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Titolo originale dell’opera De vliegfiets Traduzione di David Santoro
© 2006 Pieter Toussaint © 2006 Uitgerverij Cossee BV, Amsterdam © 2007 zero91 s.r.l., Milano Printed in Italy
I Edizione ottobre 2007 ISBN 978-88-95381-01-5
Questo libro è stato pubblicato con il contributo del governo olandese tramite la Fondazione per la Produzione e Traduzione della Letteratura Olandese (NLPVF), suo organismo consultivo per il finanziamento delle arti.
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LA BICICLETTA VOLANTE Traduzione di David Santoro
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PARTE PRIMA LA BIBBIA
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Ho una sola foto di noi due. Insieme, dentro una piccola piscina gonfiabile. Mio padre si è sdraiato a terra per scattarla. Guardandola, si ha l’impressione di fare capolino da sopra il bordo. Le nostre teste con le ciocche bagnate spuntano appena fuori. Due giovani uccelli dentro il nido. Una battuta inventata da Vincent. Sopra la mia testa si agita la sua mano destra, pronta a spingermi sotto. Vincent il regista, come sempre. Di tanto in tanto prendo la foto dal cassetto in cui l’ho riposta e la poso sul tavolo davanti a me. Provo a decifrare il nostro sorriso. La mia bocca è meno dischiusa della sua. A lui si vedono quasi i denti, di sopra e di sotto. I miei sono solo una sottile striscia bianca tra le labbra. Forse dice qualcosa al momento dello scatto. Ha gli occhi più grandi dei miei. Controlla attentamente che papà ritragga lo scherzo secondo le sue intenzioni. Io sorrido senza averne voglia, con gli anni mi è apparso sempre più chiaro. La mattina della decisione tirai di nuovo fuori la foto. Una di quelle mattine in cui ci si sveglia nella penombra cupa, sudati e confusi. Credevo di aver udito una voce, forse
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uno scoppio, o magari ero stato svegliato da un lampo. Fuori la strada era silenziosa. Deserta. I cespugli sul lato opposto erano mossi dal vento. Era l’unico movimento che la luce giallastra dei lampioni lasciava intravedere. Bevvi un bicchier d’acqua accanto al lavandino e mi guardai allo specchio nella luce al neon. Pallido, il naso prominente, la pelle tutta irregolare come una buccia d’arancia. Poi mi ricordai il sogno. Io e Vincent siamo di nuovo in giardino. In mezzo al prato che, con un curva ripida, si arrampica sulla diga contro cui è costruita la casa. Sole, vento. Devo stringere gli occhi. Vincent si sporge in avanti. Ha i capelli sciolti al vento. L’immagine che il sogno mi obbligava a guardare era quella di un momento solenne. Il giardino che si allunga, la casa che si ritira tra ombre inspiegabili. Solo noi cresciamo. Vincent recita i nomi dei pezzi di una delle nostre costruzioni, come un mantra. Ripetizione che si è impressa anche nei suoi movimenti. Voglio dire qualcosa e cerco di avvicinarmi a lui. Ci allontaniamo sempre più. “Tutto secondo il progetto e nelle corrette proporzioni.” Sento ancora la sua voce, come tanto spesso mi accade nei sogni. Trionfale, ma anche tesa. “Hai verificato tutti i calcoli?” Tutti verificati. Io ero il matematico, Vincent l’artigiano. Io ammiravo la sua inventiva, la sua abilità. La sua capacità di dare vita ai pensieri - cifre e formule - di trasformarli in realtà concreta. Io non ero, e non sono, capace di mettere insieme una vite e un bullone, ma di calcoli me ne intendevo. Prefigurare la realtà attraverso misure e cifre. Quella era la mia specialità. Per quello era Vincent ad ammirare me, almeno speravo. Avvicino il viso al suo per spiegargli i miei calcoli. Lui indietreggia. Se stendo la mano, il suo corpo si ritrae come se fosse liquido. Il suono della mia voce mi rimbalza contro il viso. Resto inascoltato, inosservato.
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Questo è il momento in cui in genere mi sveglio. E così fu anche quel mattino. Sudavo e mi sentivo braccato. Preda di un cattivo presagio, l’ombra di un evento accaduto più di dieci anni prima. Poco dopo sedevo alla mia scrivania. Il mio mondo racchiuso nel cono di luce della lampada da tavolo. I libri, le carte, il mio pc - insomma le cianfrusaglie che ricoprono la mia scrivania - non possiedo molto di più. Ah già, quella foto anche. Sta davanti a me, al centro del mio miniuniverso. Le due facce sorridenti mi guardano. Una speranzosa, l’altra obbediente. Sullo sfondo i contorni vaghi e sfrangiati degli alberi che circondavano la casa delle vacanze. Eravamo in vacanza a Drenthe. Era un’estate calda, in cui le giornate torride sembravano nascondersi, di notte, tra gli alberi dei boschi tutt’intorno per ricomparire di nuovo al mattino. Non rinfrescava mai. Andavo a letto senza pigiama e senza coperte. Sudato e appiccicoso. Neppure i miei genitori dormivano. Li sentivo parlottare ancora tra gli alberi ben oltre la mezzanotte. Dalla finestra della stanza da letto potevo scorgere le loro sagome scure in giardino. L’unico che sembrava non soffrire il caldo era Vincent. Lui riusciva a dormire e di giorno sprizzava energia. Fu l’estate in cui scoprimmo il piacere di costruire, di costruire qualcosa insieme, beninteso. Costruivamo capanne tra gli alberi. Io disegnavo i progetti seduto al tavolino su una terrazza dove l’ombra creava l’illusione della frescura. Strane costruzioni incise grossolanamente sulla carta. Accanto riportavo il numero di tronchi che ritenevo necessario, spesso con l’indicazione della lunghezza richiesta. Chiamavo pretenziosamente quelle cifre i miei “calcoli.” Nel frattempo Vincent correva continuamente dal nostro cantiere nel bosco alla terrazza. Gettava uno sguardo al mio disegno e scappava di nuovo. Per lui non rappresentava un progetto vero e proprio, ma un’idea. Lo ispirava nella costruzio-
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ne della capanna che più tardi avrei ammirato e che non somigliava per niente al mio disegno. Questa ripartizione dei ruoli si consolidò negli anni seguenti. Io ero l’ideatore che esprimeva con disegni e formule i suoi pensieri e Vincent il realizzatore che utilizzava quei pensieri per produrre qualcosa. Ci ho messo molto a capire che aveva bisogno di me. Senza i miei schizzi e i miei calcoli non poteva cominciare. Ero il suo innesco. Ancora più tardi compresi che per lui ero anche un meccanismo di sicurezza. Abilmente e spesso in modo appena percettibile lasciava che la sua destrezza venisse imbrigliata dai miei piani. Aveva fiducia nei miei progetti, nei miei calcoli, cosa peraltro dovuta più alla nostra educazione che ai miei meriti. Mio padre aveva incoraggiato fin dal principio la nostra passione per le costruzioni, in un primo momento senza manifestare interesse per quel tipo di attività. Il suo era un entusiasmo superficiale, come quello di tanti genitori che incoraggiano i figli a far qualcosa. Col passare del tempo non riuscì più a nascondere il suo coinvolgimento. Voleva conoscere i particolari, ci faceva domande a raffica e dava in escandescenze di fronte agli errori di progettazione. Spesso lavoravamo nel garage sotto casa. Quando faceva bel tempo, la porta scorrevole restava aperta e la musica che proveniva da una vecchia radio di Vincent si disperdeva tra gli alti alberi accanto alla casa. Mio padre entrava sempre lì da noi, senza preavviso, ma non inatteso. Osservava un istante Vincent che continuava ad armeggiare imperterrito, poi andava a guardare i progetti che avevamo appeso a una parete. Quel suo modo di sollevare gli occhiali sulla fronte e di sporgere la testa in avanti. Sempre lo stesso rituale. Studiava a lungo i miei scarabocchi, le linee storte e le cifre. Poi invariabilmente tornava da noi borbottando. Spesso scuotendo la testa. “Una bella pensata, questo sì, ma ovviamente non funzionerà mai.”
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Al principio Vincent, dopo un’osservazione del genere, si chiudeva in se stesso. Vedevo la rabbia nei suoi occhi, gli angoli della bocca che gli tremavano. Più tardi cominciò a riderci sopra. Ad alta voce, in segno di protesta. “Ah ah, è arrivato nonno Einstein.” Ma questo avveniva più tardi, quando ci sentivamo ormai molto superiori a nostro padre e alla sua bibbia. Al principio lo ammiravamo ancora, certamente dopo il pomeriggio in cui ci mise a parte del segreto che custodiva nel suo studio. Stavamo giocando a pallone sulla stretta fascia di prato che si stendeva davanti alla nostra casa. Avevo segnato due volte di seguito e Vincent era chiaro che non la mandava giù. Diventava più falloso, entrava sempre più sull’uomo che sulla palla. Proprio nel momento in cui mi aveva buttato giù senza che la palla fosse neppure nelle vicinanze, mio padre ci chiamò. Stava sulla porta che si apriva sul giardino e dava accesso al suo studio. Aveva l’aria seria. Vincent imprecò, io mi guardavo il ginocchio scorticato, con i graffi che si andavano lentamente riempendo di sangue. Mio padre chiamò di nuovo, ancora più impaziente. Ci avviammo verso la porta, io zoppicavo leggermente. L’odore del fumo di sigaretta, mescolato a quello di carta vecchia, impregnava lo studio. Quell’odore per me è sempre rimasto legato a cose importanti. Lo cerco ancora nelle biblioteche, ma ormai non si può più fumare da nessuna parte, solo in strada. Quell’odore ci fece diventare seri, non appena entrammo nella stanza. Da come raddrizzava la schiena vedevo che Vincent aveva perso la sua contrarietà. Mi misi a sedere con cautela su una delle sedie che mio padre aveva collocato davanti alla sua scrivania. Chiuse la porta e venne verso di noi. A metà strada si fermò e si girò verso la libreria. Restò per un po’ a cercare qualcosa nel mobile zeppo di libri. La sua mano destra scorreva lungo le copertine. Di tanto in tanto ne estraeva uno per rimetterlo subito a posto.
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“Quanta conoscenza è stipata qui dentro. E pensare che è solo una frazione di tutto quello che nel corso del tempo è stato messo per iscritto. Certe volte lo trovo scoraggiante.” Poi andò rapidamente alla scrivania e sedette sulla vecchia sedia girevole, con la schiena rivolta alla porta e alla finestra che dava sul giardino. Vedevo il pallone, in mezzo al prato. “Siete dei piccoli ingegneri in erba. Me ne sono accorto. Non state lì a fabbricare la prima cosa che vi salta per la testa, prima progettate quello che volete realizzare. Mi piace. Dimostra profondità. Anche se naturalmente i vostri pastrocchi sono ancora assai maldestri.” Si alzò di nuovo, andò alla finestra e osservò il giardino. Forse il pallone che rotolava piano sospinto dal vento. Inarcò la schiena come un gatto quando è in guardia. Estrasse, dalla tasca davanti della camicia, un pacchetto di sigarette marroncino. Qualche istante dopo si alzarono delle spirali di fumo bluastro che come un filo sottile si diffondeva per la stanza. “E adesso che si fa? Si continua a arronzare qualcosa e poi ci si arrende quando le buone intenzioni si rivelano eccessive? O è venuto il momento di studiare e imparare qualcosa?” Sorrise, il fumo gli andò di traverso e tossì, appoggiandosi con la destra allo stipite della porta. Quando si voltò era rosso in viso e livido al tempo stesso, ma aveva un ampio sorriso sulle labbra. “Mi ci sono spremuto le meningi a dovere, ve lo assicuro, ma sono arrivato a una conclusione. È ora, ragazzi, è ora.” Prese una grossa cartella da uno degli scaffali. La copertina dalle venature verde scuro era chiusa ai lati con dei lacci neri annodati in un fiocco. Mio padre posò la cartella sulla scrivania, con cautela. Si tolse gli occhiali, piegò le stanghette con solennità e li posò sul bordo del piano, con le lenti rivolte verso di noi. Nel riflesso ci vedevo seduti, deformati dalla curvatura delle lenti. Restammo immobili. Da fuori
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arrivavano rumori: lo strombazzare di un’auto; un grido; l’abbaiare di un cane. Segnali di una vita che improvvisamente appariva lontana mille miglia. Aprì la cartella e ci fissò. Vincent scoppiò a ridere ma lo sguardo di mio padre non cambiò. Sentivo i passi di mia madre sopra le nostre teste. La sua voce, stava cantando, ma non osai alzare gli occhi. Mantenni lo sguardo fisso sulla cartella aperta e sulla pila di carte ingiallite che si arrotolavano. “Questa, ragazzi, è la mia bibbia. Niente cazzate a vanvera, ma i pensieri più profondi espressi nel modo più ingegnoso mai escogitato dall’umanità.” Sollevò uno di quei fogli. “Espressi in linee e cifre. Le parole non servono.” Tenne in alto uno dei disegni. Il progetto di qualcosa che somigliava a un ponte ma che poteva anche essere una cattedrale o un veicolo. Le linee si aggrovigliavano sulla carta ingiallita coperta qua e là di cifre minute. “Questo è il lavoro di tutta una vita di mio padre. Sono tutti progetti di costruzioni, apparecchiature, macchinari, troppo avanzati perfino per i nostri giorni. E lui li disegnava nei primi anni della mia infanzia, alla fine degli anni Venti. Non aveva studiato, non aveva finito neppure le scuole elementari, credo. Nessuno dei libri presenti in questa stanza si trovava nella sua casa. Anzi, di libri non ce n’erano proprio. Lavorava come meccanico per la Società Ferrotramviaria della Frisia. Fissava tratti di binari che si erano allentati, costruiva nuovi tracciati e a volte, proprio al massimo, gli era concesso di trafficare un po’ con le locomotive. Eppure era capace di realizzare tutto questo la sera, dopo aver sgobbato in quel modo tutta la giornata. Solo per questo meriterebbe un monumento!” Si mise a sfogliare i disegni e sembrò scordarsi di noi. Mormorava qualcosa. Vincent sbuffava e io guardavo il mio ginocchio sbucciato. Il sangue si era rappreso sopra le ferite. Piccoli granuli sparsi in fila come pietre preziose. “Voglio che diventi anche la vostra bibbia. Dimenticate
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tutti gli altri libri che ho qui intorno. Se volete imparare a fare progetti è qui che dovete farlo, su questi disegni. La fonte di ogni conoscenza.” Puntò l’indice contro il cielo e ci guardò serio. Provai a nascondere la mia paura dietro un sorriso, ma non ci riuscii. Mi girai verso Vincent nella speranza che riuscisse a prendere la situazione con leggerezza, che facesse qualche smorfia. Ma Vincent guardava in terra, aveva la faccia tirata, addirittura pallida. Forse era più impaurito di me. “Faremo così. Voi avete accesso alla bibbia, che lascio qui nella libreria” - indicò uno scaffale vuoto - “potete andarci a guardare quando volete. Ma esigo che ogni disegno sia rimesso per bene al suo posto dopo che lo avete studiato. Quindi non si portano in garage né in camera vostra. Se qualcosa in questa cartella si rompe o si rovina farete meglio a sparire dalla mia vista una volta per tutte. Ve lo garantisco.” Il suo dito tornò ad abbassarsi e in un solo movimento chiuse la cartella. “Bene, tornate pure a giocare a pallone.”
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Nelle settimane seguenti la bibbia divenne il centro della nostra esistenza. Poco a poco. Ne parlavamo, dapprima con accenni indiretti e vaghe allusioni, poi apertamente. Più spesso che potevamo andavamo nello studio e osservavamo il contenuto della cartella con i disegni. “È chiaro che con questi disegni si può fare solo qualche cazzata.” Vincent parlava come mio padre. Studiavamo quegli scarabocchi. Per meglio dire, ne facevamo l’esegesi. Ogni linea, ogni cifra veniva considerata come una verità che dovevamo scoprire. Ricalcavo le linee e ci scarabocchiavo i numeri accanto, poi mi portavo tutto in camera per controllare i calcoli. Andavo avanti finché i conti non quadravano. Dovevano quadrare, e alla fine riuscivo a ottenere il risultato desiderato. Spesso il progetto al quale pervenivo coi miei calcoli non somigliava del tutto alle linee contorte disegnate da mio nonno, ma ad ogni modo quella restava la fonte, l’origine dell’idea. La bibbia conteneva essenzialmente cose irrealizzabili. Un ponte che scavalcava il Mare del Nord e che, con una
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sola alta campata, raggiungeva la costa inglese da quella olandese. Ne costruimmo un modello che è rimasto per anni nella mia camera. Oppure una serie di sei grattacieli (di settantadue piani) tra i quali, ogni cinque piani, era tesa una rete rigida sulla quale venivano realizzati un giardino, un boschetto e un piccolo lago. La terra innalzata fino al cielo. Con del cartone, una rete metallica e del fango appiccicoso, mettemmo insieme qualcosa. Il progetto prevedeva una certa quantità di specchi che, imitando in qualche modo il sole, illuminavano i giardini sospesi. Eravamo riusciti a procurarci uno specchietto di mia madre, lo avevamo tolto dalla sua cornice patinata e lo avevamo fatto a pezzi. I frammenti li avevamo poi montati agli angoli di ciascun giardino. Quando accendevo le tre lampade da tavolo nel buio pesto del garage, faceva un effetto spettrale. I laghetti sospesi che scintillavano, il fango che luccicava alla luce riflessa dai quattro angoli. E le piccole figure e i rametti che avevamo piantato nel fango e che la luce faceva diventare cinque o sei volte più grandi. Mi piaceva. Restavo a osservare quel mondo in miniatura fino a scomparirci dentro. Solo quando Vincent accendeva le tremolanti luci al neon tornavo alla realtà. Tra i progetti contenuti nella cartella, uno speciale era quello del batiscafo. Conoscevo Jules Verne e sospettavo mio nonno di plagio, ma le sue intenzioni erano più modeste. Voleva calarsi dentro pozzanghere e stagni. Io e Vincent avevamo letto Het malle ding van bobbistiek1, ed eravamo felicemente sorpresi che nostro nonno proponesse una soluzione analoga per la parete esterna dello scafo. Niente metallo o cemento, ma un miscuglio fatto essenzialmente di argilla e materiali collosi. Nella soffitta della fattoria di un amico trovammo una 1 Libro per ragazzi scritto nel 1970 da Leonie Kooiker. Narra di due ragazzi che, cercando di inventare un unguento che li renda invisibili, creano invece una plastica leggera e resistente. Con questo materiale costruiscono una specie di elicottero e si mettono a esplorare le cime degli alberi (NdT).
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tinozza di zinco che ci fu permesso di portar via. Quella diventò la nostra provetta. Con la serietà di un chimico, versavamo gli ingredienti nel catino. Per lo più si trattava di banale ciarpame, a parte un elemento. Vincent era riuscito a procurarselo grazie a un amico, figlio di un professore di chimica. Quella roba era violacea e granulosa. Una volta buttata dentro al catino, il contenuto cominciò a gorgogliare come se ci avessimo acceso un fuoco sotto. L’intruglio sbiadì e si rapprese all’improvviso. Raccogliemmo il fondo e lo spalmammo sulla struttura che avevamo costruito con l’aiuto di una rete metallica. Si indurì prima che riuscissimo a stenderlo per bene e così si formò una superficie ruvida con degli spuntoni aguzzi. Vincent tirò un sospiro. Scivolò dentro attraverso il buco che avevamo lasciato nel tetto a forma di zucca. Richiusi la costruzione con un coperchio fissato allo scafo tramite un grosso galletto. Una guarnizione di gomma avrebbe impedito all’acqua di penetrare all’interno. Due aperture rotonde ricoperte di plexiglas rigido fungevano da oblò. Il collaudo fu eseguito nello stagno davanti a casa nostra. Era una giornata grigia. Io ero il pubblico. Vincent lanciò una bottiglia di birra contro la parete esterna ricurva del batiscafo, poggiata sul pontile. Il liquido giallo colò spumeggiando lungo la superficie violacea, lasciando delle macchie scure sul legno tropicale di cui era fatto il pontile. Vincent era seduto all’interno dello scafo e aveva mostrato il pollice alzato attraverso l’oblò di plexiglas appannato, adesso toccava a me spingere quell’aggeggio nello stagno. Cadde in acqua e si inclinò parzialmente. Vedevo il viso sorpreso e impaurito di Vincent dietro il plexiglas, ma prima che me ne accorgessi il batiscafo si raddrizzò e cominciò lentamente ad affondare, grazie ai sacchetti di sabbia che avevamo fissato al fondo. Schiacciò le labbra contro il plexiglas un istante prima di sparire sotto il pelo dell’acqua. La superficie dello stagno si richiuse con una lieve incre-
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spatura. Era come se il batiscafo fosse stato assorbito dal corpo liquido che si estendeva tra le due dighe. Silenzio. Lo stridio di un gabbiano, il salto di un pesce e l’abbaiare del cane dei vicini. Vincent era sprofondato nel cielo grigio che si rifletteva nel dondolio dell’acqua. Sedevo sul pontile e fissavo distrattamente quel grigiore gorgogliante, in attesa che quell’affare tornasse a galla. All’improvviso Vincent riaffiorò sbuffando. Senza il batiscafo. Spuntavano fuori solo la sua testa bagnata e un’ostrica d’acqua dolce che teneva alzata con la mano destra come se avesse trovato un tesoro. Il batiscafo è ancora lì, ricoperto di molluschi che si arrampicano sul suo guscio grezzo. Me lo immagino così, mosso dalla corrente sotterranea, e dietro il plexiglas il viso sorridente di Vincent. Per sempre. Dopo questo progetto ce ne restammo un po’ tranquilli. Mio padre non si era accorto di niente, grazie al cielo. Ma Vincent sembrava non divertirsi più con la nostra attività creativa. Era pericolosa, e lui il pericolo l’aveva sperimentato. Quando gli chiedevo di venire con me nello studio alzava le spalle, borbottava qualcosa e continuava a occuparsi di quello che stava facendo. Ossia, perlopiù, niente. Ciondolava per casa, stava buttato sul letto o seduto in terrazza con compagni e compagne di scuola. La facilità con cui entrava in contatto con gli altri e l’insistenza con cui gli altri cercavano di avvicinarglisi mi sorprendevano. A volte si formavano gruppi di una decina o quindicina di suoi coetanei, in casa o fuori, e il centro era Vincent. Ci trovavo perfino alcuni miei compagni di classe che non mi rivolgevano mai uno sguardo, figurarsi venirmi a trovare. Solo dopo aver saputo che Vincent era mio fratello mi davano la mano nel cortile della scuola e iniziavano delle conversazioni farraginose. La loro presenza non mi ha mai entusiasmato. Mentre Vincent cercava di rendere sopportabile la noia dividendola con gli altri, io le riconoscevo il pieno diritto di presentarsi nella solitudine della mia stanza. Ascoltando la musica di un
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disco di Leonard Cohen, cercavo di leggere la traduzione inglese del libro di un meteorologo russo. L’autore celava in modo ingegnoso il vento, la pioggia, il freddo e il tepore dietro formule criptiche e un inglese a me incomprensibile. Ogni sera mi imponevo di leggere cinque pagine, nella convinzione che quella sofferenza mi avrebbe reso migliore, come altri si danno alla corsa o fanno cento flessioni. Avevo perduto Vincent. Mi divenne chiaro una sera che entrai in camera sua a cercare un mio vecchio progetto. Pensavo che Vincent non fosse a casa e, immerso nei miei pensieri, come si dice, entrai nella sua stanza, che era molto simile a un ripostiglio. Il tavolo, spostato sotto la finestra, era disseminato di fogli e di altre cianfrusaglie. Anche il pavimento era ricoperto di ogni genere di cose. C’era una luce fioca che veniva da un abat-jour posato a terra in un angolo della stanza. Perciò mi accorsi solo troppo tardi che sul letto c’erano due corpi. In realtà li vidi solo quando uno dei due si tirò su coprendosi il seno con il lenzuolo. Vincent imprecò. Tirò giù di nuovo il corpo seduto contro il suo. Lui aveva sedici anni, la ragazza si era tolta la camicetta. Ero troppo sbalordito per riuscire a reagire alla sua imprecazione e al risolino di lei. Facendomi strada in quel macello cercai di raggiungere la sua scrivania. I fogli che cercavo dovevano stare lì da qualche parte. Andai a sbattere un paio di volte contro un cumulo di carte, una scatola piena di cose non riconoscibili e un mucchio di vestiti, senz’altro sporchi e inutilmente in attesa di una lavata, poiché mia madre si rifiutava di entrare nella stanza di Vincent. Mi girai, cercai un punto dove posare il piede mentre mi rendevo progressivamente conto di quanto la situazione fosse imbarazzante. Infine Vincent saltò giù dal letto - grazie al cielo aveva ancora i jeans addosso - e con un paio di calci ben assestati mi sbatté fuori dalla sua stanza. Mi consolavo con la meteorologia. In stanza avevo una stazione meteorologica, costituita da tre piccoli apparecchi di misurazione di forma rotonda: un barometro, un igrome-
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tro e un termometro. Fuori, davanti alla mia finestra, avevo collocato a terra un pluviometro che, grazie a un piccolo binocolo, potevo leggere dalla mia camera. In una delle scanalature della finestra avevo anche fissato un termometro che mi permetteva di misurare la temperatura esterna. Il fiore all’occhiello del mio laboratorio meteo, come mi piaceva chiamarlo, era un anemometro di mia costruzione. Avevo legato una lunga asta all’antenna sul tetto. All’estremo superiore avevo montato un piccolo mulino a vento costruito mettendo insieme una stanghetta metallica e una serie di cucchiaini da caffè. Mia madre era andata brontolando ben quattro volte da Blokker2 - ma dove andavano a finire ogni volta quei cucchiaini del cavolo? Dal mulino partiva un lungo cavo che arrivava fino in camera mia. Lì, in mezzo alla mia scrivania, c’era un contagiri che avevo comprato per cinque fiorini da uno sfasciacarrozze locale. Era un grosso aggeggio rotondo, dal bordo cromato, con una finestra di vetro luccicante e una grossa lancetta bianca che si alzava quando il mulino a vento sul tetto si metteva a girare. Attraverso il numero di giri misuravo in Beaufort la forza del vento grazie a una formula complicata che avevo in parte ricavato dal libro di meteorologia. Dopo aver ripetuto i calcoli varie volte - in un giorno assolato di primavera con vento debole fissai a 13 la velocità del vento - i miei risultati coincidevano con le previsioni riportate dal giornale. Volevo mostrare a Vincent l’apparecchiatura mentre era in funzione. Non mostrò alcun interesse. La sera che mi aveva buttato fuori della sua stanza mi dedicai a fare previsioni del tempo per quel giorno e arrivai soddisfatto alla conclusione che erano esatte. Più tardi mi sono reso conto che i dati di cui disponevo non consentivano alcuna previsione accurata, e che i risultati erano esatti per puro caso, ma in quel momento pensavo di dominare la 2
Catena di negozi di articoli per la casa (NdT).
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materia. Leniva la sofferenza. Il mondo era in mio potere, come un indovino leggevo la verità del giorno dopo sull’apparecchio luccicante che stava sulla mia scrivania. Era ben altro che andare a letto con una qualche ragazza. Prima o poi l’avrebbe capita. Un giorno. Mio padre aveva notato il nostro allontanamento. Dopo avermi trovato un paio di volte da solo nel suo studio con la bibbia aperta davanti a me, cominciò a fare delle ipotesi. Apprezzavo la sottigliezza delle sue osservazioni. Non riguardavano mai Vincent, o me, o Vincent e me. Ma l’amicizia, la fratellanza, il fatto di diventare grandi, e altre cose generiche di questo tipo. Questo mi permetteva di fare lo gnorri. Annuivo, mi schiarivo la gola, sfogliavo le carte che avevo sul tavolo davanti a me senza rispondere neppure a una sola delle sue domande velate. Dopo l’anemometro non ho più costruito niente. Leggevo e calcolavo, ma in garage non ci sono più andato. In quarta Vincent venne bocciato. Era risultato insufficiente in tutte e sei le materie. Mio padre capovolse la sua pagella e proclamò che avevano scritto i suoi voti al contrario, ma anche se in quel modo somigliavano un po’ ai sette, i due e i quattro restavano la bocciatura numerica che erano. La conseguenza fu che Vincent, l’anno dopo, finì in classe con me. Il primo giorno di scuola andammo insieme alla nostra aula. Avevamo inglese con Schutte, un ometto dai baffi folti che in quell’anno scolastico avrebbe avuto una relazione con un’alunna dell’ultimo anno, che gli sarebbe costata il licenziamento. Vincent camminava davanti, spinse con forza la porta girevole e guardò con indifferenza le porte rosse con sopra i numeri bianchi che indicavano le aule. Salutò due ex compagni di classe che stavano varcando una porta ed entrò nell’aula di fronte. Riconobbi i miei compagni dell’anno prima. Vincent, senza prestare attenzione a nessuno, andò a uno degli ultimi banchi, si mise a sedere da una parte e posò
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la cartella dall’altra. Non erano graditi compagni di banco. Restò così per le prime settimane. Lo spettatore seduto in fondo alla classe, che durante la ricreazione mi si rivolgeva solo quando dovevo annunciare a casa che sarebbe tornato più tardi, o che non sarebbe tornato affatto - faremo i compiti fino a tardi - e che si intratteneva soprattutto con i suoi compagni dell’anno prima, un paio dei quali avevano già abbandonato gli studi e ogni tanto rispuntavano nel cortile della scuola. Mia madre accoglieva quei messaggi scrollando la testa, e mio padre imprecando tra i denti. Vincent aveva diciassette anni e riteneva di non dover dare spiegazioni a chicchessia. Tre settimane dopo ci fu una festa a scuola. Bevvi la mia prima birra e provai ancora più amarezza nel sentirmi solo in mezzo a tanti altri che, con tutta evidenza, si divertivano. I miei genitori mi avevano incoraggiato a andarci, con l’argomento che anche Vincent ci andava. Come se ciò avesse offerto sicurezza, protezione. Vincent arrivò intorno alle undici. Entrò sulla pista da ballo insieme a una ragazza che non conoscevo. Il suo modo di ballare richiedeva molto spazio, che gli altri gli concedevano ritirandosi uno a uno. Agitava le braccia e scalciava. La ragazza rideva, e anche un paio di ragazzi che erano entrati con lui e che si passavano tra loro una bottiglia. Poco dopo Vincent si stava azzuffando con uno studente dell’ultimo anno. Alcuni insegnanti cercarono di separarli. Prima che me ne accorgessi, Vincent, la ragazza e i suoi amici erano di nuovo spariti. Non mi importava più. Le lezioni di matematica e di scienze naturali cui assistevo nella nuova classe mi aprivano un nuovo mondo. Il calcolo differenziale e quello integrale mi offrivano degli strumenti per impadronirmi del cambiamento e mi avvicinavano alla vita vera. Il tempo non aveva mai svolto un ruolo nei miei calcoli, e di conseguenza era rimasto un concetto irreale, la cui funzione era soprattutto quella di regolare in qualche modo il disordine umano. L’orologio, che obbliga a frammentare il giorno, che cela
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paure e speranze in agguato dietro i numeri inesorabili e che ci incalza. Il tempo è diventato importante solo quando sono riuscito a dargli il posto che gli spettava. Tornai nello studio di mio padre a consultare la bibbia. C’erano dei progetti di veicoli, alcuni azionati a forza di muscoli, altri a motore. Tramite la potenza, l’accelerazione e la velocità cercai di farmi un’idea della loro realizzabilità. Mio padre sfogliava uno dei suoi libri seduto davanti alla libreria e fumava una sigaretta dietro l’altra. A volte schioccava la lingua con ammirazione, poi tornava a sospirare con disapprovazione. Non parlava mai di Vincent. In quell’anno scolastico passammo una settimana di studio a Londra. La domenica prima della nostra partenza presi nervosamente la mia borsa. Mia madre, senza una parola, gettò sul mio letto delle cose che ficcai nella borsa da viaggio cilindrica. Vincent l’aveva buttata fuori della sua stanza quando era andata a aiutarlo. Dalla stanza di Vincent arrivava musica a tutto volume. Mia madre continuava ad avere gli occhi arrossati. Ispezionai a lungo l’anemometro sulla mia scrivania, che si muoveva appena perché non tirava vento. Fuori c’erano un grado o due sotto zero. Udii mia madre chiudere l’armadio e lasciare la stanza. Mi misi a sedere sul letto, accanto alla borsa semivuota, e pensai a quale libro portarmi. Più di tutti desideravo portarmi il libro di matematica ma il rischio di farmi beccare dai miei compagni mi tratteneva dal prenderlo. Infine scelsi quello di meteorologia. Grosso e pesante, occupava lo spazio rimasto nello zainetto. Cercai di chiudere la cerniera, ma il libro era troppo grande. All’improvviso Vincent entrò nella mia stanza. “Allora, furbacchione, hai ancora un po’ di posto in quel baule? La mia borsa è già piena e questa roba me la devo portare assolutamente.” Gettò sul letto un paio di stivali neri a punta da cowboy
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e due jeans. Scossi la testa e indicai la sacca che era sul punto di scoppiare e che ero appena riuscito a chiudere con grande sforzo. Riaprì la cerniera e tirò fuori il libro. “Cristo, non vorrai mica portarti questo, idiota. Sarà una settimana di festa, capito?” Tirò il libro sulla mia scrivania, mancando di un soffio l’anemometro, e cominciò a infilare la sua roba nella borsa. Riuscì a chiudere la cerniera. “Allora, tante grazie. E fai in modo che sia una settimana divertente. Non te lo scordare, professore.” Gli studenti venivano ospitati da alcune famiglie. Incontrammo i nostri genitori, fratelli e sorelle provvisori nell’aula di una scuola della zona nord di Londra. Era un edificio grande e vecchio che per via del vetro rotto della porta d’ingresso e dei muri scrostati dava l’impressione di essere abbandonato. Solo dall’odore si capiva che c’era gente che lo frequentava. Molta gente. Non era un odore specifico - sudore, urina, profumo - ma un odore indefinito di corpi umani, della cui assenza ci si accorge immediatamente entrando in una casa abbandonata. Il signore che era venuto a prenderci alla stazione ci precedeva nel lungo corridoio. Accanto a lui c’erano due degli otto insegnanti che erano venuti con noi. L’aula era in fondo al corridoio, isolata da due alte porte a battenti. Quando la nostra guida le aprì ed entrammo nel locale, risuonò un applauso incerto. Neanche il tempo di rendercene conto e un gruppo di ragazze in uniforme ci cantò una canzone di benvenuto. Mi girai a guardare Vincent che stava accanto a un ragazzo con cui aveva bevuto un bel po’ di birre sul traghetto notturno. Era pallido, livido e aveva la fronte e il naso lucidi. Guardava fisso davanti a sé, come tutti gli altri. Quando finirono di cantare, applaudimmo. Con più fervore degli inglesi, ma sarà stato certamente per il sollievo. Si trattava di un programma di scambi. Una classe della scuola inglese era partita per i Paesi Bassi e in quello stesso
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momento veniva accolta dalla nostra. Erano ospiti di alcuni dei nostri genitori - non i miei, che non si erano offerti - così come noi alloggiavamo dai loro. Schutte chiamò i nostri nomi uno a uno, noi facemmo un passo avanti, sempre a gruppi di due, e venimmo presentati ai genitori che ci ospitavano. Vincent e io fummo chiamati insieme. Schutte ci presentò a un omino con dei baffetti sottili sottili, a una donna che lo staccava di tutta la testa e era senza dubbio larga il doppio di lui, e a una bambina sui dieci anni, che dandoci una mano molle si presentò come “Heather.” Vincent si presentò come “Vince” e assunse un forte accento americano. Io cercai di scandire il mio nome Ytze - ma lo feci in modo così incomprensibile che l’omino alla fine mi batté sulle spalle come se volesse farmi uscire i suoni dal petto. Quel pomeriggio salimmo nell’auto familiare e andammo a casa dei Fairfields. Heather si sedette in mezzo a noi e chiacchierò senza sosta in un inglese per noi incomprensibile. Ogni tanto la madre si girava e le diceva qualcosa. L’uomo che si era presentato come “Richard” si limitò a gettare uno sguardo di tanto in tanto nello specchietto retrovisore e a sollevare il pollice. I Fairfields avevano altre tre figlie. Daisy aveva diciannove anni e ci guardava allo stesso modo di sua madre, scambiò un paio di frasette in inglese e se ne tornò in camera sua. Aveva i capelli lunghi e lisci e il viso coperto di strane cicatrici, come se la pelle fosse così tirata da strapparsi in vari punti. “Una strega”, sussurrò Vincent mentre le stringeva la mano sorridendo amichevolmente. La seconda figlia ci fu mostrata in una foto in cui sorrideva sorpresa in mezzo alle sorelle. Era partita per i Paesi Bassi e ora si trovava a casa di un mio compagno di classe. Nella foto somigliava molto alla sorella maggiore. La terza, Buttercup, era un altro paio di maniche. Aveva i capelli biondi e luminosi che le scendevano ondulati sulle spalle, le fossette sulle guance quando sorrideva e una pelle
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meravigliosa. Nella luce pomeridiana essa acquistava un vago splendore. Si vedeva chiaramente. Nello sguardo di Vincent, nello sguardo di Buttercup. I suoi occhi scivolarono su di me per poi posarsi di nuovo rapidamente sulla sua faccia livida. La sua mano sfiorò la mia per poi afferrare rapidamente la sua. “Bella gnocca”, commentò Vincent più tardi mentre disfacevamo i bagagli in camera nostra. Esploravamo Londra. Le strade con il traffico che scorreva al contrario. Dove cento volte al giorno si rischiava di venire schiacciati da un’auto che arrivava dalla parte sbagliata. Dovevamo tornare con una certa regolarità in quell’edificio coi vetri rotti e i muri scrostati per fare conversazione, giochi di ruolo o altre attività intese a migliorare la nostra conoscenza dell’inglese. Vincent mancava la metà delle volte. Sapevo che si era dato appuntamento in città con Buttercup, e dicevo che non si sentiva bene. La sera mangiavamo dai Fairfields. Vincent sedeva incastrato tra Daisy e Buttercup, usava i vocaboli più eleganti e sembrava impressionare perfino la più grande delle due. Io sedevo dall’altra parte del tavolo accanto alla piccola Heather. Ciarlava come il primo giorno ma avevo imparato a capirla. La sua voce stridula che si interrompeva e ricominciava continuamente non ostacolava più la comprensione di quel che diceva. Mi teneva occupato. I genitori, seduti come si conviene a capotavola, mangiavano in silenzio. Vincent non si occupava di me. Il suo letto restava spesso vuoto fino a tardi. Io combattevo con un libro sul Big Bang in inglese che avevo trovato in una libreria dove era ammassata una quantità incredibile di volumi, occupavano ben dieci piani. Quando mi ero ormai assopito già tre o quattro volte su quelle pagine dall’odore acidulo, arrivava Vincent. Con lo sguardo allegro, un ampio sorriso e canticchiando una canzoncina che aveva imparato. Parlava di Buttercup.
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Il venerdì mattina di quella settimana - io mi ero appena svegliato - Vincent mi tirò un opuscolo sul letto. Lessi “Science Museum”, vidi un paio di foto (una macchina a vapore e un aereo supersonico) e compresi il suo messaggio. Saltammo il pomeriggio conclusivo, in cui le ragazze del coro che ci avevano accolto avrebbero cantato di nuovo. All’ora di pranzo - un panino avvolto in carta oleata e farcito con un formaggio che sapeva di gomma - attraversammo in fretta l’alto corridoio, sfiorando la vernice che cadeva a pezzi, e spalancammo la porta coi vetri rotti. La libertà che aspirammo a pieni polmoni spinse Vincent a darmi delle pacche sulle spalle. Prendemmo la metropolitana. Spostamento segreto. Compressi tra i viaggiatori - alti e bassi - sfrecciammo sotto la città. Dove Schutte, gli altri insegnanti e Richard Fairfields non potevano raggiungerci. Quando riemergemmo in superficie, la città aveva un aspetto diverso. Le strade erano più larghe, gli edifici più alti, le voci più insignificanti. Seguimmo i cartelli. Vincent mi teneva per le spalle e mi spingeva avanti. Lo Science Museum. A volte lo sogno. Sono bei sogni. Ben diversi da quelli che faccio su Vincent. Entriamo dentro. Gli spaziosi locali zeppi di frutti della tecnologia - frutti del superfluo, secondo Ortega y Gasset, pura arte quindi. Tra i ritrovati in mostra, nei miei sogni, vedo realizzati i progetti della bibbia. Sono sogni erotici, davvero, ma non nel senso volgare che si intende di solito. A ogni piano saliva anche la nostra eccitazione. Era come essere tornati nei boschi di Drenthe, a costruire capanne. L’impazienza di Vincent era superiore alla mia. Correva da una bacheca all’altra. All’ultimo piano stavano appesi i velivoli. Uccelli in gabbia che mostravano minacciosi la loro capacità di restare immobili. Eravamo pieni di ammirazione e lo sapevamo. Lo sapevamo.
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Ah, ero felice. Eravamo tornati, in tutti e tre o quattro i sensi. A casa, a scuola, dal mio anemometro e a essere uniti fra noi. Ricominciammo a dedicarci alle costruzioni! Dopo il batiscafo tornavamo finalmente a occuparci di qualcosa. La sera del nostro rientro a casa eravamo andati nello studio. Mio padre non c’era, grazie al cielo: se ci avesse trovato lì avrebbe sbattuto fuori Vincent, ne sono certo. Presi la bibbia senza pensarci, la forza dell’abitudine, e guardai Vincent con un sorriso mentre scioglievo i lacci neri ormai logori. Posai la cartella aperta sulla scrivania. Non avevo bisogno di sfogliare le tavole ingiallite e arricciate ai margini. Come per istinto infilai l’indice in mezzo al mucchio di carte. Quando sollevai il mucchietto di sopra e lo posai sulla copertina aperta, apparve quello che cercavo. Era un progetto, certo, ma diverso dagli altri, più realistico, quasi più frivolo. In mezzo al foglio c’era un’illustrazione dimostrativa. Un uomo seduto su una bicicletta e con un ampio sorriso. Le mani sul manubrio e le gambe aperte. Faceva pensare a un manifesto pubblicitario. La velocità del ciclista era suggerita abilmente dalla sciarpa che sventolava
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dietro accompagnata da lineette aggiuntive e dai cerchi concentrici disegnati subito dietro il portapacchi. La bicicletta aveva le ali, come un aeroplano. Ciò spiegava forse lo sguardo spaventato che neppure il baffo marziale del ciclista bastava a nascondere. Era l’unico disegno della bibbia nel quale erano stati impiegati anche i colori. La sciarpa era viola, il vestito attillato del ciclista giallino e sotto la bicicletta era stato usato dell’azzurro. La bici volava. Le parti della bicicletta erano state cerchiate e collegate con una linea al relativo disegno particolareggiato. Lì il progetto ridiventava come gli altri. Astratto, tracciato con spesse linee nere accompagnate da piccoli numeri o indicazioni criptiche. In alto, sul foglio, esattamente al centro, stava scritto a caratteri pieni di svolazzi “La bicicletta volante.” Le mani mi tremavano quando sollevai il foglio. Vincent vi si chinò sopra e osservò il disegno. Lo avevo fissato nei mesi precedenti, sera dopo sera, mentre mio padre dietro di me brontolava fumando le sue sigarette. Quel progetto era l’unico realizzabile dell’intera cartella. Il resto era fantascienza. Anche il batiscafo, come si era visto. Ma quella bicicletta volante potevamo realizzarla. In garage, con gli strumenti su cui riuscivamo a mettere le mani. Vincent prese il disegno dalle mie mani e lo studiò alla luce del lampadario. Rise, per quell’idiota sulla bici, forse, che se la faceva chiaramente sotto. Lo guardò e lo riguardò. Sembrava essere passata un’eternità quando annuì eccitato esclamando: “Questo lo faremo.” Come se me lo avessero ordinato, richiusi la cartella, annodai i lacci e rimisi il tutto al suo posto nella libreria. Guardai la scrivania e poi di nuovo la cartella, nascosta tra gli scaffali nella penombra. Guardai Vincent che teneva il disegno in mano. Mio padre non si sarebbe mai accorto che avevamo infranto il suo divieto. Vincent assunse la regia delle operazioni. L’esperienza del
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batiscafo lo aveva reso prudente. Non voleva neppure che mio padre si immischiasse nel nostro nuovo progetto, cosa che escludeva il garage dai possibili cantieri. Un tardo pomeriggio di quella primavera mi condusse a un magazzino di granaglie abbandonato ai margini del paese. La cupa luce che aveva gravato livida tra le case per tutto il giorno - nessun vento apprezzabile, aveva affermato il mio anemometro - si era già confusa con l’oscurità della notte incipiente. I lampioni illuminavano solo le poche strade dove ci si poteva attendere un po’ di vita degna di questo nome. La strada che portava al magazzino non era tra queste. Il magazzino era senza dubbio un edificio alto, se paragonato al resto del paese. Perfino la chiesa, che era in realtà una grossa casa con una torretta in mezzo al tetto, era alta appena la metà. Il magazzino aveva una terrazza e, a giudicare dalle finestre, contava cinque piani. Da un lato c’era il canale che attraversava il paese. Una diga di cemento segnava il luogo dove un tempo attraccavano le barche impegnate nel carico e nello scarico delle merci. L’acciottolato del molo, dove non era già stato divelto per far spazio a vialetti tra le aiuole e terrazze, era invaso dalle erbacce. Sull’altro lato, quello del retro, l’edificio confinava con dei prati che si stendevano fino alla città, quindici chilometri più in là. La strada sterrata che prendemmo noi sbucava sul molo. Vincent conosceva un’entrata. Uno dei pannelli usati per sprangare le finestre più basse lungo uno dei lati, era mezzo rotto. Chinandosi era possibile penetrare da lì nell’edificio. L’odore non era cambiato. Anni prima c’ero andato spesso. Il padre di un mio amico lavorava lì e noi ci andavamo regolarmente ogni mercoledì pomeriggio. Allora quello spazio era pieno di gente in movimento, di sacchi di farina ammucchiati in alte cataste, e di una sottile polvere gialla che aleggiava tra i raggi di luce che penetravano all’interno. Quando io e Vincent entrammo i locali erano bui; il vago chiarore che filtrava attraverso l’apertura aveva già perso la sua forza prima di arrivare all’interno. Mio fratello accese un
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accendino. La fiamma, ingrandita dal suo flessuoso ondeggiare, si diffuse per il locale. C’era del ciarpame qua e là. Un mucchio di sacchi di juta, delle assi, scatole vuote, una vecchia bicicletta. Vincent andò a un angolo dell’edificio. Sembrava sicuro del fatto suo, come se anche lui ci fosse stato spesso. In quell’angolo c’era una zona delimitata da una parete lunga e da una corta che si interrompevano a metà strada in qualche punto del locale. Nella parete lunga c’era una finestra che rifletteva la fiamma dell’accendino di Vincent; in quella corta si apriva una porta. Vincent imprecò per essersi bruciato il pollice sulla fiamma ondeggiante. La luce si spense e lo sentii aprire la porta. Una volta scivolati dentro, riaccese l’accendino. Scorsi una bicicletta, delle lunghe assi, due rotoli di carta da parati e un mucchio di ferri. “Questa sarà la nostra officina, maestro. Ho già racimolato un po’ di cianfrusaglie. Qui non ci viene nessuno e ho anche una chiave di questo ripostiglio.” Sollevò una chiave con l’altra mano. Poco dopo attraversammo di nuovo l’ambiente oscuro. In lontananza intravedevo il vago chiarore che filtrava dall’apertura. A un certo punto Vincent si fermò e riaccese l’accendino. La luce si rifletté contro una ripida scala di legno che portava al piano superiore. “E guarda: da qui si accede alla nostra piattaforma di lancio.” Risi, come mio solito, come per riflesso, senza aver davvero capito le parole per cui si riteneva che ridessi. Solo più tardi, mentre ero sdraiato sul letto, mi tornò in mente quella scala. C’ero già stato una volta. In un momento in cui suo padre non badava a noi, io e il mio amichetto ci eravamo arrampicati di sopra. Su per la scala che mi aveva mostrato Vincent e poi per quella successiva, che portava ancora a un piano più alto, e poi un altro, e ancora un altro. Finché giungemmo all’ultimo pavimento di legno e salimmo la scala che,
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attraverso una botola, portava sul tetto dell’edificio. L’unica volta che eravamo usciti da quella botola - non mi ero trascinato neppure un metro oltre l’apertura - osservando dall’alto i tetti e le strade conosciute, piene di piccole figure che cercavo di riconoscere, e i prati, provai la sensazione di essere uscito fuori dal mondo. La mia prima attività fu quella di analizzare il disegno di mio nonno. Decifrare gli scarabocchi accanto ai tratti, separare le linee principali dai particolari, eliminare le bizzarrie estetiche. Fantastico. Passavo tutto il tempo libero nella mia stanza. Sul piatto del giradischi, Bachman-Turner Overdrive ricominciava una volta dietro l’altra, un disco datomi da Vincent, che ormai ne era stufo, e io disegnavo e calcolavo. Ero felice. La vita è crudele. Viviamo sempre il nostro momento di gloria nella convinzione che sia un inizio. In capo a un paio di settimane avevo elaborato un progetto che comprendeva trenta pagine di testo. Più una ventina di disegni, visioni d’insieme e particolari. Quando gli passai il tutto, Vincent mi guardò con un sogghigno. Si mise a ridere sbuffando, in modo offensivo. Gettò i fogli sulla sua scrivania, che continuava a essere un macello. “Cristo, ma di’ un po’, ti sei messo a fare un’enciclopedia? Non so se lo sai, ma io ho cominciato già da un pezzo. Quella carcassa ormai è quasi pronta a spiccare il volo.” Esagerava. Attendeva il mio giudizio espresso in cifre e l’attesa gli era parsa eccessiva. La paura che avevo visto nei suoi occhi quando l’avevo tirato a riva dopo la sua avventura sott’acqua, non era mai scomparsa del tutto. Non avrebbe mai costruito la bicicletta volante senza il supporto dei miei calcoli. Facemmo degli esperimenti sul molo. Dopo che Vincent ebbe costruito un’elica stupenda, elaborammo un test per misurare la forza propulsiva prodotta pedalando sulla bicicletta. Rimediai da qualche parte una molla da trazione, che
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indicava su uno schermo la forza espressa in Newton. Allungandola si poteva collegare la molla al carrello su cui era fissata l’elica. Il carrello poteva scorrere per un tratto lungo quel che restava dei binari a scartamento ridotto fissati sul molo. Vincent pedalando azionava l’elica tramite la cinghia di trasmissione di una vecchia auto. L’esperimento confermò i miei calcoli, tralasciando l’attrito prodotto dai binari arruginiti. Lavoravamo nel ripostiglio che una volta era stato un ufficio. Vincent aveva tolto il pannello che ostruiva la grande finestra sul muro esterno. Dall’apertura filtrava molta luce e si godeva di un’ampia vista sui prati che si stendevano fino all’orizzonte. Dopo il lavoro risistemavamo il pannello con quattro mollette ben piazzate. Lì vedevo Vincent dare vita ai miei pensieri. Perché io la vedevo così: i miei pensieri, non quelli di mio nonno. Lui mi aveva solo dato l’ispirazione. Il diametro degli ingranaggi, la velocità di rotazione dei pedali e il modo in cui essa veniva trasmessa all’asse su cui era fissata l’elica, lo spessore e la lunghezza dell’asse, erano tutte cose che avevo calcolato da solo. Sulla scorta infallibile delle leggi generali e dei presupposti essenziali applicabili alla nostra bicicletta volante. Possiedo ancora la perla della bicicletta volante, una stanga luccicante con un pomello di legno. Una leva del cambio che, sia detto chiaramente, non serviva per passare da una velocità a un’altra, ma da un mondo a un altro. Quella leva, costruita e smerigliata da Vincent, era fissata alla canna della bicicletta e serviva a trasferire la rotazione impressa dai pedali dalla ruota posteriore all’elica. In tal modo, con un semplice spostamento della leva, si poteva passare dall’andare in bicicletta al volo. Quel pezzo mi aveva procurato parecchi grattacapi. Nell’illustrazione di mio nonno era stato disegnato e descritto facilimente con un tratto di penna. I particolari erano stati saggiamente trascurati. Il problema era che bisognava cambiare ad un’alta velocità, esercitando in tal modo una forza
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notevole sul meccanismo del cambio. I costruttori di macchine e di altri veicoli hanno le loro soluzioni per questo aspetto. Per loro è una passeggiata, ma per un principiante, un dilettante come me era un gran mistero. La tendenza naturale, quando ci si trova di fronte a problemi del genere, è quella di fare il passo troppo lungo. Nella mia prima bozza di progetto davo per scontato che bisognasse pedalare a tutta forza e solo dopo attivare l’elica, di modo che quest’ultima passasse istantaneamente da zero al massimo dei giri. La realtà era che la forza di rotazione doveva essere attenuata da leve e ingranaggi, costretti a subire la lentezza dell’elica. Il risultato degli esperimenti furono scricchiolii della barra di trasmissione e fessure negli ingranaggi. Vincent che cadeva a terra imprecando perché la bicicletta si bloccava all’improvviso. La lentezza non è una pecca, è una caratteristica essenziale di tutto ciò che occupa spazio. La mia scoperta fu quella della propulsione ibrida, che consisteva nel trasferire gradualmente la forza di rotazione dei pedali sia alla ruota posteriore che all’elica. In questo modo l’elica cominciava a girare come doveva, mentre la ruota posteriore assicurava la propulsione. Una volta raggiunta una buona velocità restava in azione solo l’elica. Impercettibilmente, furtivamente, l’apparecchio passava dalla sfera terrena a quella eterea. Per ottenere questo risultato bisognava azionare quattro volte la leva del cambio. Il modello finale, il cambio a quattro marce, fu realizzato da Vincent in modo ineguagliabile. Il cuore prese a battermi quando vidi la bicicletta volante nel ripostiglio, bagnata dalla luce della sera che filtrava dalla grande finestra rettangolare. Accanto c’erano le ali e l’elica, che erano fatte in modo da poterle togliere facilmente quando occorreva trasportare il tutto. Le ali erano costituite da un’intelaiatura di legno ricoperta di tela, che Vincent aveva trafugato da una rimessa in cui erano custodite delle barche. Con ago, filo e tiranti, era riuscito abilmente a tendere la tela sul telaio. Sulla faccia
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inferiore delle ali aveva dipinto a grandi caratteri neri le nostre iniziali, le mie sull’ala sinistra, le sue sulla destra. Quella sera facemmo l’ultima prova. Non lontano dal magazzino c’era una stradina di campagna che portava a una fattoria deserta. Sulla strada arcuata e punteggiata di buche profonde e pericolose, non passava più quasi nessuno. Quindi di sera era un luogo sicuro per effettuare una prova. Vincent montò le ali e l’elica sulla bicicletta. Quando fu pronta saltò in sella. Due spesse stanghe munite di rotelle alle estremità sostenevano la bicicletta e tenevano la struttura in equilibrio. Io dovevo solo spingere o tirare un po’. Vincent cominciò a pedalare. La ruota posteriore sollevata dal terreno cominciò a girare. Al manubrio era fissato un piccolo mulinello, intorno al quale era avvolto un fil di ferro collegato con le due rotelle. Girandolo, Vincent poteva sollevare lentamente le rotelle. Era una sua trovata, nel mio progetto non c’era. Ciò gli permetteva, una volta che la ruota di dietro aveva toccato terra, di avanzare ancora per un tratto sostenuto dalle ruote laterali. Lo vidi partire. Avrei voluto dire ancora qualcosa ma l’aria fredda della sera mi rinsecchì la voce e un mormorio rauco e inarticolato fu tutto quel che riuscii a tirar fuori. Poco a poco acquistò velocità. Dapprima oscillando, sbandando da un lato all’altro della strada, con le ali che cercavano a turno di trascinarlo a terra. Poi più diritto, più orizzontale. Vedevo l’elica cominciare a girare. Lui pedalava e cambiava, la ruota posteriore girava e spingeva, e l’elica si andava scaldando. Gli correvo dietro, ma si allontanava. Mi distanziava sempre più rapidamente, ma restavo abbastanza vicino da vedere l’elica girare sempre più veloce. E lui innestare l’ultima marcia, quella che, col moto dei pedali, alimentava solo l’elica. Rallentò appena, ma continuò a procedere. In quel momento mi mancò il respiro e caddi lungo il ciglio della strada. Chiusi gli occhi, vidi esplosioni, lampi,
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fulmini e altro ancora nell’oscurità dello sguardo puntato dentro di me. Il cuore sembrava volermi uscire dal petto e batteva forte contro la cassa toracica. Faceva male, ma ero felice. Felice quanto Vincent che poco dopo si fermò accanto a me con la bicicletta volante, rimise l’apparecchio sulle rotelle e scese gridando. Mi si lanciò addosso, mi baciò, mi sollevò dall’erba bagnata e ballammo come idioti sulla strada arcuata e butterata di crateri. “Mi sono alzato da terra. Te lo giuro, mi sono alzato!” Continuava a gridare queste parole e io gli credevo. Ripensandoci adesso mi sembra improbabile che quella sera per un istante si sia sollevato da terra, ma allora ci credevo ciecamente. Certo che si era sollevato. In fin dei conti era una bicicletta volante. Tornati al magazzino, rimessa la bicicletta a posto sotto un telone arancione nel ripostiglio e richiusa a chiave la porta, ci andammo a bere una birra seduti sul molo. Si era fatto buio. In lontananza si udiva lo scoppiettio di un motorino. L’acqua era ferma, luci liquide vi galleggiavano sopra in cerchi. Sull’altra riva c’erano due case, l’una vicina all’altra. Una aveva le finestre illuminate. Il mio amico Vincent - a scuola era sempre il fratello che manteneva le distanze - mi diede una pacca sulle spalle e disse: “Domenica prossima. Al mattino presto, quando qui sono tutti in chiesa o ancora a cuccia.” Annuii e mi godetti la birra, che avevo imparato a bere. Quella domenica mattina mi svegliai presto. La sveglia segnava le sette e fuori si intravedevano le prime luci del giorno. Cercai di mangiare un panino nella cucina silenziosa. Non ci riuscii. Presi una mela e gettai anche quella nelle immondizie dopo un solo morso. Almeno un bicchier d’acqua riuscii a mandarlo giù. Guardai il mio respiro precipitare all’interno del bicchiere gelato. L’orologio a pendolo, che non segnava mai l’ora esatta, ticchettava nella casa vuota. Fuori vidi il gatto seduto sul pontile, una figura confusa nella
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luce putrida del mattino. Quella notte Vincent non aveva dormito a casa. I miei genitori erano convinti che fosse andato da un compagno di scuola dopo una festa notturna. Io sapevo la verità. Quando giunsi nei pressi del magazzino lo trovai seduto sul molo al freddo sole del mattino. Un bicchiere di caffè in mano, il respiro condensato in nuvole, come fumetti lasciati in bianco. Aveva dormito nel ripostiglio accanto alla bicicletta volante. Bevvi il resto del caffè dal suo bicchiere mentre mi raccontava quel che aveva già fatto. Aveva già trascinato di sopra le ali e l’elica. La bicicletta ce l’avremmo portata insieme. Cerco di ricordare come era quella mattina. La luce che spuntava lentamente sul pelo dell’acqua, color rossoarancio. Il vento che volteggiava senza decidersi a prendere una direzione. Ma ogni volta mi accorgo che sono tutte fantasie. Vincent era seduto al sole quando arrivai, di questo sono certo, ma il colore della luce, la direzione del vento e i suoni che udii prima di entrare nuovamente nell’edificio, li ho dimenticati. A volte ho pensato che erano gli elementi del sogno che feci la mattina della decisione, ma anche quel sogno appartiene al passato, e se mi pongo la domanda divento nervoso. Entrammo nell’edificio. Abbandonai il bicchiere in mezzo all’erba sul molo. La bicicletta era perfetta. Nera e lucente, solida, trasmetteva con ogni sua parte la sicurezza che provavo fin dal giorno in cui effettuammo il test nella stradina sul retro, quella volta che Vincent si sollevò da terra. Vincent portò la bicicletta dal ripostiglio alla scala di legno. Afferrò la ruota davanti e cominciò a salire. Io la presi per il portapacchi e lo seguii. Vincent doveva chinarsi per reggere la bicicletta. La testa gli si faceva più rossa man mano che salivamo. Lui imprecava, io spingevo la bicicletta verso l’alto, lui tirava. Così ci trascinammo su, gradino dopo gradino. Finché giungemmo all’ultima ripida scala. Notai che Vincent aveva aperto la botola. Il pallido cielo del mattino
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spuntava attraverso il passaggio aperto nel rivestimento in legno marrone scuro. Aspettammo un istante e alzammo lo sguardo. Vincent disse che ora toccava a me andare avanti. Sorrideva, ma aveva lo sguardo impaurito. Così arrivammo sul tetto. Io piegato sulla bicicletta, con i raggi che mi tagliavano le dita, e Vincent che spingeva il portapacchi e mi incitava ad andare avanti. Quando la bicicletta fu pronta e collocata sul cavalletto, Vincent tirò fuori dalla tasca interna della giacca una cuffia di pelle da aviatore. Mi sorrise, la indossò e lanciò un grido di entusiasmo con le braccia alzate al cielo. Mi sembrava un deficiente, ma esultai insieme a lui. Il paese in basso era deserto. Il mio orologio segnava le dieci. Erano tutti a letto o in chiesa. Nessuno ci avrebbe visto. Tenevo la mano sul sellino. Stavamo così: Vincent con la cuffia da aviatore in testa a destra della bicicletta e io a sinistra, con la mano sul sellino, pronto a slanciare una gamba verso l’alto e a montarci sopra. Vincent mi guardò prima sorpreso e poi inquieto. Si avvicinò alla bicicletta e afferrò il manubrio. Lasciai la mano dov’era, solo per un istante, poi la ritirai. Vincent si sedette sulla bicicletta volante e ripeté le operazioni del giro di prova. La ruota posteriore che iniziava a muoversi, le stanghe che venivano sollevate, di modo che la ruota si avvicinava sempre più al suolo, e poi la partenza. Io spingevo. All’inizio sbandava, ma man mano che acquistava velocità riusciva a procedere più regolarmente. Disegnava ampi cerchi sul tetto del magazzino intorno alla botola dalla quale eravamo usciti. Lo vidi azionare il cambio. Spostò la leva in avanti, mettendo lentamente in movimento l’elica, poi la spostò di nuovo indietro. “Pedalare. Volare. Pedalare. Volare.” La sua voce squillava sulla superficie piatta su cui continuava a tracciare cerchi. Andava sempre più veloce. Lo vidi alzarsi in piedi sui pedali facendo oscillare paurosamente la bicicletta. Il movimento era assicurato ancora soltanto dalla
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ruota posteriore, poiché aveva smesso di cambiare. Quando raggiunse la massima velocità uscì dal cerchio. Puntò dritto verso i prati verdi che si perdevano in lontananza. Oltrepassò il bordo della terrazza. Vidi la ruota posteriore continuare a girare, vidi lui azionare il cambio. Per un istante l’elica si mosse, ma poi i suoi piedi sembrarono girare a vuoto. Tirò di nuovo la leva. Poi la bicicletta volante si rovesciò in avanti, l’ala destra si piegò verso l’alto con uno schiocco. Sembrava un gesto disperato, poi vidi Vincent liberarsi della bicicletta volante che precipitava. Il suo corpo che si inabissava al suolo, con i due lacci della cuffia da aviatore come inutili ali, è l’ultima immagine che ho di lui.
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