IMOGEN EDWARDS-JONES & ANONIMO
Imogen Edwards-Jones è nata a Birmingham e vive a Londra con suo marito e sua figlia. È coautrice del bestseller internazionale Hotel Babylon.
Anonimo è un team di alto profilo che lavora nel mondo della moda.
Foto © Riko Pictures/Getty Images
€1
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FASHION BABYLON
AVVERTENZE: La lettura di questo libro cambierà per sempre il vostro modo di accostarvi alle vetrine di Roberto Cavalli o di sfogliare le pagine di Vogue.
DALL’AUTRICE DEL BESTSELLER HOTEL BABYLON
IMOGEN EDWARDS-JONES
& ANONIMO
FASHION
BABYLON romanzo
zero91
Sei mesi per cambiare il trend della propria vita, sei mesi di party, top model, lavoro frenetico e il terrore di una cattiva recensione. Fashion Babylon è il mondo di una stilista inglese emergente che cerca di evadere da Londra per avere successo oltre oceano. Con un racconto che gira intorno ai tre eventi più importanti che scandiscono il tempo nel mondo della moda, questa incursione conduce per mano il lettore sin dentro i meandri più insidiosi di una passerella, dove le donne vengono pagate decine di migliaia di dollari solo per camminare per pochi metri e dove la lunghezza sbagliata di una gonna ti può costare la carriera. Quella nuova collezione da presentare nella Grande Mela sarà un nuovo trampolino di lancio o un fallimentare salto nel vuoto? Sarebbe troppo facile se dipendesse solo dalla creatività: ci sono troppi meccanismi da assecondare, troppi tranelli da evitare, troppi fondoschiena da baciare per rimanere in perenne equilibrio tra In e Out. Spiritoso, insolente e arricchito dai gossip più curiosi sulle celebrità, Fashion Babylon rivela con una straordinaria sincerità le ascese e i crolli, gli straordinari estremi e le grette scorciatoie che si celano dietro le quinte di uno dei settori più ricchi e – per questo – più riservati del mondo.
Imogen Edwards-Jones & Anonimo
FASHION
BABYLON Traduzione di Romina Valenza
Titolo originale dell’opera: Fashion Babylon Traduzione: Romina Valenza
Copyright © 2006 Imogen Edwards-Jones Copyright © 2006 Bantam Press
Copyright © 2008 zero91 s.r.l., Milano Printed in Italy
I Edizione settembre 2008 ISBN 978-88-95381-08-4
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Ad Allegra
Uno speciale ringraziamento va alla meravigliosa Eugenie Furnisse ed al dolce Doug Young e tutti quanti alla Transworld per la loro grandiosità . Grazie anche a tutte quelle persone che mi hanno dedicato tempo e pazienza, durante le ore e i giorni passati ad intervistarle nei wine bar, nei ristoranti, nei club privati e ai confini folli e sudaticci dei backstage durante le diverse settimane della moda; vi sono estremamente grata perchÊ non avrei mai potuto scrivere questo libro senza il vostro senso dell’umorismo, la vostra fiducia e la vostra gentile cooperazione.
Prologo
Q
uanto sto per raccontarvi è tutto vero. Soltanto i nomi sono stati modificati per tutelare le persone coinvolte. Ma tutti gli aneddoti, le storie, gli alti e i bassi, le truffe, le droghe, i giri loschi, le rivalità e le follie, tutto è stato lasciato così come Anonimo lo ha raccontato a me - un’ampia e variegata collezione di persone che lavorano nel cuore dell’industria della moda. Lo stilista è romanzato ma gli incidenti sono reali, le celebrità interpretano loro stesse, anche se le storie nel libro si svolgono nell’arco temporale di soli sei mesi. Raccontate da Anonimo, tutte le storie infatti sono state condensate in questo arco di tempo. Ma tutto il resto è proprio come dovrebbe essere. I ricchi comprano i vestiti, i poveri li fanno, e tutti gli altri prosperano in quest’atmosfera inebriante e rarefatta. Si tratta semplicemente di altri sei mesi della vita del mondo della moda.
1 O
ggi è la mattina dopo ieri sera e, se guardo da vicino il naso all’insù di Alexander, posso vedere le sue narici brinate come un bicchiere di margarita. Ha sniffato cocaina. Ma in fondo lo abbiamo fatto tutti quanti. È la fine di un’altra lunga ed estenuante settimana della moda a Londra; come potremmo altrimenti resistere e mantenerci divertenti e brillanti senza tenere nelle nostre borse modello Paddington di Chloe un paio di grammi della più eccellente qualità boliviana? Non che si possa dire che stamattina siamo brillanti. Sdraiato supino, completamente vestito, aggrappato ad una bottiglia vuota di vodka Grey Goose che si stringe saldamente al petto, Alexander sembra difficilmente in grado di parlare, figuriamoci di raccontare un aneddoto divertente o fare una battuta spiritosa. Quanto a me, nemmeno io potrei sentirmi meno brillante. È stata la mia sesta travolgente sfilata ieri sera, e mentre sto sdraiata qui, a fissare il soffitto di questo albergo decisamente troppo costoso che ci eravamo prenotati per poter poi proseguire
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con i festeggiamenti del dopo sfilata, non posso fare a meno di pensare che le cose potrebbero anche non andare come vorrei. E ciò potrebbe anche non avere niente a che fare con la sfilata. Voglio dire, considerando la mancanza di un supporto finanziario, il poco tempo a disposizione ed anche il fatto che due delle mie sarte mi avessero abbandonato all’ultimo momento, la mia collezione tutto sommato non era poi così male. Ero arrivata in città unicamente con la mia abilità sartoriale. Beh, questa è la mia impronta. Sono conosciuta per il mio taglio. Lo amo. È in grado di smagrire addirittura di qualche chilo con una cucitura fatta nel modo giusto. Le mie giacche erano corte e aderenti, le mie gonne nascondevano le anche e snellivano il giro vita, i miei pantaloni erano a gamba larga e le mie camicie con le maniche a prosciutto. Avevo scelto un tema marinaresco, con tanto di righe e cappelli da marinaio. E anche un sacco di bianco. E l’abito bianco e argento, quello sì era uno schianto. Diciamo che in generale ero anche abbastanza compiaciuta di come fossero andate le cose. Tutto era avvenuto nei tempi e nell’ordine giusti. Avevo anche evitato l’incidente capitato a quello stilista la cui collezione, interamente di colore blue navy, era caduta dagli appendini: tutto quello che gli restava era un mucchio di abiti stropicciati e nemmeno un’idea dell’ordine in cui dovessero uscire. Pare si fosse poi seduto sulla passerella e fosse scoppiato in lacrime ripetendo in continuazione che non avrebbe mai più disegnato un abito. Ma i miei abiti, loro sì, erano arrivati. E anche le modelle. In realtà un paio erano arrivate in ritardo ed alcune erano arrivate piuttosto ubriache dal cocktail a base di champagne di poco prima, ma erano ancora in grado di camminare in linea retta; quelle che non lo erano invece, avevano una linea retta da seguire. Persino la modella famosa per le sue flatulenze, che è solita ventilare per tutta la passerella in maniera incontrollabile, era riuscita a mettersi
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una sorta di tappo per la sfilata. Forse, per rispetto a me, in quella occasione aveva rinunciato ai fagioli. E quindi tutti i sorrisi erano genuini. Anche se in alcuni casi un pochino artefatti. Comunque, nell’insieme, mi sembrava che tutto fosse andato per il meglio. Tutte quante ce l’avevano fatta ad andare e tornare. Nessuna era stramazzata al suolo inciampando nei propri talloni come era capitato a Naomi Campbell, e tutti quanti si erano poi riuniti nel backstage per darsi pacche sulle spalle, e pavoneggiarsi, e fingere, per poi tuffarsi tutti insieme nella baldoria del dopo sfilata. No, il vero problema è che le mie ultime due sfilate erano state giudicate dalla stampa dei veri successi. In particolare, la mia ultima collezione autunnale. Cristo, persino Anna Wintour1 l’aveva apprezzata. Non che l’avesse vista, beninteso. In effetti, di Londra, se ne frega. Siamo troppo piccoli, insignificanti e carenti in fondi da destinare alla pubblicità per giustificare una visita da parte della Nuclear2. A volte però si degna di apparire durante la settimana della moda a Londra. E si vocifera già la sua presenza per la prossima stagione, ma si vocifera sempre una sua eventuale apparizione come tappa durante i suoi viaggi verso Milano e Parigi. Un po’ come Madonna, che è sempre attesa durante le anteprime e alle feste di moda di Londra, così anche la Wintour è sempre attesa e festeggiata ma alla fine non arriva mai. E quindi, era stata una delle sue api operaie di US Vogue a presentarsi alla mia ultima sfilata. Comunque, la mia, era stata giudicata, esattamente, una moda ricercata ed attuale, abbastanza all’avanguardia da meritare un intero corner di una pagina proprio di Vogue. Nel sommario, erano persino state incluse un paio di foto delle mie camicette e un cappottino a trapezio. La rivista Elle invece mi aveva dedicato 1
Capo redattore di US Vogue dal 1988.
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Soprannome dato ad Anna Wintour.
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uno speciale. Marie Claire aveva chiesto un’intervista. Harpers mi aveva dedicato un servizio fotografico. L’Evening Standard invece mi aveva concesso ben due pagine, addirittura parlando di me come di un possibile nuovo Roland Mouret3. Un giornalistucolo del Telegraph era venuto al party del dopo sfilata. Persino quelli di Style.com non erano riusciti a racimolare le forze sufficienti a sparlare di me. E infatti erano stati carini. Tutti quanti erano stati carini. E questo, nel mondo della moda, è una cosa molto pericolosa. Dalla sfilata dell’altra sera, dunque, ci si aspettava molto, qualcosa che, forse, non sarei mai stata in grado di dare. I signori del British Fashion Council erano stati così gentili da concedermi per la prima volta il turno del pomeriggio che avevo richiesto, quello delle 18.30 del giovedì. Ogni anno mi chiedevano quale turno avrei voluto, ogni anno rispondevo quello del giovedì sera e ogni anno mi veniva assegnato quello del martedì sera alle 21.30. Nessuno vuole andare alle sfilate all’inizio della settimana, perché i buyer americani probabilmente non sono ancora riusciti ad oltrepassare l’oceano dopo la chiusura di New York. E d’altro canto nessuno si sente di affrontare una sfilata di prima mattina. Chi sarebbe disposto a bersi una coppa di champagne prima ancora di essere riuscito ad ingurgitare un bel caffelatte scremato? Ma quest’anno mi era stato assegnato il miglior orario, nel giorno migliore; ero persino stata messa in programma vicino a Betty Jackson4, così che tutti potevano venire. Avevo anche subodorato un po’ di celebrità - una tale Appleton, quella ragazza di The X Factor. Si era persino accennato alla presenza della Spice Posh, ma Alexander a quel punto aveva puntato i piedi. Non che lei si sarebbe mai fatta vedere, ovvio. Ma così, tanto per esserne sicuro.
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Designer francese.
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Designer inglese di accessori.
«È tutta abbronzatura, tette ed extension» mi aveva detto al mio solo accennare alla possibilità che una delle sue incaricate potesse chiamarmi per avere un posto riservato in prima fila alla sfilata «e per me francamente non è assolutamente alla moda». «Cavalli l’adora» avevo replicato . «Ma per favore!» mi aveva risposto. «Quel vecchio culo. Devo ammettere che ha lo stesso stile di un cesto di abiti in giacenza.» Alexander, che ha sempre un sacco di storie apprese da fonti incontrollabili, che francamente non penso siano vere, a quel punto si era lanciato in una delle sue vecchie preferite. Si vocifera che alcuni anni fa Tom Ford, che all’epoca lavorava ancora per Gucci, abbia chiamato uno dei suoi addetti alle pubbliche relazioni di Londra chiedendogli di far uscire “quella donna” dagli abiti disegnati da lui. L’incaricato pare avesse risposto che non sarebbe stato possibile, dal momento che la Spice Posh comprava regolarmente i suoi vestiti. E a quel punto pare che Ford, dopo una breve pausa, avesse urlato: «Come possiamo fermarla?» «Quindi, se la Posh non va bene per Tom Ford,» aveva continuato Alexander facendo spallucce, «nemmeno noi vogliamo il suo culo pelle ed ossa nella nostra collezione». Alexander inizia a tossire e a risvegliarsi accanto a me. È una di quelle tossi stizzose dove puoi sentire delle masse indefinite coagularsi insieme nei polmoni. Il letto trema. Finalmente un colpo di tosse più forte, si siede sul letto e lascia cadere la bottiglia di vodka che scivola sulla fitta moquette. «Oh cazzo!» esclama mentre apre gli occhi, stropicciandosi la faccia pallida e passandosi la mano tra i capelli castani impomatati. «Mi sento di merda.» Un altro colpo di tosse. «Hai una sigaretta?» «Uhum» rispondo con lo sguardo perso nel vuoto.
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Ho dormito con Alexander due volte l’anno, ogni anno, da quando siamo stati insieme chissà quando nell’ultimo secolo, e devo ammettere che la mattina appena sveglio non è più così affascinante. «Gesù!» esclama fregandosi il nasino mentre osserva la scena intorno a lui. «Cosa cazzo è successo in questo posto? È una porcheria.» Non ha poi tutti i torti. Ci sono bicchieri, bottiglie e mozziconi di sigaretta ovunque. Ci sono drink lasciati a metà, cicche galleggianti nei drink lasciati a metà e c’è persino un porta CD tutto impiastricciato nel mezzo del tavolo. Qualcuno ha anche indossato la vestaglia omaggiata dall’albergo. Ora è lì buttata vicino alla porta. Le ciabatte in omaggio invece sono state tolte dal loro sacchetto e c’è pure una borsetta color bianco e oro. «Ehi dico» continua Alexander scendendo cautamente dal letto reggendosi la testa. Vestito in abito nero e camicia bianca sembra una gazza in missione mentre, cerca di farsi strada cauto tra gli avanzi, con i suoi calzini di seta nera. «Guarda qui. È molto carina» dice prendendo la borsetta e annusandone la pelle. «Dici che l’hanno rubata a qualche party?» «Mi ricorda una Tanner Krolle» gli rispondo mettendomi seduta sul letto. «Oh hai ragione» ribatte facendola ricadere subito a terra «improvvisamente mi piace molto meno». Si siede su uno dei due sofà in feltro grigio ed inizia a ravanare tra i pacchetti vuoti lasciati sul tavolo fino a quando non trova una sigaretta. L’accende ed inala. Improvvisamente esplode in un attacco di tosse che culmina con il tirare sonoramente su con il naso il bolo di muco che poi ingoia. «Dio» dice. «Ora va molto meglio. Oh, guarda» aggiunge sembrando parecchio rincuorato. «Guarda cosa abbiamo qui.
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La mia tessera di Selfridges.» Sorride, mentre la tiene alzata per mostrarmela. «Con il mio nome scritto nella coca». Picchietta la tessera sulla custodia del CD e dispone i resti della droga in una linea sottile. Fruga sul tavolo ed infine nelle tasche del suo abito, in cerca di qualche banconota. Trova uno squallido biglietto da cinque sterline, che però baratta subito con la ricevuta di un taxi. L’arrotola. È già ben posizionata sotto le sue narici, quando improvvisamente si ricorda delle buone maniere e della sua istruzione privata da ceto borghese. «Ne vuoi un po’?» mi domanda. «No grazie.» «Okay.» Sorride di nuovo prima di sniffare e ripulire la custodia del CD. «Ok» dice, battendo le mani sudate che si asciuga sulla parte anteriore dei suoi pantaloni Dior. «Come ti senti?» «Non particolarmente fiduciosa» rispondo. In realtà, sto assolutamente minimizzando. Mi sento male, spaventata e profondamente insicura. Questo, per uno stilista di moda, deve essere il peggior momento dell’anno. Ti sei fatta un gran culo. Hai fatto del tuo meglio. Non hai dormito per settimane. Niente da mangiare o da bere per giorni interi se non caramelle Haribo e Coca-Cola ad alto contenuto di grassi. E comunque questa sofferenza non è niente confronto alle recensioni. Ti possono far risplendere o crocefiggere nel giro di una sola mattina. Ti possono far chiudere i battenti. E far in modo che nessuno ti piazzi un ordine. Ti rendono uno straccio per pavimenti. E ti possono rispedire alla più totale ignominia solo attraverso una veloce scivolata di penna. Il mio cuore batte a mille, la mia bocca è asciutta e respiro a malapena. Ho fatto due grandi sfilate ed una grande stagione. Eppure sono sicura che stanno tutti facendo la fila per demolirmi. È il gioco delle sfilate di Londra: ti amano veramente solo se sei davvero nuovo, davvero giovane e davvero molto molto povero.
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Amano scoprirti e darti la tua prima vera occasione. Adorano quando qualcuno del calibro di Isabella Blow5 irrompe e compra tutta la tua collezione. O quando una Kate Moss cammina ricoperta dei tuoi abiti. Ma se stai davvero andando bene, avanzando scoppiettando con abiti in vendita da Harvey Nichols o con qualche ordine di Matches sotto il culo, allora non hanno più niente da scrivere. Non c’è storia. Si danno da fare per cercare il prossimo fenomeno all’avanguardia che propone abiti di perspex e mutandine di piume da mettere sulle loro prime pagine. Se sei già stato nel giro una volta e ti sei già portato a casa il British Fashion Award come miglior nuovo arrivato, come ho fatto io lo scorso anno, allora non si va più da nessuna parte. Se non verso il basso. «Vuoi che vada a prendere le rassegne stampa?» mi chiede Alexander. «Oppure ci andiamo insieme?» «Ho bisogno di un po’ di aria. Possiamo andare in un internet cafè dietro l’angolo?» suggerisco. «Ho bisogno di vedere cosa ha detto Style.com prima di tutti gli altri. Dopo tutto, è quello che verrà divulgato in tutto il mondo.» «Ok. Infilati la gonna e mettiamoci al lavoro.» Guarda il suo orologio tarocco che si è comprato sulla spiaggia in Sardegna. «Sono già le dieci.» Quindici minuti e una ricevuta di albergo da 438 sterline dopo, ci ritroviamo a camminare attraverso Soho in cerca di un caffè. È l’inizio di settembre e il tempo è gloriosamente soleggiato, il cielo luminoso e chiaro. Alexander nasconde i suoi postumi da sbornia dietro un paio di occhiali da sole retrò ed ha un aspetto piuttosto bizzarro avvolto nel suo abito nero Dior e scarpe Gucci. La maggior parte dei negozi sta ancora facendo i saldi con noiose gonne primaverili ed estive in stile bohèmien, cinture fatte di monetine e top gitani; lui invece è già avanti. Anche se anch’io penso di 5
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Isabella Blow (1958-2007) editor inglese e icona internazionale di moda.
poter dire la mia. Oggi indosso una gonna aderente grigia ed una camicia fatta su misura che ebbe così tanto successo nella sfilata di febbraio quando proposi la collezione autunnale. Proprio appena fuori da Wardour Street troviamo un piccolo bar che fa caffè e ciambelle ed è pieno di studenti stranieri che si controllano la posta elettronica. «Non siamo lontani dall’ufficio, perché non andiamo direttamente lì?» mi chiede Alexander, mentre, guardandosi attorno, si contorce leggermente il labbro superiore. Non gli piace mischiarsi alla gente normale. «Vorrei guardare subito» gli rispondo. «Prima di rientrare in ufficio e di essere sommersa dalle telefonate.» «Ok. Siediti allora, io vado a prendere i caffè. Vuoi il solito?» «Grazie.» Gli sorrido. Credo di essere l’unica donna che lavora nel mondo della moda e che ancora si prende un caffelatte fatto con del latte intero. Alexander scivola via verso la parte posteriore del bar mentre io mi collego. In quei pochi secondi di attesa prima che il sito di Style.com appaia sul video, vengo colta da una gran voglia di vomitare. Vodka, cocaina, stress e soltanto tre ore di sonno in così tanti giorni sarebbero abbastanza da far venire voglia vomitare sopra la tastiera a chiunque. Ed eccolo. Il sito appare. Digito il mio nome; appare una foto della modella flatulente. Ondeggia verso l’obiettivo vestita con una gonna bianco brillante ed una camicia senza maniche con un grande colletto bianco. Respiro ed inizio a leggere la recensione: C’è solo una parola per definire quello che abbiamo visto la notte scorsa: noioso. Per una stilista che, come tutti ci aspettavamo, era sul punto di arrivare al successo con il suo look elegante e le sue eccellenti abilità sartoriali, non possiamo certo dire che ci abbia soddisfatti. Se sicuramente sarebbero da applaudire lo sforzo e l’immaginazione riposti nella collezione, la realizzazione
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dei capi non è stata abbastanza innovativa. Speravo di restare senza parole grazie al talento e alle idee che hanno sempre arricchito i suoi abiti, ma i vestiti erano troppo poco originali, i pantaloni non erano abbastanza audaci… e va avanti. Le mie idee non sono abbastanza interessanti, lo styling è trascurato, le mie scarpe sono ineleganti e brutte. Termina così: Speriamo si tratti soltanto di una defaillance stagionale. Guardo incredula la recensione. Merda merda merda. «Oh mamma» dice Alexander, inalando profondamente. Si sporge sopra la mia spalla per leggere da dietro. Si siede, mette le due tazze di caffè sul tavolo. «Beh, potremmo sempre puntare al mercato di scarpe per i travestiti.» «Cosa?» domando inebetita. «Come Vivienne» continua. «Westwood?» «Naturalmente.» Fa roteare gli occhi. «Le sue scarpe vanno a ruba negli Stati Uniti.» Sorride. «Ma solo le taglie enormi da uomo. Hanno un successone nei club dei travestiti della West Hollywood.» «Beh, visto come si stanno mettendo le cose e grazie a questa dannata puttana di Louise, probabilmente potrò vestire soltanto travestiti già entro la fine della giornata.» «Sono molto selettivi, sai?» continua. «Lo sono?» «Assolutamente sì.» Sorride. «Onestamente, non ti preoccupare di Style.com» beve un enorme sorso di caffè. «Chi lo legge?» «Soltanto il mondo intero.» Mi accascio in avanti, prendo un cucchiaino ed inizio a mescolare il mio caffè. Sospiro. Tutto il mio mondo sta collassando. Tutto quello che ho messo insieme lavorando faticosamente negli ultimi sei anni, sta per sgretolarsi. Proprio come tanti altri stilisti inglesi prima di me, sono desti-
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nata a fare il mio ingresso in modo spettacolare e ad andarmene con un intero carico di protesti e dannatissimi debiti. «Ci vuoi del cioccolato sopra?» «Si per favore.» Alexander mi conosce davvero molto bene. È un mio amico, la mia ispirazione ed il mio partner. A livello di affari, non di sesso, ovvio. Ci siamo incontrati otto anni fa in un pub di Soho. Si era appena laureato in grafica con un diploma sospetto e una votazione misera ed io non ero poi proprio fresca della Central St. Martin’s. Avevo lavorato come stylist di un servizio per la rivista Face ed avevo qualche schizzo di abito fatto a matita su una cartolina, quando lui mi disse che aveva un amico con una stanza/studio liberi appena fuori da Berwick Street. Quella volta ci bevemmo qualche birra, fumammo quattro pacchetti di Marlboro Light e scoprimmo il nostro amore reciproco per la sartoria. Avevamo la fissa per le gonne in legno di Hussein Chalayan6, spettegolavamo su Vivienne Westwood e condividevamo anche la nostra fissazione della domenica pomeriggio per il Victoria and Albert Museum. Così, improvvisamente, fu l’inizio di tutto. E da allora siamo sempre stati insieme. Lui è brillante in tutte le cose che io invece detesto fare. È straordinario con i numeri, abile a trattare con le persone del giro. Passa dalle parole ai fatti per tutta la dannata Inghilterra. Sa adulare le persone giuste, ci procura affari a destra e a sinistra, e soprattutto, si diverte a parlare con tutte quelle gelide donne che sembrano gestire il mondo della moda. Soltanto una volta ha veramente fatto una stronzata, quando, un paio di stagioni fa, cercò di reinventare la prima fila della nostra sfilata. Avevamo un grande spazio vuoto e decidemmo di fare le cose in maniera molto democratica. Così rendemmo la passerella extra lunga che si snodava tutt’intorno, e 6
Stilista turco-cipriota.
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mettemmo le sedie lungo la passerella in modo da formare un’unica gigantesca prima fila. La nostra idea non piacque a nessuno. I fashion editor sgomitavano con i fashion director che urlavano a loro volta contro le loro assistenti che a loro volta discutevano con gli studenti. Nessuno sapeva quale fosse il suo posto. Nessuno era in grado di definire quale fosse il posto migliore e quale avesse la miglior visuale. Non bisogna mai sottovalutare l’ego di queste persone. Il team di Vivienne Westwood una volta commise l’errore di distribuire più biglietti dei posti a disposizione in occasione di una sfilata parigina. Scoppiò la rissa. «Ecco qui» dice Alexander, che nel frattempo è tornato con un latte straripante di cacao in polvere. «Grazie» gli rispondo, prendendo un cucchiaio con cui raccolgo la polvere e mi infilo tutto quanto in bocca. «Suppongo che il prossimo porto di scalo sia Suzy Menkes». Una vera istituzione per merito, Suzy Menkes scrive per l’International Herald Tribune sin da quando fu inventata la moda. Dallo stile vagamente boho, la sua pettinatura dalla frangetta bigodinata è il suo marchio distintivo, ed è una delle migliori scrittrici in circolazione. Famosa per la sua imparzialità, accuratezza e passione per la moda, una buona recensione da parte sua potrebbe ribaltare tutta la collezione di critiche. «Non sarà fuori fino a domani» dice Alexander. «O addirittura dopodomani.» «E allora soltanto i media britannici» dico, mentre ingoio un altro cucchiaio di cioccolato. Alexander annuisce. «Bene… la nostra vita è finita.» «Magari no» dice, fregandosi le mani. «C’è sempre il Telegraph. E tu piaci al Telegraph.» «Si, ma abbiamo bisogno del The Times, lo Standard, ho bisogno
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di… oh Dio… del Sunday Times.» Alexander ed io ci guardiamo e scoppiamo a ridere. Non è una risata felice. Piuttosto una di quelle risate isteriche, rassegnate e sofferenti di postumi. «Non te la faranno mai passare» ridacchia Alexander. «Non gli è mai piaciuto quello che fai, mai!» «Lo so.» «Sono stati duri con te persino quando a tutti gli altri la tua collezione piaceva.» «Lo so.» «E adesso sei qui a sperare che stavolta possano fare qualcosa per te.» «Lo so!» La mia voce è così alta, forzata e stridula che tutti gli studenti stranieri iniziano a guardarci come se fossimo dei pazzi. Cosa che, inizio a supporre, potrebbe corrispondere al vero. «Torniamo in ufficio» mi dice Alexander. «Prima di fare la figura dei coglioni davanti a tutti.» Ed eccoci di nuovo nel nostro ufficio, vicino ad una sala scommesse appena fuori Berwick Street. Sembra quasi che siamo stati saccheggiati. C’è roba sparpagliata ovunque. Ciascuno dei tre piani dell’edificio è stato letteralmente vandalizzato. Il piano terra, dove abbiamo una sorta di reception con un tavolo ed un sofà di velluto color porpora ed un gran camerino sulla destra con appendiabiti pieni di vestiti, è tutto coperto di carta e modelli e piccoli pezzetti di materiale tagliuzzato. Ci sono bottoni, rifiniture e cuscinetti di spilli ed aghi sparsi per ogni superficie. Ci sono scarpe spaiate e file di braccialetti e collane che giacciono sul tappeto rosa scuro. Al piano superiore, dove c’è la mia scrivania ed una bacheca, il mio mood wall, e dove Alexander ha il suo ufficio, l’ambiente è leggermente più ordinato. Ma ci sono comunque rotoli di tessuto
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e scarti di stoffa sparsi ovunque. Al piano ancora superiore, dove lavorano i modellisti e le sarte, sembra invece che un materasso imbottito di paillettes sia esploso. Difficilmente ci sono dei lustrini nelle mie collezioni, e anche stavolta ho fatto soltanto due abiti da sera rifiniti di quella roba, eppure tutto il pavimento ne è ricoperto. Ci sono anche larghe strisce di seta color argento ovunque – resti delle giacche parka in argento che avevo improvvisamente deciso di fare dopo aver visto qualcosa di simile nella sfilata di Marc Jacobs la settimana prima. Uno dei vantaggi di seguire le sfilate di New York è che riesci a vedere tutto quello che gli altri stilisti stanno facendo. Vale sempre la pena dare un’occhiata a Marc Jacobs, Anna Sui, Michael Kors, Calvin Klein, Ralph Lauren e Tuleh, e vedere di sfuggita anche Oscar Pay My Renta7, così come le ragazze lo chiamano, giusto per assicurarsi di essere sulla strada giusta. In una piccola società come la nostra, è importante includere alcuni elementi simili a ciò che tutto il mondo della moda accoglie come nuova tendenza della stagione in corso – ad esempio una gonna che si ispira allo stile russo qui, una camicetta in stile del periodo edoardiano là, una giacca elegante, un cappotto color argento. Se tutti gli altri si buttano sul rosso e tu sei l’unico invece che insiste sul turchese, beh, allora non ti verranno dedicate pagine e pagine di sommari a fine stagione. Già, proprio quelle sezioni sulle “cose essenziali per i prossimi estate/autunno/inverno” che abbelliscono le prime pagine delle riviste e che sono fondamentali per noi nuovi arrivati nel giro. E così tre giorni fa, dopo aver visto qualcosa di sexy e frusciante in color argento proprio sulla passerella di Marc, mandai Trish, la nostra stagista diciassettenne, per tutto il mercato di Berwick Street alla ricerca di alcuni metri di quella roba grigio chiara luccicante, 7
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Soprannome dato allo stilista Oscar De La Renta.
per farne dei cappotti. Alexander le abbaiò dietro di non tornare a mani vuote, e di portare le ricevute. Mi sento sempre un po’ dispiaciuta per Trish, ma Alexander dice che non dovrei. Vive da qualche parte in una zona verso ovest e le viene pagato il biglietto del treno più una diaria di 10 sterline. Non ho assolutamente idea di cosa mangi, ma sospetto che si alimenti ad Haribo ed aria, proprio come tutto il resto di noi del mondo della moda. Ad ogni modo, Trish sembra molto magra e molto in forma. Sfoggia sempre l’ultimo paio di occhiali da sole Chanel o una cintura di Balenciaga che le sue amiche hanno pizzicato dagli armadi delle varie riviste di moda per cui lavorano. Tutto il resto della sua roba è normalmente di sua creazione abbinato ad un top di Top Shop o qualcosa di similare. Ad ogni modo, alla fine tornò – credo dopo quindici sigarette ed alcuni caffè presi nel bar dietro l’angolo – e poi scoppiò l’inferno. Si sentivano urla e grida in portoghese e polacco da parte delle mie sarte, alcuni sospiri infastiditi e un po’ di ostilità giapponese da parte dei miei modellisti, ma dopo una notte di fumo, insulti e copiose quantità di Red Bull ingurgitate, il risultato fu di tre anorak d’argento semi decenti con grandi cappucci, foderati in rosa pallido, che alla fine non misero nemmeno il piede sulla passerella. La mia stylist Mimi mi disse che non “li sentiva”, e fu tutto. Ad onor del vero, mentre sono qui in preda a leggeri conati di vomito provocati dall’odore del vecchio, malsano fumo di sigaretta che si insidia fin giù lungo le scale dalla sartoria, vedo ancora uno dei cappotti appoggiato sullo schienale della mia poltrona in ufficio. È piuttosto bello, soffice, luminoso e stranamente elegante. Al di là di tutto, avrei dovuto metterlo nella mia collezione? O dovrei semplicemente rifilarlo alla svendita del campionario di fine mese? «Ciao» giunge una voce dal fondo delle scale.
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«Ciao Trish» risponde Alexander. «Ciao Alex… ander» risponde. «Stai imparando.» «Ho i giornali» dice. «Sei arrivata presto» le dico, scendendo le scale. «Ho dormito qui.» «Ah.» «Si.» Annuisce facendo segno verso il sofà color porpora della reception. «Ho perso l’ultimo autobus che doveva portarmi a casa. Un amico mi ha suggerito di andare a dormire con loro a Southwark, ma ho pensato che avrei potuto risparmiarmi la fatica e farmi una dormita qui. E poi, quel bizzarro cappotto di pelo rosa della scorsa stagione è così caldo.» «Hai dormito in qualcosa dell’ultima stagione?» scherza Alexander. «Già.» Ridacchia. «Dovevo scegliere tra il farmi gelare le tette oppure compiere un passo falso di stile, e comunque ho pensato che nessuno lo avrebbe scoperto.» Vestita con un paio di pantaloni a vita alta fatti su misura, color grigio scuro, ed una maglietta nera con un grosso paio di occhiali bianchi Chanel appoggiati sulla sua testa, Trish non sta esattamente scherzando. Preferirebbe veramente morire di freddo piuttosto che indossare un capo della stagione passata. Sorrido. La ragazza probabilmente farà molta strada. «Hai già dato un’occhiata alla rassegna?» le chiedo. «Nessuno degli altri ha già pubblicato il proprio pezzo ma ho dato un’occhiata veloce allo Standard.» «E?» «Non è poi così male.» Fa spallucce. «Hanno scelto alcune cose che sono piaciute.» «Alcune?» chiede Alexander, che sembra profondamente dub-
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bioso. «Volete che ve ne legga un pezzetto?» chiede Trish. «Vai avanti» dico. Sento le mie mani che iniziano a sudare mentre apre il giornale. «È a pagina tre?» chiede Alexander. «Si» risponde con un cenno della testa. «È già buono» mi dice. «Pronti?» Alexander ed io annuiamo. «Bla bla bla,» inizia. «Sto saltando tutto il pezzo noioso… “detto questo, se leviamo i capi un po’ rigidi, è riuscita a mettere insieme una collezione molto portabile che senza dubbio piacerà alla donna in carriera che ha consapevolezza della moda”». «Portabile?» dice Alexander. «Si» dice Trish, con la bocca leggermente aperta. «Tu non vuoi che la tua collezione sia dannatamente portabile. Gesù Cristo» dice lasciandosi cadere sul sofà porpora. «Portabile… È tutto quello che è riuscita a scrivere? Un fottuto portabile?» e fa il segno delle virgolette in aria. «La prossima volta dirà che le nostre gonne sono “piacevoli” e i nostri pantaloni sono fottutamente “carini”. Portabile» sbuffa. «Nessuno vuole essere definito fottutamente “portabile” nel mondo della moda.» «Si» concorda Trish, arricciando il naso. «È brutto tanto quanto essere definito “commerciale”». «Beh, veramente no» dice Alexander. «Davvero?» dice Trish. «Ma tutti odiano il termine “commerciale”.» «Posso dare un’occhiata?» le chiedo, camminando verso di lei. «Certo» mi dice, porgendomi il giornale. Lo apro a pagina tre e quasi lo lascio cadere. «Oh Dio» dico, piegandolo all’indietro e mostrandolo ad Ale-
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xander. «Hai visto qui?» “Ted Nicholls reclama la sua corona da stilista” legge Alexander. «Vaffanculo. È proprio quello che ci serve ora.» «Tu sei il trafiletto sotto quell’articolo» aggiunge Trish cercando di essere d’aiuto. «Si grazie, lo vedo» le dico. «Quel coglione è ritornato dall’oltretomba» dice Alexander. «Come cazzo è successo?»
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2 N
ei due giorni successivi arriva il resto della rassegna stampa. Sono per lo più recensioni negative, prive di ispirazione e dicono la stessa cosa – che ho deluso le aspettative, che mi sono rivelata un fallimento e che non sono più innovativa. Devo dire che vedere sei mesi di duro lavoro liquidati così facilmente mi deprime un po’. In realtà, Suzy Menkes è stata buona. Dio la benedica. Ha parlato di una mia possibile svolta e del mio essere un po’ più sperimentale. Le sono piaciute le gonne rigide e le camicie attillate. Ma comunque era troppo tardi. Tutte le altre recensioni erano sprezzanti. Il Telegraph ha fatto una lunga descrizione, che è quello che fa sempre quando non gli piace qualcosa. Stiamo ancora aspettando che esca il Sunday Times, ma a questo punto non ha molta importanza quello che diranno. Ormai il danno è stato fatto. La collezione non sarà certo un successo. Alexander ha un atteggiamento piuttosto brillante riguardo tutta questa faccenda. Non ha smesso un secondo di fumare e di fare la spola tra i nostri due uffici. È strafatto di caffè espresso Fair
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Trade e sta sputando veleno sul fatto che Ted Nicholls stia apparentemente tornando in qualche modo alla ribalta. «Solo perché quella stupida checca si è rovinata, adesso lo amano tutti!» dice, camminando, tossendo e torturandosi il labbro inferiore. «Dannato gay. Se fosse stata una persona di successo e avesse fatto la stessa identica sfilata, non avrebbero scritto così tante cose carine su di lui. Ha avuto successo e poi è fallito, ed ora lo adorano di nuovo. È un classico. Non sarebbe bello invece se il mondo della moda per una volta ci sorprendesse?» Ted Nicholls ed io eravamo al St. Martin’s insieme. Frequentavamo lo stesso anno e per un po’ siamo stati anche amanti. Avevamo persino progettato, dopo il college, di creare un brand insieme, ma lui tutto ad un tratto mi scaricò. Decise che era gay e andò a fare gruppo con la banda degli irriducibili di Hoxton. Adesso idolatra l’altare di Katie Grand, e quindi praticamente non so più niente di lui. Katie, d’altro canto, si sente troppo superiore rispetto al resto di noi e non farebbe mai entrare una come me nel suo gruppo. E veramente, se devo essere onesta, non mi ha mai, ne lo farebbe mai, rivolto la parola una sola volta. Non ha mai messo nessuno dei miei abiti nella sua rivista dallo stile un po’ Zeitgeist8 Pop. E per dirla tutta, potrei anche scommettere che preferirebbe morire piuttosto che indossare uno dei miei vestiti. Malgrado ciò, la sua corte è piuttosto piena in questi giorni. Lee McQueen, Roland Mouret, Giles Deacon, Luella Bartley, l’artista Johnny Woo, il DJ Richard Batty e il nuovo capo di Mulberry, Stuart Vevers, sono tutti suoi amici. So che ora Ted bazzica al George and Dragon in Hackney Road e ha passato molto tempo della sua ultima estate a gironzolare attorno al Golf Sale, una speciale notte esclusiva dedicata alla moda che si svoge da qualche 8 Concetto riferito ad un movimento tedesco del XVIII secolo, in particolar modo ispirato ai poteri del romanticismo tedesco.
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parte in Hoxton Square. Sam Taylor Wood9 era solita fare da DJ là, insieme a un certo Gregory Wilkins, e tutti quanti si ingollavano bicchierini di VLS (Vodka, Lime e Soda) e sambuca mentre si sballavano con un po’ di musica di tendenza. Anche Kate Moss si è fatta vedere da quelle parti, una volta ha persino minacciato di fare da DJ, ma poi non se ne è fatto più niente. Uno o due tra gli scrocconi ed i perfetti ignoti di quella folla vanno matti per il jazz10 – e non intendo la musica. Così, devo ammettere che non fui assolutamente sorpresa quando, l’ultima volta che incappai proprio in Ted in una calda mattina di metà giugno, lo vidi ostentare un cappello di paglia ed un paio di infradito e probabilmente non era nemmeno stato a dormire. Era di ritorno da un ritrovo illegale adibito al consumo di alcol vicino a Old Street – un attico di un losco individuo dove paghi per i tuoi sbevazzamenti. Aveva un terribile raffreddore estivo, si mordeva le guance dall’interno, e si trascinava al seguito una creatura pesantemente decorata da piercing. «Tesoro!» esclamò. «Come cazzo stai?» «Sto bene» ricordo di avergli detto, sforzandomi al massimo di apparire indifferente. «Vince» disse, gesticolando verso la persona tutta piercing «questa è la sola donna che io mi sia trombato». Sorrisi. Tutti e due mi guardarono dall’alto in basso e poi scoppiarono a ridere. Dunque, immaginatevi quanto piacere mi faccia vederlo tornare sulla scena e riuscirci così bene. Ma, sfortunatamente per Ted, il Golf Sale ha chiuso i battenti. Dopo che la sua popolarità giunse anche alla gente normale, questo posto venne letteralmente annientato. Non ho idea di dove Ted abbia piazzato le tende in 9
Artista contemporaneo dedita per lo più a video e fotografia.
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Jazz: modo di dire slang per identificare l’assunzione di cocaina.
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questi giorni. Immagino che stia ancora cercando di farsi amico di Samantha Morton al Sunday Social di Islington, oppure che si stia strusciando su Sadie Frost all’Engineer di Primrose Hill. Ted è un vero sfruttatore di tutte le persone famose e farebbe di tutto per far entrare una celebrità nei suoi abiti. Certo non è a livello di Julien Macdonald o Kelly Brook, ma non vi è molto lontano. Alexander ed io invece non abbiamo molto tempo per occuparci della resurrezione di Ted Nicholls, anche se sapere questa cosa a lui procurerebbe un gran dispiacere. Ma abbiamo una lunga lista di incontri di cui occuparci prima di impacchettare tutta la collezione e partire alla volta di Parigi. Come piccola società indipendente, non abbiamo alcun agente addetto alla vendita, e quindi dobbiamo incontrare i buyer in prima persona. Normalmente, nelle giornate che seguono la settimana della moda, Alexander ed io ci chiudiamo in una suite di un hotel nel centro della città e riceviamo i buyer provenienti da tutto il mondo. Li ricopriamo di alcol, li riempiamo di insalata di pollo e pezzi di pizza, e paghiamo una povera crista di modella che possa sfilare per loro nei nostri abiti, incrociando le dita che alla fine questi piazzino almeno un ordine. È un processo estenuante. Mi siedo e sorrido così a lungo che per la fine della sessione avrei bisogno di Botox e qualche filler per ritornare normale. E Alexander passa la maggior parte del suo tempo a mordersi la lingua nel tentativo di mantenersi piacevole. Potremmo dare tutto quanto in appalto ad un agente e mettere la nostra roba insieme a quella degli altri stilisti, ma francamente, dopo essere stati ripuliti di un bel 5-10%, il profitto che facciamo durante l’anno svanirebbe all’istante. I marchi più grandi invece, o comunque quelli che sono stati acquisiti dai grandi gruppi, come ad esempio il papà di tutti i marchi LVMH (Louis Vuitton Moët Hennessy), si comportano in modo un po’ diverso. Vendono tutto quando all’interno di
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showroom permanenti o magazzini che hanno in città. Nei cinque giorni successivi alle settimane della moda di Londra, New York, Parigi e Milano i buyer del calibro di Harvey Nichols, Harrods, Saks Fifth Avenue, Bergdorf Goodman e Neiman’s, vengono ricevuti in questi eccitanti stores per vedere, scegliere e comprare gli abiti. Tutta la roba del gruppo Gucci ad esempio viene esposta in showroom permanenti. Lo stesso vale per Stella McCartney, Alexander McQueen e Yves Saint Laurent, Bottega Veneta, Balenciaga, Sergio Rossi: tutti hanno i loro team e i loro spazi. Lo stesso vale per LVMH, e così Chloè, Pucci e Louis Vuitton, Celin, Marc Jacobs, Fendi, Givenchy e Donna Karan, tutti hanno i loro magazzini ed i loro team di vendita. Con oltre un miliardo di euro di profitti per il primo semestre del 2005, LVMH ha sicuramente un sacco di vendite di cui occuparsi. Persino le società più piccole come ad esempio Club 21, che possiedono Luella Bartley e anche Mulberry, hanno degli showroom permanenti sparsi per tutto il mondo della moda. E con così tanto denaro in gioco, la loro realizzazione di uno showroom è estremamente professionale, gestita da 15/20 persone dello staff addetto alla vendita. I buyer si presentano all’orario stabilito e vengono accompagnati per tutto lo showroom con una cartellina alla mano. A ciascuno di loro vengono dati dei contrassegni o dei dischetti di plastica del loro colore specifico in modo tale che le loro scelte possano essere immediatamente riconosciute. Vengono registrati al loro arrivo da un rappresentante addetto alle vendite che visualizza il loro ultimo ordine al computer. Viene data loro l’autorizzazione all’accesso ed il loro budget viene concordato in anticipo. Se, ad esempio, nell’ultima stagione hanno speso 50.000 sterline, viene loro chiesto se hanno intenzione di spendere la stessa cifra o se vogliono incrementare il budget di un 10-15% per questa nuova stagione. Così, mentre Alexander ed io stiamo
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qui a genufletterci a destra e a sinistra, cercando di guadagnarci il pane e facendo i salti mortali per raccimolare le nostre sterline, i pezzi grossi vanno dritti al dunque. Il loro profitto ed i loro budget restano comunque elevati, sia che tu compri oppure no. Sono solo ansiosi di mettersi al lavoro. Occasionalmente poi, alcuni buyer desiderano vedere gli abiti indossati da una modella, e a tale scopo, viene predisposta una congrega di ragazze sorridenti, magre come stecchetti, sedute in tanga nel backstage, che attendono che Harvey Nichols ad esempio abbia bisogno di un ripasso su come veste quella gonna di Marc Jacobs, prima di prendere la sua decisione finale. Possono essere o non essere le più belle modelle sulla piazza, ma sicuramente sono ben proporzionate, con ampi e splendenti sorrisi piazzati sui loro visini scarni. Quest’anno, nel tentativo di far sì che i buyer familiarizzino con il nostro marchio, abbiamo deciso di non affittare alcuna suite ma di farli venire direttamente nel nostro studio. In realtà l’idea è stata di Alexander. Disse che sarebbe stata una buona idea quella di contattare i buyer, farli sentire parte della nostra famiglia; forse questo li avrebbe indotti a spendere un po’ di più. E siccome la maggior parte dei direttori di moda dei grandi magazzini e dei buyer erano in viaggio verso la settimana della moda di Milano o già addirittura arrivati, Alexander aveva anche suggerito che, invece di spendere soldi per una modella esclusiva, sarebbe stata un’altrettanto buona idea cercare di convincere Mimi a sfilare. E, stranamente per qualcuno che è sempre restio a mettersi in mostra per gli altri, Mimi aveva pure accettato. Forse, come la maggior parte degli stylist, avrebbe sempre voluto fare la modella, o forse non aveva niente di meglio da fare. Ogni volta, Mimi arriva mezz’ora dopo l’orario che le viene detto e mezz’ora prima di quanto in realtà noi la vogliamo qui. Mentirle è l’unico modo di farla arrivare in tempo e ovunque.
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Elegante, carina ed appetitosa, Mimì è alta circa un metro e ottanta, è slanciata e con una cascata di riccioli rossi. Una volta frequentava un corso propedeutico ed un anno di tessile a Newcastle, ma era troppo lontano da Londra, e quindi decise di non continuare il corso. È meravigliosamente ben “relazionata”, passa le estati nel sud della Francia, ed è la migliore amica di chiunque a Vogue. Non lavora soltanto per me. È la stylist di un’infinità di riviste e servizi pubblicitari e potrebbe fare un sacco di soldi se non fosse così disorganizzata, pigra e se non avesse una passione sfrenata per la marijuana. Come stylist, ha anche un’attività secondaria, in particolare con la maggior parte delle attrici di Los Angeles, che vengono qui per promuovere i loro film. Passa un sacco del suo tempo a cucire personaggi famosi dentro gli abiti ed ha infilato il naso in così tante ascelle di celebrità che può tranquillamente dirvi chi ha un problema di igiene, chi un culo grosso, oppure è passato dal chirurgo plastico. «Ciao, ciao, ciao» dice mentre si muove con agilità in un paio di skinny jeans neri e sotto un paio di enormi occhiali da sole a specchio, che le attribuiscono quell’aria un po’ da mosca. Porta con sé una grande borsa shopper, un telefono, un caffelatte, un ombrello, tre borse di plastica ed un grande sacchetto di Gucci. «Tesoro!» mi dice. «Alexander!» aggiunge. «Venite qui un secondo e date un’occhiata a questa.» Lascia cadere tutto sul pavimento e dal sacchetto di Gucci estrae una borsetta verde mela. «Dite la verità» dice, annusando la borsa, accarezzandola. Praticamente sta sbavando. «Questa è la nuova It Bag11 della stagione.» Sorride. «Non ci posso ancora credere.» Strilla e la tiene in alto in modo che tutti quanti possiamo be11 Termine cheindica un modello di borsa prodotta da grandi stilisti come Hermes o Fendi che diventa un oggetto cult o best seller della stagione.
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arci nella sua gloria riflessa. «Non vi fareste anche vostra nonna per questa?» «Mio nonno» dice Alexander, avvicinandosi per toccarla. «È stupenda. Cosa ne pensi?» «È fantastica» dico. «Vero?» dice Mimi, assolutamente compiaciuta. Mentre ci raccogliamo tutti attorno alla borsa, qualcosa balza tra i nostri piedi. «Gesù!» urla Alexander, buttandosi indietro contro il muro. In effetti non è mai stato famoso per la sua audacia. «Che cazzo è?» «Ohi, non essere maleducato» dice Mimi, piegandosi e guardando in giro, sotto il sofà. «È Mini Me.» «Mini che?» domanda Alexander. «Mini Me» dice Mimi, mentre raccoglie un cagnolino nero. «È un barboncino toy.» «Barboncino?» chiede Alexander. «Un barboncino» ripete Mimi. «Tutti hanno un cane.» «Pensavo che i cani fossero la tendenza dello scorso anno» dico. «No, l’anno scorso erano i bambini» risponde. «E io pensavo che questo invece fosse l’anno del lavoro a maglia» dice Alexander. «Lo è» continua Mimi. «Lavoro a maglia e cani. Sienna ne ha ben due. Porgy e Bess.» «Bene, allora dovremmo tutti prenderne uno» dice Alexander. «Si dobbiamo» continua Mimi. Si porta il cane vicino alla bocca e lascia che le lecchi le labbra. «Dai un bacino alla tua mamma. Bacino bacino bacino.» «Oh Dio, non lo fare» dice Alexander «Mi fai stare male. Ha
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appena finito di leccarsi il culo.» «Non è vero» protesta Mimi. «Certo, no» replica. «E non caga nemmeno.» «Beh, io credo sia adorabile» dico, grattandogli la testa e lanciando un’occhiataccia ad Alexander. Dopo tutto, Mimi ci sta facendo un favore. «Solo, non pisciare sul tappeto.» «È perfettamente addestrata» dichiara Mimi. «Vai là, tesoro» dice al cane e con uno schiocco delle dita il cagnolino salta dentro la shopper. «Visto?» Alexander accompagna Mimi e Mini Me nell’ufficio accanto, dà a lei un paio di lattine di Coca-Cola, un portacenere, una presa dove attaccare il cellulare e sufficienti copie di Heat, Grazia e numeri arretrati di Vogue per tenersi occupata per il resto della giornata. Nel frattempo, Trish va al piano di sopra per sistemare il casino. Io invece mi occupo della parte aperta ai visitatori, rigonfiando il sofà di velluto porpora, raddrizzando le copertine incorniciate che abbiamo appese dietro il tavolo della reception, e assicurandomi che abbiamo abbastanza champagne, frutta ed acqua. Proprio come esiste un’etichetta per la prima fila, c’è anche un’arte ed una gerarchia nella fase delle vendite. Più importante sei, più tempo ti viene concesso durante l’appuntamento, più comodo sarà sicuramente l’orario che ti viene assegnato e più possibilità ci sono che ti venga offerto dello champagne. Flossy di Essex ad esempio, con il suo negozio me-l’ha-preso-mio-marito e con ordini sotto le 2.000 sterline normalmente si vede offrire solo una patatina e un po’ d’acqua, ha il turno delle 17.30 e viene rigorosamente mandata fuori allo scoccare delle 18.00. Saffron di Netaporter d’altro canto, può stare tutto il tempo che vuole. Le viene offerto almeno un bicchiere di champagne e, se lo desidera, anche il pranzo. In realtà, tutto quello che Saffy desidera, le viene concesso, e anche
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di più, con tanto di fanfara e un sacco di bandierine. Netaporter è uno dei nostri maggior clienti. I nostri ordini con loro sono passati da 5.000 sterline di tre anni fa ad oltre 25.000 sterline, tanto è il loro successo ed il loro giro di clienti in continua espansione. Quando toccammo il tetto delle 20.000 sterline, io ed Alexander ci concedemmo una cena da Ivy e scolammo dell’ottimo champagne fino a diventare ubriachi marci. Se non fai parte della lista di Netaporter, non fai proprio parte del giro della moda, e quindi, per noi, avere successo sul loro sito fu la chiara conferma che comunque eravamo sulla strada giusta. Sono buyer estremamente selettivi. Sanno come scegliere il pezzo o l’abito o la borsa di successo per la stagione. Hanno uno staff brillante, che conosce la propria merce e sembrano sempre riuscire a scegliere il meglio che c’è. Dopo un paio di giorni di vendita, riesci ad individuare quale sarà il pezzo caldo della stagione. Il tuo abito Roland Mouret Galaxy ad esempio, oppure la tua borsa Luella Bartley Giselle, i tuoi stivali di plastica sopra al ginocchio di Stella McCartney – Netaporter li ha sempre scelti e ne ha sempre ordinati in quantità maggiore di qualsiasi altro capo. Questi oggetti oltretutto lasciano il loro scaffale virtuale nel giro di un pomeriggio. E la cosa che veramente causa più dipendenza da Netaporter, è che puoi accedervi e vedere quanto stanno andando le tue vendite. Un po’ come le classifiche musicali oppure la lista dei migliori brani del Sunday Times, digiti la tua password e puoi vedere quanto stanno vendendo i tuoi prodotti rispetto al resto della concorrenza. Tutte le volte becco Alexander intento a farlo. Credo che si colleghi addirittura tra le dieci e le quindici volte al giorno, soltanto per vedere se la nostra roba sta vendendo. Ma Netaporter non è il nostro unico asso nella manica. Anche Harvey Nichols, Selfridges e Harrods vendono i nostri capi in gran quantità. Quest’anno speriamo anche di riuscire ad avere uno shop-
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in-shop da Harrods. Per la moda, Harrods una volta, non godeva poi di così tanta credibilità – veniva visto come molto arabico e non molto di tendenza – ma di recente le cose sono cambiate. I signori di Harrods hanno abbracciato la cultura dello shop-inshop che ora fa molto Bergdorf Goodman. Dolce vi ha piazzato una boutique, così come Prada e Gucci. Sono tutte versioni in miniatura dei negozi originali. Completamente rivestiti dei loro marchi rappresentano un modo molto più efficace di vendere gli abiti rispetto ad un paio di appendini messi vicino al muro. In realtà noi cerchiamo più che altro quello che è definito come soft corner: due pareti marchiate con lo stesso motivo giallo pallido e nero che trovi anche sulle nostre borse e che hanno gli stessi appendini e grucce di legno su cui noi mettiamo tutta la nostra roba. L’idea è quella di esprimere al massimo il nostro marchio urbano ma organico allo stesso tempo. Così tutti possono vivere le stesse sensazioni quando provano i nostri abiti. Se possiedi un soft corner, una boutique a tre pareti o anche uno shop-in-shop vuoi lo stesso branding in qualsiasi parte del mondo. Così ogni negozio di Stella McCartney o angolo o boutique sfoggerà lo stesso intarsio, le stesse caratteristiche con mura flessibili color rosa e crema, sia che si trovino da Printemps o da Bergdorf. Marni dispone degli stessi appendini bizzari, delle stesse grucce primi anni sessanta e gabbie in metallo per i suoi abiti sia a New York che in Estremo Oriente. Tutto ruota attorno al voler controllare il proprio ambiente nel miglior modo possibile. E l’ambiente maggiormente sotto controllo in assoluto, per uno stilista qualsiasi, è il proprio negozio. Alexander ed io ne stiamo disperatamente cercando uno. Ci risolverebbe così tanti problemi, ma è anche così raro che una buona proprietà salti fuori su Sloane Street o intorno a Bond Street, e con un affitto mensile di 1.200 sterline per metro quadrato, bisogna essere ben certi che le
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cose vadano per il verso giusto. E quando poi vedi Jil Sander che chiude e senti dire quanto vuoti siano McQueen e McCartney persino il sabato pomeriggio, ti viene da chiederti, ma ne vale davvero la pena? Ma tutta la moda ruota attorno al rincaro dei prezzi, e la cosa positiva di questi aumenti è che se tu hai il tuo negozio, il flusso di denaro che ti entra è destinato ad aumentare. I negozi rincarano i prezzi degli abiti moltiplicandone il prezzo originale per 2.9, così se noi vendiamo una gonna al negozio a 100 sterline, il negozio la vende a 290 sterline. Quindi, il negoziante su un capo realizza più utili dello stilista. Produrre una gonna a me costa 30 sterline, cosi, se la vendessi nel mio negozio a 290 sterline farei un bel 260 sterline di profitto (meno i costi generali) paragonati invece alle 70 sterline che ne ricavo quando la vendo ad un altro negozio. Con questi numeri alla mano, ci si rende subito conto non soltanto del perché gli stilisti siano spesso degli squattrinati, ma anche perché ucciderebbero pur di avere negozi propri. E le cose vanno anche peggio se vendete negli Stati Uniti. Infatti i negozianti moltiplicano i prezzi per un fattore di 3.1, facendo quindi ancora più soldi. La loro argomentazione è che, siccome si prendono tutti i rischi, sono quelli che devono guadagnarci. In realtà non ci vedo poi un gran rischio nel comprare abiti da uno stilista affermato ed esporli in negozio. Non è che vadano poi alla ricerca di nuovi talenti. E quando trovano qualcuno di nuovo, ci provano, offrendosi di acquistare la collezione su una base venduto-o-reso. Il mio consiglio per ogni stilista in erba a cui viene offerto questo genere di accordo, è semplicemente di dire al buyer di andare a quel paese. Non solo rovina la tua società, ma ti fa colare a picco. Non che invece siano così generosi se sei un marchio ben affermato o se sei qualcuno di successo, come lo eravamo noi fino a questa settimana. Gli ordini che ti passano sono molto più piccoli
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di quanto si possa pensare. Ad esempio, Bergdorf Goodman con noi spende una media di 40.000 sterline l’anno ed è comunque un cliente importante. Ma non finisce qui. Perché, diciamo, Bergdorf sia soddisfatto, deve riuscire a vendere almeno il 65% del suo stock. Così, supponiamo che acquistino da noi merce per un valore di 90.000 dollari, che rivendono poi complessivamente a 279.000 dollari. Devono riuscire a vendere per 181.350 dollari per poter giustificare la loro posizione, la loro scelta e anche se stessi durante le riunioni mattutine. E se la collezione non vende, noi non avremo un altro grosso ordine. Tra l’altro, circa un terzo della roba durante la spedizione viene rubato. I grandi magazzini con outlet in tutti gli Stati Uniti hanno un deposito centrale dove viene tenuta tutta la merce prima della distribuzione. La tentazione per il loro personale di pizzicare gli abiti è evidentemente troppo forte perché ormai ho perso il conto delle volte in cui ho infilato qualcosa come trenta abiti in uno scatolone soltanto per vederne arrivare a destinazione solo ventiquattro. E non c’è nulla che si possa fare, se non sorridere, mordersi la lingua e farne altri. Alexander è frastornato. Ci sono due ragazze di Netaporter e sembra che si stiano divertendo. Ciascuna ha un bicchiere di buck fizz on the go, con alcuni mini croissant che Trish ha preso alla Patisserie Valerie, e che vengono serviti loro su alcuni piattini dorati che non ho mai visto. Alexander porge loro un line sheet ed un paio di look book freschi di stampa. Il line sheet è un catalogo contenente dei figurini in bianco e nero di ciascuno dei capi della collezione; descrive i colori e le taglie in cui ogni capo è disponibile e anche i prezzi di costo. I look book invece sono un po’ più sofisticati: contengono le foto delle modelle in ciascuno dei 40 look della collezione presentata alla sfilata e sono elegantemente rilegati con cartoncino rigido. Ma, come in tutte le cose nel mondo della moda, esiste un ordine gerarchico anche per la consegna
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dei look book/line sheet. I look book sono costosi da produrre e quindi vengono dati soltanto ai clienti più importanti. Le altre anime meno importanti devono cercare di riuscire ad elaborare la loro scelta soltanto attraverso un semplice line sheet e modulo d’ordinazione. Io cerco sempre di tenermi fuori dal processo di vendita. Lo trovo snervante, ed oltretutto sono convinta che in un certo senso la mia presenza metta i clienti a disagio. Credo sia piuttosto difficile infatti scartare un abito, o una camicia, se il suo creatore siede proprio di fianco a te. Non riesco proprio a mentenere un’espressione impassibile quando sento Alexander che mente come fa di solito. «Questo andrà sicuramente a ruba» insiste. «Keira Knightley lo ha richiesto per la prossima premiere.» Sorride. «Siamo stati chiamati dalla agente di Cameron proprio per questo.» Non sono sicura che qualcuno veramente creda a tutte le stronzate che racconta, ma in queste cose lui è decisamente meglio di me. Mi ricordo ancora di quei giorni in cui, sul retro di un piccolo camioncino, trascinavo la mia collezione splendidamente tagliata e rifinita a mano per i negozi, e tutto quello che riesco a pensare, qui, seduta in ufficio ad assaporarmi il mio caffelatte, è che grazie a Dio quei giorni ormai sono lontani. Arriva l’ora di pranzo ed Alexander ha ancora un bel sorriso piazzato sulla faccia. Due ore con Netaporter e lui ancora è tutto gioviale. «Credo le sia piaciuta» dice mentre stiamo tutti abbivaccati sul pavimento del camerino a mangiare del sushi. «Sai, normalmente riesco a capire quello che pensano, e mi sembravano contenti.» «Ma cazzo tesoro» dice Mimi, mentre giace sdraiata sul tappeto. «Adesso capisco perché non ho mai fatto la modella». Si stiracchia come un gatto e si accende una sigaretta. «Tutti me lo chiedevano ma io non avrei mai potuto farlo.»
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«La mia amica Lydia sembra divertirsi» le dico, con la bocca piena di un Californian Roll12. «Si, beh, lei è una supermodel» dice Mimi, esalando fumo dalle narici. «No, non lo è. Lei è una top model.» «Comunque, non esistono più queste cose al giorno d’oggi» dice Alexander. «Non ci sono più questi nomi.» «Vallo a dire a loro» dice Mimi. «Soltanto la scorsa settimana ho dovuto infilare una sgualdrina dentro un abito, e se la tirava in un modo… E ho pensato, ma vaffanculo, hai dodici anni e arrivi dalla fottuta Siberia o da un qualche posto di merda simile. Soltanto perché era il volto di Gucci o Prada o chi per loro, e Steven Meisel13 l’aveva utilizzata per un paio di servizi, pensava di comandare a bacchetta.» «Ah, lei» dice Alexander. «Un mio amico l’aveva ingaggiata per un paio di sfilate a New York. Solo che ha scoperto che non sa camminare. Tutti quelli che l’avevano ingaggiata per una qualsiasi cosa, l’hanno fatta uscire per un solo look, così, tanto per poter dire che fosse nella sfilata. Ma al di là di questo, faceva davvero schifo. Non è in grado di camminare sulla passerella. Immaginatevi cosa può voler dire non saper mettere un piede davanti all’altro. Che tragedia!» «Si lo so» concorda Mimi, fumando e dando da mangiare a Mini Me un po’ di sashimi al salmone usando i bastoncini di legno. «Tragico.» «Sei sicura che al tuo cane piaccia?» chiedo, guardando Mini Me che mastica rumorosamente sul fitto tappeto rosa da 135 sterline a metro quadrato. «I cani adorano il pesce» dichiara Mimi. 12
Tipo di sushi.
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Fotografo statunitense.
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«Ma non erano i gatti?» chiede Alexander. «Ah?» dice Mimi. «Davvero?» Continuiamo a gustarci il nostro sushi. Lo ingoio come se la risoluzione dei miei postumi dipendesse da questo. Mimi sta dando tutto il suo sushi al cane, ed Alexander pizzica il suo. Sta di nuovo seguendo una delle sue diete alla moda – il piano F, quella dei cavoli, quella del melograno, quella dell’indice glicemico, la Atkins, quella senza glutine. Ogni settimana c’è qualcosa di nuovo a cui è allergico, qualcosa che non può mangiare, oppure un nuovo supercibo che lo proteggerà da tutte le forme tumorali da cui è ossessionato. Per un uomo che, durante il weekend si pompa tutta una serie di sostanze chimiche sniffando dai sedili sudici dei bagni e da altre superfici piatte, mi sembra fin troppo schizzinoso rispetto a quello che ingurgita per il resto del tempo. Deve essere organico, felice e di ottima famiglia. Deve aver avuto abbastanza spazio per giocare e respirare. In breve, se ha ricevuto un trattamento migliore di chi glielo serve, allora può oltrepassare le sue labbra. «Chi abbiamo questo pomeriggio?» chiedo con la bocca piena. «Oh» dice Alexander, mentre raccoglie singoli granelli di riso con i suoi bastoncini, «il programma è cambiato un po’ da quando l’hai visto tu l’ultima volta. I ragazzi di Matches e la ragazza di Ko Samui hanno un paio di ore ciascuno. E poi abbiamo anche quell’essere appariscente che gestisce Pandora’s Box di Alderley Edge». «Non è dove va pure Colleen Rooney?» chiedo. «Urgh» dice Mimi, facendo una faccia come se qualcuno avesse appena scoreggiato. «Quel disastro del mondo della moda ambulante e petulante.» «Sta sempre dentro e fuori da Dora’s Box» borbotta Alexander,
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facendo scorrere la lista. «E comunque, Dora è una grande fan del tuo lavoro.» «Si, ma solo della roba che ha visto sul culo delle celebrità» dico, prendendomi un altro Californian roll. «Metti quella Scarlett Johansson in un’altra gonna grigia pied-de-poul e potrebbe pure raddoppiare l’ordinazione.» «Il che la porterebbe a… vediamo, duemila» sibila Alexander tra i denti. «Non ti lamentare.» gli dico. «Ci permetterà comunque di comprarci Haribo e sigarette per mesi.» «Si, certo perfetto, tanto sangue, sudore e fatica per un vaffanculo» borbotta Alexander «ed oltrettutto è pure alla fine della giornata, per cui non riuscirò a disfarmene facilmente». Sono quasi le otto di sera quando finalmente riesco a scendere la scale dopo una dura giornata di lettura di tutti i blog delle modelle, Style.com e dopo aver guardato i numeri delle mie vendite su Netaporter. Sento il timbro potente della voce di Dora e l’odore delle sue sigarette al mentolo già dal pianerottolo. Alexander sembra incredibilmente freddo. Entro nella stanza per vedere un Alexander grigio pallido, Dora circondata da tazze e mozziconi e Mimi schiaffata contro il muro in un abito da 2.000 sterline. «Comunque, dico a Jamie Redknapp: “tua moglie è fantastica in quell’abito di Julien MacDonald, dovresti comprarne almeno due a 1.800 sterline l’uno”. E indovinate?» «Cosa?» sibila Alexander. «Lo fa!» «Grandioso» dice Alexander. «Ora, ascolti, lei si è trattenuta qui per quasi due ore ormai e noi dobbiamo chiudere.» «Oh, mi dispiace» dice Dora, raccogliendo le sue cose. «Uhm, è meglio che intanto voi teniate questo. Risparmio sui francobolli.» Porge uno dei nostri moduli per gli ordini che, già da qui, mi pare
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piuttosto poco marcato. Alexander sorride e guarda sul foglio. Aggrotta leggermente le ciglia. Fa un passo indietro nel tentativo di capire quello che la donna ha fatto. Alza lo sguardo. Guarda di nuovo sul foglio. Le sue guance si colorano leggermente di rosa. «E questo lo chiama un ordine?» esplode improvvisamente. «Questo non è un ordine. Ma vaffanculo! E questo sarebbe un ordine!?» Dora sembra inorridita. Ansima, farfuglia, protesta e si lamenta mentre Alexander la spinge fuori dalla porta. Torna indietro, spolverandosi il suo abito Dior. «Niente di cui preoccuparsi» dice Mimi, accendendosi una sigaretta. «Hai avuto la tua rivincita comunque. Ho appena visto Mini Me vomitare nella sua borsa.»
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IMOGEN EDWARDS-JONES & ANONIMO
Imogen Edwards-Jones è nata a Birmingham e vive a Londra con suo marito e sua figlia. È coautrice del bestseller internazionale Hotel Babylon.
Anonimo è un team di alto profilo che lavora nel mondo della moda.
Foto © Riko Pictures/Getty Images
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FASHION BABYLON
AVVERTENZE: La lettura di questo libro cambierà per sempre il vostro modo di accostarvi alle vetrine di Roberto Cavalli o di sfogliare le pagine di Vogue.
DALL’AUTRICE DEL BESTSELLER HOTEL BABYLON
IMOGEN EDWARDS-JONES
& ANONIMO
FASHION
BABYLON romanzo
zero91
Sei mesi per cambiare il trend della propria vita, sei mesi di party, top model, lavoro frenetico e il terrore di una cattiva recensione. Fashion Babylon è il mondo di una stilista inglese emergente che cerca di evadere da Londra per avere successo oltre oceano. Con un racconto che gira intorno ai tre eventi più importanti che scandiscono il tempo nel mondo della moda, questa incursione conduce per mano il lettore sin dentro i meandri più insidiosi di una passerella, dove le donne vengono pagate decine di migliaia di dollari solo per camminare per pochi metri e dove la lunghezza sbagliata di una gonna ti può costare la carriera. Quella nuova collezione da presentare nella Grande Mela sarà un nuovo trampolino di lancio o un fallimentare salto nel vuoto? Sarebbe troppo facile se dipendesse solo dalla creatività: ci sono troppi meccanismi da assecondare, troppi tranelli da evitare, troppi fondoschiena da baciare per rimanere in perenne equilibrio tra In e Out. Spiritoso, insolente e arricchito dai gossip più curiosi sulle celebrità, Fashion Babylon rivela con una straordinaria sincerità le ascese e i crolli, gli straordinari estremi e le grette scorciatoie che si celano dietro le quinte di uno dei settori più ricchi e – per questo – più riservati del mondo.