L'invasione degli ultragay

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In copertina foto © Jupiterimages/Brand X/Corbis Design Costantino Margiotta

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Gli etero non poteva no più lavorare negli uffici pubblici; non poteva no frequentare i locali pubblici riservati agli omosessuali; dovevano tra sferirsi in q u a rtieri a ppositi r i s e r v a t i a l o r o; n o n p o t e v a n o g uidare automobili superiori a u na c e r t a ci l i n d r a t a ; n o n p o t e v a n o pa rtecipa re a l f u nera le del loro co niu ge; a l m o m e nto della m orte, n o n p ot ev a n o t r a sferir e a i lor o figli i beni personali, che divenivano proprietà dello Stato.

L’INVASIONE DEGLI ULTRAGAY

una storia politicamente scorretta romanzo

L’INVASIONE DEGLI ULTRAGAY

http://www.corradofarina.tk

Corrado Farina

Corrado Farina è nato a Torino nel 1939. Critico cinematografico, pubblicitario, regista e documentarista, ha scritto articoli e saggi sui linguaggi della comunicazione. Ha diretto mezzo migliaio di Caroselli e realizzato due lungometraggi: Hanno cambiato faccia (I Premio al Festival Internazionale di Locarno, 1971), e Baba Yaga (da una storia a fumetti di Guido Crepax, 1973). Il suo esordio nella narrativa è del 1994. L’invasione degli ultragay è il suo sesto romanzo.

Corrado Farina

z e r o 91

Corradino Piersanti è uno scrittore che sembra destinato a produrre solo romanzi fantasy o splatter. Ma ecco che, in piena crisi creativa, la sua ultima fatica, L’invasione degli ultrazombi, si trasforma nell’occasione per affrontare un tema scottante e politicamente scorretto. Con una piccola modifica al titolo e alla storia, il suo misterioso protagonista, John W. Taylor, diventa l’unico eterosessuale che si oppone al sopravvento e alla violenta colonizzazione dei gay. Niente zombi, dunque, né scimmie o alieni: nel ventunesimo secolo le minacce alla razza umana sembrano essere altre… In questo scenario apocalittico raccontato a puntate in un magazine scandalistico, gli omosessuali vampirizzano il mondo, costruiscono la società sui loro modelli familiari, organizzano squadre di polizia nazi-gay che rastrellano gli etero segregandoli in campi di rieducazione. Corradino Piersanti continua a scrivere la sua storia ironica e provocatoria e, di settimana in settimana, la gente legge e giudica. Il romanzo s’impadronisce di lui e la crisi creativa dell’autore si riverbera in una più profonda crisi con la sua compagna, Fiamma, e con il mondo che lo circonda. Con un chiaro riferimento ad una letteratura di genere, Corrado Farina, con la sua Invasione degli ultragay, offre una riflessione acuta e grottesca sulla paura delle diversità sessuali che paralizza una società spesso disorientata e ipocrita.



Corrado Farina

L’INVASIONE DEGLI ULTRAGAY una storia politicamente scorretta


Corrado Farina L’invasione degli ultragay una storia politicamente scorretta

Copyright © 2008 Corrado Farina Copyright © 2008 zero91 s.r.l., Milano Tutti i diritti riservati

I Edizione Giugno 2008

ISBN 978-88-95381-06-0

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Corrado Farina

L’INVASIONE DEGLI ULTRAGAY una storia politicamente scorretta

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La normalità si basa su un concetto di maggioranza, su ciò che vale per molti individui e non per uno solo. Richard Matheson, Io sono leggenda (1954)



INTRODUZIONE

Mi chiamo Corradino Piersanti e sono uno scrittore. Se appartenete alla tribù di coloro che leggono i libri, è probabile che abbiate già sentito parlare di me: il mio romanzo L’invasione degli ultragay ha raggiunto la ventiquattresima edizione in cinque anni, è stato tradotto in dodici lingue, ha vinto un premio internazionale e alcuni dei più importanti premi letterari europei, e a Hollywood stanno ricavandone una sceneggiatura a cui mi sono riservato di dare la mia approvazione. Quando vengo invitato a tenere corsi di scrittura o presenziare incontri, la domanda che mi viene rivolta più spesso è: “Come le è venuta l’idea di questo libro?”. Finora ho sempre dato risposte generiche perché temevo che la verità potesse interrompere il circolo virtuoso del successo, ma a questo punto credo che sia venuto il momento di parlare. Con una premessa, però: la realtà è talvolta più romanzesca degli stessi romanzi, e non mi stupirei se voi non credeste a ciò che sto per raccontarvi. Quasi quasi non ci credo neanch’io... Eppure, quella che segue è la cronaca fedele di cosa è successo qualche anno fa. Dunque, era la tarda primavera del 2003, e io stavo scrivendo un romanzo di fantascienza intitolato L’invasione degli ultrazombi...

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Il piede si abbatte con violenza sul pedale del freno e le ruote si inchiodano. I battistrada mordono l’asfalto lasciandosi dietro quattro strisce nere e un’orrenda puzza di gomma bruciata. La Chrysler va a sbattere con violenza contro un vecchio pick-up messo di traverso a sbarrare la strada. John W. Taylor picchia la testa contro il fi nestrino e vede il mondo che esplode in un caleidoscopio di vetri infranti. La portiera si è spalancata con l’urto; l’uomo ruzzola fuori ma subito, con una specie di capriola, riesce a recuperare l’equilibrio e rimettersi in piedi. Una sagoma scura gli si para davanti e tenta di chiudergli il passo. Taylor la colpisce a pugni uniti, sente affondare le nocche in qualcosa di molle, vede la sagoma che si piega su se stessa con un gemito soffocato e si dà alla fuga. L’eco dei suoi passi e del suo respiro affannoso risuona amplificato nel silenzio della notte: ma forse non si tratta dell’eco, sono altri passi che gli tengono dietro, altri ansiti che inseguono il suo. Per fortuna non è lontano dall’angolo fra la Diciassettesima e Park Avenue. Trecento metri fra te e la salvezza, amico. Duecento, cinquanta, dieci, ecco la casa. Le sue mani tremanti perdono preziosi secondi per introdurre la chiave nella serratura, mentre passi e respiri non suoi si avvicinano. Perché non giri, maledetta, ti ho oliata con cura non

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più tardi di questa mattina. I passi e i respiri sono ormai a pochi metri di tenebra quando fi nalmente il battente si apre. Taylor si precipita dentro, si sbatte la porta alle spalle e fa scattare le tre serrature di sicurezza. Il silenzio lo avvolge come un sudario pietoso ma è questione di poco, una manciata di secondi sì e no, perché il suono del campanello sopravviene a squarciarlo...

Il campanello...? L’uomo fa tre passi indietro, osserva la porta d’ingresso con occhi dilatati dal terrore mentre una mano di ghiaccio gli inchioda il cuore nel petto. È la prima volta che “loro” si azzardano ad avvicinarsi alla casa...

Il campanello suonò di nuovo e le mie dita si abbatterono sulla combinazione di tasti che salvava sull’hard disk le frasi che avevo appena scritto. Clàc. Era ormai diventato una specie di riflesso condizionato, non proprio identico a quello indotto dal martelletto del neurochirurgo che individua sul ginocchio i nervi per far soprassaltare la gamba, ma simile a quello nel rapporto infallibile fra causa ed effetto: ogni interruzione comportava in modo automatico il salvataggio di ciò che avevo scritto fi no a quel punto. Se il dottor Pavlov non ne ha parlato a suo tempo è stato solo per incapacità manifesta di prevedere il futuro informatico. Distolsi lo sguardo dallo schermo, misi a fuoco la porta d’ingresso e domandai ad alta voce: - Chi è? - So’ Anselmo - rispose una voce ben nota - C’è la posta, dottore... Porcomondo... Possibile che ogni volta che riuscivo a ingranare

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la marcia ci fosse qualcuno che mi bloccava in piena corsa, come il vecchio pick-up aveva bloccato la fuga del mio protagonista? Mentre spingevo indietro la sedia e mi alzavo, la mia faccia non doveva essere molto diversa da quella di John W. Taylor... (... che adesso, resosi conto di essere forzatamente in pausa, si era seduto alla base della scala che portava ai piani di sopra e si stava accendendo una sigaretta). Arrivai alla porta d’ingresso e la spalancai con una certa violenza: - Anselmo, dimmi una cosa: se vengo a cercarti in guardiola quando c’è una partita, ti ci trovo? Il vecchio spalancò gli occhi acquosi sotto le folte sopracciglia bianche. Anzi, no, ne spalancò uno solo perché l’altro era di vetro ed era spalancato sempre di suo. Sul viso bonario potevo leggere il disorientamento come se fosse un libro aperto e stampato con caratteri grandi: si sa che gli scrittori sono tutti un po’ strani, dicono una cosa e ne intendono un’altra, chissà mo’ che cosa ha in mente questo Piersanti del terzo piano, è meglio che sto sulle generali... - Dipende dalla partita, dottore... - Giusto. Diciamo che c’è il derby. - E allora no, me sa propio che non me ce trova... - Ecco, appunto: trovo un cartello con scritto “Torno subito”, dove per “subito” si intende un paio d’ore salvo tempi supplementari. E adesso fai conto che io stessi guardando il derby, e che quando hai suonato stessero per tirare un rigore... - A quest’ora? Ma non ci sta nessuna partita, alla mattina... Sospirai, dandomi mentalmente dell’imbecille: va bene che sono un romanziere e non un poeta, ma avrei dovuto sapere che le metafore sono una merce troppo preziosa per sprecarle con individui dotati di un quoziente d’intelligenza pericolosamente prossimo allo zero come l’ottimo Anselmo. Se la semenza cade sul terreno sassoso, c’è ben poco da fare: d’altronde, se i dodici apostoli

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avessero avuto il Q.I. del mio portiere anche Gesù Cristo avrebbe dovuto cambiare registro alla svelta. - Beh, allora mettiamola in un altro modo: quante volte ti devo ripetere che non è il caso che mi porti la posta, e che la ritiro io quando scendo? - Lo so, dottore, ma c’è una raccomandata e ho pensato... - Una raccomandata? Va bene, dai qua... Presi la posta dalle mani di Anselmo e richiusi la porta. Dunque... cinque pubblicità, due bollette da pagare e la detta raccomandata, consistente in un plico delle Edizioni Scaramouche di cui non mi fu difficile intuire il contenuto prima ancora di aprirlo. Infatti era proprio lui: il dattiloscritto di Questione di pelle, il mio romanzo più impegnativo e impegnato, dedicato all’odissea di un gruppo di ragazze di colore sequestrate nel loro Paese, spedite in Italia in un container come se fossero derrate alimentari e sbattute sui marciapiedi di una metropoli industriale del Nord dopo aver subito un corso accelerato di vessazioni e torture. Mi era costato otto mesi di duro lavoro, di interviste “sulla strada” nel senso più letterale del termine, di rischiosi scambi di opinioni con papponi sia albanesi che autoctoni, ma alla fine me n’era venuta fuori una storia bellissima, serrata, ricca di pietas e di indignazione civile. Il dattiloscritto lo avevo spedito alla Scaramouche poco meno di un anno prima: adesso la villeggiatura era fi nita e la mia storia tornava a casa. Insieme al plico c’era una lettera su carta intestata della casa editrice: “Gent.mo dottor Piersanti, la ringraziamo per averci inviato il suo romanzo, che abbiamo trovato molto interessante. Con rammarico, dobbiamo informarla però che il nostro programma editoriale è già completo per i tre anni a venire e non possiamo assumerci nuovi impegni. Le restituiamo pertanto il dattiloscritto con i nostri più cordiali saluti. Per il Direttore Editoriale... (firma illeggibile)”. Formula di rifiuto numero 3, con variante “molto interessante”.

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A guardare il foglio con luce radente, si notava benissimo che l’inchiostro della riga “Gent.mo dottor Piersanti” era di un nero leggermente diverso da quello delle righe seguenti. Dovevano ricevere molti romanzi “molto interessanti”, alle Edizioni Scaramouche. Con il foglio in mano mi avvicinai alla plancia di truciolato che era appesa all’epoca al muro del mio studio, presi una puntina da disegno e affissi la lettera insieme a quelle che l’avevano preceduta, tutte con intestazioni diverse, tutte dello stesso tenore. Ogni foglio era una lapide, ogni testo un epitaffio. Altro che Spoon River, tanto per restare in ambito letterario. Ritornai alla scrivania e ripresi il mio posto... (John W. Taylor balzò in piedi, pronto a riprendere l’azione dal punto in cui l’aveva lasciata). Fissai il vuoto per alcuni secondi, poi le mie dita incominciarono a correre sulla tastiera. Il suono del campanello non si ripete. Fuori, a tendere bene le orecchie, si sentono bisbigli e rumore di passi. Echeggia improvviso un leggero rumore metallico, qualcosa dev’essere andato a sbattere contro il tubo della gronda. Segue un nuovo silenzio. Taylor ricomincia a sperare: forse “loro” se ne andranno, forse non oseranno dare l’assalto alla casa... Si guarda attorno. Ha cercato di sbarrare sia le persiane del pianterreno che quelle del piano di sopra, ma ce n’è qualcuna abbastanza sconnessa da far passare sottili lame di luce. Nell’ombra, i mobili acquistano dimensioni abnormi e minacciose, sembrano avversari che lo aspettino acquattati in casa. Insieme a loro, lo aspettano e lo colgono a tradimento anche i ricordi di un tempo che non è più, aggressori non meno spietati di quelli che si trovano al di là della porta. Da quella stessa porta era solito entrare dopo una giornata trascorsa in

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ufficio, magari a litigare con il suo caposezione, quell’idiota di Dan. Su quella poltrona abbandonava ogni sera l’impermeabile e la borsa. Dalla cucina, la dolce Marie-Jo si voltava a guardarlo lanciandogli un bacio attraverso la porta. Dal ballatoio in cima alla scala si affacciava il giovanissimo Steve, con i suoi occhi azzurri e il suo visino da angelo, con l’urgenza di far vedere a suo padre i progressi del modellino di missile che stava costruendo. Più nulla di tutto questo, ormai. La cucina è deserta, la sommità della scala si perde nel silenzio e nel buio. Chissà dove sono, adesso, sua moglie e suo figlio. La disperazione gli fa riaffiorare un ricordo della primissima infanzia, quando sua madre prima di metterlo a letto e dargli il bacio della buonanotte gli faceva recitare delle preghiere rivolte a un’Entità superiore. Dio, se ci sei, fai solamente che Steve e Marie-Jo siano morti, che non siano diventati come tutti gli altri... Uno schianto di legno spezzato lo riporta alla realtà, infrangendo in un colpo solo il silenzio, il flusso dei ricordi e il battente della porta d’ingresso. Dal pannello superiore sbuca la lama di un’ascia bene affilata, che un raggio di luce colpisce e fa brillare nell’ombra. Dall’altra parte, qualcuno sta cercando di liberarla per vibrare un secondo colpo. Questa è la fi ne. Evidentemente hanno imparato a servirsi degli oggetti, anziché limitarsi a utilizzare le mani nude. Non gli rimane che correre in cucina, agguantare le armi, distruggerne il maggior numero possibile e alla fi ne farsi saltare le cervella. Meglio questo, mille volte meglio, che diventare uno di loro come “loro” vorrebbero. Gli occhi di Taylor corrono alla porta della cucina, ma si arrestano sull’apparecchio telefonico. Una nuova idea gli balena al calore bianco attraverso il cervello: sei proprio sicuro che non ci sia più nessuno che può portarti soccorso? È molto probabile che “loro” si siano ormai impadroniti di tut-

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ti i punti chiave della città e che anche le linee telefoniche siano ormai controllate, ma forse vale la pena di fare un estremo tentativo. Avvicina la mano al ricevitore, ma prima che riesca a toccarlo il suono perforante della suoneria gli lacera le orecchie...

Squit... squit... squiiit... Ma porc... Clàc. Le mie dita si abbatterono di nuovo sui tasti di salvataggio. Agguantai il telefono. - Sì? - Ciao, sono Giorgio... A che punto siamo con quella storia di zombi? - la voce dello sciagurato era cordiale, quasi garrula. (John W. Taylor sbatté il ricevitore sulla forcella, tornò a sedersi alla base della scala e si accese un’altra sigaretta. Così non si poteva andare avanti, che modo di lavorare era questo...). - Cristo, Giorgio, anche tu...? Ma così non riesco più a lavorare... - Ehi, autore... C’è mare mosso? È con me che ce l’hai? - Con te, con Anselmo, con tutti quelli che continuano a rompere le palle e mi impediscono di concentrarmi... - Tesoro, se i tuoi parti letterari li riesci a piazzare sul mercato da solo tanto meglio per te, ma se ti prendi un agente devi rassegnarti al fatto che ogni tanto lui ti telefoni... - Già... per chiedermi altre storie di serial-killer, di vampiri e di alieni... - Corradì, non mi fare il prezioso: ti giro quello che passa il convento, e tu lo sai benissimo... Gli occhi mi corsero allo Spoon River sul muro di fronte, con la sua lunga fi la di lettere crocifisse alla plancia, e sospirai. Certo che lo sapevo. Era proprio quello che mi metteva in crisi. - Vabbe’, Giorgio, dimmi... che c’è? - Ho una proposta per te.

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- Una proposta? Quale? - Vieni qui e te lo dico. - Non puoi dirmelo per telefono? - Certo che no. Se i servizi segreti intercettano la telefonata sono casini per tutti. - Vaffanculo, Giorgio. - Ne possiamo parlare, amore, ma questa è un’altra storia. Vieni da me in mattinata e porta tutto quello che hai scritto fi nora. D’accordo? - Sono solo poche pagine, comunque va bene... verrò. Abbassai il ricevitore e mi passai le mani sul viso. Dunque, dove eravamo rimasti? John W. Taylor afferra il ricevitore, cercando di combattere la folle speranza che lo sta invadendo contro ogni logica. Chissà che all’altro capo del filo non ci sia un secondo sopravvissuto che tenta di comunicare con lui... - Sì? - alita nel microfono, con il cuore che batte forte. - Vieni fuori, Taylor... - la voce è gutturale e metallica, ma non tanto da impedirgli di riconoscerla: quel bastardo di Dan dev’essere diventato uno dei loro capi. E pensare che era convinto di aver chiuso i conti con lui quando gli aveva spaccato la testa con il cric della macchina... - Vieni fuori, unisciti a noi... Lo sai che non hai vie di scampo... Taylor sbatte il ricevitore sulla forcella. Certo che lo sa, che scoperta. “Loro”, intanto, sono riusciti a liberare la lama dell’ascia. Due colpi, tre, quattro, e il battente cede di schianto. Una mano grondante umori verdastri si insinua nel varco. Le unghie sono quasi tutte spezzate, non è certo uno scherzo artigliare la terra per ritornare fuori. La mano annaspa nel vuoto alla ricerca dei chiavistelli, li trova, li fa scorrere - uno dopo l’altro. La porta - quello che resta della porta - si apre.

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Ma John W. Taylor non è rimasto a guardare: è corso in cucina, dove nei giorni scorsi ha riunito tutte le armi che è riuscito a trovare, la mitraglietta a canna corta, i nastri delle munizioni e tutto il resto. Agguanta un piccolo bazooka, ci infila una granata. Ritorna nell’ingresso, in tempo per vederli entrare. Eccoli. Sono in quattro. Vengono avanti ciondolando, con quella loro caratteristica mancanza di equilibrio e quegli occhi bianchi che sembra che non vedano ma invece guardano al di là della morte. Hanno le gengive insanguinate e gli abiti laceri e sporchi di terra, chissà da quale tumulo sono usciti. Il loro aspetto è così disgustoso che Taylor deve far forza su se stesso per alzare il bazooka, appoggiarselo alla spalla sinistra e prenderli di mira. - Questo è per ciò che avete fatto a Marie-Jo e a mio figlio! - urla, mentre l’indice della mano destra si contrae sul grilletto. Il razzo esplode con fragore. L’ingresso si riempie di fumo e dell’acre odore della cordite. L’uomo viene colto da un furioso attacco di tosse e si porta un fazzoletto alla bocca nel tentativo di soffocarlo. Poi il fumo si dirada piano piano e rivela un ambiente devastato: dei quattro aggressori restano solo, disseminati qua e là, brandelli di carne già morta da mesi e brulicante di vermi. La tosse di Taylor si trasforma in un conato di vomito...

- Hai già fatto colazione? Clàc. Tutto in salvo. Alzai gli occhi a guardare la bella creatura che era apparsa in pigiama sulla soglia della camera da letto, gli occhi ancora gonfi di sonno, i capelli rossi arruffati non ancora messi in riga dalla spazzola. A riprova di quanto la carne sia debole e invece forte l’amore, soffocai il risentimento cui avevo dato libero sfogo con Anselmo e con Giorgio e riuscii addirittura a mettere insieme un sorriso:

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- No, ho preso solo un caffè... bentornata nel mondo! Fiamma soffocò uno sbadiglio, mentre veniva avanti con il passo incerto di uno zombi sgusciato fuori dall’hard disk del computer. - C’è poco da sfottere, amore... Lo sai che ora ho fatto? - Le quattro? Le cinque? - Le sei e mezza... quelli del turno dopo sono rimasti addormentati. Il che significa che ho dormito... - Fiamma controllò lo Swatch con l’immagine delle Twin Towers in fiamme che le avevo regalato per il suo compleanno - ... non più di quattro ore. - Ma che senso ha, me lo spieghi, fare un sit-in permanente davanti al Ministero degli Esteri, che di notte è una specie di deserto dei tartari? - Ha il senso di ricordargli che in Puglia, nei campi di prima accoglienza, stanno facendo carne per porci della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo... - Ma chi se ne accorge, di notte? Sì e no i poliziotti che sonnecchiano nelle loro camionette e vi mandano al diavolo perché li costringete a stare lì. Gli extracomunitari saranno pure dei poveracci, ma tu sai benissimo che anche i poliziotti sono figli di poveri. - E tu sai benissimo che Pasolini questa frase l’ha scritta più di trent’anni fa, e che da allora ne sono cambiate tante, di cose... Trattenni a fatica un sospiro. Fiamma era indubbiamente una bella donna, con il fascino aggiunto di avere quasi una decina d’anni meno di me, ma quando incominciava a discutere non la finiva più. A lei mi univano un amore ormai rafforzato da quasi tre anni di convivenza, una splendida intesa a letto (non ancora intorpidita dall’abitudine) e una condivisa indignazione per tutta una serie di cose che nel Paese non andavano per il verso giusto. Senonché, mentre io mi limitavo a leggere i giornali e farmi sangue cattivo, lei dava battaglia. Come personaggio di spicco dei cosiddetti “movimenti” (per la pace, per la giustizia, per molte altre cose), era continuamente impegnata in raccolte di firme, sit-in, girotondi, e si era meritata sul campo il soprannome “la Rossa”, che pronunciato dagli avversari si venava di sprezzanti connotazioni politiche,

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trascendendo il riferimento originario al colore dei suoi capelli. Quanto peso avesse avuto questo colore nella formazione del suo carattere bellicoso, era un problema che mi ero posto sovente senza mai riuscire a rispondermi. Intanto mi era arrivata di fianco, aveva alzato una mano e mi stava passando le dita sulla sommità del capo, inquisitiva e leggera - ... Lo sai che qua dietro incominci a perdere i capelli? - Si chinò in avanti e mi diede un bacio a fior di labbra; il suo corpo emanava ancora il tepore del letto - Comunque, io non sono disposta ad ascoltare cazzeggi a stomaco vuoto... Vieni a fare colazione, sì o no? - Sì, vengo. Anche se questo, forse, non è il momento più adatto... - Perché? Gli occhi di lei (non era facile dire se ci prevalessero il verde o il marrone, ma certo il mélange risultava più fascinoso di quello dei golf di Missoni) si spostarono sullo schermo del computer, scorsero le frasi fi nali e le scoprirono brulicanti di vermi e inframmezzate da conati di vomito. La bocca le si piegò in una smorfia: - Ma che schifo...! Si può sapere perché continui a scrivere questa roba? - Dài, Fiamma, lo sai benissimo: questa roba come la chiami tu, è l’unica che riesca ad arrivare sugli scaffali delle librerie... - Lo so, amore, ma tu sai anche come la penso: alla lunga questa scelta non paga. - Raccontalo un po’ a Michael Crichton o Stephen King... - Ma che c’entra? Con il mercato planetario di cui dispone l’America uno scrittore di romanzi di genere può anche fare i miliardi, ma qui da noi ne ricavi sì e no di che pagare l’affitto... - Dici niente? - Dico troppo poco. Sono convinta, e te l’ho ripetuto un migliaio di volte, che fai male a disperdere il tuo talento nei sottoboschi della letteratura di genere, a uso e consumo dei ragazzetti affamati di splatter...

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Il sospiro questa volta mi uscì fuori tutto, di getto: - Nessuno sa meglio di te quante volte ho tentato di uscirne!... le dissi mentre mi alzavo - Pensa al mio thrilling sull’occultamento delle prove della tragedia di Ustica, pensa a Questione di pelle sulla tratta delle schiave dall’Africa... A proposito, lo sai che l’ha rifiutato anche la Scaramouche? - Ma non mi dire... Che stronzi! Le misi una mano intorno alle spalle e la pilotai verso la cucina, dove incominciai a preparare la macchinetta per il caffè mentre lei tagliava le arance e infi lava nella presa elettrica la spina dello spremiagrumi. - ... E invece, per tornare alle mie schifezze, c’è Giorgio che mi tampina perché continui a produrne... - Lo credo bene... Giorgio lavora a percentuale e fa il suo mestiere. È lui che ha telefonato poco fa? - Sì, mi ha chiesto di passare in ufficio... non so bene che cosa abbia in mente ma ha detto che deve parlarmi. Dopo colazione ci vado. Tu cosa fai? - Ho una riunione di coordinamento per la prossima manifestazione no-global. Dobbiamo eleggere un comitato che porti avanti il dialogo con Prefettura e Questura: non vogliamo dare a nessuno il pretesto di far succedere di nuovo quello che è successo a Genova qualche anno fa e abbiamo deciso di... Il ronzìo dello spremiagrumi coprì la sua voce. Mentre aspettavo che il caffè fosse pronto sistemai sul tavolo il cacao, gli yogurt e i biscotti. Il fatto che tutte queste cose fossero prodotte da multinazionali e non da aziende collegate al Commercio Equo e Solidale non era proprio da intellettuali progressisti quali, ogni tanto, tra il serio e il faceto, ci illudevamo di essere; ma fatto sta che erano più buone, e noi ci giustificavamo col pensiero che nel mondo in cui vivevamo c’erano contraddizioni molto più serie di queste.

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Avevo rinunciato da tempo a utilizzare la macchina per andare in centro. Avevano concorso a questa decisione i vigili urbani, gli ausiliari del traffico, i varchi elettronici, le ZTL, le strisce blu e l’ormai accertata impossibilità di trovare parcheggio. Inoltre consideravo i mezzi pubblici una bella forma di democratica socializzazione, condivisione marxista di umori e di odori, tutti uguali, tutti pigiati, tutti lì a partecipare a gioie e patemi di coloro che parlano nel cellulare a voce altissima. Come per esempio quell’individuo che per un buon quarto d’ora era andato avanti a forza di “dài, micina, non fare così”, “pensa a tutto ciò che abbiamo costruito insieme”, “ma se ti ho detto che posso spiegarti ogni cosa” e “ti assumi la responsabilità di quello che può succedere”, per poi scendere dall’autobus prima di essere riuscito a convincere la micina, seguito dagli sguardi di disappunto di non meno di trenta persone che si stavano appassionando alla vicenda ed erano rimaste orbate del fi nale, come peraltro è destino che avvenga in qualunque telenovela. Alla stessa fermata dell’uomo ero sceso anch’io, non perché volessi sapere se alla fi ne lui sarebbe riuscito a far sì che la micina tornasse a fare le fusa ma perché mi trovavo a poca distanza dal palazzo in cui c’era l’ufficio di Giorgio Pinto. Un tempo vi si accedeva da un androne spazioso che poi, con il lievitare degli affitti del centro storico e la richiesta di sempre maggiori spazi commerciali, era stato trasformato in una boutique di gran lusso: sicché adesso,

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per salire ai piani di sopra, bisognava infi larsi in una porticina laterale, seguire un corridoio che sembrava concepito da un redattore della Settimana Enigmistica ed entrare nella cabina di un vecchio Stigler di legno a pareti di vetro, per fortuna rimasto ascensore e non ancora divenuto mini-shop semovente con vista panoramica su rampe di scale. Dopo una cigolante ascesa al quarto piano e dopo aver aperto il cancelletto di ferro battuto, mi trovai di fronte all’ormai familiare porta sul cui vetro smerigliato era scritto, in caratteri Bodoni Ultra Bold, “Giorgio Pinto - Agenzia Letteraria”. Il mio agente, fra le altre cose, era un cinefi lo doc, e aveva sempre avuto un debole per i fi lm tratti dai romanzi di Dashiell Hammett e di Raymond Chandler. La nostra amicizia aveva radici lontane: risaliva addirittura agli anni del liceo, e più precisamente al giorno in cui lui mi aveva passato un foglietto con la versione dal greco durante un compito in classe. Giorgio era un ragazzo generoso ma timido, che durante le feste se ne stava sempre in un angolo a guardare dischi e musicassette con l’aria di chi non sa come porsi nei confronti degli altri. Nessuno lo aveva mai visto ronzare intorno a qualche ragazza: io avevo sempre messo la cosa sul conto della sua timidezza, anche perché le nostre coetanee incominciavano a fiutare il vento che soffiava in quegli anni e a porsi, nei confronti dei maschi, in posizioni molto più disinvolte, per non dire più battagliere, di pochi anni prima. Così, pieno di gratitudine per quella famosa versione dal greco, avevo fatto il possibile per coinvolgerlo in una serie di scorribande e aiutarlo a socializzare. Finché si era trattato di vuotare in gruppo qualche lattina di birra o di Coca Cola, e magari azzardare qualche spinello, la cosa era passata liscia, ma una sera avevo avuto la malaugurata idea di organizzare un’uscita a quattro con un paio di giovanotte disinibite. Avevo appena chiuso una storia con Lelia, una ragazza bionda dal fisico ribaldo che lavorava in un grande magazzino e che a letto mi aveva insegnato alcuni giochini assai goduriosi. Io le avevo parlato di Giorgio e del mio desiderio di aiutarlo a rimuovere i suoi complessi, ed era stata lei che aveva

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proposto una serata a quattro in un locale pubblico, con eventuale successiva appendice in privato. Mio padre mi aveva prestato la macchina, una 850 blu scuro, e io mi sentivo gasato come se quella fosse stata una Giulietta Spider, io fossi stato Gassman e Giorgio il timido Trintignant. Il locale che Lelia aveva scelto era una quelle discoteche di nuova generazione sbocciate al sole della contestazione e del fi lm su Woodstock, un fi lm che aveva rivelato a noi giovani un mondo nuovo pieno di musica, droga e libero amore. Il fatto che ormai si ballasse ognuno per i fatti propri aveva permesso a Giorgio di cavarsela con qualche goffo tentativo pro-forma, restandosene poi seduto a guardare mentre Lelia, la sua amica Debora e io ci davamo da fare in pista. Ma quando, secondo il programma concordato con la mia ex, li avevo lasciati nei pressi di casa sua con la scusa che i sensi unici mi impedivano di andare oltre con la macchina e che lei non si fidava a rincasare da sola, ero certo che Lelia non avrebbe avuto difficoltà, nella monocamera in cui viveva da sola, a condurre a buon fi ne la sua missione; sicché, con la soddisfazione del giovane esploratore che ha compiuto la sua buona azione quotidiana, me n’ero andato a concludere la serata con Debora in un ben noto e riparato anfratto di una strada collinare, con tutta l’irruenza che possono mettere a disposizione i diciott’anni e l’abitacolo di una Fiat 850. Dal mio sonno ristoratore mi aveva però strappato, alle otto del mattino seguente, una telefonata di fuoco di Lelia, che segnava sul mio conto una scopata in bianco e mi diffidava dal metterle mai più fra i piedi “un fi nocchio di merda come quell’amico tuo”. Io ero ancora mezzo addormentato, ma non tanto da non capire a questo punto che le reticenze di Giorgio nei confronti delle esponenti del sesso femminile non erano dettate solo da una semplice timidezza. Poi c’era stata la maturità e lo avevo perso di vista. Dopo aver passato tre anni sul binario morto di Giurisprudenza avevo cambiato facoltà, mi ero iscritto a Lettere e mi ero laureato a pieni voti con una tesi su “Il romanzo gotico in Inghilterra fra Otto e Nove-

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cento”. Avevo incominciato a scrivere brevi racconti e a pubblicarli su piccole e sconosciute riviste letterarie, per poi decidermi a passare al romanzo. A Courmayeur, una mia storia un po’ trucida sulle imprese di un serial-killer in una città della Bassa Padana aveva avuto una menzione d’onore al Premio Scerbanenco aprendomi una piccola strada verso la letteratura di genere. Proprio in quell’occasione avevo avuto la sorpresa di incontrare il mio vecchio compagno di scuola, divenuto nel frattempo un agente letterario; e poiché io ero per l’appunto alla ricerca di un agente, l’antica amicizia si era rinsaldata su basi nuove. Giorgio Pinto non era cresciuto tanto in altezza quanto in rotondità, e poiché molti capelli se n’erano andati anche la sua testa aveva assunto un aspetto sferico, dandogli l’aspetto di un simpatico “otto” con il tondo di sopra più piccolo e quello di sotto più largo. Era ancora la persona riservata e discreta che avevo conosciuto sui banchi di scuola, anche se la sua professione gli aveva conferito una maggior disinvoltura nei rapporti col prossimo. Solo una vaga affettazione del suo modo di parlare e il suo abbigliamento, mai privo di un tocco di narcisismo, potevano suscitare qualche sospetto: ma, in fondo, chi ha mai detto che un fazzoletto rosaantico fuoriuscente dal taschino di un completo color grigioperla, con calze e cravatta in tinta (il suo abbigliamento di quel giorno), debba avere qualcosa a che fare con i comportamenti privati di chi lo indossa? Adesso sul fazzoletto rosa-antico doveva essersi posato un invisibile granello di polvere, perché lui distolse lo sguardo dai fogli che teneva in mano per dargli due veloci colpetti con il dito medio della mano destra e riprendere poi la lettura: lettura che peraltro doveva essere quasi alla fi ne, a giudicare dalla smorfia che gli stava piegando la bocca, e che era molto simile a quella che poche ore prima aveva piegato le belle labbra di Fiamma. La tipica reazione di una persona di gusto che inciampa in un brandello di carne brulicante di vermi. Infatti aveva fi nito; posò i fogli sul piano della sua scrivania,

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diede un mezzo colpetto di tosse e mi osservò con aria curiosa. - Mangiato pesante, ieri sera? - mi chiese. Io staccai gli occhi dal poster di Morte a Venezia che gli si trovava alle spalle e che avevo osservato fino a quel momento in attesa che lui fi nisse di leggere: anche se ormai quel manifesto lo conoscevo a memoria e avrei potuto descrivere a occhi chiusi la faccia dolente di Dirk Bogarde, il sottile richiamo erotico del biondo Tadzio alle sue spalle e il colore degli ombrelloni del Lido che stavano alle spalle di entrambi. Lo guardai, dunque, e gli risposi con un’altra domanda: - Perché questa frase del cavolo? - Beh, questo fi nale con i vermi che vanno a spasso sotto il naso del protagonista sembra scritta da uno che si è strafogato di olive ascolane... Io ci ripenserei, fossi in te: lo splatter ha fatto il suo tempo e la storia fi la via che è un piacere senza bisogno di calcare la mano in un modo così truculento. Il colpo di bazooka potrebbe concludere la prima puntata... Stavo per rispondergli con un certo surplus di energia bellicosa, ma quest’ultima frase mi fece deragliare: - Che cosa vuol dire “la prima puntata”? Giorgio si tolse dal naso gli occhiali (una lucente struttura al titanio di sottili fi li di ragno, a supporto di invisibili lenti graduate) e diede un nuovo colpetto di tosse: - Sì, dunque, si tratta di questo... C’è un magazine... uno di quei settimanali generalisti di cui per adesso ti taccio il nome... beh, insomma, ogni anno in questa stagione pubblicano un romanzo breve a puntate e io ho parlato di te con il direttore, che peraltro ti conosce di nome e ha già letto qualcosa di tuo. Gli ho detto che stai scrivendo un nuovo romanzo, e lui vorrebbe sapere di cosa si tratta e a che punto sei, perché i tempi sono piuttosto stretti e lui deve prendere una decisione in settimana. - In settimana? E io chi sono?... Mandrake? - Macché Mandrake, basterebbe la prima puntata. Fai conto, questa ventina di fogli e qualche altra cosetta; dài, Corradino, stai

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scrivendo un romanzo di fantascienza, mica Morte a Venezia... (Ah, ma allora era proprio un’idea fissa! Chissà se Thomas Mann aveva mai ricevuto una lettera con scritto “Sehr geehrter Doktor Mann, la ringraziamo per averci inviato il suo romanzo, che abbiamo trovato molto interessante. Purtroppo...”) - ... Vabbe’, tanto vale che te lo dica, il magazine è “Mondo d’oggi”, hai presente? - Come no? È in testa alla classifica dei giornali che mi guardo bene dal comperare... - E forse proprio per questo tira mezzo milione di copie a settimana! Se vogliamo fare uscire l’edizione in volume alla fi ne dell’anno, sarebbe un’ottima promozione... Che cosa ne pensi? Giorgio mi stava guardando come un topo guarda una fetta di groviera, e io mi resi conto che qualcosa dovevo pur rispondergli. - Mah... si può anche fare, per quello che me ne importa... Non sembrò che la frase lo rallegrasse granché. Mi osservò per qualche secondo con aria intenta prima di ricominciare a parlare: - Ma insomma, Corradino, da qualche mese non mi sembri più tu... Si può sapere cos’hai? Qualche problema con Fiamma? - Ma no, figurati, con lei va sempre benissimo... - Esitai un momento, poi decisi di scoperchiare il vaso di Pandora delle mie frustrazioni. In fondo una vera amicizia serve anche ad aprire le valvole quando la pressione diventa eccessiva: e Giorgio non era un amico qualunque, ma quello fra tutti più intelligente e sensibile - È che non ne posso più di scrivere sempre le stesse cazzate e di sentirmi rifiutare le cose serie. Questa mattina, tanto per dire, mi è tornato il manoscritto di Questione di pelle che avevo mandato alla Scaramouche... - Alla Scaramouche? Ma non avevamo deciso di escluderla? - Tu, lo avevi deciso... Ma io ho provato a mandarla lo stesso... - ... e l’hanno rifiutata. - ... e l’hanno rifiutata. Va bene, va bene, è inutile che me lo dici, avevi ragione... - Anche cospargersi il capo di cenere ha un suo valore terapeutico, se pure non si vuol parlare di confessione, mea culpa mea culpa mea maxima culpa. E meno male che Giorgio era

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abbastanza intelligente da non farmi notare che uno scrittore non deve prendere iniziative senza avvertire il suo agente, e si limitò ad allargare le braccia: - Amore, qui non si tratta di avere ragione o torto. Li leggi i giornali? La vedi la televisione? Lo sai in che razza di mondo viviamo? La parola d’ordine è: farsi gli affari propri e lasciare che i problemi li risolvano gli altri. Il tuo libro parla di umiliazioni e violenze, di ragazze costrette a darla a cani e porci per non essere fatte fuori: ma se hai per la testa la fusione di due società o anche solo un nuovo modello di cellulare, quanto te ne può fregare di loro? - E come la metti, allora, con il pullulare di iniziative di volontariato, di protesta, di difesa dei diritti civili? Non si è mai sentito parlare tanto come adesso di pace, di tolleranza, di cooperazione... - Appunto, se ne parla, se ne parla... così almeno si buttano palate di terra sulla cattiva coscienza. Quando mai si è visto un mondo in cui i forti non sbranino i deboli e le maggioranze non schiaccino le minoranze? La gente si riempie la bocca di belle parole, dice “non vedenti” al posto di “ciechi” o “di colore” al posto di “negri” perché vuole essere considerata politicamente corretta, però sottosotto è scorrettissima, ha sempre meno voglia di stare a pensare e detesta chi cerca di farglielo fare. Nella fattispecie, spettatori e lettori amano solo due categorie di persone: chi gli spaccia la droga e chi gli permette di pensare che, per carogne che loro siano, c’è qualcuno più carogna di loro... Quest’ultima frase non mi riuscì molto chiara. Dove andremo a fi nire, mi domandai, se le metafore si mettevano a usarle non solo i letterati ma anche gli agenti... - Sarebbe a dire? - Beh, ma sei proprio di coccio, quest’oggi!... Gli spacciatori di droga sono quelli che ci aiutano a difendere il sonno della ragione imbottendoci di puttanate: i fi lm d’azione americani, i libri dei comici televisivi, le trasmissioni della cosiddetta TV-verità... - Suppongo che anche le mie storie rientrino nella categoria

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“puttanate”... - Ma certo, gioia, però non è una buona ragione per farti venire lo sturbo: queste sono le regole del gioco e se vuoi giocare le devi accettare anche tu. - Così, sono diventato uno spacciatore... E hai parlato di un’altra strada, o mi sbaglio? - Sì: strappare le foglie di fico e violare le regole della political correctness, mettendo la gente in condizione di indignarsi e di sentirsi virtuosa... Prova a prendere una posizione controcorrente e vedrai che casino succede... Osservai pensieroso la faccia tormentata di Bogarde - von Aschenbach; o forse stavo guardando nel vuoto e sembrava che fissassi il poster solo perché c’ero proprio seduto di fronte. - Tu dici...? - Ma certo! La maggior parte della gente non è soltanto carogna ma anche ipocrita: chi la fa indignare e incazzare piace molto più di chi le propone di rimboccarsi le maniche e cercare di migliorare il mondo... - Se ti sentisse Fiamma ti leverebbe la pelle... - Ne sono convinto... E siccome non sono né un agitatore di popoli né un missionario, ritorno al mio ruolo di agente e ti chiedo: che cosa rispondo a Vivaldi? - Chi? - Eriprando Vivaldi, il direttore di “Mondo d’oggi”... Posso dargli in lettura questa cosa che hai scritto? Saltai su dalla poltrona, allungai una mano e ripresi i miei fogli: - No. - Come, “no”? - la delusione sul viso di Giorgio era quella di un topo che ha appena visto chiudere in frigo la fetta di groviera. - Tranquillo... Faccio solo alcune modifiche e te la riporto domani. - Che genere di modifiche? - Beh, per esempio, mi hai consigliato di eliminare la carne bru-

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licante di vermi. O no? - Sì, ma... - Bene, la tolgo. Giuro. Mentre lasciavo la stanza, agitando una mano in segno di saluto, Giorgio mi seguì con uno sguardo incerto. Mi conosceva abbastanza per sapere che nel mio fertile cervello d’autore era germinata un’idea balzana, e non sembrava che la cosa lo lasciasse molto tranquillo. Il “clònc!”! del computer che viene acceso somiglia al colpo di gong che nei racconti delle Mille e una notte dischiude le porte del salone del sultano. All’interno di questo e di quelle sono racchiuse ricchezze inestimabili: nell’Oriente della favola sono oro e diamanti, odalische e broccati, mentre nel nostro Occidente tecnologico si riducono a una manciata di microchip. Tuttavia, tanto per restare in tema, questi minuscoli aggregati di silicio sono moderne lampade di Aladino, poiché possono generare dal nulla interi universi di parole e di immagini; che poi si tratti di universi estremamente caduchi, esposti non solamente al primo virus che corre sul fi lo ma anche al primo cambiamento di umore di chi li gestisce, lo dimostra la facilità con cui, avviato il computer, aprii il fi le del romanzo, selezionai gli ultimi paragrafi e premetti il tasto contrassegnato da una freccetta con la punta rivolta a sinistra . In un lampo azzurrino scomparvero zombi, accette, bazooka e porte sfondate. È noto che nulla si crea e nulla si distrugge, ma la tecnologia informatica è in grado di confutare molti principi di base della fisica e della fi losofia. Che cosa restava adesso di quelle righe che avevo scritto poche ore prima? Mezz’ora di lavoro era stata polverizzata in mezzo secondo; o forse non era neppure stata polverizzata, forse non era mai esistita, chi aveva mai parlato di zombi e di altre menate del genere? Forse John W. Taylor si era appena sbattuto alle spalle la porta di casa, il campanello aveva appena suonato...

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Il campanello...? L’uomo sobbalza, fa tre passi indietro nell’ingresso deserto, a malapena illuminato dalle prime luci dell’alba che incominciano a filtrare dalle persiane sconnesse. Osserva il battente chiuso con occhi dilatati dal terrore, mentre una mano di ghiaccio gli inchioda il cuore nel petto. È la prima volta che “loro” si azzardano ad avvicinarsi alla casa... Ma il suono del campanello non si ripete. Fuori, a tendere bene le orecchie si sentono bisbigli e rumore di passi, echeggia improvviso un leggero rumore metallico, qualcosa dev’essere andato a sbattere contro il tubo della gronda. Segue un nuovo silenzio, che si protrae per una eternità forse di pochi minuti, forse di molti di più. Taylor ricomincia a sperare: forse “loro” se ne andranno, forse non oseranno dare l’assalto alla casa... Ma un tintinnare di chiavi risuona nel silenzio, seguito da un leggero fruscìo: da dove viene, è all’esterno della casa, no, è dentro, mio Dio, no, è proprio... dentro alla serratura. Con occhi dilatati dall’orrore, Taylor osserva i cilindretti d’acciaio che scorrono con lentezza - uno dopo l’altro - nello spessore della porta blindata. “Loro” evidentemente sono arrivati dappertutto, anche alla ditta che gli ha montato la porta. La chiusura di sicurezza conclude la sua ritirata silenziosa con un “clic” sommesso. E la porta si apre. Eccoli. Sono in due, come sempre. Uno è giovanissimo, ancora quasi un ragazzo, dev’essere entrato nel Corpo da poco. La divisa, obiettivamente, gli sta molto bene, evidenziando come da regolamento i fianchi stretti e il fagotto sul basso ventre. L’altro avrà almeno trent’anni ed è più corpulento, i capelli visibilmente tinti di un colore indefi nito tra il rosso e il giallo incominciano a farsi radi nel centro. Le pattuglie sono formate quasi sempre così, una recluta alle prime armi e un veterano che le insegni il mestiere. Si fermano entrambi sulla

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soglia per qualche secondo, osservando Taylor con un sorriso che vorrebbe essere seducente e contrasta in modo oltraggioso con le pistole che gli puntano contro. Poi fanno qualche passo avanti, con quelle loro caratteristiche movenze femminee. Il piÚ anziano, con voce aettuosa, dice: - Coraggio, amore, vedrai che ti piacerà ...

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Fiamma abbassò il foglio che stava leggendo e mi fissò con aria perplessa: - Non capisco... Che cosa vogliono essere questi due poliziotti? Se non ti conoscessi penserei... ma no, è ridicolo! Sapevo che stavo camminando sulle sabbie mobili e cercai di assumere un’aria innocente: - Cos’è che non capisci? Cos’è che ti sembra ridicolo? - Beh, non so come dirtelo, ma... - esitò un attimo, prima di decidersi a sputare il rospo - ... in questa nuova versione i tuoi zombi sembrano diventati una coppia di gay! Diedi un paio di colpetti di tosse con funzione scaramantica: - Beh, in effetti... in effetti lo sono... Fiamma mi guardò a bocca aperta: - Come hai detto? - Ho pensato che fra un quarto di secolo i gay possano aver preso il potere e il protagonista sia l’ultimo eterosessuale rimasto sulla faccia della Terra... Da perplessi che erano, gli occhi di lei si sbarrarono: - Che cosa...?! - In fondo, non invento niente: non faccio che riciclare una situazione classica della fantascienza adulta, quella dell’ultimo uomo rimasto sulla faccia della Terra. Partendo da questa premessa, le due varianti classiche sono “la terra è deserta” o “la terra è abitata da una razza che non è più quella umana”: possono essere vampiri


come quelli di Richard Matheson, o scimmie come quelle di Pierre Boulle, ma il loro obiettivo è comunque di rendere schiavo o addirittura eliminare l’ultimo esponente della vecchia razza dominante, che a questo punto è diventato un “diverso”... - Non ci posso credere...! - trasecola Fiamma - Stai paragonando i gay ai vampiri e alle scimmie? Non è possibile che tu parli sul serio, Corradino: dopo tutte le battaglie che abbiamo fatto, che stiamo facendo contro le discriminazioni, in difesa delle minoranze... - Ma il problema è proprio questo, Fiamma: se ragioniamo così, fra un po’ la minoranza diventeremo noi! Sembra che ormai non ci siano più altri che loro, e io comincio ad averne abbastanza di tutti i libri, i fi lm e le inchieste sui gay e sui loro problemi: l’omosessualità sta diventando un tema alla moda... - Questo può anche essere vero, ma è tutto un altro discorso! Dopo secoli di silenzio è inevitabile che si sconfi ni nell’eccesso opposto, e prima di trinciare giudizi bisogna aspettare che si sia raggiunto un equilibrio! Se non accetti questo assioma di base, devi considerare la Rivoluzione Francese come la più grande catastrofe della storia solo perché qualche migliaio di persone hanno perso la testa... Quando Fiamma partiva con un comizio c’era solo un modo per cercare di fermarla. Così, visto che eravamo seduti fianco a fianco sul divano, mi chinai verso di lei e incominciai a darle un serie di piccoli baci sulla nuca e dietro all’orecchio, incurante del fatto che lei stesse continuando a parlare. In tre anni di rapporto avevo messo insieme una mappatura esauriente delle sue zone erogene e sapevo che questo le piaceva da morire: l’esito non era garantito al cento per cento ma qualche volta funzionava. - Il problema è un altro, stai fermo Corradino, ho avuto una giornata faticosa e non è proprio il caso che tu ti faccia venire delle idee... Il problema è che la tua storia rischia di assumere una colorazione razzista, ti ho detto di stare fermo... e di fare il gioco delle forze più reazionarie del Paese... Tutto dipende da... Piantala!

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Dimmi invece che cosa succede man mano che la storia va avanti... - Mm... non lo so... ti giuro che non lo so... - risposi. Per la verità, più che parlare mugolai: perché nel frattempo le avevo infi lato una mano fra la camicetta e la gonna, e mentre da sotto la facevo risalire verso il reggiseno (con tutto ciò che conteneva) inclinai la testa in avanti e incominciai a baciarle la gola che era rimasta scoperta. - Come sarebbe... togli quella mano da lì... Come sarebbe... che non lo sai...?! - Io... - biascicai - devo ancora pensarci... Ma non credi... che possiamo parlarne... in un altro momento...? - Questi sono... sistemi... sleali... - cercò di ribattere Fiamma, ma la sua voce stava assumendo un andamento anomalo ed era chiaro che la sua bella baldanza era dirottata altrove. Mentre la mia mano destra raggiungeva l’obiettivo e ci si ormeggiava saldamente, l’altra incominciò a darsi da fare con lampo e gancetti - Tu non puoi... furono le ultime parole che lei riuscì a spiccicare prima che io le chiudessi la bocca con un bacio di quelli de luxe, trasformando il resto della sua frase in una specie di uggiolìo di piacere. Checché ne dicano i sessuologi sul calo del desiderio nella reiterazione dell’atto sessuale con il medesimo partner, fare l’amore con Fiamma è sempre stata un’esperienza da fi ne del mondo, nonostante che nel corso della nostra relazione avessimo da tempo esaurito tutte le possibili variazioni sul tema. Ogni volta che scivolavo dentro di lei mi sentivo come un paguro che ha trovato finalmente la sua conchiglia ideale; e alla fi ne, mentre la osservavo abbandonata sui cuscini del divano, con gli occhi chiusi e i capelli rossi sparsi sul petto ormai acquietato, non potei fare a meno di pensare una volta di più a quanti paguri di nostra conoscenza sarebbero stati felici di scavarmi fuori da quella conchiglia per prendere il mio posto. Un’altra cosa dimostra la scarsa affidablità delle scienze statistiche. Esse dicono che dopo un rapporto sessuale l’uomo tende ad addormentarsi prima della donna, mentre posso testimoniare che

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per quanto riguarda me e Fiamma è vero il contrario: e meno male che è così, perché a quel punto le vampe polemiche della mia battagliera compagna si erano trasformate in un focherello fatuo che vibrava debolmente nell’aria prima di estinguersi per puro onor di bandiera. - Sei un gran paraculo, Piersanti... - mi disse, con uno sguardo languido che scivolava fuori da palpebre già calate a mezz’asta - Io ti amo, accidenti a me, ma la cosa non fi nisce qui... Ne riparliamo domani, perché adesso casco dal sonno... - Si rimise in piedi a fatica e si avviò verso la camera da letto con un passo strascicato che valorizzava al meglio il suo splendido sedere; un sedere, sia detto fra parentesi, che nulla aveva da invidiare a quello di una ventenne - ... Se vai avanti su questa strada rischi di scivolare in un baratro, e io non voglio che questo succeda. Sarò una scema, Piersantino, ma a te ci tengo... - Le parole seguenti erano già indistinguibili. Quando un minuto più tardi la raggiunsi di là, dopo aver raccolto i vestiti che erano rimasti disseminati sul divano e per terra, era già stramazzata sul letto senza neppure infi lare il pigiama. La coprii con le lenzuola e le diedi un castissimo bacio a fior di labbra: - Buona notte, Messalina... Lei aprì a mezzo un singolo occhio: - Buonanotte, Nerone... Ritornai in soggiorno e mi sedetti alla scrivania, senza neppure pensare a rivestirmi. Era venuto il momento di far sfuggire il mio protagonista dalle mani dei due poliziotti... Già... ma in che modo sarebbe riuscito a fuggire? Dunque... JWT fa qualche passo indietro e si trova con le spalle a ridosso del muro. Alza le mani e le tiene in alto, bene in vista, mentre si sforza di sorridere. - Calma, ragazzi, calma... Non sono armato e non ho alcuna intenzione di fare resistenza... Il poliziotto più anziano si rivolge al più gio-

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vane, senza però distogliere gli occhi da Taylor e senza rimettere la pistola nella fondina. - Hai sentito, Ollie? Il signorino non fa resistenza... è quasi un peccato, non credi? - sulle labbra gli aleggia ancora il sorriso, sempre più simile a un ghigno sardonico. - Credo proprio di sì - risponde Ollie - Ci toglie il piacere di fargli capire che non gli conviene... - è molto più giovane del suo compagno, ma ha già la faccia di un bastardo adulto. - Calma, ragazzi... Sono pronto a venire con voi, ma vorrei sapere dove intendete portarmi... - Perché lo vuoi sapere, amore? Vuoi lasciare una letterina ai tuoi cari...? - l’uomo scoppia in una risata cattiva - Non darti la pena di rispondere, Taylor, lo sappiamo benissimo che i tuoi cari non sono più qui. E se proprio vuoi saperlo, ti porteremo in un Centro di Rieducazione. Un posto carino, vedrai che ti piacerà da matti. Si fanno molte nuove amicizie, là dentro... Questa volta scoppiano a ridere entrambi: - Oh sì, ti piacerà di sicuro, anche a tua moglie e tuo figlio è piaciuto moltissimo... JWT si morde le labbra a sangue per non mettersi a urlare. Lotta con tutte le sue forze contro la nebbia rossastra dell’ira, che lo spingerebbe a catapultarsi contro i due uomini e le loro pistole. Riesce a dominarsi a costo di uno sforzo sovrumano, e ripete con le mani alzate un gesto pacificatorio: - Va bene, ragazzi, va bene... Sono pronto a riconoscere che la partita è perduta... Lasciate soltanto che vada su in camera a prendere alcune cose... - No, Taylor, non attacca. Là dove andrai c’è già tutto ciò che ti serve... Coraggio, andiamo! JWT non è mai stato bravo a recitare, ma l’emergenza aguzza l’ingegno e le doti drammatiche. Dopo un attimo di esitazione, lancia verso il ballatoio del primo piano un’occhiata sbieca che non sfugge ai due poliziotti. - C’è qualcuno, di sopra? - domanda il ciccio-

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ne, improvvisamente più vigile, puntando la pistola verso la buia sommità della scala. JWT lascia passare tre o quattro secondi prima di fare un debole cenno di “no” con la testa, e lo sbirro ci casca. - Dov’è la luce? JWT continua a tacere, apparentemente preso dal panico. Ma il sudore che gli imperla la fronte non fa parte della fi nzione, e anche la goccia che gli cade sulla camicia è maledettamente reale. Il ciccione alza la voce: - Ti ho chiesto dov’è la luce! JWT si riscuote e si sposta lentamente lungo il muro, fi no al punto in cui c’è la piastrina di plastica con i due interruttori delle luci dell’ingresso e della scala. Fa scattare il secondo, e il pianerottolo in alto si illumina. L’uomo dà una rapida occhiata al collega più giovane e dice: - Vado io. Tu pensa a lui. - Con piacere - risponde Ollie. La canna della sua pistola è puntata dritta dritta sul petto di Taylor. L’altro sta già salendo, adagio, uno scalino dopo l’altro, la pistola impugnata a due mani, le braccia tese in avanti. Raggiunge il pianerottolo, gira l’angolo e scompare alla vista dei due uomini che sono rimasti di sotto. JWT fa un rapido calcolo. Al primo piano ci sono tre stanze più la scala del sottotetto. Il poliziotto si muove con una certa cautela. Diciamo dieciquindici secondi per ispezionare una stanza? Questo significa che fra un minuto al massimo si sarà reso conto che la casa è deserta e sarà tornato al piano di sotto. Ma un minuto è più di quanto serva a John W. Taylor. È rimasto con la mano sulla piastrina; aspetta ancora qualche secondo, poi schiaccia l’altro interruttore, quello che comanda le luci dell’ingresso. Proprio quell’interruttore che da due giorni non

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usava più perché per qualche maledetto (o benedetto?) contatto aveva incominciato a fare corto circuito. Pòf. Lo scatto del salvavita che lo coglie alle spalle, mentre le luci del piano di sopra si spengono, prende di sorpresa il ragazzo che si volta di scatto. JWT si butta avanti con la testa abbassata e lo colpisce con violenza sul fianco. Lui si lascia sfuggire la pistola di mano e va a sbattere contro il muro di fronte. Rimane lì a terra, contorcendosi come un verme troncato a metà da un colpo di vanga, la faccia deformata dal dolore e un mugolìo da animale che gli sfugge dalla bocca aperta. - Ollie! Ollie! Dove sei...? Cosa cazzo succede? - la voce del poliziotto più anziano plana dalle tenebre del piano di sopra, seguito dal rumore di qualcosa di pesante che va a sbattere contro un muro e da una fragorosa bestemmia. Ma JWT ha già raccolto la pistola caduta a terra e infilato la porta aperta. Se fuori ce ne sono altri, è fottuto. Se questi due sono venuti da soli, qualche speranza di riuscire a fuggire l’ha ancora.

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Gli etero non poteva no più lavorare negli uffici pubblici; non poteva no frequentare i locali pubblici riservati agli omosessuali; dovevano tra sferirsi in q u a rtieri a ppositi r i s e r v a t i a l o r o; n o n p o t e v a n o g uidare automobili superiori a u na c e r t a ci l i n d r a t a ; n o n p o t e v a n o pa rtecipa re a l f u nera le del loro co niu ge; a l m o m e nto della m orte, n o n p ot ev a n o t r a sferir e a i lor o figli i beni personali, che divenivano proprietà dello Stato.

L’INVASIONE DEGLI ULTRAGAY

una storia politicamente scorretta romanzo

L’INVASIONE DEGLI ULTRAGAY

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Corrado Farina

Corrado Farina è nato a Torino nel 1939. Critico cinematografico, pubblicitario, regista e documentarista, ha scritto articoli e saggi sui linguaggi della comunicazione. Ha diretto mezzo migliaio di Caroselli e realizzato due lungometraggi: Hanno cambiato faccia (I Premio al Festival Internazionale di Locarno, 1971), e Baba Yaga (da una storia a fumetti di Guido Crepax, 1973). Il suo esordio nella narrativa è del 1994. L’invasione degli ultragay è il suo sesto romanzo.

Corrado Farina

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Corradino Piersanti è uno scrittore che sembra destinato a produrre solo romanzi fantasy o splatter. Ma ecco che, in piena crisi creativa, la sua ultima fatica, L’invasione degli ultrazombi, si trasforma nell’occasione per affrontare un tema scottante e politicamente scorretto. Con una piccola modifica al titolo e alla storia, il suo misterioso protagonista, John W. Taylor, diventa l’unico eterosessuale che si oppone al sopravvento e alla violenta colonizzazione dei gay. Niente zombi, dunque, né scimmie o alieni: nel ventunesimo secolo le minacce alla razza umana sembrano essere altre… In questo scenario apocalittico raccontato a puntate in un magazine scandalistico, gli omosessuali vampirizzano il mondo, costruiscono la società sui loro modelli familiari, organizzano squadre di polizia nazi-gay che rastrellano gli etero segregandoli in campi di rieducazione. Corradino Piersanti continua a scrivere la sua storia ironica e provocatoria e, di settimana in settimana, la gente legge e giudica. Il romanzo s’impadronisce di lui e la crisi creativa dell’autore si riverbera in una più profonda crisi con la sua compagna, Fiamma, e con il mondo che lo circonda. Con un chiaro riferimento ad una letteratura di genere, Corrado Farina, con la sua Invasione degli ultragay, offre una riflessione acuta e grottesca sulla paura delle diversità sessuali che paralizza una società spesso disorientata e ipocrita.


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