La ragazza gigante della contea di Aberdeen di Tiffany Baker

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La

della

“Troverete grazia e senso in una parvenza inusuale che segnano l’avvento di un nuovo talento letterario.” – BookReporter.com – “Ti afferra dal suo inizio sorprendente al suo incantevole epilogo. Un amore assolutamente unico, un’amicizia devastante e la stregoneria, il tutto racchiuso nel gigantesco personaggio di Truly.” – Sara Gruen, autrice di Acqua per gli elefanti – www.zero91.com

€ 0

,9

18

ISBN 978-889538137-4

www.zero 91 .com

788895 381374

Grafica: zero91 s.r.l.

La ragazza gigante contea di A berdeen

“Incantevole... una eroina dei nostri giorni.” – USA Today –

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In copertina foto © 2008 Scott Nobles Photography

ragazza gigante contea di A berdeen

della

Tiffany Baker vive nella Contea di Marin (CA) con suo marito e i suoi tre figli piccoli. Sta lavorando al suo secondo romanzo.

Alla scoperta di Truly Plaice, una donna dallo spirito indomabile con il cuore molto più grande del suo gigantesco aspetto fisico, un po’ ippopotamo, un po’ strega e un po’ Cenerentola...

T i f fa n y Baker

Scoprendo però il segreto della famiglia Morgan, il libro delle ombre vecchio di secoli, nascosto da Tabitha, prima moglie-strega del dottore, avrà la possibilità di trovare la chiave per il suo unico futuro possibile. Armata dei pericolosi segreti del passato di Aberdeen, Truly affronterà presto decisioni morali in grado di cambiarle la vita. Praticando i suoi rimedi curativi a base di erbe, si sentirà sempre più saldamente legata al cerchio della città, finché non verrà a conoscenza di una rivelazione così enorme da farla apparire minuscola. Truly sarà costretta ad affrontare i propri demoni, ridefinire la pietà e prendere in considerazione la possibilità che l’amore non possa essere ordinato entro certe dimensioni.

romanzo

“Seducente... rigoglioso.” – Washington Post – “Un libro splendido.” – Boston Sunday Globe – “Meraviglioso.” – Chicago Sun-Times –

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Quando la madre di Truly Plaice rimase incinta, l’intera cittadina di Aberdeen si riunì per scommettere sul peso del nascituro che era stato capace di deformare così tanto la donna da farle assumere proporzioni epiche. La giovane Truly avrebbe pagato il prezzo della sua enormità. Suo padre la incolpava per la morte della madre avvenuta durante il parto ed era assolutamente mal equipaggiato per crescere la figlia gigante e sua sorella maggiore, nonché suo esatto opposto, Serena Jane, la personificazione della perfezione femminile. Mentre le notevoli dimensioni di Truly la rendono oggetto di curiosità e umiliazioni costanti, la bellezza di Serena Jane si dimostra essere una benedizione e una maledizione allo stesso tempo. Il fatto di essere la più bella ragazza della città la farà infatti diventare l’ossessione di Bob Bob Morgan, il più giovane del clan dei Morgan, dottori di Aberdeen da generazioni. Bob Bob darà il via a una catena di eventi che cambierà il destino dell’intera contea. Crescendo, in età e in larghezza, Truly si troverà sempre più legata al destino di Serena Jane diventando lei stessa uno degli obiettivi dell’intenso interesse di Bob Bob. (continua)



Tiffany Baker

la ragazza gigante della contea di

Aberdeen

Y romanzo

traduzione di Romina Valenza

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Titolo originale: The Little Giant of Aberdeen County Traduzione dall’inglese di Romina Valenza Copyright © 2009 by Tiffany Baker Tutti i diritti riservati © 2009 First American edition published by Grand Central Publishing. © 2011 zero91 s.r.l., Milano. Published by arragement with Grand Central Publishing, New York. The book was negotiated through Antonella Antonelli Literary Agency, Milano. I edizione: marzo 2011 ISBN 978–88–95381–37-4 La riproduzione di parti di questo testo, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma senza autorizzazione scritta è severamente vietata, fatta eccezione per brevi citazioni in articoli o saggi. Questo libro è opera di fantasia. Personaggi, fatti e luoghi citati sono inventati dall’autore o sono utilizzati a scopo narrativo. Ogni riferimento a fatti, luoghi e persone, vive o defunte, è puramente casuale. Stampato in Italia

Questo libro è stampato su carta FSC amica delle foreste. Il logo FSC identifica prodotti che contengono carta proveniente da foreste gestite secondo i rigorosi standard ambientali, economici e sociali definiti dal Forest Stewardship Council.

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Per Edward



Prima Parte



Prologo

R Il giorno in cui seppellii Robert Morgan fu un giorno straordinario per due ragioni. In primo luogo, sebbene fosse agosto, il cielo sopra di noi era tempestoso e freddo come un lago a gennaio; in secondo luogo, fu il giorno in cui io iniziai a rimpicciolire. Ricordo che stavo in piedi di fronte alla fossa ancora aperta, la terra melmosa e impastata come letame umido, in attesa che il corpo di Robert Morgan venisse calato. Gli altri presenti al funerale, sparpagliati, avevano iniziato a sentire freddo e ad andarsene, ma io stavo bene. C’erano strati e strati di me ripiegati a fisarmonica. CosÏ tanti che sarei rimasta al caldo anche nel bel mezzo di una tormenta. Avrei potuto stare nuda al Polo Nord e sentirmi ugualmente bene. Guardavo la bara che si inabissava lentamente nel terreno, le funi vellutate che scivolavano sotto il ventre come subdole vipere. Prima di morire, il dottore aveva scelto una cassa di mogano con rifiniture in ottone, foderata con satin di un tetro color marrone. Aveva persino portato a casa una foto da mostrarmi, e io l’avevo esaminata con circospezione. In un certo qual modo sembrava finta, qualcosa che ti aspetteresti 9


di trovare a Disneyland o in un museo delle cere. Era troppo perfetta. E adesso, mentre veniva posizionata con un unico tonfo sordo in quelle che sembravano essere le viscere della terra, capivo che sarebbe imputridita come qualsiasi altra cosa messa laggiù, ornamenti in ottone o meno. Mi immaginavo Robert Morgan adagiato nella cassa pretenziosa, i capelli leccati all’indietro come il pelo di una lontra, le dita affusolate intrecciate in un groppo sopra il petto, in attesa di giudizio. Per il suo funerale avevo scelto l’abito nero, il suo preferito; ne avevo spazzolato il tessuto scrupolosamente prima di consegnarlo all’impresario delle pompe funebri, insieme a una cravatta rigata arrotolata in una tasca, calzini e biancheria intima infilati in un’altra. Non riuscivo a capire il motivo per cui un morto dovesse aver bisogno di un paio di mutande, ma ormai era fatta. Se fosse stato Robert Morgan in persona a dare istruzioni, avrebbe insistito per avere anche del dopobarba, una cintura e un paio di gemelli, ma dal momento che non era più in grado di farlo, avevo lasciato quelle cose a casa. Adesso che il dottore era sigillato dentro la sua bara e non l’avrei mai più rivisto, mi chiedevo in che modo il becchino si fosse ingegnato per fissargli i polsini della camicia. Aveva forse da parte un paio di gemelli per l’occasione? O forse aveva usato dei fili, magari di metallo? O quei legacci di plastica attorcigliata presi dai sacchi della spazzatura? Gettai una manciata di terra sulla bara trattenendo il respiro per tutta la durata del rumore sordo che accompagnò il mio gesto. Pensai a tutti i pazienti che Robert Morgan aveva sepolto domandandomi se alcuni di loro fossero laggiù, ad aspettarlo. E se sì, si trattava di una folla educata a mani decorosamente giunte oppure di una moltitudine ripugnante ansiosa di consacrarlo con il tocco della carne putrida? Pensai anche a tutti gli altri dottor Robert Morgan 10


sparsi per il cimitero – quattro in tutto – e me li immaginavo racchiudersi l’uno nell’altro come Matrioske russe e le loro parti mescolarsi insieme in una sorta di Frankenstein della storia locale. Mi spostai con tutta la mia mole, sollevando altro terriccio e altri sassolini che caddero sulla bara. Lungo le pareti della fossa, le radici esposte di erbacce e alberi tendevano le loro braccia anemiche, come a invocare clemenza. Mi tornarono alla mente i pazienti morenti di Robert Morgan, quelli che venivano a casa a implorare il dottore affinché facesse qualcosa – qualsiasi cosa – per porre fine al loro dolore. Usavano metafore come acciaio bollente, oppure lame che intagliavano un misterioso alfabeto nelle loro ossa, riscrivendo così il linguaggio familiare dei sensi fino a essere disperati e confusi. O così almeno li vedeva il dottor Morgan. «Non badare a loro, Truly» diceva, scuotendo il capo mentre un figlio accompagnava la madre giù per i gradini inarcati del portico oppure mentre una donna ricurva vacillava scendendoli stremata, le mani bollenti serrate dalla disperazione. «Non sono più loro.» Io però la pensavo diversamente. Robert Morgan avrà anche palpato con le sue mani la nuda carne dei suoi pazienti, sondato con le sue dita scheletriche i loro organi, ma non ha mai prestato la minima attenzione alla loro anima. Se una di esse fosse emersa per caso, sgattaiolata fuori aiutata da un’incandescente lama di dolore, Robert Morgan non avrebbe saputo cosa fare. Prescriveva morfina, consigliava vitamine, procurava balsami e unguenti, ma non aveva alcuna risposta al puro desiderio di farla finita. Nella sua mente, il corpo era semplicemente un orologio autoregolante. Si sarebbe scaricato a tempo debito e secondo la sua volontà e l’anima avrebbe dovuto semplicemente accettarlo. Naturalmente, verso la fine della sua esistenza, anche il dottore non era più in sé. Nella sua stanza, avvolto nella 11


famosa trapunta della famiglia Morgan, aveva urlato, si era dimenato e alla fine aveva piagnucolato, il corpo totalmente madido della raffinata lucentezza che il sudore gli regalava e che gli donava una radiosità a mio parere del tutto immeritata. Gli portavo un vassoio con brodo di pollo, cubetti di ghiaccio da succhiare e impacchi freddi per la fronte. E quando iniziò a delirare, inveendo contro la moglie da cui si era separato e il figlio che l’aveva abbandonato, seguii il suo consiglio alla lettera e non gli badai. «Robert Morgan, sei fuori di te» gli sussurravo gentilmente mentre gli tamponavo con la vaselina le nuove screpolature che gli si aprivano sulle labbra. Ora tutto era finito, sigillato per sempre nella bara rifinita in ottone di Robert Morgan. Per la prima volta in centocinquant’anni, Aberdeen restava senza un Robert Morgan e senza un dottore, ma invece di sentirmi denudata come la fossa aperta di fronte a me, mi sorpresi del mio stato di completo stordimento. Pensai di tornare nella dimora in cui avevo vissuto con Robert Morgan negli ultimi dieci anni, una cena a base di roastbeef e fagiolini verdi cotti in pentola che mi aspettava sulla stufa, la tavola in cucina apparecchiata per una sola persona, e un po’ di tv più tardi. Ma per la prima volta in vita mia non avevo appetito. Normalmente non uscivo mai dalla casa dal frontone bianco del dottore a meno che proprio non potessi evitarlo. La mia compagna d’infanzia, Amelia Dyerson, veniva a pulire una volta a settimana, portando acquisti fatti in drogheria, mentre in primavera, estate e inizio autunno Marcus Thompson, un altro amico d’infanzia, tosava il prato all’infinito. Quelle visite – Marcus che sorseggiava una limonata sotto il portico del retro, una bandana fradicia annodata al collo e Amelia che mormorava qualcosa al suo spolverino di piume – per me rappresentavano una compagnia sufficiente. C’erano anche i pazienti di Robert Morgan, certo, ma non 12


sempre erano dell’umore giusto per parlare. E comunque, entravano da un altro lato della casa, e se ne andavano con la testa china, chiusi in loro stessi, castigati dalla disobbedienza dei loro corpi. Se qualcuno me l’avesse chiesto, avrei potuto raccontare tutto di quella sensazione. Come ci si sentiva, per esempio, nel vedere le mie membra allungarsi ed espandersi di loro spontanea volontà, come se fossi una sorta di lucertola mutante. Oppure come ci si sentiva nel sedersi sulla mobilia di casa Morgan e sentirla scricchiolare e gemere, minacciando di spaccarsi una volta per tutte se soltanto mi fossi lasciata andare ancora un po’. O come, salendo sulla bilancia nello studio di Robert Morgan, i pesi non volessero mai arrestarsi ma scivolassero sempre verso l’estremità delle barre di metallo, in segno di resa davanti al mastodontico compito di pesarmi. «Se ingrassi ancora un po’, potrai trovare lavoro come fenomeno da baraccone, Truly» aveva sogghignato Robert Morgan durante l’ultima visita che mi aveva fatto, mentre annotava il mio peso in una di quelle innumerevoli tabelle che teneva. Da qualche parte nel suo schedario, una pila crescente di carte descriveva mille e una versioni della strana crescita del mio corpo. Quella volta il dottore respirò sullo stetoscopio per scaldarlo, poi fece scivolare il disco di metallo tra le complicate pieghe dei miei seni. «Sei come quella donna grassa morta al circo, che era talmente grassa da poter essere spostata soltanto con l’aiuto del traino per gli ippopotami.» Sospirai. Conoscevo la storia. Me la raccontava ogni volta che mi visitava – una sorta di parabola, suppongo, una favola sulla ridicola umiliazione causata dagli eccessi. Spostò la testina dello stetoscopio dall’altra parte del mio petto e inarcò le sopracciglia. «è vero. Te lo giuro. Al cento per cento. È una fortuna che tu non stia in un circo, vero Truly? A proposito, come va il cuore? Nessuna fitta o do13


lorino che vorresti raccontarmi?» Scossi la testa e non dissi niente a proposito della radici malinconiche che stavano scavando il mio corpo come canne palustri. Robert Morgan non aveva bisogno di sapere niente di tutto ciò, pensavo, soprattutto dal momento che lui stesso ne era in gran parte la causa. Alcune persone a questo mondo nascono addirittura più grandi della vita stessa e alcune crescono per essere così, ma io so che non si tratta di qualcosa che puoi scegliere. Se lo fosse, io opterei per essere delle dimensioni di una bambola. Magari addirittura di un nano. Così dovrebbero trasportarmi ovunque io debba andare, solennemente, su una portantina caricata sulle spalle unte di giovani seducenti. Sceglierei un trono fatto in oro tutto traforato, magari decorato con un dragone o due, e ingaggerei dei bambini con cembali stonati per accompagnarmi, cantando forte il mio nome. La mia vita sarebbe come una parata. Invece, come spesso accade, i miei piedi sono più lunghi di quelli della maggior parte degli uomini, insieme alle mie mani, i miei fianchi, il mio collo e l’immensa distesa di spalle e schiena. E l’unica parata a cui abbia mai partecipato è quella della defunta Festa dei lavoratori, dove il sindaco era solito guidare lungo Main Street la sua cabrio assieme al branco delle ragazze più carine della città. Ogni anno era la stessa storia. Dick Crane, decrepito fino al midollo ma ancora in grado di svolgere quell’unico compito civico, strombazzava con il clacson della sua classica Cadillac mentre tutte le ragazze urlavano e facevano cenni con le mani, eccitate dalla loro stessa bellezza. Ancora prima che io guadagnassi tutto il mio peso, mentre il mio corpo pigiava verso l’esterno come un pallone pronto a spiccare il volo, ero già enorme. Solida come granito, era solito dire mio padre, e spessa il doppio. Non come tua sorella, questo è poco ma sicuro. Serena Jane ha preso tutto da tua 14


madre. Una vera bambolina vivente. Che era poi, dopo tutto, l’unica ragione per cui Robert Morgan desiderava tanto mia sorella, anche a costo di perseguitarla o di rapirla proprio come il lupo cattivo uscito da una fiaba. A volte mi domando cosa mai sarebbe successo se fosse stato esattamente il contrario – e cioè se fosse stata Serena Jane a perseguitare Robert Morgan. Molto probabilmente lui sarebbe scappato con la coda tra le gambe, battendo i suoi denti lupini per la paura. Robert Morgan non aveva mai apprezzato nulla in vita sua, a meno che non spettasse a lui il primo morso, e non lasciava mai andare qualcosa fino a quando non l’aveva spolpata ben bene. Persino il suo modo di aggirarsi quatto e veloce descriveva il suo spasmodico appetito – sempre affamato e mai sazio. Non certo come Serena Jane, che era soffice come zucchero filato, che spiluccava e giocherellava con il cibo e che cresceva così leggiadra da volare via alla fine, e certamente nemmeno come me, che mangiavo tutto quello che mi veniva dato ma che, era chiaro, finivo sempre per pagarla cara.

r Dopo la sepoltura, mi scostai dal sentiero principale del cimitero e mi addentrai più a fondo nel camposanto per porgere i miei omaggi alle altre anime. Se mi fossi voltata e avessi guardato in basso, avrei notato che la traccia lasciata dalle mie impronte sull’erba si era fatta via via più leggera e meno accentuata, ma invece proseguii con il naso rivolto alla enormità selvaggia del mio addome, il doppio mento serrato contro il collo, i pensieri persi nel familiare oceano del mio respiro affannoso. Gli altri partecipanti al funerale si erano radunati, cercando di levarsi dalle orecchie il suono sordo della terra che cadeva sulla bara del dottore, e si spostarono in città per la cerimonia della veglia. 15


I cancelli in ferro puntuti del cimitero scintillavano in lontananza, gli spuntoni neri si ergevano come una fila di denti marci nel pomeriggio che imbruniva. Mi tornò allora in mente quanto fosse maleodorante l’alito di Robert Morgan poco prima che esalasse l’ultimo respiro, come se il suo corpo stesse facendo le pulizie di casa, spazzando fino negli angoli più impuri e negli anfratti più ambigui prima di spirare una volta per tutte. Una raffica pungente di vento si abbatté su di me frustandomi i polpacci. Vestivo un abito nero di rayon che mi ero cucita da sola – una sorta di sacco, un sudario cascante che poco poteva fare per mascherare le mie gobbe e protuberanze – senza calze, semplicemente perché nessun paio sarebbe andato bene. Ai piedi, portavo gli stivali neri da lavoro che ero solita indossare da ottobre ad aprile, e per finire mi ero avvolta in un pastrano tarmato, recuperato nella soffitta del dottore, che a malapena riusciva a contenere l’ampiezza delle mie spalle. Per tutto il tempo del funerale rimasi al fianco di Amelia. Sapevo che gli altri bisbigliavano e si davano di gomito, lanciandosi occhiate significative mentre mi trascinavo con sforzo fino all’orlo della fossa, ansimando come un elefante in agonia. «Se non altro non dobbiamo preoccuparci che ci finisca dentro.» Vi Vickers aveva mormorato a Sal Dunfry. Sal aveva ridacchiato dietro il suo guanto in pelle di vitello d'importazione. «Resterebbe incastrata a metà.» Arrossii, ma Amelia, che negli ultimi dieci anni si era occupata di ripulire lo studio del dottore e che probabilmente aveva raccolto abbastanza sudiciume da potercelo seppellire da sola, fece notare come io fossi un angelo ad avere tollerato Robert Morgan per così tanto tempo e che nessuno, men che meno delle persone di buon senso, avrebbe dovuto prendersi gioco di me. Sal si azzittì ma lanciò un’altra occhiata ambigua ai miei capelli lisci e alle mie membra carnose e probabilmente 16


concluse che Amelia Dyerson dovesse essere cieca oltre che taciturna. Lasciando il camposanto lanciò un’altra occhiata alle sue spalle, osservandomi mentre mi allontanavo goffamente da lei. «Truly non è un angelo» sentii Sal sussurrare a Vi, avvolgendosi meglio attorno al collo le soffici pieghe della sua sciarpa di cachemire, per proteggersi dalle bizzarrie del tempo. «Intanto perché prima di tutto occuperebbe metà del paradiso e oltretutto è troppo grassa per spiccare il volo da terra.» Un corvo infuriato svolazzò fuori dagli alberi vicini, gracchiando il suo disappunto e abbandonando il suo ramo nudo, che vibrò in un freddo inusuale per la stagione. Il rumore mi fece volgere lo sguardo al mondo, il suolo coccolato da una bizzarra coltre di ghiaccio, le lapidi irrigidite come reliquie dell’antichità. Scrutai il cielo, la luce stava scemando verso un tenue color azzurro, e osservai il corvo farsi strada verso l’orizzonte. E proprio in quell’istante, quel macigno che mi ero portata nel cuore – quello che pesava quanto tutte le lapidi di Aberdeen messe insieme, quello che mi aveva tenuta inchiodata nella casa di Robert Morgan anche quando fuori le rose della città rendevano l’aria un liquore dolce come il miele – quel macigno iniziò lentamente a sciogliersi, facendomi sgorgare scintillanti lacrime di rimorso lungo le guance. Le asciugai, vergognandomi di piangere per qualcosa di così stupido come un corvo svolazzante su e giù per l’immenso cielo, ma con l’animo sollevato perché mi trovavo sotto qualcosa di abbastanza vasto da contenermi. Perché, per la prima volta in un tempo più lungo di quanto la mia memoria potesse ricordare, avevo trovato qualcosa più grande di me.

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Capitolo Uno

R

Tecnicamente parlando, immagino si possa dire che io ho ucciso Robert Morgan, ma l’ho fatto solo perché lui aveva insistito tanto affinché lo facessi, perché ormai la morte aveva già posato su di lui le sue pallide mani, e perché sapevo che il semplice gesto di chiedermelo lo avrebbe fatto impazzire più dell’inferno. «Guardami» starnazzava dal suo bizzarro nido di coperte del letto, «e poi guarda te. Semplicemente non è giusto.» Sapevo cosa intendeva dire. Diciamo che le risorse che puntellavano le mie ossa erano più che consistenti. «Potresti sopravvivere a due inverni messi insieme Truly» gracchiava. «Potresti ingoiarti il dannato mondo intero e nessuno noterebbe nulla.» Giaceva sotto la famosa trapunta della sua bisnonna, quella ricamata interamente con fiori e rampicanti, alcuni dei quali ben definiti e ordinati in modo accurato dentro un bordo a losanga, e il resto sparpagliato in abbondanza tutt’attorno. Si trattava effettivamente di un pezzo originale. Osservandolo abbastanza a lungo, infatti, si sarebbe potuto pensare che fossero due trapunte – il quadrato interno, net18


to e lavorato diligentemente, e il margine disordinato che ricordava più un’esplosione floreale. O almeno, questa fu la mia conclusione dopo dieci anni di osservazione. Presto però il dottore smise di parlare del tutto. All’inizio accolsi con benevolenza quello sviluppo, facendo irruzione nella sua stanza con vassoi di cibo che tanto, sapevo, non avrebbe potuto mangiare, ma che comunque lo avrebbero tormentato. «La storia della donna morta nella gabbia dell’ippopotamo?» domandavo, sventolandogli una cucchiaiata di tapioca sotto il naso. «È la cosa più stupida che io abbia mai sentito. E anche se fosse vera?» lo guardavo mentre scuoteva la testa, e mi infilavo il pudding in bocca, giocherellando con i grumi sulla lingua, soddisfatta della loro dolcezza untuosa. «Prima di tutto, cosa ne hanno fatto dell’ippopotamo? E poi, non conosci nemmeno uno dei dettagli che renderebbero credibile la storia. Per esempio, in che tipo di bara l’hanno messa? Oppure hanno gettato il suo corpo così, dentro la gabbia, e l’hanno fatto scivolare in un buco gigante nella terra?» Mi avvicinavo così tanto che poteva vedere la peluria che contornava il mio labbro superiore. «Vuoi sapere qual è la differenza tra una storia buona e la verità?» E quando non rispondeva, proseguivo e gli davo la risposta. «I dettagli, Robert Morgan. Ecco tutto. Se azzecchi i dettagli puoi farla franca anche in caso di omicidio.» Sorridevo e gli accarezzavo il braccio. E poi terminavo la mia tapioca. Dopo alcuni giorni però, il silenzio che regnava tra noi iniziò a spiazzarmi. Per vent’anni avevo sopportato le sue frecciatine e i suoi insulti, ma adesso avvertivo il suo sguardo gelido scrutare la mia carne, come se volesse divorarmi viva. Osservavo con la coda dell’occhio il modo in cui faceva scattare la sua mandibola e la chiudeva come il pupazzo di un ventriloquo, nel tentativo fallito di produrre un suono, mentre io ritiravo il suo vassoio intatto, augurandomi da un 19


lato di sentirlo ringhiare e sbraitare come ai vecchi tempi e dall’altro no. Fin da tempo immemore, almeno nella storia di Aberdeen, la morte ha sempre trovato il modo di perseguitare i maschi del clan Morgan, a dispetto delle loro migliori intenzioni. Il primo Robert Morgan approdò ad Aberdeen dal Sud, mentre la guerra di Secessione volgeva al termine. Durante il conflitto aveva prestato servizio come chirurgo fino alla fine, quando ormai la calda falciata vendicativa del generale Sherman aveva messo tutti quanti a dura prova. La morte, così almeno pensava il primo Robert Morgan mentre seguiva le file di soldati dagli occhi spiritati attraverso l’aria fetida del Sud, era una macchina a moto perpetuo – uno strumento da macello appuntito che avrebbe continuato a funzionare fino a quando ci fossero stati degli uomini intenzionati ad alimentarlo. Ma lui non era uno di questi. Disertò appena fuori Savannah, nascondendosi tra gli scarti marci delle piantagioni e dei fienili, andando verso nord lungo la costa, e successivamente, quando arrivò in Delaware, si diresse verso l’interno e si fece strada verso i monti Tuscarora, su su fino allo stato di New York. Ovunque andasse, poneva sempre la stessa domanda: c’era qualcuno che conoscesse il modo di tenere lontana la morte? Gli venivano mostrati crocifissi, amuleti di corda ed erba, grani di rosario e piume di aquila. Studiava ciascun oggetto con delicatezza e poi lo rendeva al proprietario rimettendosi lo zaino in spalla, con la mente già proiettata in avanti. Quando arrivò nello stato di New York, però, la risposta alla sua domanda iniziò a cambiare. «Non so come si possa fare a scacciare la morte una volta per tutte» gli disse un contadino sdentato, dalla pelle raggrinzita come lino, «ma potreste sempre chiedere agli abitanti di Aberdeen. Sono tutti più vecchi di un gruppo di mummie. Se c’è qualcuno che sa come fare, quelli sono proprio loro.» 20


Incuriosito, Robert Morgan accettò l’offerta del contadino di fermarsi a dormire nel suo fienile, e quella notte dormì un sonno pacifico e profondo, si svegliò ben prima dell’alba, si infilò in spalla lo zaino ormai sempre più lacero e si diresse dalla parte opposta al tramonto. Non aveva la più pallida idea di dove si trovasse, ma non importava. Per la prima volta da quando era partito, Robert Morgan aveva una meta da raggiungere.

r Quando finalmente arrivò ad Aberdeen all’inizio dell’inverno, trovò la popolazione del villaggio colpita da un’epidemia influenzale, con un’unica donna che si prendeva cura di tutti quanti. Il suo nome era Tabitha Dyerson ed era imparentata con una famosa strega. «Judith Dyerson. Arsa sul rogo» gli aveva detto ammiccando Ebert Pickerton, il proprietario della birreria di Aberdeen. «Un’eretica. Tutta la famiglia abbandonò in fretta e furia il Massachusetts dopo il fattaccio. Ma alcuni dicono» e qui il locandiere si era avvicinato a Robert Morgan con fare cospiratorio, «che portarono con sé il libro delle ombre. Ecco dove Tabitha ha preso il tocco di guaritrice.» Robert Morgan indietreggiò e prese una sana boccata d’aria neutrale. «È per questo che qui la gente vive così a lungo? Per via degli antichi segreti di questa Judith?» Il ventre di Ebert Pickerton traballò con una risata. «Diamine no, figliolo» ragliò picchiando il palmo della mano sul bancone. «Quello è per via del nostro caratteraccio. Il buon Dio non ci vuole.» Fece la faccia lunga, un pallone che collassava su se stesso. «Di recente comunque, sembra che le persone di questa città muoiano come tutte le altre. Puoi andare a dare un’occhiata tu stesso.» E così Robert Morgan quella domenica, dopo aver raccolto gli strumenti medici 21


che aveva sottratto all’esercito, si recò alla santa messa, per offrire i suoi servizi come dottore. Il primo paziente che ebbe modo di visitare fu una bambina di circa nove anni. Non appena le si avvicinò, lei si mise a strillare. Ai suoi occhi deliranti, un Robert Morgan provato da sette mesi di cammino e con la barba troppo selvaggia per poter essere domata da qualsiasi paio di forbici, doveva apparire come un Babbo Natale cattivo. «Farebbe meglio ad andarsene» disse il padre della bambina a Robert Morgan, accompagnandolo con la mano stretta attorno al gomito del dottore. «Chiameremo Tabitha.» Robert Morgan si accigliò. «Ma vostra figlia ha bisogno di cure mediche appropriate.» L’uomo fece spallucce, aprì la porta e accompagnò Robert Morgan nel freddo miserabile di novembre. «Tabby ha tutte le erbe» disse. «Hanno sempre funzionato.» Robert Morgan fece la conoscenza del suo secondo paziente dopo una seduta completa dal barbiere di Aberdeen. Si trattava, stavolta, di una nonna sofferente, stesa dall’influenza. Settantatré anni, viso schiacciato, giaceva con atteggiamento risoluto in un letto di ottone – lo stesso letto in cui era nata e quello in cui era pronta a morire – mentre osservava Robert Morgan svolgere i suoi strumenti. I suoi occhi piccoli e lucenti come perle lo scrutavano come una gallina fa la guardia al suo uovo. «Per favore» piagnucolò. «Voglio Tabitha.» Robert Morgan sospirò profondamente – un brivido di sconforto lo pervase fino alla punta degli stivali – e riavvolse di nuovo i suoi strumenti nella fodera di camoscio. Il figlio, grande e grosso, fece un mezzo sorriso dispiaciuto. Tabitha, almeno, non avrebbe chiesto nulla in cambio se non magari una zucca o due o una fetta di pane alla melassa di sua moglie. Robert Morgan si ritirò nella camera avvolta nell’ombra che aveva preso in affitto sul retro della casa di Widow Dunf22


ry, con una piccola bottiglia di whisky avvolta accuratamente in semplice carta avana. Finora, Aberdeen aveva fatto ostruzionismo alla sua ricerca sulla longevità, aveva rifiutato i suoi tentativi benintenzionati di guarire e persino il suo tempo atmosferico era bizzarro. Robert Morgan mandò giù un altro sorso amaro del whisky fatto in casa di Ebert e sprofondò ancora di più nella poltrona ammuffita accanto alla finestra, mentre riesaminava il caso del pomeriggio. Tabby ha le erbe, si ricordò quello che aveva detto il padre della bambina. Robert Morgan sbuffò, espellendo una piccola quantità di muco. Era solo un imbroglio, ecco cos’era. Appoggiò di nuovo la bottiglia alle labbra, capovolgendola. Il liquido si incendiò in gola come un petardo. Serrò le labbra, lo spirito secco della segale gli bruciava l’interno delle guance, il naso e le cavità interne delle orecchie. Quando si svegliò, si ritrovò a letto. Si sollevò sui gomiti, con la sensazione di avere gli occhi che nuotavano all’interno della testa, facendogli perdere l’equilibrio. Poi si rese conto di non essere solo. La donna minuta che sedeva in un angolo sospirò, posò il suo lavoro a maglia e si diresse verso di lui. Gli prese il polso per tastargli il battito con le dita, esili come steli di giglio. «Il peggio è passato» gli disse, tornando al suo posto in un angolo, la sua gonna frusciante come angeli in conflitto. «Dovreste farvi un bagno, appena potete.» Fece per andarsene. «Aspetta» urlò Robert Morgan, la sua voce resa afona dal muco. «Da quanto tempo sono ammalato?» La donna alzò la testa. «Il peggio è passato» disse ancora. «Presto vi sentirete meglio.» Robert Morgan si sollevò di nuovo sui gomiti, barcollando. «Tu sei la strega.» Tabitha Dyerson si mise ritta, strizzando gli occhi come una vipera che si prepara a mordere. «Sono cristiana come 23


lo siete voi, signore» lo rimproverò. «E forse anche di più. Mi dovete la vita.» Fu soltanto alcune ore più tardi che Robert Morgan si rese conto che si era portata via l’ultimo goccio del whisky di Ebert Pickerton.

r Viveva in una fattoria ai margini della città, venne a sapere Robert Morgan, con il padre e il fratello, il primo immerso nel mare della follia della demenza senile, il secondo invece un recluso da quando aveva fatto ritorno dalla guerra. Robert Morgan scarpinò lungo il sentiero accidentato e sterrato che fungeva da strada, annunciando la sua presenza alla porta con tre colpi violenti, l’unico modo che il suo stato d’animo in quel momento gli permetteva di adoperare. Le nocche nude gli dolevano per il freddo. Lei lo spiò dalla finestra e aprì cautamente, le mani aggrappate al legno. Dai suoi fianchi si diffondeva un profumo di limone, zenzero e canfora. Tutti odori femminili di cui Robert Morgan aveva dimenticato l’esistenza. «Vi siete ripreso.» La sua voce risuonò decisa come i colpi dati alla porta. Robert Morgan prese una mela dalla sua tasca – un frutto raggrinzito, ma allo stesso tempo un’offerta. Tabitha la prese con cautela, infilandola nelle profondità del suo grembiule. «C’è una qualche precisa ragione a cui devo la vostra visita?» Robert Morgan sentiva il calore irradiare dalla casa e si accorse di quanto la donna fosse impaziente di liberarsi di lui. Poggiava sui tacchi incrinati dei suoi stivali come una nave sul punto di affondare; portò un braccio in avanti per stabilizzarsi. Lentamente, il mondo sembrava aver ripreso una sorta di ordine, le assi del porticato ancora storte, il comignolo ancora sghembo, ma adesso tutti i pezzi più o 24


meno combaciavano. Era probabilmente, pensò Robert Morgan, il massimo dell'ordine a cui potesse aspirare. Tabitha incrociò le braccia e aspettò. «Sono venuto» balbettò «con una proposta.» Si sposarono il giorno di San Michele e la cerimonia fu celebrata da Widow Dunfry ed Ebert Pickerton. Festeggiarono il Natale con un’anatra ripiena di castagne. Il fratello bevve troppo sidro e si ribaltò sulla gamba di legno a cui non si era mai abituato. Il padre si addormentò sul piatto e Robert si ritirò presto nell’angolo del salotto che aveva trasformato in uno studio improvvisato. Nessuno cantò. Tre cose della sua nuova vita sconcertavano Robert Morgan. La prima, era che nessuno gli avesse mai chiesto nulla del suo passato. La gente di Aberdeen sembrava considerarlo soltanto il nuovo marito di Tabitha e una sua precedente esistenza non veniva contemplata né interessava loro. La seconda cosa che lo irritava era che, sebbene fosse un medico, non aveva ancora guarito un solo paziente in città. I suoi rimedi fallivano oppure le persone gettavano le sue polverine nel mangime dei polli. Si toglievano i suoi bendaggi e li rimpiazzavano con gli impiastri di Tabitha, ottenuti da aconito napello pestato e urina di maiale. L’ultimo motivo di stupore per lui era, naturalmente, la sua stessa moglie. Insensibile alla frusta selvaggia dell’inverno del New England, dalla pelle di luna sotto le lenzuola quando si impossessava di lei la notte, circospetta in tutte le cose che la riguardavano. Con suo padre era molto paziente e permissiva; con il fratello determinata; e con Robert Morgan serena. «Dimmi qual è il tuo primo ricordo» le chiese una notte dopo aver fatto l’amore. L’aria fuori era talmente fredda che le stelle stesse sembravano tremare. Tabitha liberò un braccio da sotto le lenzuola e scostò una ciocca di capelli dagli occhi. Quando iniziò a parlare, 25


il suo respiro scappò in un filo visibile. «Raccoglievo erbe» disse. «Una pentola di ferro che bolliva sul fuoco. L’odore delle foglie bagnate.» Socchiuse gli occhi e sorrise, ma non offrì alcuna spiegazione. «Qual è il tuo piatto preferito?» domandò Robert Morgan. Erano sposati soltanto da poco tempo ma lei sapeva già che a lui piaceva lo stufato di cervo con la noce moscata e le bacche di ginepro, che preferiva il whisky alla birra, il pane irlandese a quello integrale, mentre lui poteva soltanto tirare a indovinare i suoi gusti. Questo vantaggio che lei aveva su di lui lo infastidiva. Tabitha allungò una delle sue lunghe braccia verso di lui, che si eccitò al solo pensiero del suo tocco, ma lei avvicinò solo le lenzuola al mento. «Mangio quello che mangi tu, marito mio» sussurrò. «Siamo una cosa sola ora. Adesso dormiamo.» Nei suoi giorni migliori, Robert Morgan assecondava il suo comportamento, ritenendosi fortunato ad aver sposato una donna tanto obbediente e che non dava problemi. Nei suoi giorni peggiori però, sgattaiolava nel salotto, maledicendo il suo sangue da strega. A giugno, la pancia di Tabitha era così tirata sotto le gonne modificate e il bambino era posizionato così in alto che Robert Morgan era sicuro si trattasse di una femminuccia. Tabitha si limitava a mormorare qualcosa in merito alle sue predizioni. Si perdeva in un mondo di sogni per pomeriggi interi, avvolta nella trapunta a fiori che sua nonna aveva iniziato. A volte, Robert Morgan la sorprendeva mentre ne sostituiva l’imbottitura, rammendava le cuciture allentate, rinforzandole per le generazioni a venire. Si trasferirono in città e quando le persone facevano visita alla loro nuova casa era Robert ad accoglierle, facendole accomodare nello studio, chiedendo loro di respirare sotto la testina attenta del suo stetoscopio. Sullo scaffale sopra la 26


sua testa teneva barattoli di pastiglie fatte arrivare da Boston e polveri provenienti da New York. Aveva anche una bomboletta di etere e un cono di carta per poterlo somministrare. Quando morì il padre di Tabitha, Robert Morgan trasformò la sua stanza in uno studio medico e si costruì sul retro un intero cottage indipendente per svolgere la sua attività. Smise di accettare uova e matasse di filati come compenso, chiedendo invece un anticipo in monete d’argento. Bastò l’allontanamento e la successiva morte di una giovane madre colpita dalla febbre, perché tutta la città imparasse che la morte è un maestro impaziente. Persino le famiglie più povere si munirono di orologi e iniziarono a mettere i loro centesimi in banca per le ore che il dottore faceva pagare.

r Quando suo figlio, Bertie, compì cinque anni, Robert Morgan aveva già un giovanotto al suo fianco che gli gestiva la contabilità e gli appuntamenti. Aveva ormai terminato il cottage sul retro della casa e lo aveva trasformato in uno studio e un ambulatorio medico. Il fratello recalcitrante si era trasferito nella fattoria ormai dismessa. Tabitha ebbe altri due bambini dopo Bertie. E a ogni successiva gravidanza divenne sempre più taciturna, fino a quando smise di parlare del tutto. I bouquet di erbe che era solita appendere alle travi persero la loro forma, poi il loro colore e infine abbandonarono del tutto il loro profumo di terra, sbriciolandosi in sterpi e polvere. Restava rintanata in camera sua, lavorando alla sua trapunta, aggiungendo pezzi, rendendola sempre più grande finché i suoi orli traboccarono dal letto spazzando il pavimento impolverato. Tabitha stava sdraiata tra le coperte, desiderando che le sue braccia non avessero ossa. Di tanto in tanto, Robert Morgan metteva a soqquadro la casa, in cerca del libro delle ombre della vecchia Judith, 27


quello di cui Ebert Pickerton gli aveva parlato il suo primo giorno in città. Fece a pezzi la dispensa, mordendo indiscriminatamente sformati di maiale e fette di formaggio. Smantellò la catasta di legna, mise sottosopra l’armadio della biancheria di Tabitha. Ficcò il naso sotto l’assito, sfogliò la Bibbia di famiglia pagina per pagina e poi la bruciò. Ordinò una nuova Bibbia da Boston e quando arrivò, era rilegata in pelle elastica di vitello, le pagine bordate d’oro, la copertina decorata con le sue iniziali, e soltanto le sue, incise in oro zecchino. Vi scrisse a penna i nomi dei suoi bambini, ornando le aste e gli occhielli delle lettere, allineandoli perfettamente sulla pagina, ma lasciò fuori dal registro di famiglia Tabitha Dyerson la strega, la megera che aveva cercato di rendere una Morgan. In chiesa, le labbra di Robert Morgan si muovevano ma non erano le parole di Dio che proferiva. Al contrario, stava silenziosamente catalogando il suo magazzino: polvere carbolica, laudano, aspirina, alcol, etere. In base alla sua esperienza, la salvezza si presentava sotto forma di gocce, somministrate dal beccuccio sofferente di un becher, oppure di minuscoli granuli dosati e infilati in una bustina. La prospettiva del paradiso era stata imbottigliata e sigillata da lui stesso e dai suoi confratelli. E poteva essere facilmente distribuita. Una mattina, mentre si faceva la barba, fece scorrere il rasoio sopra la pelle orientandosi solo con il tatto, distogliendo lo sguardo da quell’estraneo riflesso nel vetro che stava invecchiando, e quando si decise a guardare la sua immagine, si accorse che si era tagliato. Un rivolo di sangue si fece strada lungo una ruga e rimbalzò sulla mandibola. Si rivolse a Tabitha, ma lei era persa in una palude di malinconia nel mezzo del loro letto, la fronte liscia come un uovo. Lo ignorò. Le sue mani si torcevano e si capovolgevano, annodavano e fissavano. Sotto il loro passaggio, come per magia, i profili di erba morella, belladonna e cicuta rifiorivano in foglie di 28


seta sparse per tutta la trapunta. Un giardino mortale cucito in nome di un’anima immortale. Robert Morgan tese la mascella verso la moglie. «Aiuto» le chiese irritato e ricevette la pressione delle esili dita di Tabby, avvolte in uno scarto quadrato di lino. Come per magia, il sangue si fermò e Robert Morgan la guardò accigliato. Si chiese per un istante come ci fosse riuscita, ma l’orologio al piano di sotto suonò i suoi rintocchi e corse a mettersi il cappello. Per lui, la conoscenza era una cosa elementare, come una bottiglia chiaramente etichettata, trasparente e riposta su uno scaffale. Non era certo nel suo carattere raccogliere e seguire la trama di un’idea come una donna che disfava una matassa di filato. Inoltre, si stava facendo tardi. «Grazie» borbottò e saltellò fuori dalla stanza, il suo pensiero già rivolto alla salvezza, la convinzione ancora intatta di essere responsabile dei moribondi di Aberdeen – un’idea che sarebbe durata per i centocinquant’anni successivi, fino a quando non arrivai io a rompere le uova nel paniere della storia.

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Capitolo Due

R

Ancora prima che io emergessi dal ventre di mia madre nel 1953, la gente aveva iniziato ad avvertirla che la creatura che portava in grembo sarebbe stata gigante. «è senz’altro un maschio!» le urlava il reverendo Pickerton dopo la messa quando lei era ancora al quarto mese di gravidanza, appoggiandole le dita grassocce sullo stomaco. A mia madre sembrava che il mondo si fosse trasformato in un paio di mani tastanti. «è già tutto zuffa e baruffa!» esultava il reverendo Pickerton, picchiettando sul ventre di mia madre. E come in risposta, io mi agitavo e mi rigiravo nel suo utero. Mia madre era così enorme che Robert Morgan IV l’aveva visitata ben due volte soltanto per assicurarsi che non portasse in grembo due gemelli. «Non ci posso credere» continuava a dire, scuotendo il capo. «Un bimbo così grande. è destinato a essere una specie di record.» Quando sua moglie aveva dato alla luce un robusto maschietto un anno e mezzo prima (un altro Robert, soprannominato Bob Bob), il suo addome era grande solo quanto un melone. E cionondimeno, il dottor Morgan sentiva soltanto un cuoricino battere, un unico feto 30


cresceva dentro Lily. A meno che, pensava, il bambino non avesse in un qualche modo divorato il suo gemello, avvinghiandosi a lui, una possibilità che il dottore non aveva certo rivelato a mia madre. A metà dell’estate, i suoi polsi e le sue caviglie scoppiavano di liquidi. Le sue ginocchia erano così grosse che le risultava doloroso persino piegarle. I seni erano due coni. Aveva continuamente una fame da lupo e divorava le cose più singolari anche se non ne aveva voglia: marmellata e uvette su pane di segale, panini con alici e senape, pezzetti di prosciutto e patate dolci immersi in gelatina al gusto di limetta. Le sue cosce si espandevano, diventando sempre più pallide e gommose. Le dita erano sempre più simili a salsicce. Mia sorella, Serena Jane, aveva ormai due anni e non voleva più sederle in grembo. I suoi minuti pugnetti pungolavano le gambe di mia madre, in cerca delle vecchie gambe snelle. «Che brutta gobba.» Era opinione di Serena Jane che io stessi consumando mia madre e alla fine l’avrei completamente riempita. Mia madre sospirò e appoggiò Serena Jane sul pavimento. Tra tutte le prove a cui la maternità l’avrebbe sottoposta, il vaglio critico di una mocciosa era quella che la coglieva più impreparata. Serena Jane urlava quando mia madre le leggeva la storia sbagliata la sera. Perlustrava con le sue dita minuscole il viso di mia madre, sottolineando ogni singola ruga o pieghetta. Ispezionava i panini al formaggio che mia madre le preparava per pranzo con l’aria austera di un critico gastronomico, lamentandosi se le croste erano ancora attaccate. Mia madre riusciva solo vagamente a immaginare la reazione di sua figlia di fronte a un neonato pelato e strillante. Passò le mani sui morbidi capelli di Serena Jane cercando di non badare al fatto che mia sorella scansasse la testa. Mia madre sospirò ancora. 31


«Non essere sciocca» le disse. «Anche con te avevo una gobba. Ero rotonda anche prima che nascessi tu.» Ma tutte e due sapevano che stava mentendo. Quella volta era diverso. C’era veramente qualcosa che la stava divorando dall’interno.

r Il dottor Morgan trovò il nodulo al seno di mia madre all’ottavo mese di gravidanza, quattro settimane esatte prima della data del parto. Si muoveva sotto la sua mano come un uovo di quaglia sodo. Mia madre urlò dal dolore sotto la pressione. «Da quanto tempo?» le chiese, aggiustandosi gli occhiali sul naso, come se il gesto gli consentisse di vederci più chiaro. Mia madre chinò il capo. La pelle del suo collo si rilassò. «Circa tre mesi.» «Ed è sempre stato di questa grandezza?» Mia madre scosse il capo. «È cresciuto.» Bob Morgan sospirò e quell’unico sospiro disse a mia madre tutto quello che doveva sapere. Divaricò le ginocchia sul tavolo da visita e contemplò la riproduzione che stava avvenendo all’interno del suo corpo – copie di copie di copie, un messaggio ingarbugliato che veniva passato dai suoi organi. Un codice infrangibile. Si rifiutò di farsi accompagnare a casa. Scese barcollando i gradini del portico di Bob Morgan, le ginocchia flessibili come bande elastiche e fece un cenno di saluto a Maureen e al piccolo Bob Bob che stavano giocando con gli irrigatori posti di fianco alla casa. Alcune api cariche di nettare svolazzavano attorno alle siepi. Bob Bob, dal sederino infagottato in un pannolino, si lanciò su mia madre e l’abbracciò ai polpacci facendole quasi perdere l’equilibrio. «No tesoro» lo rimproverò Maureen gentilmente, staccando le sue dita dalle gambe grassocce di mia madre e lanciando un sorriso esausto al suo viso paffuto. «Mi dispiace» disse, 32


mentre con gli occhi passava in rassegna le curve montagnose di mia madre. «È totalmente fuori controllo. Fa quello che vuole. Non riesco a stargli dietro.» Mia madre guardò in basso, verso i suoi piedi, verso Bob Bob, ma il suo ventre mostruoso, i suoi seni ribelli le bloccavano la visuale. Sentì le dita striscianti del bambino insinuarsi tra le sue e aprì un po’ la mano. «È tutto a posto» disse a Maureen, facendo scivolare il palmo della mano fino al ventre. «Non devi dare spiegazioni.» Dopo tutto, aveva appena imparato che anche qualcosa di assolutamente microscopico può avere una volontà inarrestabile.

r Quando il travaglio iniziò mia madre stava spazzolando i capelli di Serena Jane. Serena Jane era bella, mia madre lo sapeva, un miracolo di armonia fisica – occhi perfetti, denti come perle incorniciate da una bocca a cuore. «Questa bambina dovrebbe fare la modella» era solito ridacchiarsela mio padre, issando Serena Jane quasi a mostrarla a una folla in adorazione. Era per lui motivo di infinito piacere aver prodotto un bene come mia sorella. Provava quasi la stessa delizia di mia madre per le piccole balze inamidate, le roselline, gli abitini fatti a uncinetto. Era un cittadino comune, il barbiere di una piccola città, ma aveva comunque dato la vita a una principessa, una regina. E presto, ad accompagnare la piccola monarca, ci sarebbe stato anche un principe. «Mettila giù» lo rimproverò mia madre. «Non ho ancora finito.» Tra le sue mani, un morbido pezzetto di nastro rosa si afflosciò come una lingua stanca. Mio padre rimise Serena Jane seduta sopra al comò, dove rimase immobile con gli occhi fissi, le braccia sollevate, come in attesa di ricevere una benedizione. Mia madre le impreziosì i capelli con un fiocco 33


doppio. Le sue dita sembrava stessero incartando un regalo che non erano ancora pronte a donare. «Ecco qui!» disse, con voce raggiante. Voltò Serena Jane verso lo specchio, facendo girare il suo corpicino da una parte all’altra. «Chi è la più bella?» Serena Jane lanciò a malapena un’occhiata. Sapeva di essere bella. Lo accettava come parte dei suoi doveri. Durante la calura estiva, alle feste di compleanno o ai picnic, quando i vestitini di tutte le altre bambine erano appiccicosi e impastricciati di dolci, i suoi abiti erano abbottonati e come nuovi, tesi come vele spiegate su un lago artico. Le madri di Aberdeen sospiravano e invidiavano la mia. Non sapevano che mia madre restava alzata fino a notte fonda, a volte anche fino alle due del mattino, per ideare abiti ancora più elaborati che mettessero in risalto la bellezza già notevole di sua figlia. Mentre mio padre se la dormiva beatamente al suo fianco, lei guardava con occhi socchiusi sotto la luce fioca del suo comodino e plissettava il davanti degli abitini. Si imbarcava in una maratona di ricami, nel tentativo di abbellire il nuovo cappottino invernale di Serena Jane con boccioli di rosa e coccinelle di seta. Pieghettava nuove balze sui polsini, orlava i colletti con nastri, sostituiva i bottoni in osso con quelli di madreperla. E quando finiva di cucire, quando le sue mani dolevano, saltava giù dal letto per stirare i vari strati degli abiti che Serena Jane avrebbe indossato il giorno dopo. Quando le scarpine erano lucidate a fondo e le calzine arrotolate insieme, soltanto allora trascinava tutta la sua mole a letto e permetteva al sonno di impadronirsi di lei. Sebbene non l’avesse mai detto a mio padre, o a nessun altro, a tal proposito, non vedeva l’ora di mettere al mondo un maschietto, una creatura che non avrebbe dovuto decorare ogni giorno come una torta. Si abbandonava allora nel pantano del suo sonno gravido, i suoi sogni inzaccherati di mazze e palle da baseball, vibranti di uno speranzoso color azzurro. 34


r «Prendila» disse mia madre a mio padre, passandogli, non appena avvertì il primo dolore graffiarle la schiena come un animale impaziente, una Serena Jane dalle gambe irrigidite. Era una domenica di luglio, l’aria era appiccicosa, sgradevole, più propensa a conquistarsi a forza la strada giù per i polmoni delle persone piuttosto che scivolarvi. Le doglie erano in anticipo di due settimane. Mia madre afferrò lo spigolo del comò e cercò di resistere mentre un’altra scossa incandescente la crivellava, poi barcollò fino alla camera da letto, dove si ruppero le acque. Con gli occhi sbarrati, mio padre e Serena Jane la fissavano. «Non restate lì impalati come due scimmie» sbraitò. «Vai a chiamare Bob Morgan.» Quando mio padre ritornò, mia madre aveva già frantumato la sveglia della Union Oil, la lampada del suo comodino, un vaso di fiori ed era andata avanti a fare a brandelli le lenzuola. Bob Morgan la trovò raggomitolata sul pavimento, nell’atto di rosicchiare il cotone, i suoi capelli un’esplosione attorno a viso e a collo. Come se volesse calamitare calma e raziocinio, aprì la sua borsa nera e si rivolse a mio padre e mia sorella. «Da adesso me ne occuperò io» gli disse. «Sarebbe meglio che portassi la bambina in cucina e le dessi qualcosa da mangiare.» Ammutolito, mio padre obbedì. Tutto quanto ruotava intorno al travaglio fu proporzionale alle dimensioni di mia madre. La pozza delle sue acque sul pavimento della camera da letto invitava al paragone con un piccolo mare. Torsioni violentissime scuotevano il suo corpo, poi il letto, e poi l’intera casa così che tutto ciò che la gente in città doveva fare per sapere come procedeva il parto era fare quattro passi giù per Maple Street e fermarsi al numero 35


sette. Nelle ore successive si formò sul prato davanti a casa nostra un curioso capannello di spettatori che passò da essere formato da alcuni vicini preoccupati a una buona metà della città. Presto iniziarono a girare anche cestini da picnic, insieme a bottiglie tenute in fresco di ginger e gassosa. Estelle Crane, la moglie del nuovo sindaco, arrivò persino con una torta di ciliegie che aveva preparato per la cena di quella sera e iniziò a distribuirne fette a destra e a manca. «Quattro chili e settecento grammi» disse John Hinkelman, proprietario del supermarket, infilando cinque dollari nella mano tesa di Ebert Vickers, mentre il reverendo Pickerton controbatteva scommettendo su cinque chili netti. «Starò ancora più alto» strepitò Roger Thompson. «Segnami per cinque chili e duecento grammi. Il dottor Morgan dice che questo bambino è destinato a essere una specie di record. Ancora non si capacita del fatto che Lily non avrà due gemelli.» La sua considerazione diede il via a un turbinio di scommesse furiose, con gli uomini che rivedevano al rialzo le loro poste. «Con un bambino come questo in squadra, Aberdeen è destinata a vincere sempre.» Dick Crane, il più giovane sindaco che Aberdeen avesse mai avuto, tracannò un lungo sorso di birra. «Manca ancora qualche anno, Dick» gli ricordò John, ma Dick fece spallucce. «Eppure.» Gli uomini si accanirono ancora di più, rituffandosi nella speculazione fino a quando – sembrava provenire da lontano, tanto la voce era flebile – non venne posta una domanda. «E se fosse una femmina?» Il gruppo di uomini, insieme a parecchie delle donne lì vicino, ammutolì. Le teste si voltarono a guardare August Dyerson, il matto del paese, il locale collezionista di ciarpame, allevatore mediocre di cavalli ed emarginato in generale. 36


«E se fosse… se fosse… cosa hai detto?» balbettò Ebert Vickers, il pugno paffuto pieno di banconote madide, una matita serrata tra i denti. August riformulò la sua domanda in modo lento e preciso, come se la stesse enunciando per qualcuno che non parlasse la sua lingua e particolarmente stupido. «Ho detto: E. Se. Fosse. Una. Femmina?» Roger Thompson sputò e gorgogliò come una balena incontinente. «August, ma che diavolo vai farneticando? Lily è chiusa là dentro e sta per partorire un carroarmato. Nessun neonato femmina può essere tanto grande. Oltretutto, guarda Serena Jane. Non è esattamente gargantuesca.» August ignorò totalmente il ragionamento logico di Roger, raddrizzò le spalle e poi porse a Ebert Vickers un rotolo di banconote. «Vorrei scommettere sul fatto che sia una femmina.» Ebert ricacciò il denaro in mano ad August. «Non stiamo scommettendo sul sesso, Gus. Stiamo scommettendo sul peso. Quindi, o spari un numero oppure levati di torno.» Il braccio di August vacillò per un istante, come se fosse indipendente dal resto del corpo, poi prese il denaro e lo infilò nella sua tasca impregnata di sudore. Gli uomini scoppiarono a ridere mentre sgattaiolava verso la bianca striscia di selciato estivo. «I matti e le donne non valgono» disse Dick Crane, strofinandosi gli occhi. «Non valgono quelli come Gus» rispose John Hinkleman. Lo spettacolo ricominciò. «Cinque chili e settecento!» «Cinque chili e ottocentocinquanta!» I numeri continuavano a salire, lievitando come il pane all’aria umida di luglio.

r 37


Dentro la fresca alcova di casa invece, mia madre e Robert Morgan IV fluttuavano nel loro universo parallelo, un universo che ruotava al ritmo lento delle ossa in espansione. Sul materasso collassato, mia madre era sdraiata a gambe ripiegate come un paio di ali esauste. La parte interiore delle sue cosce pallide luccicava come se delle lumache avessero danzato per tutta la loro lunghezza. Ogni volta che una contrazione si impadroniva di lei, facendole battere i denti, Bob le posava le mani sulle guance e inchiodava il suo sguardo. «Non ancora» le diceva. «Non spingere ancora.» Ma io reclamavo aria e luce. La stavo brutalizzando con la mia testa impaziente. «Non posso» sussurrò mia madre, la sua voce soffocata in gola. Si immaginava tutte le cellule del suo corpo nitidamente stirate e ordinate, pronte a essere piegate e riposte su uno scaffale. Tutte le cellule eccetto quelle ribelli nel suo seno. Niente, sapeva, avrebbe potuto eradicarle. Nelle ultime quattro settimane, il nodulo era cresciuto da un piccolo uovo al pugno di un bambino. Lo aveva tenuto nascosto a mio padre con l’imbottitura del reggiseno per le puerpere, voltandogli la schiena ogni volta che si vestiva la mattina. «Certo che puoi!» insistette Bob, e con le sue parole lo rese possibile. Mia madre sentiva le mani di Bob Morgan toccarle l’apertura tra le gambe e trasalì quando inserì le dita guantate nelle sue morbide profondità. Sapeva che aveva fatto nascere dodici bambini ad Aberdeen, incluso il suo stesso figlio e Serena Jane, ma davanti a lui provava ancora una certa timidezza. «Lily…» Bob catturò di nuovo il suo sguardo. «Adesso ti metterò sotto dei cuscini e poi puoi iniziare a spingere.» Sistemò dei cuscini e un lenzuolo dietro di lei e le sollevò ancora di più l’orlo della camicia da notte. Arrivò una fitta talmente lancinante, che mia madre smise del tutto di badare a quello che Bob Morgan vedeva, anzi, gli fu persino grata, 38


per quello sguardo, che era così penetrante e in grado di ricordarle chi fosse prima che tutti quegli strati causati dalla gravidanza la trasformassero. «Ho gli occhi azzurri» mormorava per ricordare a se stessa di se stessa, acute parole febbrili. «Mi piace il verde» e poi la sua lingua si allentò del tutto e diede il via a un guaito ininterrotto direttamente dalla gola, un suono simile a quello di un gatto in un lago di sangue. Era ancora persa nel delirio del suo catalogo mentale – una lettera a suo figlio che avrebbe scritto non appena avrebbe smesso di soffrire – quando Bob Morgan mi estrasse da lei, impiegando non poca forza muscolare e meravigliandosi delle mie spalle possenti e della forma da uomo di Neanderthal del mio cranio. Manzo lessato, pensò mia madre, la sua cena preferita. Amazing Grace il suo inno preferito. Caro Figlio, pensò, le dita alla ricerca di una matita, ansiose di iniziare a descrivere i dettagli di se stessa. Voleva che suo figlio sapesse di lei tutte queste cose prima che se ne dimenticasse o che non ci fosse più. Natale, la sua festa preferita. Dalia, il fiore che le piaceva di più. Si perse però l’espressione di Bob Morgan quando alla fine mi liberò da lei e si accorse che ero una bambina. Le sue mani scivolarono sotto la mia testolina viscida. Quasi mi faceva cadere. «Lily» sussurrò, chinandosi su di lei. «Guarda, è una bambina, non un maschietto. Hai un’altra bambina.» Solo allora si accorse dell’enorme pozza di colore purpureo che si stava espandendo sulle lenzuola. «Lily?» gracchiò di nuovo, proprio mentre io iniziavo a strillare. Spostò lo sguardo dalle guance pallide di mia madre al mio viso dal naso a patata. Mi appoggiò sulle lenzuola zuppe, il cordone ombelicale ancora attaccato, e quando si avvicinò al collo di mia madre per sentire il battito, le dita lasciarono una striscia color rosso 39


acceso sulla sua gola. Una fievole pulsazione batteva sotto le sue dita, ma, Bob Morgan sapeva, non ancora per molto. Non si occupò degli annessi fetali, tagliò semplicemente il cordone dal mio stomaco e lo annodò, ignorando le mia urla furiose. «Lily» domandò ancora, scuotendo la spalla di mia madre e lasciandole altre sbavature rosse sul suo petto, così da farla sembrare un selvaggio truccato per la guerra. Mi mise sopra di lei. «Lily, devi dare un nome alla tua bambina.» Ma la testa di mia madre penzolava e i suoi occhi lo fissavano, gelatine incassate nelle orbite. Dentro l’universo della sua scatola cranica, la sua mente stava ancora passando in rassegna il suo meraviglioso inventario di se stessa, la lista che avrebbe presentato a suo figlio – i dolci preferiti, i film. Piccole Donne, il libro che amava più di ogni altro. Non che un maschietto avrebbe voluto leggere una storia del genere – il piccolo dramma di abiti bruciati e capelli rasati, tutta roba di sorelle. Cercò di pensare a un libro per maschietti, non vi riuscì e quindi decise di terminare la sua lettera. «Yours Truly, Tua con amore1», sussurrò attraverso l’aria stagnante della stanza, ma fu dura. C’era un animale appollaiato sul suo petto, aggrappato al nodulo del suo seno. «Prendilo» pensò. «Tanto per cominciare, non l’ho mai voluto.» «Truly?» disse perplesso Bob Morgan, mentre si puliva le mani con uno straccio, dito luccicante dopo dito luccicante. «Lily, che diavolo di nome sarebbe?» Ma non ricevette mai una risposta. Quando mi prese dal petto di mia madre, reggendo la mia testa enorme con il palmo aperto dalla sua mano, le labbra di lei erano ormai livide come il cielo là fuori. «Okay» disse Bob Morgan, guardandomi negli occhi, «sarai anche brutta come la fame e pesante come un bue, ma penso che tua madre ti abbia amata sinceramente.» 1  Gioco di parole. La madre chiude la sua presunta lettera con l’espressione «Yours, Truly», appunto «Tua con amore». Il dottore comprende “Truly” come nome dato dalla madre alla figlia.

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Con gli occhi spalancati, mi succhiavo il pugnetto e accolsi le parole del dottore con uno sguardo severo, come se già sapessi che per i tre decenni a seguire sarebbe stato l’unico collegamento diretto che avrei avuto con la parola amore.

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Alla scoperta di Truly Plaice, una donna dallo spirito indomabile con il cuore molto più grande del suo gigantesco aspetto fisico, un po’ ippopotamo, un po’ strega e un po’ Cenerentola...

La

della

ragazza gigante contea di A berdeen

T i f fa n y Baker

Tiffany Baker vive nella Contea di Marin (CA) con suo marito e i suoi tre figli. Ha finito il suo secondo romanzo The Gilly Salt sister, che sarà pubblicato nel 2012.

“Troverete grazia e senso in una parvenza inusuale che segnano l’avvento di un nuovo talento letterario.” – BookReporter.com – “Ti afferra dal suo inizio sorprendente al suo incantevole epilogo. Un amore assolutamente unico, un’amicizia devastante e la stregoneria, il tutto racchiuso nel gigantesco personaggio di Truly.” – Sara Gruen, autrice di Acqua per gli elefanti –

In copertina foto © Scott Nobles

Grafica: zero91 s.r.l.

www.zero91.com

9

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La ragazza gigante contea di A berdeen

della

“Incantevole... una eroina dei nostri giorni.” – USA Today –

romanzo

0

,9

18

ISBN 978-889538137-4

788895 381374

“Seducente... rigoglioso.” – Washington Post – “Un libro splendido.” – Boston Sunday Globe – “Meraviglioso.” – Chicago Sun-Times –

{zeroI91}

Prima che Truly Place venisse alla luce, l’intera cittadina di Aberdeen si era riunita per scommettere sul peso di quel nascituro che era stato capace di deformare in modo così imponente il ventre della madre. La donna purtroppo non sopravvive al parto ma consegna al mondo una bambina che comincia a pagare, sin dal primo vagito, il prezzo della sua enormità. Persino il padre non perdona a Truly di essere rimasto da solo a prendersi cura di lei e della sorella maggiore che, per un beffardo scherzo del destino, è l’incarnazione della perfezione femminile. Così, mentre le incredibili dimensioni di Truly la rendono oggetto di curiosità e umiliazioni costanti, la bellezza di Serena Jane la trasforma nell’ossessione di Bob Bob Morgan, il giovane rampollo del più antico clan dei dottori di Aberdeen. Quando Truly scopre il libro delle ombre, un compendio di stregonerie vecchio di secoli e custodito segretamente dalla famiglia Morgan , Bob Bob matura un interesse sospetto per la ragazza gigante che si sta avvicinando pericolosamente ad una verità così enorme da farla apparire minuscola. Il destino costringerà ancora Truly Place ad affrontare i propri demoni, a ridefinire la pietà e a mettere in conto che il vero amore non possa essere ordinato entro certe dimensioni.


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