Hotel babylon

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Imogen Edwards-Jones

Imogen Edwards-Jones è l’autrice dei bestsellers Fashion Babylon e Air Babylon. Vive a Londra con suo marito e sua figlia. Gestisce un hotel a cinque stelle nella capitale inglese.

Anonimo è un individuo che ha trascorso tutta la sua carriera lavorando nella crème dell’industria alberghiera di lusso londinese.

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“Un occhio indiscreto... con molti consigli per i viaggiatori frequenti”

The Economist

HOTEL BABYLON

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Hotel

Babylon Imogen Edwards-Jones & Anonimo

“Cinque stelle per gli eccessi... divertente e terrificante”

Sunday Telegraph

“Esplosivo”

“Una rivelazione sconvolgente dopo l’altra” “Affascinante”

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www.zero 91 .com

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Daily Mail

Daily Telegraph

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Prenota una stanza nell’Hotel Babylon! La soddisfazione è assicurata… Siamo umanamente portati a guardare dal buco della serratura. Umanamente portati a voler conoscere ciò che l’apparenza ci nasconde. Il Dietro le Quinte è un mondo senza filtri in cui intrufolarsi, spiare, giudicare, specchiarsi in ciò che si vorrebbe essere o non essere. È un mondo meno opportuno di quello mostrato e, quindi, è più interessante… Insieme all’autrice, la giornalista Imogen Edwards-Jones, e all’anonimo collaboratore - anonimo perché realmente lavora in un albergo a cinque stelle - entriamo nelle stanze dei clienti e in quelle dello staff. Scopriamo le debolezze, le depravazioni, i vizi, i segreti, gli eccessi di chi sa che i capricci hanno un prezzo. A guidarci è la voce di Charlie Edwards, il vice direttore dell’albergo, carismatico e attraente, che ci racconta ventiquattro ore della sua vita all’interno del mondo edonistico in cui lavora. Non solo clienti più o meno bizzarri o esigenti da soddisfare, ma anche colleghi insicuri, competitivi, ambiziosi, ritardatari. La sua giornata inizia alle sette della mattina, dopo una nottata di sbornie in un locale glamour, per salutare Michelle che lascia il lavoro. Charlie deve dare il cambio a Ben, un ventenne che non ha ancora deciso cosa fare della sua vita, che ha fatto il turno di notte. Charlie gli racconta i gossip della nottata appena trascorsa e Ben se ne va punzecchiandolo su Jackie, la giovane ragazza madre, responsabile delle pulizie, con cui Charlie ha una tresca… ma la giornata è appena iniziata: cosa succederà fino alle sette del giorno dopo? Chi verrà rimproverato dall’arrampicatrice e arida Direttrice dell’hotel, Rebecca, così presa dal lavoro da dimenticare la sua vita privata? In copertina: © Giuseppe Castrovinci



Imogen Edwards-Jones & Anonimo

Hotel Babylon Traduzione di Nadia Mesi


Titolo originale dell’opera Hotel Babylon Traduzione Nadia Mesi Copyright © 2004 Anonymous & Imogen Edwards-Jones Copyright © 2004 Bantam Press Copyright © 2005 Corgi

Copyright © 2008 zero91 s.r.l., Milano Printed in Italy

I Edizione Marzo 2008 ISBN 978-88-95381-03-9

www.zero91.com


Dedicato all’ A Team Eugenie Furniss e Stephanie Cabot

Un ringraziamento particolare va allo splendido Doug Young e a tutte le persone che lavorano alla Transworld, per il lavoro svolto. Al meraviglioso Anonimo per la sua pazienza, il suo humor e anche per i suoi favolosi biscotti fatti in casa.



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Prologo Q

uanto segue è vero. Solo i nomi sono stati cambiati per tutelare i protagonisti reali. Aneddoti, storie, personaggi, situazioni, alti e bassi, truffe, droghe, miseria, amore, morte e follia sono esposti nello stesso identico modo in cui mi sono stati raccontati dall’Anonimo – un individuo che ha trascorso tutta la sua carriera lavorando nella crème dell’industria alberghiera di lusso della capitale. Tuttavia, per ragioni legali, i fatti adesso si svolgono in un hotel immaginario che chiameremo Hotel Babylon. I dieci anni e rotti del racconto dell’Anonimo sono stati condensati in ventiquattro ore. Tutto il resto è come dovrebbe essere. I ricchi spendono quattrini, l’albergo incassa quattrini e le cameriere ancora si azzuffano con i fattorini per monete da due sterline. È solo una giornata qualsiasi in un costoso hotel londinese.

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eri notte è stata grandiosa, però, cristo, oggi sto di merda. La testa mi rimbomba come se ci fossero lavori in corso, ho la lingua infeltrita. Non avevo intenzione di sbronzarmi sul serio ma era l’addio di Michelle, perciò non ho potuto trattenermi. È proprio questo il problema quando sei nel business degli hotel di lusso: sei circondato da una tale quantità di edonismo e depravazione che, alla fine di una lunga giornata di lavoro tra le prime linee dell’industria terziaria, vuoi soltanto sballarti. Siamo finiti tutti a farci un cicchetto da ‘Samantha’ in Oxford Street. È un luogo di ritrovo per membri dello staff che hanno voglia di allitrarsi fino a notte fonda. È molto conosciuto tra chi lavora nel giro dei grossi alberghi della capitale. È sufficiente mostrare il badge dell’hotel e sei dentro. Eravamo in parecchi ieri sera al commiato di Michelle. Beh, Michelle è una ragazza benvoluta da tutti, ha lavorato con me alla reception per qualche anno e adesso si trasferisce al Claridge. Oppure è il Dorchester? Me lo ha detto tante volte, ma ancora non riesce ad entrarmi in testa. Ad ogni modo, è stata una bella serata. Gossip a profusione. James, responsabile acquisti, che adora riempire vecchie bottiglie

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di Chateau Rotschild del 1982 con vino ordinario per far colpo sulle ragazze che porta a casa, è sparito con una delle cameriere. Una domestica ha vomitato a fiotti, praticamente ovunque. Ma la migliore che ho sentito è stata che una delle governanti ha beccato in flagrante Michelle che spompinava Adrian, il nostro direttore. Inverosimile. Credetemi, se conosceste Adrian ne sareste scioccati più di me. È il classico ragazzetto snob, arrivato lì da noi con il programma di training del Savoy. Genere camicia a righe, gemelli e after-shave al cedro. Il tipo che non ti aspetteresti mai di vedere con le brache calate nel cesso degli uomini in Oxford Street. Ma ho lavorato negli alberghi abbastanza a lungo da non giudicare mai le persone dalle apparenze. Sono sempre quelli a prima vista più a modo, in abito grigio, ad avere le valigie zeppe di attrezzi in lattice e riviste porno; e sono sempre quelli col look più bizzarro a bere solo acqua minerale e ad andare a letto presto; e sono sempre le donne sposate a volersela spassare con lo staff. Ma c’è una cosa che li accomuna. È una cosa che fanno tutti, nessuno escluso, non appena arrivano in albergo: rubare. Televisori, cucchiaini da tè, posacenere, accappatoi, bevande dall’Honour Bar – nome, peraltro, ridicolo – KitKat, patatine, tappeti, mobili e opere d’arte. C’è gente che sborsa 3.500 sterline a notte (colazione esclusa), che piscerebbe in una bottiglietta microscopica pur di non pagare il Teacher’s whisky del minibar. Ad ogni modo, l’aspetto più stuzzicante nella condotta di Michelle, la notte scorsa, è che lei oggi stesso, più tardi, avrà il suo colloquio di commiato con Adrian. Di solito è quel genere di chiacchierata in cui ci si siede con il manager, o con il capo del personale, e lui comincia ad elencarti i tuoi punti di forza e di debolezza, spiegandoti dove puoi migliorare, dove vai già bene e quali sono le tue doti specifiche. Dio, cosa non darei per essere un moscerino e assistere all’incontro! Non vedo l’ora che

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si facciano le 11:00. Se non altro è qualcosa che dà senso alla giornata di oggi. È tutto piuttosto tranquillo alla reception, stamattina, quando entro. Il mio collega Ben, che questa settimana fa il turno di notte, non si vede. So di essere in ritardo di qualche minuto. Sono le 7:05 nel momento in cui appendo il cappotto nel guardaroba dello staff e risalgo le scale. Ma lui non dovrebbe aver staccato. In teoria dovrebbe aspettarmi finché non arrivo, aggiornarmi su quanto è accaduto di notte e solo allora andarsene a casa. «Ohilà Derek», faccio all’usciere, che sembra alquanto malmesso dopo una notte trascorsa in una poltrona di pelle imbottita. «Hai idea di dove sia finito quello sfaticato dell’addetto alla reception?» «Chi, Ben?», chiede Derek. «Proprio lui», confermo. «Hai provato nell’ufficio sul retro?» «Certo.» C’è un piccolo ufficio dietro alla reception dove gli impiegati amministrano i conti, ricevono fax e organizzano col computer il piano delle prenotazioni che è detestato da tutti perché cambia di continuo. È un luogo claustrofobico dove, nel corso della giornata, si cerca di non trascorrere molto tempo, perché puzza di caffè istantaneo, biscotti rancidi e alito cattivo. Di notte, però, la sua scrivania lunga e piatta funge da letto. Ben è già stato redarguito in passato per aver dormito in ufficio. È la prima faccia che vedono gli ospiti quando entrano in albergo. E il nostro è un albergo di lusso dove le stanze vanno da 200 a 2.000 sterline a notte. La faccia che, presumibilmente, li accoglierà all’arrivo dovrebbe trasudare lusso e magnificenza. Non dovrebbe essere quella di un tizio anchilosato, con tutta l’aria di chi si è appena alzato e porta i segni del cuscino sulle guance. Entro e, natural-

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mente, lo trovo lì. Sdraiato di schiena, bocca spalancata, a caccia di mosche. «Ehi Ben! Bastardo! Svegliati!» Cristo se salta… «Cosa? Oh, merda!», scatta, balzando sull’attenti come se qualcuno gli avesse infilato un forcone su per il culo. «Mi scusi, chi..? Oddio, sei tu», biascica, ravvivandosi i flosci capelli castani, visibilmente sollevato per non essere stato colto in flagrante da chi di dovere. «Mi sono appisolato solo per cinque minuti. Giusto per riprendere fiato prima che arrivino quelli dei voli notturni da Heathrow.» «Sì, come no.» «Parola d’onore, non è da tanto che sono qui», protesta, spolverandosi la giacca del completo virante al lucido. «Comunque, com’è andata la festicciola di Michelle?» Gli racconto di Michelle e Adrian e inizia a ridere. Pensa che sia la cosa più divertente mai sentita in tutta la settimana. «Credi che le farà il sermoncino di valutazione sulla tecnica? Le darà un punteggio da 1 a 10?» Dice che varrebbe quasi la pena restare solo per vederla arrivare alle 11:00 per il discorso di congedo e mi chiede di chiamarlo più tardi per raccontargli i dettagli. Mi informa che ha avuto una notte tranquilla. Niente di troppo arduo da gestire. C’erano stati un paio di ubriachi che erano collassati al bar e che, in seguito, si erano rivelati piuttosto pesanti da trascinare, e poi una ragazza che gironzolava per l’albergo, intorno alle 3:00 del mattino, facendo dondolare una busta di plastica piena di vomito come fosse un accessorio all’ultima moda. «Ma a parte questo», dice, «dovrai domandare a Derek dove pensa che si trovino le prostitute per il check-out, o, più propriamente, per lo sgombero, più tardi.» Sostiene di non

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averci fatto molta attenzione. Ma entrambi sappiamo che, o si stava scolando qualche bicchierino di vodka al bar per riuscire a superare la nottata, o stava con la pancia all’aria nell’ufficio del retro. Rido. È scocciante avere turni separati con Ben, dato che lui si limita a fare solo lo strettamente indispensabile e sembra cavarsela ogni volta. A dire il vero, è più che scocciante – mi fa veramente incazzare. Oggi più che mai, forse perché soffro i postumi della sbornia. «Niente altro che devo sapere?», domando a Ben mentre giocherello con le caramelle omaggio poste sul bancone e continuo a cliccare il pulsante che aziona la penna promozionale dell’albergo. «Non proprio», fa Ben. «Ho sentito dire che è in arrivo uno yankee, oggi. Un texano.» Sorride. «Bling, bling, bling.» «Bene», dico, rincuorandomi un poco. «Già», sorride Ben, fregandosi le mani. «Chi non ama i texani?» «Ci vediamo dopo», gli dico, dandogli una lieve spinta quando mi passa di lato. «Ok», risponde, sollevando il collo del cappotto. «Stasera, alle 7:00.» «D’accordo.» Tira su col naso. «Fammi un colpo di telefono quando arriva Michelle». Fa l’occhiolino. «Mi mancherà.» «Credevo che il cuore lo avessi donato a Jackie.» «Certo, come no?», mi fa, fingendo di spararmi con l’indice destro. «A più tardi.» «Sì, a più tardi», dico io, col tono un po’ sorpreso. In effetti, sono almeno tre mesi che Ben ha una storia con Jackie, una capo governante australiana piuttosto carina. L’ho coperto un paio di volte alla reception, ecco perché lo so. Seguono ogni volta

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lo stesso sistema. Di solito lei chiama giù e dice qualcosa tipo: «Bisogna ispezionare la stanza 212». A quel punto lui si fionda su per le scale come un cane in calore, attaccano il cartello non disturbare alla porta, lo fanno per circa mezz’ora e poi lei manda una cameriera a rassettare la stanza. La cosa va avanti da un pezzo, perciò credevo fosse amore, o qualcosa di simile. A quanto pare mi ero sbagliato. «Ci si vede dopo», aggiungo, simulando il gesto di sparargli a mia volta mentre esce dalla porta girevole. Non c’è tempo di rimuginare sulla cosa perché, non appena Ben sparisce, il telefono squilla. «Buongiorno, reception», dico, spensierato come lo si può essere con sette birre in corpo. «Salve», fa una voce dall’accento americano. «Questa è la stanza 514.» «Buongiorno, signore.» «Ho ordinato una bistecca per colazione circa mezz’ora fa e ancora non è arrivata.» «Sono terribilmente spiacente, signore. Ha parlato col room service?» «Room service un corno», dice. «È un pezzo che provo, nessuno risponde e poi la chiamata viene trasferita a lei.» «Sì, signore, succede dopo tre o quattro squilli.» «Perfetto. Allora vorrei che lei andasse lì a sollecitarli e mi facesse portare la mia bistecca.» «Non mi è proprio possibile farlo, signore», dico. «Non può o non vuole?», chiede, iniziando ad alzare la voce. «Ho un meeting molto importante tra un’ora e se non ricevo la mia bistecca prima di andarci riterrò lei e l’albergo responsabili e sporgerò denuncia per il disagio che mi avete causato.» «Come crede, signore.»

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«Non sia accondiscendente con me», dice, irritandosi ancora di più. «Faccia qualcosa piuttosto.» «Provvedo immediatamente, signore», rispondo. «Bene!», grida e riattacca. «Room service?», chiede Derek dalla sua poltrona di pelle. «Già. Un americano che ha ordinato una bistecca.» «Oddio, un’altra volta», si lamenta Derek. «Perché lo fanno? Che c’è di male nel fare colazione con uova e un po’ di bacon al mattino? Vuoi che ci vada io?» «Tranquillo, collega», dico, pensando che potrei bermi un caffè al volo intanto che sono giù in cucina. «Vado io.» «Allora presidio il fortino finché non torni.» Derek è un bravo ragazzo. Ha fatto l’usciere e il portiere di notte per più di venti anni e ha lavorato qui negli ultimi cinque. Ha ereditato questo lavoro da suo zio. Questo posto è decisamente più sofisticato di quella vecchia pensione a quattro stelle, proprio dietro l’angolo, dove lavorava prima. Dice sempre che passerà questo lavoro ad uno dei suoi tre figli. Si possono guadagnare più di 1.000 sterline a settimana in mance, perciò è quel genere di lavoro che si cerca di conservare in famiglia. Ma le cose stanno cambiando. L’epoca in cui si tramandava il posto di concierge e di usciere di padre in figlio si è quasi conclusa. Gli alberghi moderni e alla moda come il Sanderson e il Metropolitan vogliono fisici da modello a bighellonare all’ingresso, mentre gli altri hotel di stampo istituzionale di solito sono proprietà di grosse catene multinazionali per le quali la tradizione non conta più di tanto. «Vuoi che ti porti un caffè?», gli chiedo voltandomi per scendere giù. «Non preoccuparti, collega», dice sospirando. «Tra meno di un’ora stacco. Non riuscirei più a prendere sonno.» «Cristo, dormire!», penso mentre sto scendendo le scale che

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conducono alle cucine e alla mensa dello staff – ecco di cosa abbiamo fottutamente bisogno tutti quanti. Nel nostro campo nessuno dorme come si deve. Non sono neppure le 7:20 e il primo turno in cucina è già attivo da minimo un paio d’ore. Lo chef della colazione è arrivato intorno alle 5:00. Sta precuocendo salsicce da quell’ora. Non solo prepara la colazione per lo staff dalle 5:30, cucina pure per gli ospiti dalle 7:00. Il seminterrato puzza di candeggina e bacon. L’aria nei corridoi è così densa e calda che è difficile respirare. Entro in cucina, immersa nella nebbia di grasso di un centinaio di uova fritte. C’è un tipo davanti ad una gigantesca piastra di acciaio rovente, piatta e iperlucida, impegnato a girare le omelette. Ha il volto grigio. Scintilla di grasso. Gli occhi sono velati mentre guarda davanti a sé; lo sguardo è fisso sulle uova di fronte. Sembra giovane, poco più che ventenne. Non mi sembra di conoscerlo. Il turnover è molto alto qui giù tra i ragazzi. Chi vorrebbe mai lavorare in turni frazionati di 15 ore in questo inferno? Però, una volta che hai sgobbato fino a raggiungere la posizione di secondo chef, pare che non se ne voglia andare più nessuno. Un bravo cuoco guadagna oltre 100.000 testoni l’anno; se hai il nome sulla porta d’ingresso, puoi anche triplicare o quadruplicare quella cifra. Il ragazzo non mi sente, anche se sto gridando. Forse è il rumore del cibo, oppure è così stremato da aver disinnescato il cervello. «Ohi!», urlo di nuovo. Stavolta si muove. «Lo yankee della stanza 514 vuole sapere che fine ha fatto la sua bistecca.» Il cuoco non proferisce parola. Il volto reagisce a stento. Indica però con un paio di rapide sferzate della sua paletta un pezzo di carne che sta sfrigolando proprio nella parte posteriore della piastra rovente. «Quanto ci vuole?», chiedo. Lui mi fa il segno di ‘vittoria’, che

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presumo indichi due minuti. «Bene», annuisco col capo. «Vedi di fare in fretta.» Lui non fa una piega. Si volta verso la pila di vassoi accatastati alle sue spalle con posate, tovaglioli, sale, pepe e toast e comincia a far scivolare le uova nei piatti. Di tanto in tanto le alterna con cucchiaiate di uova strapazzate che preleva da un grosso recipiente. Poi aggiunge qualche striscia di bacon, da sotto le calde luci gialle alla sua sinistra. Tutto ha un aspetto disgustoso, eppure, in qualche modo, dopo che il piatto ha compiuto il suo lungo e freddo percorso attraverso i corridoi dell’albergo e giunge nella stanza di qualcuno, non sembra poi così male. E non è nemmeno economico: negli alberghi di lusso della capitale vi possono chiedere da 12,50 a 25 sterline per una colazione inglese completa e a noi, naturalmente, la cosa piace parecchio, visto che ci costa meno di 50 pence a porzione. Esco dalla cucina e il telefono nella stanza accanto inizia a squillare. «Buongiorno, room service», risponde un altro ragazzo vestito di bianco. Svicolo nel corridoio, dirigendomi verso la mensa dello staff, per un caffè veloce. Tutto questo cibo mi ha fatto venir voglia di una sigaretta. La mensa è sempre fredda e umida e puzza di sigarette economiche, qualunque sia il genere di vivanda che offra il menù. Benché, stranamente, devo ammettere che la cucina non è affatto cattiva. Tenuto conto che hanno a disposizione una sterlina e venti pence circa a persona, al giorno, per sfamarci tutti e che gran parte dello staff consuma almeno due pasti principali in albergo ogni giorno, i piatti non hanno un aspetto sgradevole. Spesso ci toccano gli avanzi dei banchetti della notte precedente. Abbiamo insalate non freschissime e residui di pasticceria dell’ora

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del tè. Ma ci offrono anche dei buoni stufati e spezzatini, un chili con carne particolare e poi c’è sempre il curry che preparano per gli addetti alle pulizie del Bangladesh che, di notte , lustrano questo posto da cima a fondo. Quando entro, ce ne sono un paio che hanno quasi finito il turno di notte, seduti nell’angolo più distante. Piegati sul cibo, come se qualcuno potesse rubarglielo, non si parlano neppure. Mi verso una tazza di caffè senza panna e mi siedo davanti ad un tipo che indossa il cappotto marrone degli addetti alla manutenzione. Presumo sia polacco. Non vorrei sembrare razzista ma ci sono certe cose che puoi dare per scontate in un hotel. La prima è che gli addetti alla manutenzione, per lo più, sono polacchi. La seconda è che gli addetti notturni alle pulizie sono, per lo più, originari del Bangladesh, e la terza è che le governanti non sono mai inglesi. Mi ricordo che una volta, in un hotel dove lavoravo, avevamo un inserviente che era proprio inglese. Pensavamo tutti che la cosa fosse un po’ strana. Ma ci avevamo fatto l’abitudine. Era sulla cinquantina. Forse era in bolletta o altro, vallo a sapere. Sta di fatto che un giorno esplose e scoppiò a piangere davanti a tutti, in mensa, dicendo che non poteva più tenerlo nascosto: confessò che era stato in prigione per aver assassinato la moglie con un’ascia. Andò via il giorno dopo e da allora non ho più lavorato con un collega inglese, che fosse inserviente o domestica. Il caffè e le sigarette producono la loro deliziosa alchimia: le pulsazioni si fanno più rapide e il cervello inizia a carburare. Controllo l’orologio. Merda! Sono le 7:45. Che diavolo ho fatto per metterci tutto questo tempo? Arranco per le scale, due scalini alla volta e piombo nella reception. Il mio partner per la giornata di oggi, Liz, mi accoglie con uno sguardo gelido. «Dove cazzo sei stato?», dice, sforzandosi di restare impas-

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sibile. «Ero giù, a sollecitare un’ordinazione per un servizio in camera», replico. «Comunque, tu eri in ritardo.» «Cinque minuti», ribatte. «Lasciamo stare». Non ha senso discutere con Liz. Devo lavorare con lei tutto il giorno ed è meglio tacere perché è quel genere di persona che, se vuole, può tenerti il broncio e non rivolgerti la parola anche per un giorno interno. Venticinque anni, capelli biondi e tette da urlo, è una di quelle bambole gonfiabili per cui gli uomini di mezza età sbavano sistematicamente. È sempre abbronzata ma non va mai in vacanza; ha le ciglia rigide e perfettamente incurvate, le unghia di nylon resistentissimo. Lei, Ben, Michelle ed io lavoriamo a turni di quattro giorni più uno di riposo, ma capita anche di lavorare sette notti di fila. Ma ora Michelle se ne va, perciò manca un’addetta alla reception. Stiamo aspettando un rimpiazzo, dovrebbe arrivare domani, almeno così si spera. «Qualche problema?», chiedo. «Una delle cameriere, Marie, ha chiamato per dire che sta male», dice Liz. «Chi, Marie?», rido. «Ci credo che è malata. Al party di Michelle si è fatta spupazzare da James dell’ufficio acquisti. Cosa ha detto che aveva?» «Un’intossicazione alimentare.» «Intossicazione alimentare? Non credevo che potessi beccartela col gin - tonic.» «Già.» Liz fa spallucce. «Stando a quanto mi ha detto Derek di ieri sera, sono certa che non sarà l’unica a darsi malata.» «No!», sorrido. «Credi che Michelle verrà?», chiede Liz. «Lo spero», rispondo. «Quattro risate me le farei volentie-

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ri.» Squilla il telefono. «Buon giorno, reception», dice Liz, con la sua voce sibilante e profonda. «Mmm, mmm. Va bene», dice. «Temo che, nella scatola del pronto soccorso, non ci sia la pillola del giorno dopo, signora», dice. «Ma se ha la pazienza di attendere qualche minuto - il nostro concierge, Tony, arriva alle 8:00 - e lui conosce di sicuro il posto più vicino dove procurarsela. Va bene?», chiede. «Mmm... sì», aggiunge, «la chiamo non appena arriva». Riattacca il telefono. «Meno male che hai risposto tu», dico. «Questo fa il pari col test di gravidanza che ho dovuto cercare la settimana scorsa.»

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ony viene fuori dalla porta girevole alle 8:00 spaccate. Il cappotto è molto elegante, il completo dritto come un fuso e le scarpe lucidate a pennello. La camicia, impeccabile, è di un bianco abbagliante, la cravatta nera è firmata Prada. La chioma corvina è liscia e con la riga di lato, e lui sfodera uno di quei sorrisi contagiosi che ti fanno venir voglia di essere suo amico. A onor del vero, ci sono parecchie cose di Tony, a parte il sorriso, che ti fanno desiderare di essere suo amico. Tanto per cominciare, non accade quasi nulla a Londra di cui Tony non sia informato. È un vero Time Out Magazine ambulante e parlante. Sa dove andare, dove mangiare, dove ballare. Conosce l’usciere e il buttafuori di ogni club in cui valga la pena andare. Sa in quale teatro recita una data star hollywoodiana e dove andrà a bere. Con pochissimo preavviso, può farti avere un tavolo da Ivy, Nobu, Hakkasan, Sheekey’s, Petrus, il Wolseley o Gordon Ramsay. Ti può procurare biglietti per uno spettacolo con il tutto esaurito. Può farti ottenere sconti su auto costose. Può farti avere donne, droghe e ragazzi a nolo. Può trovarti una villa nel sud della Francia. Conosce un posto assolutamente incantevole che, una volta, un suo collega concierge ha affittato

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ad una cifra spropositata per conto di Courtney Love. Pare sia un autentico paradiso terrestre anche se Courtney Love non ne abbia la più pallida idea: ha pagato ciò che doveva ma non si è mai presa la briga di andarci. Tony, comunque, può fornirti qualunque cosa – weekend in campagna, viaggi in pullman nei dintorni di Londra. Può farti saltare la fi la al museo di Madame Tussaud, sa dirti dove puoi far riparare l’orologio, far pulire la tua arma da fuoco e dove trovare la miglior stoffa per sari in città. Sa dove si può fare shopping di notte. Sa dove puoi trovare un pensierino per tua moglie. Sa qual è il nuovo modello di scarpa che hai in mente. Sfoggia con orgoglio le chiavi dorate, simbolo del concierge, ricamate sul risvolto della giacca. E ne ha motivo, perché quelle sono chiavi esclusive in grado di aprire qualunque porta della città. «Tutto a posto, Tony», dico mentre entra. «Una favola, collega», risponde. Tony è di buon umore. Del resto lo è quasi sempre. Lo sareste anche voi se portaste a casa un paio di centoni a settimana in mance e mazzette, e quasi niente transitasse sotto il radar del fisco. «Ho sentito che ieri notte è stata pazzesca.» «Sì, non male. Come fai a saperlo già?» Tony sorride, non dice nulla e si strofina il naso di lato. Derek nel frattempo si è alzato e cammina stiracchiandosi. L’arrivo di Tony, insieme all’usciere Steve, significa la fine del turno per Derek. E mentre Tony si accomoda dietro il bancone e controlla la sua posta, esaminando gli opuscoli sul tour dei Cotswold su cui ha una percentuale del 10%, Steve sta già aprendo la porta ad un cliente dall’aria stravolta che sembra appena sceso dall’aereo. «Buongiorno signore», dice Steve. «Posso darle una mano con le valigie?» «Sì, sì», dice il tipo dall’aria stravolta, rovesciando tutto quanto

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ai suoi piedi. Supera la porta e punta dritto alla reception. «Buongiorno signore», dico, mentre Liz prende un’altra chiamata. «Andrew Oliver», annuncia il signor Oliver, con un accento d’oltreoceano non meglio precisabile. «Ho un check-in anticipato. Lo ha prenotato la mia segretaria. Ha già provveduto a pagare il costo aggiuntivo.» «Bene, signore», dico. «Controllo subito.» In un hotel non c’è niente che sia più gradito di un check-in anticipato o di un cliente preregistrato (pre-reg). È uno di quei casi fortunati in cui possiamo far pagare una stanza il doppio. È un processo semplice. Prendi un cliente che paga per la sua notte in albergo e poi ne accetti un altro con un check-in anticipato, addebitando a quest’ultimo anche il costo della notte precedente per garantirgli la sistemazione prima dell’ora prevista. In questo modo fai pagare la stessa notte due volte. Tutto quello che dobbiamo fare in albergo è assicurarci che il primo cliente sloggi prima dell’arrivo dell’altro. Altrimenti sei nella merda fino al collo. «Esatto signor Oliver», dico, prendendo il suo passaporto canadese. «Le abbiamo riservato la camera 514.» «514», ripete con un lungo sospiro di sollievo, che sa di cibo da aereoplano. «Sì, 514.» Sorrido, ma tutti i campanelli di allarme che ho in corpo iniziano a suonare, anzi, a urlare ‘americano mangiabistecche’. Reception, abbiamo un problema. La stanza 514 non è vuota. In effetti, la camera 514 non ha neppure l’aria di venir sgomberata nella prossima mezz’ora e poi dovrà essere pulita e riassortita, il tutto mentre io sopporterò che il signor Oliver mi aliti in faccia le sue coq-au-vin. «Bene, la 514», ripeto. Ma in un modo tale che lui capisce

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subito che c’è un problema. «Cosa?», fa lui. «Non può esserci un problema. Io ho già pagato. Ho qui un fax che lo dimostra». Appoggia la pesante ventiquattrore su un fianco e pigia un pulsante per aprirla. «No, signore», dico velocemente. «Non è un problema di prenotazione. La sua ce l’abbiamo proprio qui.» Faccio un gesto con la penna omaggio dell’albergo. «È che abbiamo avuto un piccolo inconveniente l’altra sera. Il cliente che occupava la sua camera ieri ha avuto, mmm…» «Un’intossicazione alimentare», interviene Liz. «Una gravissima intossicazione. Terribile. Non è stato in grado di lasciare la stanza per 24 ore. Ostriche, mi pare che abbia detto.» «Ostriche?», chiede il signor Oliver. «Sì, ostriche», ripete Liz, quasi iniziando a convincersi della sua stessa storia. «Nessuno ha potuto spostarlo. Ordini del dottore.» «Comunque, signore», sorrido, «l’albergo è pieno, quindi temo di non avere una stanza per lei al momento. Ma se ha la pazienza di attendere mezz’ora sono certo che potremo farla accomodare». «Mezz’ora», ripete il signor Oliver con un filo di voce. «Sì signore», dico. «Facciamo così», aggiungo, come se l’idea mi fosse balenata in quell’istante. «Perché non si accomoda in sala da pranzo per fare colazione: uova, bacon, caffè o altro? Ovviamente sarà nostro ospite. Verremo a chiamarla non appena si libera una stanza.» Il signor Oliver è palesemente troppo stanco per impelagarsi in una diatriba. Tutto ciò che desidera è un letto caldo, una tazza di caffè e la CNN in tv. Nonostante ciò, si trascina in sala da pranzo mentre io faccio una veloce strisciata con la sua carta aziendale American Express oro.

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«Bene, è andata», fa Liz, scuotendo la chioma bionda. «Già, meglio che a Ben la scorsa settimana», dico. Qualche giorno fa, Ben aveva commesso l’imperdonabile errore di escogitare una pessima bugia con un americano incazzato, appena atterrato dopo un volo notturno proveniente da New York. Invece di uscirsene con la solita storiella dell’intossicazione, per giustificare la mancata disponibilità di una stanza prenotata in anticipo, disse che c’era stato un allagamento e se ne stavano occupando gli addetti alla manutenzione. L’americano non gli credette. Pretese di vedere la stanza. Ben rispose che non era possibile perché era inagibile. Senza troppi giri di parole, l’uomo lo accusò di essere un bugiardo. Ben disse che, se proprio insisteva, gli avrebbe mostrato la stanza. L’uomo insistette. E Ben lo portò a vedere una stanza, in fondo al secondo corridoio, dove fortunatamente stavano facendo dei lavori. Malgrado ciò l’americano non gli credette e chiese di vedere il direttore. Una storia spiacevole che costò all’albergo una notte omaggio e una bottiglia di champagne. Adrian non ne fu affatto contento. I telefoni adesso sembrano impazziti. Questa è l’ora in cui i clienti iniziano a chiamare per dirti di preparare il conto e i membri dello staff telefonano per darsi malati. Oggi è venerdì, perciò la vedo dura. Lunedì, venerdì e i fine settimana sono i giorni di malattia. Il problema è diventato così grave che se ti dai malato in quei giorni non vieni pagato. Se puoi presentare un certificato medico, avrai diritto alla ROM (retribuzione obbligatoria per malattia); se non ce l’hai, allora sono cazzi. Per quale motivo l’hotel dovrebbe pagare per le tue sbornie? A proposito, la mia procede malissimo in questo momento. Ucciderei per un bicchiere d’acqua e del Nurofen. Il telefono squilla di nuovo. «Buongiorno», dico.

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«Salve, sono Jacinta», risponde una voce femminile. Capisco subito che è una delle cameriere che telefona per darsi malata. Una cosa assolutamente penosa. Io so che mente, lei sa che io so che mente eppure ci accolliamo entrambi la stessa farsa patetica. Perlomeno la sua scusa è leggermente diversa dalla solita ‘intossicazione’ per cui devo anche mostrare partecipazione. Sostiene di aver problemi con le ‘tube’. Non capisco bene se si riferisce all’impianto idraulico oppure al suo utero, così mormoro qualcosa del tipo «Che sfortuna, speriamo che si risolva», prima di riattaccare il telefono. In ogni caso, è un po’ tardi per chiamare e inventarsi che proprio non ce la fa a venire al lavoro, dato che quasi tutte le cameriere e lo staff addetto alle pulizie dovrebbero essere qui prima delle 8:00. In fondo, parliamo dell’orario di punta della giornata, quando dovrebbero essere impegnate a pulire e rassettare le stanze il più rapidamente possibile. Più veloce è il ricambio, prima possono terminare la loro quota di stanze e tornare a casa. L’ultima cosa di cui un buon hotel ha bisogno è una stanza sporca che resta inutilizzata e che costa denaro. Tutti hanno una lista che spiega come andrebbe lasciata la stanza: due asciugamani da bagno sulla sbarra (ripiegati all’interno), asciugamani per il viso arrotolati e collocati accanto al lavabo, scaldasciugamani regolato al minimo, lampada da scrivania accesa, coppe di vetro dietro i rubinetti, radio spenta e aria condizionata accesa. Inoltre, ogni cameriera che abbia del sale in zucca vuole entrare nella stanza prima possibile – quasi nell’istante in cui l’ospite sta decidendo di andarsene – perché alcuni ospiti lasciano mance nella stanza e l’ultima cosa al mondo che vogliono è che Jez oppure Dave, i due fattorini, ci mettano le mani prima di loro. La settimana scorsa, passando davanti ad un stanza al terzo piano, ho beccato una cameriera portoghese di circa vent’anni e il ventiduenne Dave

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che si accapigliavano per una moneta da due sterline. Clienti scafati, abituati a viaggiare e pernottare in giro per il mondo, lasciano la mancia in aree a prova di fattorino, ad esempio, sotto i cuscini; altri, meno pratici con queste tecniche di ‘prelievo’, li lasciano sulla scrivania in mezzo alla stanza. E, in quel caso, sta alla cameriera affrettarsi a recuperare quanto le spetta. E, prendetemi in parola, si meritano davvero qualunque extra che riescano a guadagnarsi. Non riuscireste a credere alla quantità di porcherie che si ritrovano tra i piedi – biancheria intima sporca, preservativi usati, riviste porno macchiate di sperma, strisce di coca, siringhe vecchie, sex-toys già adoperati. La gente si comporta in modo così squallido negli alberghi che le conseguenze possono essere davvero scioccanti. Mi ricordo un episodio in particolare, un gruppo pop che aveva sniffato così tanta cocaina da farsi venire scariche di diarrea, finendo per pulirsi il culo con le tende perché avevano finito la carta igienica. Lavorare come addetta al servizio camere deve essere uno dei lavori più merdosi in un hotel. E quando dico merdoso, non scherzo. Un paio di mesi fa una donna di mezza età, piuttosto snob, ha lasciato uno stronzo enorme in mezzo al letto. Roba da non credere. La donna era insieme alla figlia, dividevano la stanza e – credo – anche il letto. La figlia, per qualche motivo, era andata via presto e la madre aveva lasciato la stanza intorno alle nove del mattino. Mentre usciva dalla camera, aveva conversato amabilmente con me riguardo ad una mostra che era in procinto di visitare. Nel frattempo, aveva deposto questa gigantesca cagata al centro del letto e non ne aveva fatto parola con nessuno. La povera cameriera quando la vide quasi svenne. Impegnata a rassettare, non riusciva a capacitarsi del perché ci fosse un simile tanfo nella stanza, finché non spostò le lenzuola e lo scoprì. L’incidente fu così scioccante che dovette ripulire tutto Jackie, perché

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la cameriera proprio non ce la faceva. La cosa ancora più assurda è stata che la donna è tornata di sera e, di nuovo, ha fatto finta di niente. Sono partite il giorno dopo e – ci credereste? – non hanno lasciato la mancia. Ma le cameriere, se non altro, qualche mancia ogni tanto la beccano. I cuochi al piano inferiore, che lavorano in quelle che credo siano le peggiori condizioni possibili in un hotel, non hanno neanche quella. Quando dico ‘peggiori’ so di cosa parlo perché, una volta, ho avuto la sfortuna di fare il cuoco. Non riuscivo sopportarlo. Le pratiche di bullismo, le bastardate che si commettono in quell’ambiente, sono al di là di ogni immaginazione. I cuochi sono delle vere merde e, porca miseria, se ci godono a darti una strigliata… Ricordo il mio primo giorno come fosse ieri. A meno che tu non debba preparare la colazione, ti presenti più o meno a quest’ora. Lo fanno tutti i cuochi, perché devono organizzare la loro mise en place, che significa, in parole povere, tagliare e sistemare il cibo prima di cucinarlo. Si lavora a turni spezzati, il che vuol dire: farsi dalle 8 del mattino fino alle 3 del pomeriggio, staccare di norma dalle 15:00 alle 17:00 – tempo che di solito si trascorre al pub oppure dall’allibratore di fiducia – e poi ritornare a lavorare fino alle 11 di sera. È uno schifo perché fa caldo e, la sotto, si suda così tanto che pare una specie di camera medievale delle torture. E dovresti vedere le bastardate che ti fanno. Il mio primo giorno mi hanno fatto mettere in piedi su un piano di cottura rovente e gridare con quanto fiato avevo in gola; tutto questo perché mi doveva essere concesso di lavorare nella loro cucina del cazzo. Le scarpe fecero in tempo a bucarsi prima che mi lasciassero scendere. Ho avuto pustole ai piedi per una settimana. Dato che ero l’ultimo arrivato, dovevo anche sventrare il pesce e girare le patate.

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Girare le patate è uno di quei lavori da scimmia che possono far uscir un uomo di senno. Si deve spuntare e pulire la patata e poi togliere la buccia da entrambi i lati in modo da ottenere un piccolo cilindro. Quando ho cominciato non riuscivo a farne più di due al minuto, alla fine potevo completarne un secchio intero in un’ora, che significa approssimativamente cinque al minuto. Ho girato patate tutto il giorno ogni giorno per tre mesi. Finii per farlo anche nel sonno. Quelle stupide forme cilindriche me le sognavo di notte. Un incubo. Almeno ne sono uscito. Al Savoy, c’è un ragazzo sudamericano la cui unica mansione consiste nel girare le patate. Lo ha fatto per anni. Credo che, da poco, gli abbiano concesso una sedia, cosa che per lui deve aver rappresentato la svolta. C’è una cosa che ho imparato girando patate: benché la velocità sia essenziale, come è ovvio che sia, non conviene finire il lavoro troppo in fretta. Una volta ho commesso l’errore di andare a dire ad un secondo cuoco stronzo o ad uno chef di settore, che gestiva il comparto potage – cioè, preparava zuppe e minestroni – che avevo finito il mio lavoro e non avevo nient’altro da fare. «Cosa? Niente?», urlò. «Hai detto di non aver niente da fare?» Annuii. «Bene, seguimi», disse e mi trascinò nel retro della cucina dove c’era una fila di tre freezer industriali. Sono container giganteschi in grado di congelare un uomo adulto. Aprì uno dei tre freezer, tirò fuori sei sacchi di piselli delle dimensioni di un cuscino, li aprì uno per uno e rovesciò i piselli dentro il congelatore. «Bene», disse, «Voglio che ci entri dentro e che rimetta a posto nei sacchi ogni singolo pisello che si trova nel freezer. E non venire mai più a raccontarmi che non hai nulla da fare in una cucina!» Dovetti piegarmi e raccogliere ogni maledetto pisello con le mani nude. Mi ci vollero tre ore e quando finii avevo le dita blu dal freddo. E’ facile dedurre perché io non ami particolarmente le cucine.

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In questo momento, non amo particolarmente neppure Liz. Il modo in cui stamattina continua a far ticchettare le unghie comincia a darmi sui nervi. Forse oggi è la sbornia che mi rende più suscettibile. Di solito non mi infastidisce così tanto. Il telefono squilla di nuovo. Liz lo ignora. È troppo impegnata a far riposare le tette sul bancone, mentre flirta con un ciccione a cui chiede se il suo soggiorno è stato piacevole. Decido di rispondere. «Pronto, reception», dico. «Buongiorno, qui è la stanza 160», fa una voce femminile. «Ho parlato prima con un’altra persona. Riguardo ad una faccenda particolare. «Mi dica» , rispondo. «È una cosa piuttosto delicata», dice. «Ok», dico. «Posso aiutarla in qualche modo?» «Beh…», si schiarisce la gola. « Circa un’ora fa, ho telefonato per sapere se qualcuno poteva procurarmi la pillola del giorno dopo , la ragazza della reception mi ha assicurato che mi avrebbe richiamata e invece non l’ha fatto.» «Oh», dico. «Sono terribilmente spiacente, signora. Se attende un minuto, vedo se possiamo risolvere la cosa.» Mi avvicino a Tony che è seduto alla scrivania sulla destra della porta, impegnato a contare i biglietti del teatro e dell’opera finora venduti questa settimana e a calcolare a quanto ammonta la sua percentuale del 10%. Gli piace questo piccolo guadagno extra visto che può alzare fino a 400 sterline al mese affibbiando ai clienti biglietti di Cats, I miserabili e Trappola per topi. «Ehm, Tony», dico. «Come posso aiutarti, socio?», dice, interrompendo i suoi calcoli. «Pillola del giorno dopo?», chiedo. «Oh, certo», sospira. «Il farmacista in fondo alla strada», dice.

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«La dà anche a noi se gliela chiediamo ma preferiscono che sia la signora stessa a farlo, visto che devono porle tutta una serie di domande.» «D’accordo», dico. «Però, ho l’impressione che, per lei, sarebbe meglio se fossimo noi a procurargliela.» «Ok», fa Tony alzandosi, «Allora ci mando Dave». Tony fa un cenno con le dita a Dave che sta in piedi accanto al carrello portabagagli e lucida l’ottone. Dave, che è giovane e sveglio, scatta subito sull’attenti, interrompe il suo lavoro e si precipita verso Tony. «Un po’ di esercizio gli farà bene. È stato seduto sul suo posteriore tutto il giorno, non è vero Dave?» «Sì, signor Williams», fa Dave. «Sai il numero della stanza?», chiede Tony. «160», rispondo. «160», ripete, mentre un sorriso gli increspa il volto. «Non è la stessa donna che ieri sera è passata con la busta di plastica piena di vomito?» «Oh, non saprei», dico. «Mi pare di sì», dice. «Scommetto che stamattina si sentirà piuttosto a terra.» «Già», annuisco. «Allora siamo in due.» «Allora, quanto manca alle 11:00?», fa Tony, sfregandosi le mani. «Non vedo l’ora di vedere la faccia di Michelle.»

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ave s’infi la nella porta girevole per uscire fuori alla luce del sole proprio mentre Adrian, il direttore, spinge dall’altro lato per entrare. «Buongiorno signore», dice Tony, accatastando una pila di depliant dei tour con open-bus. «Dove sta andando?», chiede Adrian, facendo un segno al di sopra della spalla col pollice sinistro. «Pillola del giorno dopo, signore», sorride Tony. «Per la stanza 160.» «Ah, bene», dice Adrian. «Già.» Tony sta ancora sorridendo. «Pare che sia stata una di quelle notti…» «Ma davvero?», anche Adrian sorride, cogliendo l’allusione di Tony. «Io non ne so niente, sono appena arrivato. Non è vero?», fa rivolto a me. «Assolutamente», confermo. «Sbornia?», chiede. «No, affatto», mento io. «Bene», dice. «Questa è la risposta che mi piace. Un sano atteggiamento professionale alla reception. Buongiorno Liz»,

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prosegue lui, dirigendosi verso il suo ufficio. «Buongiorno signor Thompson», risponde lei, facendo un cenno del capo e riservandogli il più luminoso e arioso dei suoi sorrisi professionali. Beh, Adrian è un uomo attraente. Alto, capelli castani e occhi verdi, ha scalato piuttosto velocemente i gradini della gerarchia aziendale dell’ hotel, cosa abbastanza insolita per un tipo snob che ha anche fama di sciupafemmine. Voglio dire, accettare pompini dallo staff non è una cosa che un uomo nella sua posizione dovrebbe fare. Dirige un business che ha un fatturato di trentacinque milioni di sterline l’anno. Come il capitano di una nave, dovrebbe governare tutto dalla prua, amministrando da una posizione di saggezza e rispetto. Ma Adrian è un po’ troppo amato, anche più di quanto lui desideri. Lo staff lo adora. Partecipa alle feste d’addio divertendosi come un matto . Inoltre, organizza sempre una gran sbevazzata natalizia dove pare che sfidi i cuochi in una gara all’ultimo bicchiere. Lui e Tony sono buoni amici, specialmente perché Tony procura sempre qualcosa ad Adrian – tavoli al ristorante, biglietti ai concerti, qualche affare qui e qualche viaggetto là; l’anno scorso gli ha mandato una limousine a prenderlo all’aeroporto quando è tornato dalle vacanze. Tony spesso aiuta Adrian nelle situazioni più complicate. Ha organizzato l’addio al celibato del fratello di Adrian, assicurandosi che avessero accesso a qualunque locale in città e godessero pure di qualche sconto nel percorso; in cambio Tony può fare, in pratica, ciò che vuole. Può tenersi la commissione sui biglietti del teatro; controlla che noi ci serviamo di una sola compagnia di taxi; può appioppare i suoi viaggi in Dorset e nei Cotswolds e le sue escursioni a buon mercato con rientro in giornata da Stratford upon Avon. Non che Adrian abbia la coscienza immacolata. Ho sentito

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che una volta è stato licenziato da uno di quei boutique hotel alla moda in Francia, uno di quei resort per sciatori con la puzza sotto il naso. Leggenda vuole che, durante i turni di notte alla reception, invitasse i colleghi dell’hotel in orari proibitivi e spalancasse il bar, offrendo drink gratuiti fino all’alba. Sfortunatamente, una notte in cui Adrian era assolutamente devastato decise di sdraiarsi dietro un divano e schiacciare un sonnellino. Negli hotel più piccoli di solito l’impiegato che fa il turno di notte alla reception non ha un compagno che lavori con lui – a differenza di qui, dove c’è sempre qualcun altro in servizio, come, ad esempio, il portiere di notte. Comunque, mentre Adrian sembrava profondamente addormentato dietro il sofà, due ladri entrarono nella reception, presero i passepartout e cominciarono sistematicamente a svaligiare le stanze. Adrian si svegliò al grido ‘Voleur! Al ladro’ di alcuni ospiti che si precipitavano per le scale a caccia dei loro oggetti personali. La reazione di Adrian è stata quella di abbandonare l’albergo prima che arrivasse il direttore e passare la giornata a sciare, tornando la sera successiva a prelevare il suo assegno e le sue cose. I francesi non trascrissero nulla nel suo fascicolo. Decisero di soprassedere, probabilmente perché era giovane, studente e aveva anche lavorato gratis. Ma questa sorta di mercanteggiamenti accadono spesso negli hotel. Ci fu un manager del ristorante che, dopo aver lavorato qui per qualche tempo, venne licenziato per furto. Ma solamente quando Adrian telefonò nel posto in cui lavorava prima venne fuori che, in precedenza, era stato licenziato per lo stesso motivo. Nell’ultimo albergo, erano giunti ad una specie di accordo. Era stato un bravo manager del ristorante. Aveva organizzato il locale in modo efficiente, portato qualche cliente celebre, pubblicizzando con chiunque l’hotel come un posto glamour dove era ‘opportuno’ farsi vedere. Perciò decisero di chiudere un occhio

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sulle tre casse di vino rubate e sul modo in cui si era intascato 500 sterline di mance comuni. Strinsero con lui un patto: se dava le dimissioni non avrebbero fatto menzione delle ‘mani di velluto’ nel suo fascicolo. In seguito si era trasferito da noi e, per i primi sei mesi o giù di lì, era andato bene. Portava gente e faceva filare tutto quanto per come doveva. Poi qualcuno cominciò a notare che qualcosa non quadrava nei conti mensili. A quel punto lo avrebbero beccato, era solo questione di tempo. Più tardi è prevista una verifica delle scorte di magazzino, almeno così mi è stato detto. C’è un ladro di Bombay Sapphire che agisce nell’ombra e vogliono scoprire se manca dell’altro. Intanto si è insaccato qualcosa come sette bottiglie piccole di Bombay Sapphire nelle ultime ventiquattro ore. È un liquore piuttosto anomalo da trafugare. Di solito è la vodka a sparire perché non si riesce a fiutarla nell’alito. In ogni caso, questa situazione va avanti da un paio di settimane e Adrian si sta cominciando ad incazzare. Ha una mezza idea di iniziare ad ispezionare le borse delle cameriere quando staccano alle 6 del pomeriggio. Quel pelandrone di Mustafa, che vegeta tutto il giorno nella cabina della sicurezza a guardare la tv, pare che non colga mai nessuno in flagrante. Adrian però pensa che la presenza di un revisore contabile esterno che controlli spesso le scorte, possa far sentire l’alito sul collo al ladro e dissuaderlo dal riprovarci. Il telefono squilla e Liz prende la chiamata. Le labbra umide, lucide producono un fastidioso rumore scoppiettante mentre parla. Devo trovare sul serio qualcosa da fare altrimenti questa donna, oggi, mi porterà all’esaurimento. È il cliente della stanza 302 che vuole fare il check-out. Me lo ricordo dall’altro ieri. È uno di quei tipi viscidi con forfora sulle spalle e patacche sulla cravatta. A dirla tutta, sembra uno che avrebbe impellente bisogno di una doccia. Comunque, Liz deve andare a ‘darsi una

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rinfrescata’ (quanto è fastidiosa questa espressione da 1 a 10?) e vuole che me ne occupi io. Perciò digito il numero della sua stanza sul computer del minuscolo ufficio dietro il desk e poi avvio la stampa. Dov’è quell’assistente alle prenotazioni che non spiccica una parola, quel tale Ewan, quando serve? La macchina sta andando in tilt, sputa risme di carta stampata con un sacco di numeri 0906, quelli delle chat erotiche. Di solito queste chiamate costano qualcosa come 50 pence al minuto ma in hotel fanno 10 sterline al minuto e la stanza 302, ieri notte, ha battuto le linee porno fino a tardi. Strappo il foglio e rimango a fissarlo. È rimasto collegato con svariate hot - line, quasi ininterrottamente, dalle 2:13 fino alle 4:02 del mattino e adesso ci deve un totale di 850 sterline. Può sembrare una cifra spropositata ma capita anche di molto peggio. Qualche settimana fa c’è stato un cliente che, in due soli giorni di pernottamento, ha cumulato 3.000 sterline di conto telefonico. Un fatto incredibile. Lo chiamammo (quando riuscimmo a trovare la linea libera) un paio di volte per fargli notare che stava spendendo una cifra piuttosto elevata, ma sembrava che non gli importasse. Sua sorella aveva pagato la stanza in anticipo e avevamo la strisciata della sua carta di credito in ufficio, perciò non eravamo troppo preoccupati. Tuttavia, quando si presentò per il check-out disse che non poteva pagare il conto. Al termine di un’animata discussione chiamammo la sorella, la quale, appena arrivata, sbottò in una colossale sfuriata. Curiosamente, la sua ira era diretta nei nostri confronti, per non aver posto un freno alla cosa. Quando riuscii finalmente ad informarla che, più di una volta avevamo segnalato il problema al fratello, assunse un’espressione da circostanza e sborsò quanto doveva. O perlomeno, credo che lo abbia fatto. Adrian venne fuori dal suo ufficio per risolvere la faccenda. Mi sembra di aver anche sentito la donna accennare

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all’eventualità di spedire un assegno. Perciò, benché il conto telefonico della stanza 302 non sia il più salato che abbia mai visto tra quelli cumulati con le chatline, so che è alto abbastanza da crearci problemi, soprattutto perché l’uomo era stato prenotato direttamente dal suo ufficio e sicuramente è in trasferta. È dura spiegare, al proprio capo, 850 sterline di conto per chiamate erotiche. Torno alla reception con il mio conto chilometrico. «Oh cielo», fa Liz, inarcando le sopracciglia troppo depilate, «non dirmi che abbiamo un altro parlatore». «Ha chiacchierato abbastanza, questo è certo.» «Porno?», chiede lei. «Che altro?», dico, iniziando a ripiegare la stampa del conto. «Beh, non saprei», ribatte stizzosamente, con un’irritante scrollata di spalle. «Potrebbe anche essere stato al telefono con sua moglie.» «Sì, come no. Nessuno parla così a lungo con la propria moglie. In ogni caso», dico scrutando verso l’alto al rumore dell’ascensore che si apre, «abbassa la voce, sta arrivando». L’uomo con la forfora si avvicina al front - desk con l’aria di chi non ha chiuso occhio neppure un minuto la notte precedente, ipotesi alquanto realistica a giudicare dalle dimensioni del suo porno conto telefonico . «Buongiorno signore», dico. «Spero abbia avuto un soggiorno piacevole.» «Molto piacevole, grazie», fa l’uomo, il cui completo scintilla alla luce del sole mattutino. «Ho dormito come un sasso.» «Ne sono lieto, signore». Sorrido, allungandogli la ricevuta che sporge a metà dalla busta. «Le dispiace controllare il conto signore?

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«Ok». Sospira mentre il foglio si srotola davanti a lui. «850 sterline? Mi sta dicendo che ho speso 850 sterline di telefono?» «Sì signore», dico. «È scandaloso», fa lui. «850 sterline di telefono? Non potete far pagare quella cifra.» «Purtroppo è la nostra tariffa standard per le linee a pagamento di prima classe.» «Prima classe? Ma quelle non lo sono affatto!», dice. «Temo di sì», dico. «No, non lo sono!», fa lui. «È così, mi spiace.» «La smetta di essere spiacente!», grida, con le guance scarlatte di rabbia. «La prego signore, non alzi la voce.» «Non ho alzato la voce!», fa lui, alzando la voce. «Bene signore», dico. «La sua stanza viene 250 sterline a notte per un totale di due notti, ha speso 32 sterline al mini-bar…» «Per due whisky!», sbraita, sbattendo la mano sul desk. «Due whisky, della cioccolata, un pacco di patatine e acqua minerale.» «Oh, Cristo, patatine e acqua minerale», aggiunge con tono sarcastico. «Roba da mandare in fallimento una banca.» «E ha speso 850 sterline di telefono.» «Qui dentro rubate alla luce del sole», fa lui, scuotendo la testa e disseminando scaglie di forfora sul bancone. «Mi spiace, ma non intendo pagare 850 sterline di conto telefonico. Avreste dovuto avvisarmi che la tariffa era così cara e, in ogni caso, quelle non sono linee di prima classe!» «0906 Hot Honeys è una linea di prima classe», insisto. «Lo dicono immediatamente, appena ci si connette.»

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«Come fa a saperlo?» «Perché molti dei nostri clienti la usano.» «Possiamo giungere a una qualche forma di accordo?», chiede. «Non avrei difficoltà a fornirle ricevute separate, se preferisce?», suggerisco. «Bene», dice. «Potrei anche farle uno sconto di 50 sterline», aggiungo. L’ho già fatto molte altre volte. Di solito ti sono così grati che mettono subito mano al portafogli e pagano il resto del conto senza fiatare. Con sole 50 sterline ti risparmi un sacco di polemiche inutili. «Davvero?», dice con tono sorpreso e quasi rabbonito. «Sarebbe davvero gentile da parte sua.» «Non c’è nessun problema, signore», dico. «Potrei pagare la stanza con la carta di credito», dice, leccandosi il pollice, «e pagare il conto telefonico in contanti». Tira fuori una mazzetta di banconote da 50 e inizia a sfogliarle ad una ad una, piazzandole sul bancone. «Ecco». Sorride. «Sono 800 sterline.» «Grazie mille, signore», dico. «Solo un attimo, il tempo di passare la carta. Ha bisogno di aiuto con i bagagli?» «Oh, no grazie», risponde gettando un’occhiata verso il basso al suo borsone da viaggio nero. «Dovrei farcela da solo.» Torno nell’ufficio sul retro con la sua carta verde American Express aziendale e la passo nella macchinetta. Mentre aspetto che si attivi la connessione, fingo di non accorgermi di Ewan che ha miracolosamente fatto ritorno e ora sta calcolando un conto per Liz, riconosco dalla finestra il furgone della carne che si sta fermando davanti all’entrata posteriore della cucina. Un uomo con una divisa bianca e un cappello floscio di carta bianca comincia a scaricare quarti di vitello, tocchi di manzo e maiale.

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Dell’epoca in cui lavoravo in cucina, mi ricordo anche che tra le 9:00 e le 10:00 del mattino era il momento in cui consegnavano le ordinazioni. E, cristo, lì dovevi stare all’erta. Quando si tratta di consegne, devi chiamare a raccolta tutta la tua astuzia. Le frodi sono innumerevoli. E il problema è che, dato che i prodotti impiegati negli alberghi di lusso sono fottutamente costosi, non si sa bene chi sta fottendo chi. I fornitori fottono l’albergo, lo staff fotte l’hotel e l’hotel cerca di fottere tutti quanti. Uno dei raggiri più redditizi di cui mi sia giunta voce è accaduto al Lanesborough. L’uomo che si occupava delle consegne si era accordato con il fornitore di carni. Ordinava, ad esempio, 5 chili di prosciutto di Parma, quando magari lo chef ne aveva ordinato solo un chilo. L’hotel ne pagava 5, il tipo delle consegne ne prendeva soltanto uno mentre gli altri venivano restituiti al rivenditore di carni, che li metteva in vendita, dividendo poi il ricavato con l’addetto alle consegne del Lanesborough. L’imbroglio è durato circa sei mesi, finché non sono stati scoperti; l’uomo delle consegne, per quel che ricordo, è finito in galera. In ogni caso, com’è facilmente intuibile, lo fanno tutti. I cuochi prendono mazzette dai fornitori di continuo. Altrimenti perché dovrebbero scegliere un grossista Jersey Royal piuttosto che un altro? Tutti sgomitano per piazzare i loro prodotti nelle nostre cucine. Pensa solo al numero di patate che friggiamo annualmente. A Natale dovreste proprio vedere che razza di roba gira da queste parti solo per arruffianarsi il cuoco. Tacchino, tocchi di manzo, salmoni interi, vassoi di sogliole di Dover, sacchi di gamberoni, lastre di foie gras, cesti di tartufi – scommetto che nessuno chef mette piede nei negozi tra Natale e Capodanno. Sta seduto lì, pasciuto come una vacca, a rimpinzarsi di ghiottonerie festive a sbafo. A volte i fornitori si vendicano. Sanno essere molto abili con i

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registri. Sono le ordinazioni di grossi quantitativi, quelle con cui devi tenere gli occhi più aperti possibile, specie nel caso degli ortaggi. Quando ti recapitano un ordinativo lungo quanto un braccio, con indivia, fagioli, broccoli, more, mirtilli e cavolfiori, chi noterà mai una cesta di mele mancante? Una volta che hai firmato la ricevuta per un ordine, peraltro, non puoi più contestare. Non hai nessun appiglio per farlo. E stanno sempre lì ad assillarti, spingendoti quasi a cascare nell’errore. Il furgone arriva sempre in ritardo. C’è lo chef che sbraita per le carote, il fornitore che ti urla che è in ritardo e deve proseguire con le consegne e, nel frattempo, tu cerchi di contare ogni singola scatola di arance che risulta dall’ordine, perché se commetti un errore sarai tu alla fine quello che pagherà il conto. O sotto forma di insulti da parte dello chef o come detrazione dallo stipendio. Il punto è che, alla fine della giornata, allo Chef piace far quadrare i conti. Di solito è inserito in un piano bonus. Forse è proprio così che la direzione controlla la gestione della cucina. Se lo Chef amministra la sua cucina mantenendosi entro il budget, o addirittura molto al di sotto, riceve 1000 sterline extra al mese, oppure il 2-3% del suo utile netto. Perciò ha i suoi buoni motivi se ha voluto darti una strigliata. Non che gli serva un pretesto per questo. Bisogna anche ispezionare il carico per bene. È meglio setacciarlo con una rete a maglie strette, perché provano sempre a rifilarti roba avariata, tipo: fragole marce, cavoli andati a male, aragoste morte, sogliole che hanno superato da un pezzo la data di scadenza. Gli hotel di classe superiore pretendono ingredienti di classe superiore in perfette condizioni. Se viaggi sulle 45 sterline a portata, tutto deve essere freschissimo. E di solito lo è. Tutta la carne che arriva nel retro dell’albergo ha avuto una vita migliore di gran parte dello staff impiegato qui. Lo chef sembra

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sapere chi erano i genitori del pezzo di carne, dove viveva, cosa mangiava, quante opportunità di svago aveva e perfino se era provvisto di una gaia comitiva di amici! Giuro, si dà molta più pena per i tocchi di carne che sbarcano dalle nostre parti che per i bangladesi che lustrano il pavimento. La carta aziendale American Express verde viene finalmente accettata, strappo la ricevuta e torno alla reception. Liz sta facendo il check-out ad una coppia dall’aspetto benestante che ha tutta l’aria di chi ha fatto bagordi. «Avete consumato qualcosa dal minibar?», fa lei schioccando di nuovo le unghia. «Uno», risponde il ragazzo. «Uno cosa?», chiede Liz. «Un minibar». Sorride. «In che senso un minibar?», chiede ancora Liz, confusa. «Sì», fa il ragazzo. «Un mini bar intero, fino all’ultimo Malibù.» «Ooh, ti prego, non pronunciare la parola Malibù», aggiunge la donna, reggendosi la testa. «Preferirei di gran lunga non ricordarmelo.» Mentre Liz calcola il costo totale del mini bar, io restituisco la ricevuta della carta credito. «Ecco, signore», dico. «Arrivederci», sospira, depositando un’ulteriore manciata di forfora sul desk della reception. «Speriamo di rivederla presto», dico, mentre lui si china a prendere le valige. «Non credo proprio», ribatte, camminando sul pavimento marmorizzato. Mi infilo una penna in bocca per impedirmi di mostrargli il dito medio mentre esce dalla porta girevole.

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Imogen Edwards-Jones

Imogen Edwards-Jones è l’autrice dei bestsellers Fashion Babylon e Air Babylon. Vive a Londra con suo marito e sua figlia. Gestisce un hotel a cinque stelle nella capitale inglese.

Anonimo è un individuo che ha trascorso tutta la sua carriera lavorando nella crème dell’industria alberghiera di lusso londinese.

B

“Un occhio indiscreto... con molti consigli per i viaggiatori frequenti”

The Economist

HOTEL BABYLON

H

Hotel

Babylon Imogen Edwards-Jones & Anonimo

“Cinque stelle per gli eccessi... divertente e terrificante”

Sunday Telegraph

“Esplosivo”

“Una rivelazione sconvolgente dopo l’altra” “Affascinante”

€ 0

,0

15

www.zero 91 .com

Sun

Daily Mail

Daily Telegraph

zero 91

Prenota una stanza nell’Hotel Babylon! La soddisfazione è assicurata… Siamo umanamente portati a guardare dal buco della serratura. Umanamente portati a voler conoscere ciò che l’apparenza ci nasconde. Il Dietro le Quinte è un mondo senza filtri in cui intrufolarsi, spiare, giudicare, specchiarsi in ciò che si vorrebbe essere o non essere. È un mondo meno opportuno di quello mostrato e, quindi, è più interessante… Insieme all’autrice, la giornalista Imogen Edwards-Jones, e all’anonimo collaboratore - anonimo perché realmente lavora in un albergo a cinque stelle - entriamo nelle stanze dei clienti e in quelle dello staff. Scopriamo le debolezze, le depravazioni, i vizi, i segreti, gli eccessi di chi sa che i capricci hanno un prezzo. A guidarci è la voce di Charlie Edwards, il vice direttore dell’albergo, carismatico e attraente, che ci racconta ventiquattro ore della sua vita all’interno del mondo edonistico in cui lavora. Non solo clienti più o meno bizzarri o esigenti da soddisfare, ma anche colleghi insicuri, competitivi, ambiziosi, ritardatari. La sua giornata inizia alle sette della mattina, dopo una nottata di sbornie in un locale glamour, per salutare Michelle che lascia il lavoro. Charlie deve dare il cambio a Ben, un ventenne che non ha ancora deciso cosa fare della sua vita, che ha fatto il turno di notte. Charlie gli racconta i gossip della nottata appena trascorsa e Ben se ne va punzecchiandolo su Jackie, la giovane ragazza madre, responsabile delle pulizie, con cui Charlie ha una tresca… ma la giornata è appena iniziata: cosa succederà fino alle sette del giorno dopo? Chi verrà rimproverato dall’arrampicatrice e arida Direttrice dell’hotel, Rebecca, così presa dal lavoro da dimenticare la sua vita privata? In copertina: © Giuseppe Castrovinci


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