Il mese delle farfalle

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“Leggere Il mese delle farfalle è come ascoltare le note di un pianoforte... è un libro bellissimo e accattivante.” Marcel Moring

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“Moderno nello stile e nella struttura, la scrittura è concisa e controllata... una lettura fresca.” The Weekend Australian

“Kornmehl cattura la cruda realtà della vita a Johannesburg e dipinge una dolorosa e realistica amicizia.” Sydney Morning Herald In copertina foto © Hans Neleman/Getty Images Design Costantino Margiotta

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ARIËLLA KORNMEHL

IL MESE DELLE FARFALLE romanzo

Joni è una giovane dottoressa che lascia l’Olanda per andare a lavorare in un pronto soccorso del Sudafrica. Zanele è una donna di colore che ha bisogno di una casa per i suoi due figli avuti da due uomini diversi. L’Africa è un luogo che intreccia i destini di queste due donne.

IL MESE DELLE FARFALLE

“Kornmehl descrive solitudine, disuguaglianze e destino, riuscendo nell’intento con maestria. Ci mostra i suoi personaggi e il loro mondo in tutte le loro complessità.”

ARIËLLA KORNMEHL

Ariëlla Kornmehl nasce ad Amsterdam nel 1975. Dopo la laurea in fi losofia ottenuta presso l’università di Amsterdam trascorre due anni a Johannesburg. Debutta nel mondo letterario nel 2001 con De familie Goldwasser. Il mese delle farfalle, pubblicato in Olanda nel 2005, è il suo secondo romanzo, tradotto anche in Israele, Australia, Francia e Germania.

Le ferite di un amore sbagliato, la necessità di un esilio volontario, la condanna di un corpo svuotato portano Joni in una zona apparentemente protetta. Potrà affidarsi alla grande anima di Zanele che sorride, mugugna e protegge la madam bianca venuta da lontano. Il mese delle farfalle è un viaggio all’interno di se stessi in una terra dimenticata che non si limita a fare da sfondo. L’Africa è nera, lontana, selvaggia, caotica, barbara. È tutto ciò che Joni considerava lontano da sé. Come una minaccia inaspettata. Passato e presente, racconto lineare e flashback si alternano in un romanzo che non è solo un’investigazione sulla natura dell’uomo, ma anche un’esplorazione sulla diversità, sul razzismo di ritorno, sulla povertà e sulla ricchezza che dividono gli uomini in classi, sulla perdita, sulla casualità e sui cambiamenti scanditi da un tempo riconoscibile solo per il volo delle farfalle.

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ARIテ記LA KORNMEHL

Il mese delle farfalle


Titolo originale dell’opera De vlindermaand Traduzione di David Santoro

Copyright © 2005 Ariëlla Kornmehl Copyright © 2005 Uitgeverij Cossee BV, Amsterdam Copyright © 2008 zero91 s.r.l., Milano Tutti i diritti riservati

I Edizione maggio 2008 ISBN 978-88-95381-05-3

Questo libro è stato pubblicato con il contributo del governo olandese tramite la Fondazione per la Produzione e Traduzione della Letteratura Olandese (NLPVF), suo organismo consultivo per il finanziamento delle arti.

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ARIテ記LA KORNMEHL

Il mese delle farfalle Traduzione di David Santoro

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Il mese delle farfalle

Parte I

L

e piante dei piedi erano rivolte verso di me. Non mi aveva sentito entrare. Era inginocchiata sul pavimento con la testa e il busto infi lati sotto il letto. «Zanele?» Zanele trasalì e sorrise, il suo sguardo non tradiva emozione. «Bracciale che mi hai dato, metto sotto il letto.» La guardai stupita. Non era per quello che glielo avevo regalato, ma per portarlo. «Metto via. Quando non posso più aspettare, allora porto.» Messo al sicuro il bracciale, andammo insieme in cucina lungo il vialetto che collegava la sua stanza alla casa. Si infilò il grembiule e lo allacciò dietro la schiena. Il suo corpo armonioso prese a muoversi per la cucina. Osservavo sempre con piacere i suoi preparativi in quella mezz’ora al giorno in cui ci parlavamo. Sistemò meticolosamente il cibo sul piano di lavoro. Aveva preso dei piselli, voleva che mangiassi più verdure. Mi guardò,

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con i filetti di pollo in mano. «Spezie?» Annuii. Sedevo come una bambina sulla parte libera del banco della cucina, con le gambe penzoloni, appoggiata sulle mani, mentre Zanele prendeva dalla credenza un piatto, un bicchiere, le posate e un tovagliolo. Le chiesi di nuovo se non voleva mangiare con me quella sera, ma preferiva mangiare in camera sua. Più tardi sentii bussare lievemente alla porta del mio studio. La lasciavo sempre aperta, ma lei bussava ogni volta come se fosse chiusa. Avevo lasciato sulla tavola un epistolario che ora Zanele, ferma sulla soglia, agitava in aria. «Cosa c’è in libro?» domandò, come faceva per ogni libro che leggevo. «Oh... lettere. Non l’ho ancora iniziato.» «Lettere? Non divertente», disse. Ormai sapevo esattamente cos’era che piaceva a Zanele. Voleva che le raccontassi le storie che avevo letto. Leggevo per due. Aveva immediatamente rifiutato, tre anni prima, la mia proposta di insegnarle a leggere. Con l’indice puntato, aveva detto: «Tu legge per me».

Con le mani vicine al bollitore che si stava scaldando, ero lì in attesa, al mattino presto. Zanele entrò in cucina e si tolse il berretto di lana. Per tutta la mattina, ogni mattina, lo teneva in tasca, del resto non poteva sapere quando ne avrebbe avuto di nuovo bisogno. Ci demmo il buongiorno. Sentivo il suo sguardo su di me. Ero in mutandine e canottiera e presi un bicchiere per scioglierci del caffè solubile. Zanele si mise dietro di me.

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«Troppo magra, Joni.» Erano circa le sette del mattino, decisamente troppo presto per pensare a cose del genere. «Sveglia?» Sì, ero sveglia, ma non ero ancora in grado di reagire. Versai l’acqua bollente sul caffè. «Mangia anche», disse. Feci di no con la testa. Zanele voleva che facessi colazione. Un paio di volte a settimana cercava di ottenere questo risultato preparandomi qualcosa. Ma non ne avevo voglia. Solo verso le sette, quando rientravo a casa, riuscivo a mangiare qualcosa. Facevo un solo pasto al giorno. Zanele faceva la spesa nel villaggio più vicino. Se mi occorreva qualcosa in particolare, lo dicevo a lei. A volte non capiva con precisione cosa volevo o non riusciva a ricordare il titolo di un libro, in quei casi le scrivevo un appunto su un bigliettino. Quando non ero al lavoro, leggevo. Allora stavo da sola, o con Zanele. Mi ero abituata a lei, era proprio come se fosse un po’ parte di me. Il che era una sciocchezza, naturalmente, nessuno era parte di me. Un giorno le avrei raccontato cosa mi aveva portato in quel posto. Doveva saperlo.

Con un berretto di lana blu scuro in testa, bussò tre volte alla massiccia porta di legno. Allora non sapevo ancora che qui la gente portava sempre il berretto, anche quando si moriva dal caldo. Perché ci si copriva sempre la testa, non l’ho mai capito sul serio.

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Le chiesi chi era e cosa voleva da me e lei rispose con una domanda. Se poteva entrare. Visto che ormai non poteva più succedermi nulla, le dissi che potevo senz’altro dedicarle qualche minuto. Entrò in salotto come se conoscesse la strada e disse il motivo per cui era venuta. Senza guardarmi in viso, disse mescolando afrikaans1, un inglese smozzicato e qualche parola di una lingua locale, che aveva saputo che in questa grande casa era venuta ad abitare una donna sola. Quella, ero io. Zanele non era sola, aveva dei figli, ma non una casa ed era “platsak”2. Non capii subito cosa voleva dire, ma mi spiegò chiaramente che voleva venire ad abitare qui e prendersi cura di me. Mi sentii subito vecchia. In cambio chiedeva che i bambini avessero di che mangiare. La prima volta, quel pomeriggio, è rimasta un’ora. L’idea che ci fosse qualcuno a dare un’occhiata se stavo male o se avevo paura, non mi dispiaceva affatto. Le dissi che poteva portare anche i bambini, per vedere se la cosa poteva funzionare. Zanele era visibilmente soddisfatta.

Le chiesi dov’era suo figlio. L’ultima settimana non lo avevo visto da queste parti. Zanele si allungò e agitò la mano destra in aria, alta sopra la testa. Capii che Mbufu se n’era finalmente andato di nuovo al nord. Da qualche parte su al nord, in un villaggio che si trovava in una valle, vicino ad un fiume, viveva l’uomo che Zanele pensava fosse il padre. Era solo la terza volta 1 Lingua germanica occidentale parlata principalmente in Sudafrica e Namibia. Deriva dal dialetto detto kaap nederlands (nederlandese del Capo) che si sviluppò fra i coloni boeri e i lavoratori portati nella Colonia del Capo dalla Compagnia Olandese delle Indie Orientali. (N.d.E.) 2 Slang di Città del Capo, significa: squattrinata, senza soldi. (N.d.E.)

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che ci andava. Anche quella volta, quando aveva raccontato di quell’uomo che stava al nord da qualche parte, aveva agitato la mano destra sopra la testa e sottolineato che lui non aveva niente a che fare con la piccola Shanla. Fisicamente i bambini si somigliano, per le braccia e le gambe lunghe e perfino per come mettono i piedi quando camminano. Ma Shanla voleva imparare, era curiosa e faceva progressi. Mbufu invece era pigro. Pigro come lo sono in molti da queste parti. Passava molto tempo in strada. Stava in strada ad aspettare senza sapere cosa. Shanla sapeva già scrivere un po’ e anche la lettura le riusciva bene. Ma non le dedicavo più di una sera alla settimana. Dovevo andare avanti con il lavoro, completare le cartelle cliniche del giorno. Era sempre contenta. Quando lavoravo a casa, qualche volta di giorno, la sentivo esercitarsi con l’unico libretto che aveva. Fino a mezzogiorno, poi in genere andava fuori a giocare e chiamava le altre ragazzine del vicinato. Potevano giocare per molto tempo senza annoiarsi, ma di giocattoli ce n’erano ben pochi. Inventavano da sole i loro giochi, con animali e alberi. Cercavano di acchiappare tutto quello che volava. Eccetto le farfalle, perché le trovava troppo belle. Correva dietro agli insetti con un barattolo di vetro in una mano e il coperchio nell’altra. Quando riusciva finalmente a catturarne uno, lo lasciava subito andare. Non capivo dov’era il divertimento. «È come la pesca sportiva?» Non capiva di cosa parlavo. Non aveva mai visto un pesce. D’estate davano la caccia ai ratti. Correvano a una velocità mai vista nel fango del giardino. Non volevo che Shanla si avvicinasse tanto a quelle bestie schifose, glielo avevo già detto molte volte, ma non mi dava retta, il gioco le piaceva troppo. Dopo

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una notte di pioggia aspettava che un ratto venisse a abbeverarsi dentro casa. La prima volta che ne vidi uno bere da una pozzanghera accanto alla parete della cucina mi spaventai a morte. Terrorizzata, chiamai Zanele, che venne da me con tutta calma. «Sono dappertutto», disse per tranquillizzarmi. Mi sentivo mancare sempre più il respiro. «Proprio come gli uomini.» La guardai stupita. Zanele fece un sorriso. «Crescere, avere fame, fare bambini, morire.» Shanla chiese se poteva ascoltare un CD. Mentre il disco luccicante scivolava nel lettore, Shanla si mise a sedere per terra. Le dissi per l’ennesima volta di mettersi sul sofà, ma non mi dava retta. Quando udì le voci e la musica chiese perché non c’erano tamburi. Scossi la testa e lei prese un’espressione corrucciata. Mi rimisi al lavoro, dovevo ancora esaminare il fascicolo di un paziente. Secondo lei per fare musica c’era bisogno dei tamburi. Zanele ne aveva uno in camera sua e con quell’unico tamburo suonavano centinaia di canzoni diverse. Anche di sera, dopo cena, mentre me ne stavo in casa per conto mio, le sentivo spesso cantare qualcosa. In genere Zanele suonava il tamburo e Shanla cantava insieme a lei. Avevano tutto un repertorio. Forse Shanla ballava pure, non lo sapevo, e non volevo domandarglielo. Noi a casa non cantavamo mai. Del resto quand’è che c’eravamo tutte e due, io e mamma? Solo il lunedì pomeriggio, due volte al mese, quando prendevo lezioni di piano. In quei giorni, dopo la scuola, riportavamo prima a casa gli altri. Io avevo il permesso di stare sul sedile davanti. Osservavo mamma con la coda dell’occhio e solo allora, in quei pome-

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riggi, potevo vedere come era fatta, i lunghi riccioli neri che le incorniciavano il viso e le labbra carnose. Sembravano sempre contornate da una specie di linea, non disegnata con la matita, una linea della sua pelle, sottile e un po’ più rosa, che correva intorno alle labbra. Durante il percorso in genere metteva gli occhiali da sole, anche quando di sole non ce n’era. Poi accendeva la radio. Se trasmettevano musica e conosceva la canzone, si metteva a cantare. Io non ne conoscevo mai una. Ascoltava attentamente il giornale radio e mentre leggevano le notizie faceva commenti, scuoteva la testa o increspava le labbra. Qualche volta imprecava addirittura, a voce molto bassa, perché non la sentissi. In quei momenti si rendeva improvvisamente conto della mia presenza. Stava lì seduta in macchina con gli occhiali da sole, adatti alla forma del suo viso. Il mio ha un colorito diverso, è meno radioso, ma la forma è la stessa. Mi è accaduto una sola volta, in tutti quegli anni, di poter andare in bicicletta alla lezione di piano. Anzi, di doverci andare in bicicletta. All’inizio non voleva sentirne parlare, la strada era troppo lunga e trafficata, diceva. L’unica volta che ci sono dovuta andare da sola era comunque venuta a prenderci a scuola, ma poi quando tutti erano stati riportati a casa, disse che c’era un contrattempo, una cosa molto importante. Dovevo scendere anch’io. Non capivo cosa stava succedendo, ma di sicuro doveva essere molto importante, se potevo – dovevo – fare in bicicletta tutta quella strada e con tutto quel traffico. Non chiesi il motivo, mi limitai ad annuire obbediente quando mi disse che dovevo essere prudente e indicare col braccio prima di svoltare, e fare attenzione soprattutto su quel ponte stretto, all’angolo della scuola di musica. Prima di scendere le diedi un bacio su una guancia e sentii che si era messa il pro-

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fumo. Era molto bella, portava una gonna corta marrone e calze velate dello stesso colore. Aveva certamente anche le scarpe color marrone coi tacchi alti, ma non potevo vederle, teneva i piedi sui pedali. Cosa andava a fare? Era un segreto? Forse mi riguardava? Avrei ricevuto un regalo? Non avevo ancora chiuso lo sportello che era già partita.

Il vento faceva sbattere le finestre e mi distolse dai miei pensieri. Si era fatto più buio. Zanele si affrettò a entrare nella stanza e a chiudere le finestre. Si era già infilata il suo maglione sformato e il berretto di lana. Capii che si trattava di un temporale coi fiocchi. Violento. Qui i temporali erano così furiosi che avevo paura, della forza del vento, del potere che esercitava su questa terra. Chiusi la porta dello studio che dava sul giardino. «Luci», gridò Zanele. Me lo ero scordato un’altra volta, bisognava lasciare le luci accese così se mancava la corrente ce ne saremmo accorte subito. Spensi il computer. In due minuti, cadde tanta pioggia che fuori vedevo il livello dell’acqua salire contro i muri della casa. Ma non me ne preoccupavo, domani mattina il sole l’avrebbe asciugata, lo sapevo. Domani, quando le lumache cadute dal cielo insieme alla pioggia avrebbero ripreso a strisciare a loro piacimento. Quando la luce andò via, tirai fuori due candele. Zanele mi portò un maglione. Era quello che non mettevo volentieri, pizzicava. Quella sera venne da me con la sua camicia da notte a fiori, con una candela in mano. Si accompagnava canterellando una melodia. Volevo dirle che mi angosciava, passare la notte intera senza corrente, così al buio, tutta sola. Ma non dissi niente.

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Sul palmo della sinistra teneva un piattino con due panini scuri spalmati di marmellata. Ci avrei bevuto volentieri un tè insieme. Le chiesi di aspettare un momento, di restare lì in piedi e vedere che ne mandavo giù un boccone senza che mi succedesse niente. Si mise a ridere. «Sì, lo so, corpo bianco può mangiare pane scuro.» Ma un corpo nero no. Glielo inculcavano fin da piccoli. Che il pane scuro non mi facesse star male, per lei non dimostrava niente. Ci avevo già provato anche col mais giallo. Le avevo detto che tutto il mondo lo mangia e a nessuno viene niente. Ma l’impotenza sì, aveva risposto, per questo i bianchi sono più spesso impotenti dei neri. «Non c’è nessuna differenza tra i nostri corpi, te l’ho già detto cento volte, Zanele.» «Ahh.» Fece un gesto come a dire che non ne capivo niente e se ne andò. Il Dio dell’Africa era arrabbiato ormai da settimane. Misi la testa sotto le coperte. A ogni tuono rabbrividivo. Erano vicini. Provai a contare quanto passava tra il lampo ed il tuono, ma non ci riuscii, sembrava un istante. Le mie dita strinsero con forza il lenzuolo, gli occhi si rintanarono dietro le palpebre. Domani sarebbe passato. Domani l’avrei visto coi miei occhi, domani, quando le lumache sarebbero ricomparse numerose e avrei sentito l’odore lasciato dalla pioggia. E domani sarebbe stato il giorno dopo il mio compleanno. Per fortuna nessuno lo sapeva. Non mi piacevano i compleanni. Ma a casa lo sapevano. A casa dovevano aver pensato a me, senza dirlo hanno pensato a me. Mamma ha ricordato il giorno in cui ci siamo comportate insieme con valore, il giorno in cui entrambe abbiamo mostrato la nostra forza. Ma oggi lei mostrava la sua debolezza.

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La coperta era arrotolata ai piedi del letto. Faceva troppo caldo. Guardavo in alto. Non vedevo il soffitto. Sapevo che c’era, ma non lo vedevo. Trovavo terrificante il fatto che anche premendo un interruttore non cambiasse nulla. Voltai la testa da una parte. Non vedevo la finestra. Sapevo che era lì, ma non la vedevo. Era dietro le tende. Ma io non le vedevo. E oltre la finestra brillava una luna che ora doveva essere nascosta. Ma sapevo che era molto vicina, che bastava allungarsi a sufficienza per afferrarla. La tempesta si ripeteva una notte dopo l’altra da così tanto tempo che non sapevo quanto fosse cresciuta. Speravo che non fosse ancora piena. Quando è piena ha qualcosa di triste. La luna piena significava una nuova occasione. Giovani uomini dei paesi confinanti si infilavano le scarpe, si legavano bottiglie d’acqua alla vita e iniziavano un cammino notturno che doveva portarli in un paese di questo continente più ricco del loro. Il chiarore lunare li aiutava a eludere i controlli alla frontiera e così, una volta penetrati in questa repubblica, potevano stringersi soddisfatti le loro forti mani. Solo da quel momento in poi cominciavano ad avere davvero paura, e non per via del loro ingresso clandestino. Quegli uomini tutti sudati si avventuravano in un territorio in cui, oltre alle iene e agli elefanti, vivevano soprattutto i leoni. Al mattino, dopo una notte di luna piena, si leggeva regolarmente sul giornale di qualche guardia di frontiera che aveva ritrovato delle bottiglie d’acqua, pantaloni e scarpe a brandelli. Eppure continuavano lo stesso a provarci. Ma io non vedevo alcuna luna. Non vedevo a un palmo dal naso. Se le cose fossero andate diversamente, non mi sarei trovata qui. Non avrei abitato in Africa, non avrei fatto il lavoro e la vita che facevo adesso.

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Al mattino presto Zanele venne a dire che andava al villaggio con Shanla, subito, finché non faceva ancora caldo. Voleva sapere se avevo bisogno di lei in casa per qualche faccenda. Scossi la testa. Mi ricordai che avevo finito la mia riserva di fogli di carta e le chiesi se poteva portarmene una nuova risma. Sentite le mie parole, Shanla chiese se in libreria poteva comprare delle matite. Tirai fuori dei soldi e dissi che erano anche per le matite. Shanla sorrise. Mbufu, secondo Zanele, era rimasto a casa, ancora stanco del viaggio di ritorno dal nord. Ma non udivo alcun segno della sua presenza, forse se ne stava di nuovo a ciondolare da qualche parte. Aveva ormai sedici anni, ma non sapeva come passare il tempo. Aveva fatto della noia la sua occupazione. Stavo terminando una relazione al computer per il mio turno serale. Non riuscivo a lavorare come si deve. Pensavo a come dirglielo, a qual era il modo migliore per farmi capire. Ogni volta che qualcosa non era ben chiaro, si avvicinava di un passo e io sostituivo qualche parola con un’altra. Più dovevo esprimermi con semplicità e più mi sembrava difficile. Da dove dovevo cominciare? Forse dall’inizio. O da Wouter. Sì, dovevo cominciare da Wouter. Così avrei potuto dirle che avevo conosciuto il vero amore. O avrebbe riso di me? Faceva troppo caldo per tutta quella strada a piedi, fino al villaggio e ritorno, ma volevano andare ad ogni costo. E quando Zanele si metteva una cosa in testa, doveva essere fatta. Tornarono nell’ora più torrida del giorno, cariche di buste. Ma a guardarle, sembrava che se ne fossero state semplicemente sedute all’ombra del grande albero lì dietro l’angolo, non sudavano mai. Shanla mi porse la risma e Zanele chiese se poteva tenere i pochi soldi avanzati di resto. Annuii e mi resi conto

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che quello non era il giorno adatto per mettersi a raccontare qualcosa. In ogni caso, nemmeno io ero in forma, avevo poche ore di sonno alle spalle e appena mi ero accorta che era tornata la corrente, mi ero messa subito al lavoro, fin dalle prime ore del mattino. Forse, in previsione del turno serale, avrei dovuto riposare ancora un po’ in terrazza sotto l’ombrellone. E proseguire dopo con quella relazione. Mentre stavo uscendo Zanele disse che era andata a controllare la nostra cassetta delle lettere al villaggio. Inarcai le sopracciglia. «Niente posta», disse. Non c’era mai posta, ma lei andava sempre a controllare. Sprofondai in una delle sedie del terrazzo. Anche con gli occhi chiusi, la luce forte del sole mi disturbava. Continuava a stupirmi come il tempo potesse essere tanto cattivo di notte e tanto mite di giorno. Ogni anno, il Dio dell’Africa si manifestava in quel modo d’estate. Cominciai a contare le estati che avevo già passato qui, ma la stanchezza me lo impedì. Erano alcuni anni, in ogni caso. Anni senza posta.

Con un movimento breve e delicato mi scosta i capelli dal viso. Le sue labbra si avvicinano e mi imprimono un bacio proprio in mezzo alla fronte. Chiudo gli occhi, ne voglio ancora. Abbandono, provo un senso profondo di abbandono. Quel bacio può voler dire che sta andando via, o che vuole fare l’amore con me. Quando la frangetta mi ricade sulla fronte, le sue mani scivolano tra le mie gambe. Il mio corpo riceve ciò che desidera,

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mi lascio sprofondare nel mio vero mondo, il mondo in cui tutto proviene dal mio ventre, in cui sono sveglia mentre la mia testa dorme. Lui è accanto a me e mi protegge. È un gran lusso abbandonarmi, prima a lui e poi a me stessa. E ancora quel bacio, impresso come un sigillo tra le sopracciglia, alla radice del naso. Un grido mi risvegliò, veramente sembrava un misto di grida e pianto. Per un attimo pensai che stessero ancora cantando. Mi alzai e rientrai in casa passando dalla cucina, lungo il vialetto che portava alla stanza di Zanele. La porta era chiusa e questo significava che non potevo entrare. Mi chiedevo cosa accadesse lì dentro. Shanla era incredibilmente sconvolta. Restai dietro la porta. Zanele sembrava arrabbiata, ma io non capivo lo zulu3. Irritata, tornai dentro e attesi nella mia stanza che tornasse la calma. Quando più tardi Shanla venne da me tutta triste, mi spaventai. Una sottile peluria le ricopriva la testa. Le domandai cosa era successo. Piagnucolando, disse che era stata la madre. Aveva troppi nodi tra i capelli. Si passò le dita sulla nuca. «Adesso sono maschio.» Spostai indietro la sedia e la presi sulle ginocchia. Passai la mano destra sui suoi capelli ruvidi, gli occhi le si riempirono di nuovo di lacrime. Cercai di tranquillizzarla, ci voleva ben altro per diventare un maschietto. Ma lei disse di no.

3 Lo Zulu è la lingua più parlata nel Sud Africa ed è diventata una delle 11 lingue ufficiali del Paese dopo la fi ne dell’apartheid. (N.d.E.)

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Le settimane di tempesta erano terminate. Zanele con la testa piegata all’indietro osservava il cielo. «Proprio andate via!», esclamò con entusiasmo. Erano settimane che aspettava quel momento, ed ora era finalmente arrivato. Era andata quattro giorni da una sua amica, originaria della sua stessa township4. La sua assenza sembrò lunga un mese. Forse perché aveva portato i ragazzi con sé. Non capivo come mai, tutto d’un colpo, andava via per quattro giorni. La casa si era fatta improvvisamente silenziosa, tutto dormiva. La sera non mi sedevo sul banco della cucina e al mattino non ridevo. Mi spalmavo un panino e pensavo agli ultimi momenti prima della sua partenza, all’ambulanza per gli animali, a come ne avevamo riso. Le spiegai che in Olanda era una cosa normalissima, ma lei non voleva credermi, e in fondo era proprio assurdo. Dove era cresciuta lei non ne arrivava neppure una normale di ambulanza, per quanto uno fosse malato. Raccontò di sua madre, che era rimasta ad aspettare di morire. Nessuno stregone ci capiva niente. In città in un caso del genere si fa venire il dottore, Zanele lo sapeva. Gli si telefonava. Ma se non hai un telefono non lo puoi chiamare, e se non hai un indirizzo nessuno ti può trovare. Avevano suddiviso la township in quattro, per poter almeno parlare di una zona est e di una zona sud. Lì si poteva chiedere di una determinata baracca e in genere si riceveva qualche aiuto in più. Sua madre era morta di attacco cardiaco, disse Zanele. Le chiesi come faceva a saperlo. Rispose che suo fratello maggiore aveva detto che il suo cuore aveva smesso di battere, quindi aveva avuto un attacco cardiaco. Annuii e mi figurai quella madre, di cui sapevo ben poco 4

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Baraccopoli con capanne di lamiera e cartone. (N.d.E.)


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oltre al fatto che lavava i suoi sette figli uno dopo l’altro, nell’ora più calda del giorno, con un panno e un secchio d’acqua tiepida. Tiepida, perché prima di usarla la lasciava al sole tutta la mattina. Una volta Zanele mi aveva fatto vedere come si mettevano seduti tutti in fila sul letto della mamma. «Nudi, naturalmente», disse Zanele facendo una montagnola con le mani all’altezza del ventre. I bambini dovevano posare i vestiti sul letto accanto a loro per poi infilarseli da soli. La madre li chiamava uno per uno e li lavava. Per asciugarli aveva un panno a parte, ma quando toccava all’ultimo o magari anche al penultimo ormai era inservibile, e così dovevano asciugarsi al sole. In genere la madre di Zanele lasciava uno dei maschi per ultimo. Il lavaggio generale si svolgeva un giorno sì e uno no, e Zanele annusò l’aria per descrivere come tutto aveva un buon profumo. L’ambulanza per gli animali! Ce la siamo quasi fatta addosso. A me facevano ridere soprattutto la sua risata sfrenata, la sua incredulità e il suo sguardo stupito. In occasioni come queste, Shanla non tardava mai molto a rientrare in casa con un sorriso da monella sulle labbra e a chiedere conferma di quel che le raccontava la madre. Durante i preparativi per il loro viaggio di quattro giorni, se ne stavano a chiacchierare con la porta semiaperta per lasciar passare un po’ d’aria. Zanele parlava degli uomini in generale. Spiegava per bene a Shanla come poi avrebbe dovuto farsi trattare dagli uomini. E soprattutto come non doveva farsi trattare. In effetti gli uomini che a volte venivano a trovare Zanele sembravano quasi onorati di essere ammessi nella nostra casa. Non per la casa, ma perché Zanele li aveva invitati. Se un uomo non si comportava correttamente, lei lo sbatteva immediatamente

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fuori. Shanla imparò in questo modo che da grande non avrebbe mai dovuto lasciarsi infinocchiare, e che non avrebbe mai dovuto lavorare per dare i quattrini a un uomo, come diceva Zanele. La sola cosa da fare con i soldi guadagnati, era nutrire i figli. Da quando avevano due anni, il cibo bisognava comprarlo. Per i figli si poteva dare l’anima, per gli uomini no. Gli uomini considerano le donne come un parcheggio, da cui prima o poi ripartono immancabilmente, Zanele ne era convinta. Faceva regolarmente questi discorsi a sua figlia, come se ripeterli aiutasse Shanla a capirli meglio. L’ascoltavo attentamente mentre cercava di rendere chiare idee come quelle, e intanto mi piaceva osservare i movimenti armoniosi del suo corpo che partivano dai glutei. Quando saliva le scale il sedere dava il ritmo e il corpo lo seguiva. Poco prima di partire si fermò sulla soglia del mio studio con una delle mie foto in mano. «Cos’è questo?» Vidi i miei fratelli giocare nella neve. Berretti e muffole. «Quella è neve, Zanele, ma non voglio che guardi le mie foto, lo sai...» Si spaventò e mormorò che voleva solo sapere cos’era quella cosa bianca. Non volevo che guardasse le mie foto. Neppure io lo facevo.

«Entro cinque anni tutti i bianchi vivranno a Soweto.» La guardai sorpresa. «E sai qual è il vantaggio?» Scossi la testa. Zanele sollevò le palpebre e piano piano cominciò a sorridere.

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«La loro roba sta già arrivando!» Mi venne da ridere. Aveva passato qualche giorno con delle altre persone, che le avevano raccontato questa barzelletta. Se poi lo era. «Buona?», chiese ancora per averne conferma. La trovavo più che buona. Quando le chiesi se aveva anche altre notizie rispose che le teneva per un altro momento. Non mi importava quando avrebbe raccontato qualcosa, purché restasse a casa. «Ah, adesso lo vedo, la dottoressa ha tagliato capelli!» Ero un po’ imbarazzata. «Ce n’era bisogno, no?» Mi chiese se potevo girarmi un istante, voleva vedere quanto erano lunghi di dietro adesso. «Hmm, non fatto bene!» Non conoscevo nessun parrucchiere nei dintorni, quindi me li tagliavo da sola. «Non devi chiamarmi dottoressa.» Mi sedetti sul banco della cucina, posai i piedi sul secchio della spazzatura e mi appoggiai indietro con la schiena. Allora, non volevo diventare un dottore? Chiese Zanele che aveva cominciato a cucinare. «No, non veramente.» Le raccontai dei miei fratelli, che a loro volta erano diventati dottori tutti e due. Il più grande amava anche dipingere, ma sopravvivere facendo l’artista era impossibile. «Mio padre era medico, mia madre infermiera. Ma a causa nostra aveva smesso di lavorare. Il meglio che poteva capitarti era di crescere in un ospedale...» Zanele mi posò accanto un bicchiere d’acqua. Un’abitudine alla quale non mi opponevo più; le sembrava gentile darmi qualcosa da bere. Mi diede le spalle per poter preparare il pollo. Crescere in un ospedale, mi sentii ripetere. Mi tornò in men-

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te mio padre al lavoro. A sei anni, mi era stato permesso per la prima volta, di accompagnarlo nel suo reparto, nel suo studio. Fiera di essere sua figlia, camminavo accanto a lui per i corridoi. Mio padre. Mi era anche permesso indossare il suo camice. Ma non osavo. André e Alex me ne avevano già parlato e ciò mi rendeva ancora più curiosa. Reggevo tra le mani il cotone come fosse velluto e dopo essermi finalmente infilata e abbottonata la giacca avevo una paura terribile di muovermi, in fondo era l’abito da lavoro di mio padre. Una volta mi aveva raccontato che André si era messo a disegnare in quella stanza come se niente fosse. Lo infastidiva che André si portasse appresso le sue matite ovunque andassimo. Anche lì nell’ospedale si era cercato un angolino tranquillo e si era dato da fare con i vari colori. «Mio fratello maggiore, André, è cardiologo.» «Eh?» «È un medico del cuore. Un dottore specializzato nella cura del cuore.» Bevvi un sorso d’acqua. «Sa soltanto cose sul cuore?» «No, ma di quello sa quasi tutto.» Annuì e andò a prendere il riso. L’acqua stava già bollendo. Mettere il riso nella pentola era una bella sfacchinata perché si potevano comprare solo sacchi da cinque chili. Lei da quel sacco pesante riusciva sempre a versare la quantità giusta nell’acqua bollente. «E altro fratello? Che tipo di dottore?» «È medico di famiglia. Un dottore qualsiasi, come me. La gente va a casa sua, se non è troppo malata, se no va lui da loro a curarli.» «Ah, inyanga!», esclamò. «Inyanga? Ma non vuol dire luna?»

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«Yebo. Luna. Ma anche dottore.» «Ah, vuoi dire un dottore legato alla luna? Uno stregone?» Zanele annuì, contenta che la capissi. «Noi diciamo anche sangoma...» «E cosa vuol dire?» «Dottore della magia...» Zanele parlava zulu con i suoi figli e qualche volta con me. Mi raccontò tutto quel che era in grado di fare un qualsiasi medico della magia. Che ogni villaggio ne aveva uno e che, per lo più si trattava di una persona molto anziana. Incurvò la schiena per farmi vedere come erano soliti camminare e tirò fuori una vocetta gracchiante. Mi piaceva quando cambiava voce nei suoi racconti. In quei momenti, mentre eravamo insieme lì in cucina, non mi interessava più un’altra vita, la vita diversa che avrei potuto avere. Svuotai il bicchiere, saltai giù da dove stavo, entrai in soggiorno e andai a sedere al tavolino isolato in un angolo. Zanele portò in camera sua lo stesso cibo per loro tre. Mangiammo pollo con riso e fagioli. Rientrai in cucina col piatto sporco. Non accesi la luce, dovevo solo posarlo sul piano di lavoro. Anche al buio era facile trovarlo, occupava tutto un lato della cucina rettangolare nel senso della larghezza, sotto la finestra che dava sul vialetto esterno. Richiusi la porta della cucina. Quell’inyanga, non riuscivo a immaginarmelo. Avrei voluto parlare ancora con Zanele, ma i bambini dovevano mangiare.

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Lo sguardo mi cadde sulla data di ingresso riportata in alto a destra sulla cartella di un paziente. Mi resi conto che erano passati esattamente tre anni da quando ero venuta a lavorare qui. Provocando l’irritazione di Zanele, continuavo a chiamare il mio posto di lavoro pronto soccorso. «Pronto intervento», borbottava allora lei correggendomi. A qualsiasi ora del giorno entrassi in servizio, c’era sempre moltissimo da fare. Sempre disgrazie, sempre persone in attesa. Malate, violentate, disidratate. Molti incidenti. Sempre persone che arrivavano in seguito a incidenti. A volte li portavano dentro già morti senza nemmeno accorgersene. I cosiddetti «deceduti all’arrivo», di quelli facevo presto a liberarmi. E ferite da armi da fuoco. In continuazione. Per quelle avevamo addirittura uno specialista. Io badavo a che tutto venisse accuratamente registrato per iscritto. Al lavoro spesso non ci si riusciva e così lo facevo a casa. Tutte quelle cartelle riempite a metà erano causa di ritardi e inefficienze. Ma dipendeva anche dai pazienti. Niente cognome, niente indirizzo, niente dati. Identità sconosciuta, scriveva Albert in questi casi. Io, in genere, cercavo almeno di descrivere chi mi trovavo davanti, ma spesso giungevo allo stesso risultato. Identità sconosciuta. Tre anni esatti di servizio significava che mi restavano ancora due anni di contratto. Poi dovevo andarmene. Io non volevo andar via. Non volevo tornare. Forse sarei riuscita a rimanere ancora nell’ospedale. Di lavoro ce n’era, non era questo il problema. Non facevo quasi altro che lavorare. Non lavoravo per vivere, vivevo per lavorare. Wouter non lo sopportava, la vita doveva significare qualcosa di più di questo. Voleva vedermi sorridere, stringermi e farmi sognare di stare insieme per sempre.

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Noi restiamo qui, amore, diceva dandomi un rapido bacio sulla fronte prima di chiudersi la porta alle spalle. Allora sorridevo. Spaventata, perché lo desideravo tanto.

Shanla aveva sentito dire da sua madre che ero diventata medico solo perché era quello che voleva la mia famiglia. Le chiesi se sapeva già cosa voleva fare da grande. Non ebbe bisogno di pensarci su a lungo. «La cameriera.» «La cameriera? Aspetta un po’, dici così solo perché è quello che fa tua madre?» «No, non è vero, io voglio fare la cameriera!» «Non impari mica a leggere e scrivere per niente, potrai fare molto più che la cameriera, lo sai, vero?» «Se faccio la cameriera avrò sempre una casa e da mangiare.» Ecco come era arrivata a quella conclusione. Dovevo riuscire a farle cambiare idea. «Ma se poi invece fai un altro lavoro, guadagnerai dei soldi con cui potrai fare anche altre cose e non solo comprarti una casa e del cibo.» Cercavo di mantenere viva la sua attenzione, volevo che capisse bene il concetto. Mi guardò stupita. «Ma fare la cameriera non è difficile e io la so fare.» «Ma è questo il punto, tu puoi fare molto di più!» Lei, quindi, aveva riflettuto sul suo futuro. Io invece non l’ho mai fatto sul serio. Shanla mi chiese di nuovo cosa volevo diventare. Era inutile chiedermelo. Non rispondevo.

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Zanele entrò in soggiorno. Aveva ascoltato dalla cucina la nostra conversazione, mi chiese perché non rispondevo alla domanda di Shanla. «Quando saremo più vecchie, Zanele, quando saremo più vecchie.» «Ma io sono già vecchia», disse Zanele. Non avevo voglia di dilungarmi sull’argomento. «Io ancora non abbastanza.»

I suoi piedi nudi sul pavimento di pietra del corridoio. Venivano verso di me. D’un tratto si fermarono sulla soglia del mio studio. «Joni?» Girai la sedia verso di lei e le chiesi cosa c’era. Pensava di disturbarmi, perché sedevo al computer con un lungo testo sullo schermo, relativo alla cartella di un paziente. Non avevo ancora aggiunto una sola parola. Fissai i suoi occhi scuri finché non si posarono su di me. Avevo dovuto faticare molto nel corso degli anni per ottenere quel risultato, all’inizio Zanele mi parlava guardando a terra. Il pomeriggio in cui aveva bussato per la prima volta alla mia porta non avevo ancora capito che le cose sarebbero rimaste così se non avessi provato a fare qualcosa. Al principio credevo fosse timidezza, ora ne sapevo molto di più. «Vado a letto.» Guardai l’orologio e mi accorsi che erano circa le dieci. «Oh, sì, io devo scappare, ho il turno di notte.» «Sì, mi sembrava. Ora vado a dormire.» Anche se non sapeva leggere l’orologio, Zanele sapeva sem-

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pre che ora era. Si basava sul sole e sul tempo che impiegava in certe attività. Mi aveva raccontato che anche le sue amiche facevano così, e quando verso mezzogiorno sedevano insieme sotto il grande albero all’angolo, ci restavano sempre esattamente un’ora, anche se nessuna di loro sapeva leggere l’orologio. «Buonanotte Zanele...» «Joni?» «Sì...» «Non sei troppo stanca per andare a lavorare?» «Oh...» «Ti preparo il caffè quando torni, d’accordo?» «Sai cosa diceva sempre mio padre dopo un turno di notte?» «Cosa?» «La vostra colazione è la mia cena.» Restò ancora un po’ sulla soglia con un sorriso educato sulle labbra. Forse era una storiella un po’ sciocca ma era vera; spesso tornava a casa solo quando stavamo per andare a scuola. Le occhiaie erano parte integrante del suo viso e in quelle mattine, appena prima di uscire per andare a scuola, me ne accorgevo più che mai. Allora la prima cosa che diceva mia madre era che le era toccato dormire da sola. Io non capivo cosa ci fosse di tanto grave, anche io dormivo da sola. André e Alex condividevano una stanza, ma anche Miri dormiva da sola. Mamma non poteva fare a meno di dirlo ogni volta. In genere papà faceva finta di non aver sentito, prendeva un panino e lo imburrava. Poi diceva che la nostra colazione era la sua cena. A volte invece rispondeva, con un tono da cui si capiva che era colpa dell’ospedale: «Cosa mai posso farci, santo cielo?» A quelle parole lei non rispondeva mai. E siccome succedeva così spesso che non rispondesse alle sue domande, pensavo che ci fossero domande a cui non occor-

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reva mai dare risposta. Zanele stava ancora sulla soglia. «Joni? Stai pensando a quell’uomo?» «No Zanele, e ora piantala con questa storia!» Voleva sempre sapere come era andato finire quel flirt nato in ospedale. Non voleva che restassi sola. E continuava a insistere. «Uh, Joni arrabbiata!» «Ma no, solo che ti ho già detto che non andrà avanti. Ma ne valeva la pena, se proprio lo vuoi sapere, anzi, mi è piaciuto proprio!» Si batté una mano sulla bocca. Mi alzai e andai verso di lei. «Una sola volta», puntai l’indice in alto, a poca distanza dal suo viso, «una sola volta, ho desiderato vivere con un uomo.» «E chi era?» «Ormai è finita», dissi con decisione per farle capire che avevo tagliato i ponti con lui. Mise in dubbio la mia affermazione. «Quando qualcuno è dentro», e si batté sul petto, «non esce facilmente...» Cercai di trattenere le risa. Per mettere fine a quello strazio le raccontai con la maggiore indifferenza possibile di un uomo che avevo conosciuto durante gli studi e con cui avevo vissuto prima di partire per l’Africa. Purché non pensasse che ero partita per causa sua. Quando le dissi che lui aveva già una famiglia, mi resi conto che stavo andando troppo in fretta per lei. In genere capivo subito se non riusciva più a seguirmi, se aveva perso il filo del racconto, lo vedevo dai suoi occhi. Una volta, quando ci eravamo appena conosciute, le chiesi di avvertirmi se parlavo troppo in fretta o se non mi capiva. Lei annuì e mi assicurò che mi capiva perfettamente. Zanele era una

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donna orgogliosa. Chiese se era vecchio. «Per niente, fra noi c’erano solo un paio d’anni di differenza!» «Ma non hai detto che aveva già una famiglia?» «Sì, come si dice, c’era cascato troppo presto.» «E quanti figli?» «Uno. Un maschietto. Quando ci siamo conosciuti viveva ancora con loro. Dopo un po’ se ne è andato.» «Uhi! Per te?» Mi voltai e pensai al figlio di Wouter, a quanti anni doveva avere ormai. Presi delle cartelle dalla scrivania. Ma Zanele non si era mossa e così le stavo dando le spalle. Non potei far altro che voltarmi, non fosse altro per cortesia. I suoi occhi penetranti mi fissavano. «Ora devo proprio andare, Zanele, sul serio.» Con la faccia lunga, si avviò per il corridoio. Le gridai dietro «buonanotte».

Dio mio, come ho fatto a dirle così alla leggera che mi era piaciuto con Mike. Ci è rimasta di stucco! Misi in moto la macchina. Mike, dopo essere venuto dentro di me, mi aveva chiesto se prendevo la pillola. Risposi che non c’erano pericoli. Sorrise, gli sembrava stupendo. La mattina dopo entrò nella mia stanza. Temevo che volesse parlare della sera prima. Infatti ci tornò sopra. Prendevo davvero la pillola? Io non avevo mai detto questo. Mike si arrabbiò. Gli dissi che non c’era pericolo, e che doveva fidarsi di quel che gli dicevo. Si avvicinò, mi prese il viso tra le mani e mi disse che

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non dovevo fargli scherzi. Risposi che non potevo fargliene. Voleva sapere perché l’avevamo fatto così tanto in fretta, se ci conoscevamo appena. Era già da un po’ che lavoravamo insieme, ci vedevamo tutti i giorni, era nell’aria. Gli dissi che non vedevo dov’era il problema. Mi chiese se lo facevo sempre così, in quel modo. Scoppiai a ridere. Accesi gli abbaglianti, non c’era nessuno per strada. Gli chiesi se avevo l’aria di una che lo faceva sempre così. Scosse la testa. Al contrario. Si sentiva spiazzato da me, e questo lo irritava, soprattutto perché avrebbe dovuto capirlo fin dall’inizio. A quanto pareva avevo il corpo di un fumatore senza esserlo. Gli chiesi cosa voleva dire, il corpo di un fumatore. Cominciammo una conversazione che per la prima volta non riguardava il lavoro. Magari potevamo uscire una volta, propose. Non volevo uscire con lui. O forse andare a mangiare fuori insieme. Non volevo andar fuori a mangiare. Potevamo farlo un’altra volta, questo sì, ma andare a mangiare fuori mi sembrava un po’ eccessivo. Dalla corsia opposta lampeggiarono dei fari. Spensi subito gli abbaglianti.

Zanele disse che lo aveva mostrato a Shanla. Le chiesi di cosa stava parlando. La sera prima l’aveva tirato fuori da sotto il letto con la massima attenzione e se lo era infilato. E aveva camminato un po’ per la stanza con quello addosso. Shanla lo trovava bellissimo e le aveva chiesto perché non lo portava mai. «E perché?», le domandai.

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«Troppo prezioso», rispose. Le dissi che anch’io volevo vedere come le stava. Sorrise imbarazzata. «Colori così belli!» «Sì, quel rosso, eh? Per quello te l’ho comprato; ti ho detto cosa significa vero?» La sorpresa si dipinse sul suo viso. Avevo scordato di farlo? Le raccontai di quella superstizione, le dissi che non ci credevo, ma che comunque avevo un certa attrazione per i colori. Le dissi di quella credenza superstiziosa nel rosso che avevano certi ebrei. Non tutti, peraltro, ce n’erano alcuni che invece usavano il blu, in forma di occhio. Ma mia nonna mi aveva trasmesso la fede nel rosso, la convinzione che bisognava avere qualcosa di rosso addosso per allontanare il malocchio. Era assurdo ovviamente, ma poteva scacciare il malocchio. Mi rivolse uno sguardo di comprensione. L’idea del malocchio le era familiare. E sapeva che era comune a tutti i popoli. Disse che l’avrebbe portato quando ce n’era bisogno, ma farlo così, tutti i giorni, era un peccato, poteva rompersi. «Ma non si rompe mica tanto facilmente, e se poi succede lo facciamo aggiustare.» «E se lo perdo?» Corrugai la fronte. «Lo vedi?! Ehh.» Tagliava a pezzettini delle verdure e c’era già qualcosa sui fornelli. Non riuscivo a vedere cosa. Mentre si dava da fare sul tagliere, chiese all’improvviso come si chiamava quell’uomo. «Wouter», risposi. Avevo voglia di raccontarle qualcosa, di parlare con lei. Parlare come fanno le donne tra di loro. Saltai sul banco della cucina, al mio solito posto, con i piedi sul secchio.

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“Leggere Il mese delle farfalle è come ascoltare le note di un pianoforte... è un libro bellissimo e accattivante.” Marcel Moring

www.recensieweb.nl

“Moderno nello stile e nella struttura, la scrittura è concisa e controllata... una lettura fresca.” The Weekend Australian

“Kornmehl cattura la cruda realtà della vita a Johannesburg e dipinge una dolorosa e realistica amicizia.” Sydney Morning Herald In copertina foto © Hans Neleman/Getty Images Design Costantino Margiotta

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ARIËLLA KORNMEHL

IL MESE DELLE FARFALLE romanzo

Joni è una giovane dottoressa che lascia l’Olanda per andare a lavorare in un pronto soccorso del Sudafrica. Zanele è una donna di colore che ha bisogno di una casa per i suoi due figli avuti da due uomini diversi. L’Africa è un luogo che intreccia i destini di queste due donne.

IL MESE DELLE FARFALLE

“Kornmehl descrive solitudine, disuguaglianze e destino, riuscendo nell’intento con maestria. Ci mostra i suoi personaggi e il loro mondo in tutte le loro complessità.”

ARIËLLA KORNMEHL

Ariëlla Kornmehl nasce ad Amsterdam nel 1975. Dopo la laurea in fi losofia ottenuta presso l’università di Amsterdam trascorre due anni a Johannesburg. Debutta nel mondo letterario nel 2001 con De familie Goldwasser. Il mese delle farfalle, pubblicato in Olanda nel 2005, è il suo secondo romanzo, tradotto anche in Israele, Australia, Francia e Germania.

Le ferite di un amore sbagliato, la necessità di un esilio volontario, la condanna di un corpo svuotato portano Joni in una zona apparentemente protetta. Potrà affidarsi alla grande anima di Zanele che sorride, mugugna e protegge la madam bianca venuta da lontano. Il mese delle farfalle è un viaggio all’interno di se stessi in una terra dimenticata che non si limita a fare da sfondo. L’Africa è nera, lontana, selvaggia, caotica, barbara. È tutto ciò che Joni considerava lontano da sé. Come una minaccia inaspettata. Passato e presente, racconto lineare e flashback si alternano in un romanzo che non è solo un’investigazione sulla natura dell’uomo, ma anche un’esplorazione sulla diversità, sul razzismo di ritorno, sulla povertà e sulla ricchezza che dividono gli uomini in classi, sulla perdita, sulla casualità e sui cambiamenti scanditi da un tempo riconoscibile solo per il volo delle farfalle.

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