ma non aveva trovato granché. Eudemonia era un termine del greco antico che definiva il trovarsi in uno stato di felicità, l’essere governati dalla ragione o, in generale, essere benedetti dagli dei. Nulla di più di quanto si potesse apprendere dai dépliant promozionali della città di Eudemonia. Certo i fondatori non avevano scelto quel nome a caso. Un eudeamon, invece, era uno spirito, un demone o un angelo benevolo. Katrina non riusciva a capirci molto. Tutte le ricerche su eudeamon in connessione alla vera città di Eudemonia restituivano solo articoli con errori di ortografia. Si lasciò cadere sulla schiena e si strofinò gli occhi. Magari era davvero un codice, una qualche forma di comunicazione segreta fra Bane. O forse era una sorta di preghiera Bane per chiedere aiuto o invocare qualche salvatore? Oppure si trattava di una persona. O poteva essere chissà quante altre cose. Ma troppe possibilità equivalevano a un altro vicolo cieco. Il suo desiderio di svelare personalmente quella storia era palpabile, ma Benjamin aveva ragione; doveva avere la certezza che ci fosse una storia da svelare. Tornò col pensiero ai Bane o, più precisamente, al Banesuit. Era innegabile che l’aspetto del completo le provocasse una certa eccitazione, anche se unita a un senso di colpa. Non riusciva a toglierselo dalla testa, immaginando come sarebbe stato ritrovarsi al posto di un Bane. Come poteva essere trovarsi rivestiti da tutto quel lattice, intrappolati in esso contro la propria volontà? Che tipo di sensazione si provava? Quella liscia tensione tutta attorno, su ogni centimetro del corpo, senza possibilità di fuga e senza alcun modo per togliersela di dosso… Piacere che tu non immagini. Proprio mentre la mano iniziava a scivolarle all’interno dei pantaloni, il telefono squillò.

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Con un gemito, si girò sul fianco. L’identificativo di chiamata la informò: era Steven, il suo fidanzato da cinque mesi. Sollevò la cornetta con impazienza. «Ehi, ciao tesoro, perché non chiamavi?» chiese. «Oh, ehm, ciao! Non sapevo bene quando avresti avuto un attimo per parlare, visto che eri appena rientrata.» «Sarei anche in vena di fare qualcosa di più che parlare. Credimi, dopo la settimana che ho passato mi ci vuole qualche piacevole distrazione. Ho passato tutta la notte a cercare di fare ricerche su quei Bane. Ma comunque, non ci pensiamo. Bisogna che stacchi un po’ dal lavoro. Sarò anche stanca, ma…» «Eh, senti, ti chiamavo per quello» disse Steven, improvvisamente a disagio. «Guarda, ci ho pensato su un sacco e…» «E…?» «È che… non penso che… insomma, non va. Penso che sia ora che cominciamo a vederci con altre persone.» Un peso freddo colpì Katrina in pieno petto. «Che stai dicendo? Mi stai scaricando? Al telefono?» «Be’, ehm…» «Ma cosa è successo?» chiese Katrina. Stava facendo ogni sforzo per non piangere, ma sentiva il calore delle lacrime che le montava negli occhi. «Perché proprio adesso? Andavamo così bene la settimana scorsa!» «No, non andavamo bene» rispose Steven, «e penso che tu lo sappia. Non abbiamo più un vero rapporto, Katrina. Non è colpa di nessuno». «Allora è finita? Dopo tutto questo tempo, finisce tutto così?» «Mi dispiace» disse lui. «Andiamo, parlami, dimmi qual è il problema. Possiamo trovare una soluzione, lo so» disse Katrina, rendendosi conto che cominciava a sembrare un po’ patetica, ma infischiandosene. «Aspetta, ma non sarà per quelle fantasie un po’ strane di cui ti ho parlato?»

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«Che? No. È solo che non c’è niente a cui trovare una soluzione. Alcune persone non sono fatte per stare insieme, ecco tutto. Mi dispiace, ma… senti, devo andare.» «Già. Devo andare. Certo» disse lei a bassa voce e riattaccò il ricevitore. Poi lo risollevò, solo per sbatterlo di nuovo sulla forcella con rabbia, ripetutamente. Tornò a ruotare su se stessa, seppellì il volto nel cuscino e le cateratte si aprirono. Il colpo era stato così inatteso. E perché proprio adesso? Non aveva già abbastanza pensieri? Stronzo insensibile. Non è che di Steven fosse stata innamorata pazzamente o roba del genere. Ma, in ogni caso, gli aveva voluto un po’ di bene. Con lui era riuscita ad aprirsi, almeno un poco. Stare insieme la faceva sentire normale, come se stesse facendo qualcosa nel modo giusto. Ora doveva ricominciare tutto da capo. Solo che ogni volta era più difficile. Non un’altra volta. Non voglio essere di nuovo sola, pensò tristemente mentre le lacrime, pian piano, bagnavano la federa. Perché mi ritrovo sempre sola? Perché non riesco a trovare niente di reale? Quante volte è già successo? È che alcune persone non sono fatte per stare insieme, Steven? Oppure sono io che non sono fatta per stare con qualcuno, mai? Dovrò invecchiare da sola? Non lo sopporto, non lo sopporto, non lo sopporto.

Il mattino dopo rimase a lungo a fissare il soffitto, stesa fra le lenzuola disfatte. Aveva pianto tutte le sue lacrime e si sentiva svuotata e intontita. Steven, per quanto così stronzo da mollarla per telefono, aveva avuto ragione su un particolare: non era mai riuscita ad avere un rapporto stabile con nessuno. Perché non era capace di far durare una relazione? Perché doveva ritrovarsi sempre sola? Non capiva nemmeno in cosa sbagliasse. Ma sbagliava davvero? O erano gli altri che non sapevano creare un rapporto con lei? Le pareva di non avere alcuno al mondo a cui interessasse

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sapere come stava. Qualche amica, forse qualche collega. Non aveva più una famiglia, zero assoluto. Sua madre era morta poco dopo la nascita di Katrina. Suo padre non si era risposato. Aveva concentrato tutta l’attenzione su Katrina mentre lei cresceva. E perché mai era dovuto morire prima ancora che lei uscisse dal liceo, lasciandola sola ad affrontare il futuro senza una guida? Alla fine si ritrovava sempre da sola. Alla fine le restavano solo un po’ di ricordi sbiaditi. Tirò su col naso e si stropicciò il viso con le mani. Aveva sempre affrontato i rapporti con troppa cautela, timorosa di scoprirsi troppo. Quello era uno dei problemi. La paura di farsi male rendeva inevitabile che si facesse male ogni volta. Per tutta la vita aveva evitato di aprirsi veramente, di correre davvero un rischio. Ci voleva un cambiamento, un cambiamento serio. Qualcosa che facesse la differenza. Affrontare un rischio reale con reali prospettive di successo. Eccitazione. Sfida. Rendere la propria vita degna di essere vissuta. Perché no? si chiese. Già, perché no? Rotolò giù dal letto e si mise a posto il viso e i capelli. Poi prese il video-telefono e chiamò il capo. «Benjamin? Sì, ciao. Senti. Ti sembrerà una follia, ma mi è venuta un’idea.»

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Un mese dopo Katrina Nichols, alias Vivienne Mulberry, si trovava in un tribunale di Eudemonia a difendersi da un’accusa di prostituzione. Sarebbe stata nientemeno che la sua quarta condanna. L’aspettava una pena detentiva molto lunga. «Signorina Mulberry, come si dichiara?» «Colpevole, Vostro Onore» biascicò Katrina. Non si era mai trovata in un tribunale prima. Anche solo restare in piedi lì la faceva sentire colpevole. Era sulle spine. Con le gambe tremanti riguadagnò la sedia e si astrasse da tutto mentre il giudice esaminava la questione e gli avvocati borbottavano in legalese. Non riusciva quasi a credere che stesse accadendo sul serio. E… per prostituzione? Che ridere, Benjamin. Era davvero umiliante, ma era inutile stare a lamentarsi. Serviva a ottenere il risultato e alla fine era solo il mezzo per raggiungere quel fine. Ben presto le accuse sarebbero state irrilevanti. Provava una strana euforia, il brivido di fare qualcosa di sbagliato e farla franca. E provava anche paura. Molta paura. «Signorina Mulberry» disse il giudice, una donna più anziana, arcigna, con labbra sottili e guance leggermente cadenti. «La sua disponibilità ad ammettere i suoi atti illeciti, senza sprecare il tempo della corte, depone senz’altro a suo favore. Tuttavia, trattandosi della sua quarta infrazione, nella sentenza dovrò comminarle un minimo obbligatorio. Ha qualcosa da dire?»

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«Io, uh» bofonchiò Katrina, facendo uno sforzo genuino per esprimere in una frase la sua contrizione. Decise che meno parlava meglio sarebbe stato. Non era un’attrice e quello non era il set di un film. «No, Vostro Onore.» «Molto bene. La condanno a una detenzione non inferiore a quattordici mesi. In conformità con lo Statuto del Banishment, lei può optare per l’esilio pubblico o una pena commutata a otto mesi. Qual è la sua scelta?» Rabbrividendo, Katrina fece un profondo respiro per cercare di riprendersi. «Banishment.» «Come desidera. Sarà immediatamente rinviata per la custodia nelle strutture della Ashton Technologies, dove sarà sottoposta al trattamento. Il tempo necessario per la procedura sarà scomputato dalla pena complessiva.» Il martelletto batté sulla base. La gente cominciò ad aggirarsi per l’aula del tribunale preparandosi al caso successivo. Un commesso aiutò Katrina ad alzarsi e l’accompagnò verso l’uscita. Eccoci, pensò.

Benjamin Mellon ci aveva messo un po’ ad accettare l’idea. Aveva cercato di convincerla a ripensarci, di farle capire che era una follia. Ma non si poteva dire che ci avesse provato con tutte le sue forze. Era pur sempre un mercenario dei media e sapeva riconoscere a naso le potenzialità di una storia. Katrina aveva sempre saputo che le preoccupazioni personali del direttore per la sicurezza e il benessere di un suo giornalista sarebbero, alla fine, passate in second’ordine di fronte alla sua sete di una buona storia. C’era voluta una lunga pianificazione e il ricorso a un vecchio amico di Benjamin – un poliziotto con accesso agli schedari di Polizia e tribunale. Era stato abbastanza semplice trovare Vivienne Mulberry, una cittadina di Eudemonia condannata più volte e

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che corrispondeva, grosso modo, alla descrizione di Katrina. La signorina Mulberry sarebbe presto dovuta apparire davanti alla corte per un’udienza circa le sue ultime imprese nel mondo della prostituzione. Non aveva famiglia, nessuno si sarebbe accorto se fosse ‘scomparsa’. Non era stato difficile entrare in contatto con la donna e convincerla per un po’ di tempo a scambiarsi le identità. Di fatto, ne era stata fin troppo entusiasta. Dopo di che, qualche maneggio nel database, et voilà, nella fedina di Vivienne c’erano la foto e i particolari di Katrina. La vera Vivienne si era beccata una vacanza gratis mentre qualcun altro scontava la sua pena. Non poteva certo lamentarsene, soprattutto perché le era stata concessa anche una sostanziosa remunerazione (parte della quale offerta da Katrina stessa) per assicurarsene il silenzio. Certo, ciò che stavano facendo era illegale, ma ogni persona coinvolta sentiva che i potenziali benefici controbilanciavano il reato. Avrebbe potuto esserci qualche conseguenza, ma se Katrina avesse potuto scoprire qualche schiacciante informazione interna, e fornire prove della disumanità del trattamento, certo questo avrebbe posto in ombra lo scambio di persona e le manipolazioni che erano state commesse per ottenere quel risultato. In seguito, quando avesse finalmente potuto raccontare la sua esperienza diretta, Katrina avrebbe mantenuto la complicità di Vivienne sotto il più stretto riserbo. Non voleva che la donna passasse un guaio per aver evitato una pena che le spettava. E se non avesse scoperto nulla e l’esperienza non si fosse rivelata poi tanto più dura di quelle subite in un sistema carcerario regolare? Be’, niente danno, niente fallo. Alla fine, lei e Vivienne avrebbero ripreso ciascuna il proprio ruolo, con la pena di Vivienne già scontata per intero, e nessuno ne avrebbe saputo niente. Katrina avrebbe perso qualche mese, ma c’era da sperare che ne sarebbe valsa la pena. Come minimo, almeno avrebbe saputo la verità. In realtà le sue motivazioni non erano interamente altruistiche. Esultava all’idea di fare finalmente qualcosa, buttarsi e

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affrontare un’esperienza, magari anche snervante, nel nome di una storia. Autentica integrità giornalistica. Non c’era dubbio che l’impresa avrebbe messo il suo nome sotto i riflettori. Magari ci sarebbe scappato anche un premio Pulitzer. C’era anche un’altra motivazione più oscura, segreta, che Katrina a stento riusciva ad ammettere persino a se stessa. Una parte di essa nasceva dal suo breve incontro con Barbara. Moriva dalla voglia di sapere che cosa il Bane avesse trovato, nella sua situazione, di tanto stupendo e piacevole. Quel mistero era divenuto per lei quasi un’ossessione. E chi o cosa era questo eudeamon? Inoltre, fin dalla sua precedente visita a Eudemonia, il pensiero le tornava spesso ai Bane e ai loro completi-trappola, neri come l’ebano. Come sarebbe stato indossarne uno senza potersi liberare? Intrappolata nel lattice per mesi? Il pensiero le dava una vertigine di paura e… di qualcos’altro. Qualunque cosa fosse, anche solo pensarci la faceva sentire colpevole. Riuscì a spazzare i pensieri sotto il tappeto del suo subconscio. Voleva restare concentrata e professionale. Tuttavia, mentre aspettava il suo destino in una piccola cella di detenzione del tribunale, qualche dubbio cominciò a venirle. Quella che, durante il momento di nichilismo depressivo seguito alla rottura con Steven, le era parsa un’ottima idea, si faceva sempre più minacciosa. Stava accadendo sul serio. Si era veramente offerta volontaria per farsi cancellare l’identità e spogliare della sua umanità, anche se solo temporaneamente. Dopo aver udito quanto era accaduto ad altri, sapeva anche che correva il rischio di subire un danno mentale. Sperava che la luce in fondo al tunnel l’avrebbe aiutata a mantenere l’equilibrio. Dopo tutto, non era davvero una criminale, e questa non era una pena. Era una missione. E comunque era troppo tardi per tornare indietro. Sarebbe dovuta andare fino in fondo. Dopo qualche ora di attesa, una guardia venne per farle indossare manette e cavigliere, con una cintura che le bloccava le mani

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sulla vita. Le parve una precauzione inutile, ma almeno aveva ancora i suoi abiti di ogni giorno e non una tuta da carcerato. La fecero passare da una porta sul retro del tribunale. All’esterno, in un parcheggio cinto di mura, l’aspettavano un’altra coppia di guardie e un furgoncino adibito per il trasporto dei prigionieri. La porta era decorata dal logo della Ashton Technologies. Due prigionieri erano lì in piedi, l’aria ansiosa e a disagio, mentre gli altri venivano aiutati a salire sul furgone. In totale erano cinque, inclusa Katrina. Due uomini e altre due donne. Quando tutti furono caricati sul veicolo e assicurati ai sedili, Katrina si trovò accanto a una ragazza magra, scossa da brividi e che sembrava appena uscita dall’adolescenza. Sembrava che avesse pianto da poco. Offrì a Katrina un sorriso nervoso. «Uhm, ciao. Sono Tina. Tina Scott. Tu perché sei qui?» «Io sono, ehm, Vivienne. Prostituzione» disse con una vampa d’imbarazzo. «Anche tu? Anch’io!» cinguettò Tina, come se il fatto desse loro qualcosa in comune, quasi che appartenessero alla stessa scuola. «Io… io ho dovuto farlo. Questa cosa del banishment, dico. Non sopportavo l’idea di andare in prigione. Soffro un po’ di claustrofobia. Ho bisogno di sapere che posso stare fuori. Questa cosa sembrava un po’ meglio. Spero.» Katrina cercò di incoraggiarla con un sorriso. Provava una forte simpatia per la ragazza. Era stata giudicata colpevole di un reato, sì, ma sembrava proprio terrorizzata. Era difficile non provare pena per lei. «Hai anche tu paura come me?» chiese Tina. «Non sono mai stata così nervosa in tutta la vita. Pensi che farà male?» «Non si parla» abbaiò il guardiano salendo a bordo del veicolo e sistemandosi sul sedile posteriore. Tra le braccia teneva una carabina a statica. «Andrà tutto bene» sussurrò Katrina dando un colpetto affettuoso sul braccio di Tina. Sperò che non fosse una bugia. Quan-

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tomeno, preoccuparsi per qualcun altro la aiutava a far tacere la propria apprensione. «Io… baderò io a te.» Sul viso della ragazza si dipinse un’espressione di commovente gratitudine. Il viaggio non fu lungo, appena una ventina di minuti dal tribunale. Qua e là vide qualche Bane spiccare nel suo completo nero. Ecco come sarò fra poco, pensò fra sé. Era evidente che anche gli altri prigionieri del furgone pensavano di sé qualcosa del genere. Si avvicinarono a un grosso edificio nelle periferie boscose della città. Lo stile era neomoderno con spigoli e curve strane, e parecchio cemento e vetro. Il paesaggio era molto ordinato e l’erba era di un verde lussureggiante. Tutto era pulito e curato, proprio come il resto della città. Lungo la via svettava un cartello composto da un breve muro di metallo ricurvo, con lettere anch’esse in metallo che formavano il nome della Ashton Technologies. Davanti al cartello c’era una Fontana con una statua argentea, astratta ma di forma umana. Non era chiaro se fosse una cosa voluta o una coincidenza artistica, ma la statua non aveva volto. Il gruppetto fu fatto scendere in una zona recintata nel retro. Da lì furono condotti all’interno. Le porte in vetro non avevano sbarre, ma erano rinforzate da una rete metallica e avevano serrature elettroniche. Più che una prigione, Katrina pensò che sembrasse un istituto di massima sicurezza per malati mentali. Li fecero sedere in una saletta d’attesa e fu detto loro di aspettare. A disagio, dovettero attendere parecchi minuti, poi un uomo venne ad accoglierli. Aveva capelli scuri, guance scavate e sotto il grembiule da laboratorio sembrava tutto ossa e spigoli. Il guardiano gli passò un incartamento. «Voglio dare a voi tutti il benvenuto nella sede della Ashton Technologies. Sono il dottor Julian Torres. Tutti voi avete optato volontariamente per il Progetto Banishment. Se c’è qualcuno che si trova qui per errore, per favore lo dica subito.» Tacque

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per un secondo. «No? Bene. So che probabilmente siete tutti molto nervosi ma, per favore, sforzatevi di rilassarvi. Cercheremo di rendere il vostro trattamento il meno stressante e il più confortevole possibile ma per farlo avremo bisogno della vostra collaborazione.» Un assistente entrò con una pila di cartellette che furono distribuite ai prigionieri. Ciascuna conteneva un copioso malloppo di documenti di ammissione, moduli legali, liberatorie e moduli clinici. «Siete pregati di firmare e apporre la data ovunque vedete uno spazio evidenziato in giallo. E, per favore, riempite con cura il modulo sanitario. Non possiamo essere ritenuti responsabili se dovesse succedere qualcosa a causa della vostra mancanza di onestà.» Passarono alcuni minuti mentre i prigionieri firmavano un modulo dietro l’altro. Tina alzò una mano esitante. «Ehm… che giorno è oggi?» «L’otto di ottobre» disse il dottore. «Mi scusi» disse Katrina, «ma a cosa servono con precisione queste liberatorie?» «Avete acconsentito a sottoporvi a una procedura medica sicura ma sperimentale. Rinunciate a ogni pretesa e ci sollevate da qualsiasi responsabilità» rispose il dottor Torres freddamente. Se è così sicuro, perché devo sollevarli dalle responsabilità? si chiese Katrina. «Cosa può dirmi degli effetti a lungo termine? Ho sentito di gente che è rimasta catatonica» chiese. Nel sedile accanto a lei, Tina si irrigidì. Il dottore aggrottò le sopracciglia. «E dove ha sentito una cosa simile?» «Oh… sa, in giro. Voci. È vero?» «Assolutamente no, glielo assicuro. Voci come quelle sono divulgate da gente che si oppone agli obiettivi che il Progetto Banishment mira a ottenere: castigo e riabilitazione. Molti sono luddisti che preferiscono vedere i prigionieri marcire in una cella di prigione piuttosto che dar loro un’occasione di imparare

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davvero il pentimento vedendosi banditi da quella società che, agendo contro di essa, hanno scelto di danneggiare.» «Quindi non c’è un pericolo reale in tutto questo?» chiese Katrina. «Assolutamente nessuno.» A quelle rassicurazioni, Katrina non credette per un attimo, ma almeno ora conosceva la sua opinione ufficiale. Uno per uno, furono portati via per il trattamento. Quando furono rimasti solo Katrina e un uomo basso e paffuto, tendente alla calvizie, una guardiana aprì la porta e chiamò: «V-7505.» Indicò Katrina. «È lei. Da questa parte, prego.» «Davvero ci sono state così tante V prima di me?» chiese Katrina camminando davanti alla guardia lungo un corridoio coperto da moquette. «È un numero casuale. Ora la prego di astenersi dal parlare, V-7505.» Benissimo, come vuoi, pensò acidamente. Fu portata in una stanza dove, di fronte alla guardia e a un’altra donna con una tuta bianca, le furono tolte le manette e le fu ordinato di spogliarsi di tutto ciò che indossava, inclusi eventuali gioielli o piercing. Non aveva né gli uni né gli altri. Le fu detto anche di togliersi le lenti a contatto. «Voi, ehm, sapete che senza di queste non ci vedo, giusto?» «Non sarà un problema» disse asciutta la donna. Fu quindi sottoposta a un esame completo di ogni orifizio. Fu molto umiliante, ma immaginò che non fosse niente di straordinario rispetto a quanto accade a chi entra in una prigione tradizionale. Una volta finito, la portarono in una stanza adiacente con piastrelle su pareti e pavimento. Per terra era bagnato e l’aria era umida e satura di vapore acqueo, come in una doccia pubblica. Ai polsi le furono messi bracciali che poi vennero sollevati verso l’alto e fissati a una sbarra. «È proprio necessario tutto questo?» chiese Katrina, sentendosi terribilmente inerme.

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«La prego di astenersi dal parlare, V-7505.» «Okay, ma… oh mio dio, che sta facendo?» strillò Katrina sentendo all’improvviso il suono aspro e stridente di un rasoio elettrico. Con mano agile ed esperta, la donna iniziò a tosare qualsiasi pelo dal corpo di Katrina, incluso il pube. Passò quindi alla testa. In pochi passaggi sommari, i suoi lunghi capelli biondi si ridussero a un’ispida peluria. Nemmeno le sopracciglia furono risparmiate. A Katrina non era venuto in mente che si sarebbero rese necessarie misure simili. Aveva un suo senso: non c’era molto spazio per i capelli sotto il completo e il casco, ma il fatto che fosse logico non rendeva la cosa meno traumatica. Quando le abbassarono le braccia, legandole i bracciali dietro la schiena, singhiozzava. Non le concessero nemmeno di passarsi la mano sul nuovo taglio a spazzola. Fu condotta a una doccia chiusa, dove le permisero di farsi investire da un getto d’acqua calda. La sensazione sulla testa le parve insolita in modo spettacolare. Nel frattempo, la donna stava indossando un completo integrale di plastica, un po’ cascante. Assomigliava a qualcosa da mettersi prima di maneggiare materiali pericolosi. Quella vista riportò a fior di pelle i nervi di Katrina, che si rattrappì nella doccia. La donna la tirò fuori e cominciò a ricoprirla con un liquido chiaro e appiccicoso, spremendolo fuori da una grossa bottiglia la cui etichetta diceva soltanto Sol. B-66. Era scivoloso e viscido come balsamo per capelli e ben presto ogni centimetro del corpo di Katrina ne fu spalmato. «Cosa è questa roba?» chiese, incapace di nascondere l’angoscia nella voce. Gliene era finita un po’ in bocca e il sapore era amaro. La sputò. «Cosa mi state facendo?» «Si rilassi» disse la donna. «È solo disinfettante e inibitore follicolare.» Inibitore follicolare? si chiese Katrina. «Ucciderà i miei peli?» «No. Inibisce la crescita. È solo temporaneo. La prego di tornare nella doccia.»

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Mentre l’acqua calda se la portava via, divenne chiaro che la sostanza faceva di più che inibire i peli. Li dissolveva. Quel poco di peluria ispida che le era rimasta in testa e sul corpo finì nello scarico. Non poteva crederci. Era stata resa completamente calva. La sola consolazione era che presto nessuno avrebbe potuto accorgersene. Non era un pensiero troppo confortante. Senza tanti complimenti, la asciugarono e la condussero, depilata, nuda e ammanettata, in un’altra stanza. Questa somigliava di più a un normale studio medico. I bracciali le furono sganciati da dietro la schiena e qualcuno l’aiutò a sdraiarsi su un tavolo imbottito. Il lenzuolo di carta echeggiava i suoi movimenti con un lieve crepitio. A un’estremità del tavolo c’era una specie di morsa per la testa, ma con lei non la usarono. I bracciali furono assicurati ai lati del tavolo. «Davvero, non serve. Non tenterò di fare nulla, lo prometto.» Nessuno le parlò. La donna più anziana uscì dalla stanza, lasciandola sola con l’impassibile guardiana. Passarono alcuni minuti di inquietudine prima che entrasse un uomo di mezza età con un camice da laboratorio. Aveva con sé un contenitore di plastica sigillato. Non si presentò ma la sua targhetta identificativa diceva Grable. Verificò qualcosa su un blocco per appunti, si schiarì la gola, quindi indossò un paio di guanti in lattice e la sottopose a una rapida ispezione fisica. Immobilizzata a quel modo sul tavolo, calva e nuda, Katrina si sentiva terribilmente indifesa. L’uomo le inserì nel braccio un’endovena di sedativo e le collegò al polpastrello una molletta per il monitoraggio cardiaco. «Uhm, posso chiederle cosa mi sta facendo? Davvero, sarebbe tanto meno stressante, capisce, se poteste dirmi tutto quello che succede. Mi sono sempre sentita così… negli ambulatori.» «Si astenga dal parlare, V…» cominciò, monotona, la guardiana. Il dottore la interruppe. «No, va bene» le disse. «Non ho problemi a dare spiegazioni. Anzi, può accomodarsi fuori. La chiamerò se avrò bisogno di lei.»

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La guardiana gli scoccò uno sguardo in tralice, ma uscì dalla stanza come richiesto. Grable guardò Katrina. «Posso spiegarle le cose, ma non penso proprio che lo troverà rassicurante.» Tolse il sigillo dal contenitore di plastica che aveva portato con sé. Da esso, sollevandolo da una imbottitura di gel chiaro, sollevò un dischetto flessibile, curvo, di gomma nera. Lo spessore al centro non era superiore a tre centimetri e verso i bordi si assottigliava fino a quello di una piuma. Dalla superficie concava del lato inferiore emergeva una protuberanza smussata, larga grosso modo come il gommino di una matita. Gli orli sottili dell’oggetto sfarfallarono un poco mentre l’uomo lo muoveva. «Sa cos’è questo?» «È, uhm… no.» «È il frutto più recente della tecnologia dei nano-computer. È un Custodian. Tecnicamente, un computer di bordo a neurorete autointegrata. Diventerà l’intelligenza artificiale che terrà sotto controllo la sua vita quotidiana.» «Sembra piuttosto piccola per essere una I.A.» osservò lei. «Oh, lo è. Questo guscio protettivo si limita a ospitare la programmazione essenziale e un trasmettitore. Tutta l’attività informatica sarà svolta da lei. È questa la magia» disse l’uomo con orgoglio. «Può ripetere?» «Il cervello umano» disse lui, «è di gran lunga più potente e complesso di qualsiasi computer fabbricato a tutt’oggi. Non ci avviciniamo neppure ad aver bisogno di usarlo tutto. Ce n’è d’avanzo, per così dire. Questo piccolo ma utile strumento utilizza nanosonde per esplorare e mappare l’attività fisica del suo cervello, quindi estroflette cannule tecno-organiche per connettersi ai neuroni pertinenti. Pensi ad esse come le radici di un albero che crescono in un terreno fertile. Il programma operativo le sarà caricato nel cervello. E potrà usare la sua energia cerebrale inutilizzata come processore e hard drive».

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«Va nel mio cervello?» chiese Katrina, orripilata. «Non voglio! Non voglio che ci sia un computer che mi cresce nella testa!» «Oh, non c’è da preoccuparsi, lei non si accorgerà nemmeno della sua presenza. A meno che non faccia qualcosa di sbagliato. Il Custodian si limiterà a starsene lì, osservando in silenzio i suoi processi mentali, fino a quando non avrà imparato a interpretare le sue intenzioni e prevedere il suo comportamento. È probabile che saprà quello che lei starà per fare prima ancora di lei stessa.» Tutto questo cominciava a sembrarle molto più di quanto non avesse previsto. «Assolutamente no! Ho cambiato idea! Voglio uscire dal progetto!» «Oh, temo che sia un po’ tardi per questo. Ha già firmato tutti i moduli. Ma non sia così sconvolta. Non è che sia una cosa permanente o roba del genere. Al termine della pena, il Custodian interromperà le connessioni e si ritrarrà completamente dal suo cervello.» «Non ci credo» disse Katrina, strattonando le manette. «Non potete farmi una cosa del genere e aspettarvi che non ci siano danni!» «Glielo assicuro, non ne resterà alcuna traccia. Sarà come se non fosse mai esistito. Non ci è mai risultato alcun danneggiamento cerebrale.» La osservò dibattersi. Pareva divertito dalla sua reazione. «Lo dicevo che saperne di più non l’avrebbe aiutata a rilassarsi.» «Oh, vaffanculo, stronzo!» sputacchiò Katrina, perdendo completamente la sua compostezza. Vedere quest’uomo che si divertiva per la sua angoscia la faceva incazzare in modo indescrivibile. Ma che razza di sadici bastardi ci lavoravano lì dentro? «Ma ancora non le ho detto come glielo innesteremo» le disse con sgradevole entusiasmo. «Devo trivellarle un forellino nel cranio, proprio qui.» Toccò col dito la sommità della testa calva di Katrina, facendola sussultare. «Quindi ci basta far aderire l’unità al suo cuoio capelluto e lui farà il resto. La manterremo

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priva di conoscenza per cinque giorni in modo da consentirgli di fare tutte le connessioni. In quel periodo provvederemo anche a innestarle nel colon l’unità di recupero scorie. Deve esserci grata del fatto che lo faremo mentre dorme. Ci vuole sempre un po’ di sforzo per allargare il passaggio. Dopo di che, quando le avremo messo il completo, lei sarà soltanto un altro Bane senza faccia.» Aprì la manopola della soluzione endovenosa. «Le piace il suo lavoro, eh?» lo accusò con rancore Katrina. L’uomo percorse con lo sguardo il suo corpo nudo. «Sì. Sì, mi piace.»

Katrina cominciò a riaversi in una piccola cella dalle luci basse. Fasce imbottite la tenevano inchiodata su una branda. Accanto a lei, un monitor pigolava regolare. Gemette, in una nebbia di confusione. Si sentiva tutto il corpo indolenzito e dolorante. Cercò di muoversi per quanto i legacci glielo consentivano. Nel basso addome aveva una sensazione di pienezza e contrazione, e il retto le sembrò particolarmente indolenzito. Un cuscinetto di gomma le aderiva all’inguine, coprendolo completamente, mentre altri due più piccoli erano posti sui capezzoli. Sulla pianta dei piedi erano state incollate comode suole di gomma perfettamente modellate, che colmavano a tal punto ogni spazio fra le dita da far sì che potesse a malapena accennare a piegarle. La testa le pulsava in modo fastidioso. La mia testa… Spalancò gli occhi di scatto. La sua mente fu invasa dai ricordi del tribunale, della rasatura, del lettino imbottito, dell’uomo con il dischetto di gomma sfarfallante. Strofinò la nuca sul cuscino. Aveva qualcosa attaccato al retro del cranio. Urlò. Un minuto dopo, alla finestra della cella si affacciò una donna matura che aprì la porta. Aveva i capelli all’henné e indossava un camice da laboratorio. «Ah, V-7505. Puntualissima.» «Che… cosa…»

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«Come si sente?» «Toglietemela! Mi mangia il cervello! Toglietemi questa cosa, vi prego!» La donna esaminò Katrina, poi abbassò lo sguardo arcigno su di lei, con aria di disapprovazione. «Il Custodian non le mangia il cervello. Le scansioni mostrano parametri di funzionamento perfettamente normali.» «Per favore, fermatelo!» «Fermare cosa? Ha già finito. Sono cinque giorni che lei dorme qui dentro. Sono la dottoressa Emilia Barriston, a proposito. Mi occuperò del suo trattamento. Può riposare fino a domani mattina, quando la procedura verrà completata. Fra poco verrà qualcuno a nutrirla.» Su quelle parole, chiuse la porta e lasciò Katrina sola con le sue paure. Sola con le sue paure… e con la cosa che le aveva già allungato i viticci nel cervello, come un tumore maligno.

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Eudeamon:cover def

6-12-2008

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Erika MOAK

Erika Moak è nata in Arkansas nel 1975. Ha una laurea in storia dell'arte. Da anni scrive racconti ed Eudeamon è il suo primo romanzo pubblicato.

Erika MOAK

EUDEAMON

Ora conosco il mio nome. Il mio nome è Inverno.

EUDEAMON

foto © Shutterstock Images TTphoto/Indigo Fish Progetto Grafico Giacomo De Panfilis

€ 0 .0 15

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Questo romanzo racconta una storia di prigionia volontaria che diventa l’estasi d’amore di un’anima sola. Nell’immaginaria città di Eudemonia, i criminali possono scegliere di scontare la loro pena in una sorta di prigione mobile – il banesuit – il cui perimetro è dato da una seconda pelle che li isolerà dal mondo. Katrina Nichols, una giornalista caparbia e coraggiosa, decide di avviare un’inchiesta per verificare se non si tratti di una punizione disumana e ingiusta. Riesce a scambiare la propria identità con una ragazza in procinto di essere condannata e diventa così un Bane, un detenuto che vaga indisturbato ma che percepisce il mondo solo attraverso la voce del suo Custodian. Eppure, in quell’isolamento, qualcuno le insegnerà l’Amore, quello stato di grazia dirompente che frangerà gli argini del passato. Attraverso la sua protagonista, Erika Moak traccia un viaggio avvincente e malinconico come il riflesso più nitido dei nostri desideri, delle nostre fantasie e dei mille condizionamenti che ci impediscono di manifestare pubblicamente quello che siamo. Eudeamon ci condanna a condividere i doni più straordinari della vita. Prendono il nome di una stagione commovente e piena di gioia che valica l’elaborazione del lutto, il desiderio di vendetta e, in ultima analisi, l’amore per il Prossimo.


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