Morire in fondo e? trendy:cover_stampa
16-10-2008
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Dario D’Amato
Se fosse possibile... mi piacerebbe una vita fatta di ultimi giorni, una vita in cui stai sempre a scegliere il vestito migliore per il tuo funerale…
Otto giorni per lasciare che accada qualcosa di inaspettato. Solo otto giorni. Un inesorabile conto alla rovescia che avvicina una giovane donna alla morte. Lei lo sa ed è fortunata perché, inseguendo una vita fatta di ultimi giorni, non arriverà impreparata. Sceglierà i fiori, l’abito giusto, selezionerà gli invitati, preparerà il discorso sotto gli occhi vigili di una Death Coach assoldata dalla madre. Come fosse un matrimonio, anche il bon ton funebre va rispettato. Nulla deve essere lasciato al caso per morire con stile. Otto giorni. Gli ultimi otto giorni per chiarirsi le idee sull’Amore, su Dio e, magari, per innamorarsi, come fosse la prima volta. O l’ultima… Con un linguaggio intonato ad una partitura musicale, Dario D’Amato salta sulle righe di questo lieve frammento di esistenza, quello di una trentenne che si muove tra gli strampalati componenti della sua famiglia: una madre cieca, un padre clown, una fidanzata “melodrammatica”. Un’esistenza in cui non c’è dolore né compiacimento, non c’è pietà né malattia ma c’è la Vita. Cinica, sprezzante, comica e beffarda.
MORIRE IN FONDO È TRENDY
DARIO D'AMATO è nato a Roma. Si forma nei workshop di sceneggiatura curati da Hanif Kureishi e Terry Gilliam. Come drammaturgo è stato finalista della rassegna Napoli Drammaturgia in festival e del premio Patroni Griffi del Teatro Eliseo di Roma. Ha scritto anche per la tv: tra gli altri I Cesaroni, 7 vite, Holly&Wood. È autore di due concept pilota di commedia in sviluppo, Trash e Limbo. Attualmente sta lavorando ad un film tv per FilmMaster e alla sceneggiatura di un lungometraggio. Ad intervalli irregolari scrive potenziali epitaffi anche su http://spregevole.blogspot.com
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foto © Getty Images/ Russell Underwood Progetto Grafico di copertina: Giacomo De Panfilis Si ringrazia per la realizzazione dei “Corvi”: Claudio Patriarca-franci&patriarca
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Copyright © 2008 Dario D’Amato Copyright © 2008 zero91 s.r.l., Milano Printed in Italy
I Edizione ottobre 2008 ISBN 978–88–95381–10–7
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Alla mia famiglia. A Francesca. Per ogni premura silenziosa.
La vita è meravigliosa. Senza saresti morto. Leopold Fechtner
Capitolo meno 8 Non fare finta aiuta
Morire in fondo è trendy
Traccia 1: Eels – Theme from blinking lights1
Tra una settimana o comunque otto giorni al massimo, se respiro più lentamente, morirò. Ma per il resto va tutto benissimo. Il fatto che sia ancora viva aiuta. Nel frattempo deambulo e respiro in una specie di dépendance, con mia madre proprietaria terriera che semina il territorio. Mia madre è cieca. Non è stata sempre così. Voglio dire, sospetto che sia diventata cieca apposta per le occasioni che le si sarebbero spalancate, cose tipo l’assicurazione e tutto il resto. Io invece no. Io muoio per davvero. Ogni tanto mi sveglio di notte, e sogno di non respirare già più. Poi mi accorgo che sto semplicemente facendo un incubo che ha come protagonista il mio cordone ombelicale. E il fatto che tende a non rompersi. Non per colpa mia. E il problema è che… No grazie mamma stamattina non lo prendo il muesli, poi stai attenta che quella è la tazza di Decibel.2 Come dici scusa? 1
Le tracce delle canzoni potete trovarle su www.myspace.com/morireinfondotrendy seguendo il link per il myspace del romanzo. Sono l’umore di fondo della protagonista.
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Decibel non è da intendersi nella comune accezione dell’indicatore della pressione sonora. È il nostro cane. Mansueto come pochi altri. Forse per via che prima abbaiava come un pazzo e poi è diventato afono. Così, di colpo.
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Mia madre insiste, dice altre cose a caso e gesticola come da contratto. Non riesco a sentire mia madre. Ed è un bel problema, visto che essendo cieca compensa col volume della voce. Eppure niente, delle volte non la sento proprio. Credo che sia per via dei miei anticorpi. Io ne ho alcuni niente male. Si sono organizzati in una sorta di libero sindacato, e per adesso sono d’accordo su questa specie di ostracismo autoindotto rispetto alle frequenze vocali di mia madre, che loro identificano come mutter. Non so dire perché, ma l’espressione mutter mi riempie di orgoglio. Come se l’avessi inventata in questo momento. I miei anticorpi mi appoggiano e si proclamano gerarchici e didascalici. Allo stesso tempo. Perché quando ti cerco non ci sei mai? Dove sei? Che stai facendo? Arrivo. Non ti muovere. Arrivo io. Perché Decibel esce dalla cuccia tutte le mattine mentre preparo la colazione? Perché è un cane mamma. E per un cane cibo uguale gioco, divertimento, pappa cacca arf. Mia madre non ride. Non sto parlando delle situazioni in cui ti senti brillante e ti piacerebbe magari vedere l’effetto che fa sugli altri. Mia madre, proprio, è inabile alla risata. Deve essere qualcosa a livello muscolare. Non so come dire. La questione buon umore carente e/o completamente assente presso mia madre è stata ampiamente approfondita da diversi studiosi del comportamento familiare. Siamo una famiglia investigata a più riprese da luminari del settore. Nella mia infanzia ho dovuto assistere ad interi pomeriggi di
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terapia barocca suddivisa in sessioni parallele alla mia crescita morale e psicologica che, per quanto ne so, ha subìto delle insanabili conseguenze; che tutt’ora mi trascino dietro, tipo zavorra. Mi sento come uno sherpa del Nepal costretto ad organizzare il trasloco ad una transumanza di cinesi. Sento che, per raggiungere le infinite altezze, devo comunque mettermi in modalità mulo. È per questo che piego la testa e sbuffo con un certo diniego quando mia madre si ricorda di informarmi di non trovare divertente il mio umorismo. In un certo senso, piacere a mia madre è sempre stato un fallimento calcolato. Come camminare a testa bassa soggiogata da una specie di fardello di cui ti vorresti liberare. Solo che la zavorra è lei. Inoltre è cieca. E ammesso che camminassimo per le vallate dell’Himalaya, non si gusterebbe neanche il panorama. Quindi è solo un peso. Però è da lei che sono uscita. Quindi anch’io lo ero per lei. Ma molto meno. Non sto dicendo che odio mia madre. Dico solo che questo è uno dei motivi per cui, alla fine, morire mi dispiace un po’ di meno. Ad esempio. Non mi devo preoccupare di quanto e come soffrirà. Perché è una cosa che non succederà. Poi, certo, non voglio neanche fare la vittima. Se escludiamo il fatto oggettivo che tra otto giorni non ci sarò più, ma neanche un po’, mi sembra che tengo botta; per ora. Faccio un gesto di autocommiserazione proprio in questo momento Guardo la mia dépendance. La dépendance è un po’ come dire piccolo fabbricato indipen-
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dente, ma legato da un rapporto funzionale ad altro maggiore. Secondo il vocabolario, quindi, io non mi posso definire indipendente. Ma invece magari posso e non devo chiedere il permesso a nessuno. Le cose secondo me si possono fare e basta. Non è che puoi stare sempre a preoccuparti di cosa succede dopo. Tipo morire. Per me è importante, ma ad altri può anche sostanzialmente non interessare. Mi capita di passare giorni interi in cui non si fa sentire nessuno, così posso elaborare meglio questo concetto. Giorni interminabili in cui penso che forse non è vero che si muore. Non è mica detto. O forse mi sbaglio con qualcun altro. Lanciare le sfide non fa per me. Far ridere mia madre è qualcosa che presagisce una disfatta. Anche nelle cose quotidiane. Mamma quello non è il latte. Ah no? No mamma è… senti, perché non ti prendi un bel tè. Lo vuoi un tè? Voglio il latte. Si, allora magari non usare quello di Decibel. Che c’entra Decibel adesso? È latte per cani. È latte per Decibel. Mamma. Decibel è un cane. Non è che siccome sei cieca… Mi interrompe facendo quel gesto. Io la odio quando fa quel gesto. Proprio quello. È tipo un ruminare. Meglio, biascicare bile e mischiarla alle labbra, come stesse scolpendo una parola. Te lo fa pesare, perché poi non puoi fare finta di non aver sentito. La vedi fisicamente uscire dalla bocca, la parola. Eccola. Fa un po’ impressione.
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Sei stronza o cosa? Cosa. Hai capito benissimo. Si infatti, dicevo cosa per farti ridere. Non mi fai ridere. Mai. Questo ormai lo sanno tutti. Decido di andare a trovare mio padre al lavoro. Lui è contento quando faccio così. E io ho proprio voglia di fare contento qualcuno, oggi. Mio padre lavora nel settore intrattenimento ospedaliero. Preferisco rimanere vaga su questo punto. È così che mi sono fatta una posizione nella vita. Non voglio sapere nulla della mia famiglia. In un certo senso non mi appartiene. Mamma prendo la macchina, a te non serve vero? So che può sembrare assurdo ma, nel posto dove vivo io3, esistono delle persone pagate per evitare che, chi soffre di handicap gravi e incurabili, si senta, non dico discriminata, ma se non altro messa da parte. Quindi mi spiego; chiedo a mia madre se posso prendere la sua macchina in prestito, pure se è evidente che non può guidarla visto che è, come dire, ipovedente. Siccome negli ultimi otto mesi la femmina mutter non ha fatto altro che frequentare questi raduni di terroristi dell’autostima, ora, per ogni cosa che faccio e dico, devo considerare l’effetto affronto. Lo chiamano proprio così. Effetto affronto. Hanno anche una specie di slogan. Affrontate l’effetto che il mondo vi fa. Poi starete meglio, dicono. Si, ma prima? E durante? Ma siccome una delle vere gioie della vita, e so di cosa parlo, 3
Ho sempre sognato di parlare come fossi il mago di Oz.
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è assecondare le persone tanto per, le ripeto nuovamente la frase calcando giusto un po’ sui dittonghi affettivi. Mamma… direi che prendo la macchina allora… e poi a te oggi per fortuna non serve. Vero mammina? Nello stereo della macchina intestata a mia madre riesco a ritrovare il cd dell’artista chiamato Eels che mi sostiene nei momenti topici. Na na na na na.4 C’è questa melodia che mi indennizza dallo stress. Anche se questo stronzo vorrebbe sorpassarmi a destra. Ah, non ci avevo fatto caso. Guida un taxi. Quindi crede di potermi comandare. Ma siccome ho la mia musica, mi appiccico al vetro, e mi faccio bella, perché alla fine io so che ti sono superiore. Quindi nell’ordine: Gli taglio la strada. Lo mando a fanculo col gesto universale del dito medio. Senza smettere di esercitarmi nel ghigno che mi riesce benissimo. Lo vedo che si sbraccia. Abbasso il finestrino con un colpo netto sul pulsante. Anticipo ogni sua ipotetica mossa. Siamo affiancati. Non puoi dirmi mortacci tua! Ma… Ma niente. Fidati. Morirò prima di te. Riparto. E lo vedo che ci è rimasto male. Ma è un tassista. Ha le sue 4
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Per venire a tempo con me vedi nota 1.
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risorse. Caricherà due o tre giapponesi al prossimo incrocio, e si pagherà le vacanze per almeno i prossimi quindici anni. Parcheggio nel sottoscala dell’ospedale dove lavora mio padre. Visto da qui, questo luogo sembra uscito malconcio da un summit tra architetti afflitti da incubi urbanistici di deriva post undicisettembre. Per essere un ospedale non ha nessun appeal. È per questo che li chiamano ospedali. Perché mai dovrei venire in un posto come questo? si chiederebbe un vero paziente. Ammesso che riuscirebbe a dire qualcosa prima di finire nel tunnel dell’intrattenimento benefico. Cosa che questo tipo di sanatorio divulga fieramente, convinti che una risata ti può salvare la vita, soprattutto quando… Un tipo anonimo mi affianca mentre sto per entrare nell’ascensore. Io entro lo stesso. Lui anche. E quindi si crea quella situazione tipica. Si, vado al quarto. Anch’io. Ci guardiamo quel tanto che basta per non piacerci. Da subito. Allora le do un passaggio. Ho una profonda avversione per questa mania di improvvisare battute nei luoghi non luoghi5. Odio doverlo ammettere, ma non riesco a completare il ragionamento. Non è la fobia degli ascensori. Dello starci dentro. Quanto di quello che c’è fuori. 5
Ascensori appunto, sale di attesa, code qualsiasi.
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Da piccola mi ricordo che avevo visto un film in cui una, che era praticamente la mia copia e incolla, usciva da un ascensore di un palazzo e trovava ad attenderla, nell’ordine, mia madre e la mia professoressa di matematica alle medie che sfogliavano un catalogo di bare, simulando un’equazione all’impronta su eventuali costi e ricavi. Però anche lì mia madre faceva la parte della cieca e non si fidava mai. Era un film di serie b. Non si salvava nessuno. Ma alla fine aveva una sua morale. Scendo al quarto piano e il tipo che mi ha dato un passaggio è come se si fosse accorto che qualcosa non va. In generale in questo palazzo. Nell’ascensore. Nell’aria che respiriamo. Nella concezione stessa della vita. Fa questa faccia intensa che mi ricorda una serie di cose. Per prima cosa non so dove cercare mio padre. Non so neanche se avrò il coraggio di rovinargli la giornata. Questa è la versione zuccherina della storia. Come si dice ad un padre che la figlia prediletta sta per, diciamo, morire? Com’è che devo muovere le mani? Posso gesticolare? Posso farlo senza ritegno? Oppure dovrei mantenere quel distacco tipico di una che, sapendo quanto poco si può contrastare questa cosa, semplicemente arriva ad un punto di non ritorno? E decide di restarci. La musica di sottofondo di una vecchia tastiera su cui qualcuno ha deciso che non aveva senso continuare ad insistere. Negli ospedali il suono che esce è questo. E mi mette tristezza addosso. Cerco mio padre. Sento la sua voce che si dispone in una specie di eco in quattro quarti. Con il corridoio lungo e bianco
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che funge da vallata. Mio padre da piccolo si vestiva sempre da pagliaccio. Sempre. Lui non saprebbe dire neanche come sarebbe vestito uno dei moschettieri. Forse non sa neanche che sono quattro. Ad una di queste feste mascherate, qualcuno gli deve aver fatto la fatidica domanda Che cosa vuoi fare da grande? e lui, se non ricordo male quello che mi ha fieramente raccontato ad ogni mio compleanno, non ha risposto nulla, ha solo indicato il suo vestito, ha premuto forte sul suo naso rosso a palletta come se schiacciasse il pulsante di un quiz, e ha fatto una giravolta. In effetti mio padre da grande è ancora vestito da pagliaccio. Taglia extralarge. Fa il clown per vivere. Cioè, nel senso che prende dei soldi e tutto il resto. Ed io mi preparo a morire tra una settimana o poco più, mentre casa è invasa da faccette sorridenti, bastoni da maghetto scemo del luna park, scarpe lunghe da Pippo sulle quali inciampo. Scivolo direttamente su una specie di birillo che trilla al mio passaggio. Succede che tutto il mondo presente si gira a guardarmi. Questo è uno di quei momenti in cui vorrei essere già morta. Ma ogni cosa a suo tempo. E quindi. So che sembra difficile da credere ma tant’è: mio padre, il mio unico padre è in pieno trip da allievo da metodo Patch Adams. C’è stato un periodo intenso della mia infanzia in cui a casa valeva la regola della risata sempre e comunque. Una specie di precetto dell’esistenza. Sospetto che mio padre mi chiederebbe di ridere prima di morire. Quel tanto che basta, giusto per capire da che parte ha seminato l’imprinting o come cavolo si chiama. Patch Adams ha fatto dei danni seri. La sua terapia olistica nota come clownterapia, con la scusa di prendersi cura del malato, ha dimenticato un particolare niente male.
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Dipende. Il particolare è dipende. Se sto per morire non mi aspetto che tu mi faccia ridere. Mi verrebbe naturale piangere. Sai com’è. Non puoi mica sforzarti di sembrare qualcosa che non sei come hai fatto del resto per buona parte della vita. Forse è il caso di svelare le carte. Mio padre invece, nella pratica spiccia, è quello che ruba il mazzetto, che tiene il banco a mercante in fiera. L’affabulatore. Il guascone. Il giullare di questa corte dei miracoli che gli cammina dietro. Come adesso. Sembra una specie di profeta travestito da Buster Keaton. Senza il bianco e nero intorno che aiuterebbe di certo. La scena che segue è un raro esempio di idiozia melliflua. Mio padre, visto da qui, è il sosia indoeuropeo di Osama Bin Laden travestito da maghetto del luna park di quartiere6; è in piedi su una sedia sola. O meglio, è su una sedia in equilibrio su un piede solo, come domato da un mucchio di pazienti gravidi di malinconie retroattive. Li istruisce. Li bacchetta con quel sorriso domopack. Li incoraggia a reagire. Li tratta come fossero degli elastici. Li esorta ad allungarsi verso di lui con le mani. In alcuni casi esorta pure quelli che le mani non ce le hanno più. Fa senso vedere delle braccia che probabilmente lo manderebbero a fanculo volentieri se solo potessero. Altro che. Ma non è questo il punto. Il punto è ridere sempre e comunque. Per farlo occorre esercitare la muscolatura del viso, quella di cui mia madre sembra essere sprovvista. Per la legge dei grandi numeri, se mia madre soffre di frigidità del sogghigno, mio padre è il tour leader dello sghignazzo globale del pianeta. 6
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E non è detto che non si nasconda proprio lì il vero artefice del terrorismo hic et nunc.
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E visto che, in un ospedale adibito a resort come questo, ci sono clienti turisti della sofferenza, gente che se non si sente male si sente male, lui dispensa cose tipo… Vi insegnerò a ridere fino a farvi piangere. E poi una cosa che in seguito ho saputo essere un antico proverbio cinese. Se un giorno decidessi di morire non farlo perché c’è qualcuno che vive dei tuoi sorrisi. È proprio in quel momento che decido di entrare in scena, e proclamo la mia sentenza. Papà… Ma non mi sente, è tipo invasato, piena trance. Quindi scavo nel mio genoma materno e alzo la voce… Papà tra otto giorni… Si voltano tutti, non ce la farò mai a finire la frase. Anche il mammifero maschio genitore si accorge di me, e si avvicina mimando una carezza. Ehi rucolina – mi chiama così non posso farci niente – qual buon vento ti porta? Mio padre parla come se fossimo in uno sceneggiato con Alberto Lupo. Il vento del tristo mietitore, vorrei ribadire io, ma invece dico tra otto giorni muoio. È tutto. Davvero. Non so come dire. Si guardano tutti. Poi tocca a mio padre. Cenno d’intesa. Come ad eseguire un comando, tutti, insieme, loro… che fanno? Ridono.
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Senza il minimo ritegno. Cazzo, mi ridono in faccia. È la mia di vita papà. Come puoi ridere? Esci dalla parte, per favore? Ti pagano lo stesso anche se ti assenti un attimo, vieni ad abbracciarmi e simuli un dolore insanabile, sai? Oppure no? Oppure sei legato a stretto filo con questo sistema di cose che ti impedisce di piangere quando è il momento? Hanno una parvenza di metodo e questo significa che la mia frase, tra otto giorni morirò, la prendono come una specie di provocazione, non lo so, una sfida, una cosa come trova il limite /indaga te stesso. Se ben addestrati, questi tipi assorbono un concetto base, come se ne andasse della loro stessa vita: il fatto che se uno muore non vuol dire che non si possa ridere. Mi aspettavo grandi cose da mio padre. Mi sento come Didi e Gogo’ in versione paguri. Sono della vergine ascendente beckettiana. Aspetto. Nel frattempo contemplo lo sfacelo che mi sono creata con le mie stesse mani. Arrivo al punto in cui riderò come unica reazione possibile. Ma adesso no. Avrei bisogno di sollievo. Lubrificare la pupilla sinistra, ad esempio. Aiuta. Il vetro da cui sto guardando fuori è completamente appannato. Intuisco il mondo esterno. Sto per uscire quando squilla il telefono. È il mio. È funzionante. Emette un trillo quando qualcuno da altre parti a caso ha digitato il mio numero o nome perché ha voglia di sentirmi. Non posso fare a meno di spiegare le cose dopo quello che mi è appena successo. È Bianca. È una quarantenne con cui ho una specie di relazione affettiva. O forse una specie di donna con cui ho un danno collaterale condiviso.
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Mi ricordo del nostro primo incontro. Avevo appena deciso che, vista la drammaticità della mia vita, avevo bisogno di una figura da avere a fianco. Una compagna. Una con cui avere delle crisi. Una che avrebbe dovuto accompagnarmi. Un uomo tende a sdrammatizzare. Io volevo che la cosa fosse tragica. Almeno per chi dice di amarmi. Bianca, da questo punto di vista, è perfetta. È la mia prima relazione con una donna. E direi anche l’ultima. Lei, ultimamente, a suo dire aveva notato un po’ di spleen sparso nelle nostre uscite serali. Credo di avere tracce di spleen anche nel mio DNA se è per questo; ed è una delle cose di cui vado più fiera. Ora che ci penso non l’ho ancora avvertita su questo fatto che mi sto preparando a morire. Forse Bianca si è insospettita quando ho inchiodato con la macchina cinque volte di seguito, quel pomeriggio, per leggere l’ennesimo numero di onoranze funebri disponibile nella metropoli. Lo faccio per una mia statistica personale. La butto lì sperando che abbocchi ma mi sa che non funziona con lei. Lei è la classica donna che con lo sguardo tenta di farti capire un sacco di cose, pure quelle che lei stessa ancora non ha capito da che parte si guardano. Io, per essere una donna che sta per morire, sono per il quieto vivere. Poi da quando ho capito da che parte si esce da tutta questa storia dell’esistenza, mi sento molto più sollevata. Non so se dirò la stessa cosa stando sotto terra, ma tant’è. Per non farsi mancare nulla, aggiungerei che Bianca, la donna di cui sopra, è una di quelle che si lamenta sempre di avere troppi orgasmi, e io niente, dice lei. Il problema è che lei manifesta il tutto con episodi incontrollati di morte apparente. Io non la sopporto quando fa così. So per certo che l’orgasmo, il suo orgasmo, dipende da me e dal fatto che almeno mi applico,
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ma mi dà fastidio l’idea di doverla risvegliare facendo finta, ogni volta, di assistere ad un miracolo. Non oso pensare a quando mi vedrà distesa lunga nella bara. Prevedo due possibili reazioni. La prima è una scena madre in cui mia madre le presta persino il bastone da cieca, visto che lei si metterà a gridare che non ci vede più, tanto è addolorata. La seconda, in un impeto di compassione (patire con) è possibile che le prenda un attacco di quelli, e che si conceda un orgasmo niente male, così che anche da morta farei la mia parte. E mio padre potrebbe fare il buffone per davvero, in giro a stringere mani sudaticce. Una figlia che non ha mai smesso di dare belle soddisfazioni, potrebbe anche dire. Chissà. Bianca al telefono, quando le dico che morirò, fa la parte della donna con cui faccio all’amore e quindi piange. O almeno finge benissimo. Prendo la macchina per ritornare verso casa e non posso fare a meno di andare dal fioraio che ho sempre sognato di arricchire in corso di preparativi per il mio matrimonio. Poi la vita ha preso il sopravvento e mi ha fatto smettere di immaginarmi cose di questo tipo. Quando entro nel negozio mi accorgo che tutti mi guardano come se sapessero già. Ma non può essere, quindi finché posso faccio la vaga. Poi però il fioraio si avvicina e, con fare paterno ma anche un po’ sadico, mi incoraggia a confessare. Peccato eh. Cosa? Dico. Otto giorni. Che cosa riesci a fare in otto giorni? Non lo so. Perché?
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Sento che non reggo la parte ma tentare è il mio karma. La cosa bella sai qual è? No. C’è? È che ti ho visto nascere e adesso… Non finirà la frase, non può avere il coraggio. …adesso, insomma, ti comincio a preparare i fiori per, insomma, quando… Morirò? Si ma non essere troppo severa con te stessa. Scusa? Dico, non è colpa tua. Certo. Quello aiuta. Ma non che mi conforti. Sono nervosa e comincio a torturare le piante anoressiche che quando sono entrata mi erano sembrate grasse. Forse non sto bene. Si, a parte quella cosa del fatto che mancano otto giorni ovviamente. Non sto bene in questo momento. Non mi fa bene questo odore di fiori. Mi costringe a incamerare molecole che potrebbero compromettere il mio conto alla rovescia personale. Squilla il telefono. Stavolta non è il mio. Il tipo del negozio risponde. Fa una faccia verso di me. È come dire, nel gergo dei fiorai, ci siamo. È mia madre, dall’altra parte del filo. Si anticipa il lavoro a quanto pare. Litigano, trattano sul prezzo. Ci sono momenti di silenzio. Lui propone la stessa versione di bouquet previsto per il funerale, ma di seconda mano. Cioè? Tutto si può riciclare. È una scena penosa, alla quale, però, non posso fare a meno
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di assistere. Mi sembra evidente che non mi basta la vita che ho vissuto e le cose che ho visto, se ancora non schiodo da qui. Il tipo alza la voce. Potrebbe sembrare alterato ma forse è solo perché mia madre, essendo cieca, ha bisogno di altri sensi. Questo concetto l’ho già spiegato con dovizia di particolari pseudoscientifici e non intendo tornarci sopra. Chiede una data precisa riguardo alla mia morte. Fa una specie di ghirigori sul calendario. Non riesco a muovermi. Si parla di me ma è come se non ci fossi. Esco dal negozio e sul tergicristallo della macchina trovo un foglio di carta. Sembra la solita locandina… diventa attore in nove comode ore. Vuoi essere famoso, vuoi perdere dodici chili proprio un attimo prima del bikini? Invece è molto peggio. Volantini su misura. Regola n° 1 Se un giorno decidessi di morire non farlo perché c’è qualcuno che vive dei tuoi sorrisi. È incredibile. I membri della setta di mio padre sono usciti in blocco dall’ospedale con le flebo tipo guinzaglio e si sono spinti ringhiando fino alla mia macchina. Com’è possibile che nessuno li sorvegli? In che mondo viviamo? Un branco di malati cronici se ne va in giro, ridanciano, ad appiccicare frasette goliardiche da programma televisivo cool e nessuno riesce a fermarli? Rileggo il biglietto. Se un giorno decidessi di morire. Magari potessi decidere. Non spetta a me questo onore. Non farlo.
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Non dipende da me. E poi se avessi deciso non sarebbe certo un proverbio cinese ad impedirmelo. E che cazzo. Cinesi. E poi perché non dovrei? Chi è questo qualcuno che ride dei miei sorrisi? Chi è il parassita? Voglio guardarlo in faccia mentre ride. Forse, quando sarò morta, la sua espressione si cristallizzerà in una paresi niente male. Non trovo le chiavi della macchina. È una cosa che mi succede spesso. Non mi ricordo in quale tasca le ho messe. Oggi ho una sola tasca. E trovo un biglietto. Scritto a mano. Calligrafia da quarta elementare.
Se si potesse scontare la morte dormendola a rate. Stanislaw Jerzy Lec
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Capitolo meno 7 Nei film sembra semplice
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Traccia 2: Travis – Why does it always rain on me
Il giorno che mi piangeranno, qualcuno guarderà sul calendario e noterà disegnato un ghigno satanico. La gente si accalcherà per vedere com’è fatto da vicino. Magari qualche anima nobile si chiederà chi può aver fatto una cosa simile, di così dubbio gusto. Forse una voce risponderà che è stata lei, la mamma, che tutto sopporta, tutto spera.7 Non è possibile, si sentirà dal fondo del corridoio, anche perché è cieca. È capace di ben altro se è per questo. Ha assunto una. Una chi? Non è ancora il momento. Quando facevo le medie io apparentemente stavo bene. Certo ero attratta dai necrologi, come tutti del resto, e mi immaginavo l’intero elenco dei miei compagni di classe da ricalcare integralmente sul giornale della sera. Listati a lutto. A parte questo, non avevo particolari manie. Mia madre invece assecondava ogni paura, cominciando dal suo grembo. Qualcuno mi deve aver raccontato la sua ostilità quando mi ha visto la prima volta. Ha simulato una specie di reazione allergica. Un caso clinico post parto, come se fossi una varietà di escrescenza o qualcosa del genere. Ciò ha fatto di me una donna poco incline agli anafilattici. Ciò ha fatto di me una donna poco avvezza al diventare madre 7
E sia ben chiaro che la parte della voce voglio farla io.
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prima o poi. Ma ad un certo punto, come detto, alle medie, ho cominciato a stare bene. Reagivo. Sentivo che le cose avevano un senso. Che ci erano state dette delle parole sottovoce alla nascita dalle nostre puerpere, e che quando arrivi a dodici tredici anni, improvvisamente le senti chiaramente. Come un’eco amplificato. Come la risacca del mare dentro le conchiglie. Quelle che trovavo io erano sempre scariche. Non funzionavano. Il primo tipo che ci ha provato con me senza baciarmi mi ha svelato questo segreto delle conchiglie. Non devi scuoterle. Magari è solo che le batterie non fanno contatto. Le conchiglie non vanno a batterie. Ah ecco. Il tramonto era sponsorizzato da una nuova marca di evidenziatori. Io non distinguevo l’arancione, ma il contorno rosa mi dava la consolazione di cui avevo bisogno. Lui non ci faceva caso a me che mi commuovevo per molto meno. Cos’altro sai che potrei non sapere? So che, se invece di avere dodici anni ne avessimo anche cinque di più, faremmo l’amore a questo punto. Non so come si può fare. Nei film sembra semplice. A te che film ti piace? Harold e Maude. Ecco. Ecco cosa? L’hai visto anche tu?
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Si. L’ho ritrovato. Mia madre lo aveva nascosto. Perché? Paura. Per lei certi film a dodici anni non si devono vedere. Fico. La censura fatta in casa. Peggio. Si spaventa da sola per le cose che ancora non sono successe. Tipo? Quello è un film dove morire sembra che non faccia male. Sembra semplice. È semplice. Come l’amore. Voglio dire… farlo. A me pare complicato. E poi i tipi che fanno le cose nei film sono sempre a letto. Tu vedi un letto nei paraggi? Adesso no. Ma dammi tempo. In cinque anni te lo faccio trovare pronto. Con le lenzuola bianche, profumate. Però io so una cosa che tu mi sa che non sai. Spara. So che le lenzuola bianche non andrebbero usate la prima volta. Per colpa del sangue. Che sangue? Quello che tiro fuori io quando tu mi fai male per fare l’amore. Ma io non ti faccio male. Ma non ci si può fare nulla. Il sangue c’è comunque. Lui esce. Serve a quello. E va bene. Io non ho paura. Io un po’ si invece. Non ci pensi a me? Ancora non l’abbiamo fatto e già non mi pensi più? Ma tanto se perdi sangue mica vuol dire che muori. Non credo. Non direi. E quindi sto li con te. Faccio appena in tempo a togliere i piedi mentre arriva l’onda.
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E se invece muoio? Vuol dire che la vita non fa per te. E senza di te non fa neanche per me. Mia madre aveva cominciato ad accumulare volantini pubblicitari delle ditte di onoranze funebri in tempi non sospetti. Anche se non riusciva a distinguerli. Tendeva ad archiviarli e spostarli tutti insieme nelle zone della casa che, secondo lei, potevano stimolarmi al suicidio. Pensava fungessero da deterrenti. Ma alcuni di quei depliant erano fatti così bene che, al contrario, potevano indurmi in tentazione. E liberarmi dal mio stesso male. Il male di vivere? Può essere. Per un periodo ho anche temuto seriamente che volesse entrare nel business evergreen del caro estinto. Da qualche parte avevo letto che il giro d’affari annuale del settore era superiore al milione di euro. E informandomi meglio ho scoperto che ogni anno, nel nostro paese, lieto e vagamente inutile, muoiono almeno cinquecentomila persone. Esclusa me. Calcolando percentuali sul profitto, spese per lapidi marmi e affini, il ricarico sulla singola salma alla fine non è poi così male. Insomma cominciando ad occuparsi dei morti, mia madre aspira a fare la bella vita. Mio padre non si è accorto di nulla. Come al solito. L’unico sospetto ce l’ha avuto quando ha fatto caso al volantino di cartone plastificato di Thanatos Expo. Con quello non riusciva a fare gli origami che ridono ai bambini che abitano nei dintorni. Ci è rimasto molto male, perché la figlia dei vicini, di sette anni, era la sua prima fan, e quella che portava più claque alle sue esibizioni. Il volantino di Thanatos Expo era finito dentro casa nostra, perché mia madre aveva sentito una televendita, e non so come, non so quando, aveva chiamato un certo numero. Mi ricordo che si è avvicinata al telefono fischiettando; perché lei ha questo vezzo. Credo sia un caso unico al mondo. Quando
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sta per fare qualcosa di sospetto. Telefonare. Entrare in una stanza senza bussare. Lei si annuncia fischiando. Motivetti inutili, per lo più. Aveva la cornetta in mano e continuava la melodia, intanto che aspettava. A forza di digitare uno per parlare, due per avere informazioni su, tre per ottenere assistenza da, si è intrufolata via etere negli oscuri meandri della burocrazia da call center. Fino a svelarne la reale “mission aziendale”. Tutti i centralini, se ben oliati, prima o poi ti portavano dritti alla convention Thanatos Expo. Il vero problema di questi raduni massonici è che sono appunto irraggiungibili. Ma non per mia madre. Un segugio sa sempre come trovare la traccia nascosta. Loro, quelli di Thanatos Expo, mossi a compassione da un tale fervore materno, le hanno chiesto la cosa che si chiede di solito. Come possiamo esservi utile? La mamma, non sapendo bene cosa dire, ha guardato8 un punto indefinito di una mia foto, e ha detto Beh ci sarebbe mia figlia che minaccia commiato.9 Loro, pur essendo dei cazzo di professionisti, per un po’ non hanno capito. Poi hanno detto qualcosa a proposito di una certa Chiara Giussani, una con il master in riunione. Nel senso che era in riunione in quel momento. O forse aveva proprio un master in riunione. Questo punto non si è mai capito del tutto. Comunque. 8
Siccome, si sa, anche i ricchi piangono, mi pare abbastanza credibile che anche i ciechi guardano.
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Per commiato mamma intendeva l’era foscolitica in cui tentavo suicidi tipo ogni venerdì.
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Le hanno passato questa tipa che ha subito capito il linguaggio in codice e ha detto qualcosa a mia madre. Non si preoccupi signora. Le minacce di suicidio sono sintomi passeggeri e purtroppo per noi non cumulabili come montepremi. Ma terremo conto della sua segnalazione. Anzi le dico proprio che vorrei seguire io sua figlia quando sarà il momento. Morire in fondo è trendy. Ho sentito distintamente attraverso la cornetta queste cinque parole. Che a pensarci bene hanno anche una metrica precisa. Uno spazio loro, moderato e cantabile. Volendo. Ho capito che parlavano di un programma; l’ultimo nato dell’agenzia. Pensato apposta per i casi come i miei. Unici, rari, ma estremamente stimolanti. Morire in fondo è trendy. Io ci stavo dentro fino al collo. Mi sembrava di respirare già peggio di prima. Ogni cosa a suo tempo. Ora però ci siamo. Mia madre stamattina ha assunto questa Chiara Giussani, la tipa con cui parlava al telefono; una death coach. Appunto. Che secondo me porta male. Se una life coach, per la morale comune, allena l’anima, la death coach ti prepara per la maratona definitiva. Tanto per essere chiari. L’accordo è stato firmato usando come pretesto il fatto che, secondo mia madre, non sono mai riuscita ad organizzarmi per bene riguardo alle mie attività. Mi ha rimproverato anche ieri sera prima che riuscissi ad addormentarmi. Quanto hai detto che ti resta? Come? Otto giorni o sette? Mamma ti prego. Lo dico con la massima inflessione possibile tale per cui si
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scateni in lei un devastante senso di colpa. Lei insiste. Te lo chiedo per essere più precisi. Non funziona con lei il senso di colpa. Non si è mai sviluppato, a quanto pare. È diversamente abile. Precisi rispetto a cosa? Non mi sente, o fa finta. Ripeto. Precisi rispetto a cosa mamma? Le cose cara… Si avvicina, ma va esattamente nella direzione opposta a dove sono io. …non si possono improvvisare. Ma io… Ma io non pensavo che avrebbe pagato uno stipendio ad una death coach. Una che in questa settimana traccerà le linee guida della mia dipartita. Faccio caso a questa cosa che mia madre ha dei tic. Uno dei peggiori è il fatto che lei mi sopravviverà. Quando Chiara Giussani arriva a casa nostra, mia madre per un attimo sembra aver ritrovato la vista. Ora, io non so dire con esattezza se ciò è frutto del pacchetto base dell’agenzia. Una sorta di miracolo dopo la firma del contratto. Ma una cosa è certa. Se ne avesse la possibilità, mia madre baratterebbe volentieri il mio DNA con quello di questa death coach in minigonna; questa amazzone del mordi e fuggi.
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Una che parla per assiomi. Mentre mia madre serve il caffè a me e a lei come se stesse eseguendo una sentenza. Chiara è concisa. È vestita come una boy scout che ha piantato la tenda dentro una boutique di Prada. Alcune parti sono incomprensibili. E persino la signora Prada stenta a venirne a capo.10 La death coach va a braccio. Per prima cosa: Regola n°2 Evitare i sorrisi di circostanza prima di dare la notizia ferale.11 Mia madre guarda un punto x che, per una serie di eventi concatenati, coincide con la pupilla della signorina Giussani. Che continua a parlare ma non spiega perché comincia con la regola numero due pur avendo detto per prima cosa. Io ripenso al bigliettino trovato sulla macchina, uscita dall’ospedale. E capisco. Qui sono tutti complici. La tipa coach continua logorroica. I nostri insegnanti possono fornire ulteriori approfondimenti a proposito di cosa significhi esattamente l’espressione ferale. Mi viene da ridere e il sorriso mi rimane appoggiato comodamente sul viso. Mia madre mi guarda ma non può vedermi. Chiara Giussani, come se avesse una specie di faro alogeno, invece si. Quando saprai con certezza che la morte è l’unica cosa che ti rimane potrebbe materializzarsi sulla tua faccia una specie di ghigno. Per un attimo mi fissa, poi, come se qualcuno le indicasse la telecamera da seguire con gli occhi, sposta lo sguardo su mia madre, usa la prossemica come una vera professionista e le sussurra… 10 Dei suoi capi. 11 Ed è esattamente in quel momento che lei imposta il suo personale sorriso di circostanza, che terrà fi no a pag. 40.
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Ma il ghigno non facilita la commozione, che è d’uopo vista la situazione. No? Avevo giurato a me stessa che, se qualcuno avesse usato l’espressione è d’uopo in mia presenza, sarei ricorsa a metodi di tortura terroristici per espiare il disgusto. Ma non ce la faccio. Questa Chiara Giussani ha un certo fascino, lo ammetto. Mi ricorda una malattia parassitaria che ho preso da piccola e alla quale sono rimasta affezionata. La sopravvivenza. O i suoi derivati. Lei, in un certo senso, rappresenta una possibilità del mio carattere che non ho mai capito veramente. Forse è un punto oscuro. O semplicemente sono io che non ho mai cercato bene. Il fatto è che Chiara Giussani, per sua stessa ammissione, mi seguirà in questo percorso, neanche troppo lungo, verso la mia dipartita terrena. Mi farà imparare come morire con stile. Non che lei lo sappia fare. Il fatto che sia viva non depone a suo favore, non so come dire. Ma d’altra parte mi è capitato spesso di incontrare gente che si è messa ad insegnare appena ha capito che le cose che volevano fare non gli sarebbero mai riuscite. Magari se ci spiegassero cosa non fare per farcela davvero sarebbe meglio. Invece no. Questi personaggi che incontri in qualsiasi campo, soprattutto artistico, tentano di convincerti con una discreta dialettica, che ci sono delle regolette – dicono proprio cosi – da seguire. Il fatto che loro per primi non le abbiano prese alla lettera per diventare scrittori, attori, registi o cose del genere, rimane un mistero che al confronto quello di Fatima è un gioco a premi con l’aiutino. Però Chiara non è una che non sa le cose. Lei riguardo alla morte è preparata davvero. Sfoglio distrattamente il suo curriculum e noto che si è specializzata in.
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Mia madre si accorge che sto leggendo e non sopporta di non riuscire a farlo lei. Mi interrompe. Cara, vogliamo offrire qualcosa a Chiara? Si mamma un attimo… Vorrei almeno finire di leggere il curriculum vitae di una che pensa prodo mors mea. Invece no. Alla fine le offro del tè. Che dovrebbe essere al bergamotto, ma ha anche un amaro retrogusto di crisantemo. La death coach Giussani se ne accorge. Noto che l’espressione del suo viso finalmente si affloscia.12 Mi piace pensare che non sia un naturale riflesso muscolare. Mi piace pensare che il suo sorriso di circostanza sia entrato in conflitto col crisantemo. Che non ci sia modo di rimediare. E questo significa due cose. Che io sto davvero morendo. E che lei lavora per me. Chiara Giussani si schiarisce la voce e si dispone in modalità death coach. Io mi sforzo di non ascoltare. Ma ha una voce che ammalia. E allora mi metto comoda. Come se non stesse parlando di me. Il fatto di avere una data precisa su questa storia della morte, a pensarci bene, è un bel vantaggio. Di solito non succede così. Poi bisogna improvvisare le cose. E non funziona mai. Magari uno si dimentica di avvertire qualcuno. Regola n° 3 Fare una lista di gente che vorreste avere al funerale 12 Io l’avevo predetto che ad un cert punto il sorriso sarebbe fi nito.
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Si possono scegliere anche i modelli da affittare per l’occasione. Il nostro catalogo offre un’ampia gamma di parenti lontani che simulano alla bisogna isterie cadenzate proprio nel momento in cui starete per essere incensati. Tanto per fare un esempio: quello che tutto il tempo della cerimonia scuote la testa dicendo frasi tipo questa cosa non la accetto, se ne vanno sempre i migliori, fino a ieri stava benissimo… costa relativamente poco, e inoltre garantisce un impatto certo, visto anche il corredo di complici ben addestrati che, ad ogni frase di cui sopra, annuiscono con sicumera. Sicumera forse non rende l’idea. Invece il parente misto saggio che spaccia, all’uscita della chiesa, surrogati di epistola sotto forma di frasi zen tipo se vuoi annegarti non torturarti con l’acqua bassa, oppure l’attore brechtiano che ripete come un mantra cosa ne è del buco una volta finito il formaggio? Beh, questi costano molto soprattutto se accompagnano le frasi con la tipica pacca sulla spalla data apposta per dirti pensaci, che tanto prima o poi tocca a tutti. E a quel punto toccarsi non è carino. Chiara mi guarda. Io guardo mia madre. E la proprietà transitiva del gioco di sguardi, che mi sono appena inventata, già non esiste più. È sempre colpa di mia madre. La sua cecità è un vero handicap. Per me. Incrocio le gambe come facevo da piccola. Rischio di rimanere così per almeno un’ora o due. Davanti ho le mie foto. Sopra al divano rosso del soggiorno il tempo è in bianco e nero. Chiara Giussani e mia madre chiacchierano come se non avessero fatto altro, prima di questo momento. Mia madre ha un interesse reale per tutto ciò che le dice la death coach. Sembra quasi che si sporga per controllare sul depliant.
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Chiara Giussani sa la parte a memoria. Per assicurarsi di avvertire tutti quelli che abbiate piacere di avere al vostro funerale, c’è il servizio Chiama ora o mai più. Vi garantisce la presenza di almeno dieci persone che tra loro si odiano ma che ricominceranno a volersi bene travolti dalla vostra luce che ascende al cielo. Mia madre su questo punto pare scettica. Anch’io, se è per questo. La Giussani si affretta a chiarire. Travolti appunto dalla vostra luce che scende al cielo. O comunque dove capita. Ecco la foto del mio primo funerale. Fratello di mia madre. Lo zio Mario. Morto che io ero appena nata. Quella nel passeggino che non piange neanche un po’, sono io. Alzo la testa per capire quanto tempo è passato, e vedo Chiara che si prepara ad una pausa significativa. Prende per mano mia madre, che la lascia fare, e le sussurra: Non lo dico per vantarmi, sia chiaro… potremmo davvero osare… se solo riusciste a darmi indirizzo e telefono della sua vecchia maestra delle elementari. Ora la death coach mi indica. Mia madre si gira verso di me o comunque dove pensa che io sia. Cerca una improbabile complicità. Niente. Mi sento in colpa per zio Mario. E questo fatto che non ho pianto per niente al suo funerale, come da foto. Ce ne sono anche altre che lo testimoniano. Devo essere stata una bambina cinica e insensibile. Era il mio primo funerale. Avevo solo otto mesi. Che mi ci voleva a frignare di tanto in tanto a intervalli irregolari? Potevo cominciare ad allenarmi per eventi futuri.
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La Giussani intanto porta a termine la sua visione pedagogica. La maestra delle elementari. Già mi vedo la scena. Lei si presenta claudicante… ehm, se dovesse essere troppo arzilla, provvederemo a sedarla in qualche modo secondo i nostri metodi non testati, ma questo non conta, insomma: lei si avvicina al microfono posizionato strategicamente in chiesa, tira fuori dal vestito un vecchio foglio protocollo spiegazzato, si schiarisce la voce e comincia a leggere un tema della quarta elementare in cui tu assicuri che da grande farai grandi cose per salvare il mondo. A questo punto lei singhiozzerà due volte. Quello è il segnale. Da quel momento in poi copiose distribuzioni di fazzoletti dalle nostre assistenti e via così… Mia madre vorrebbe ridere pensando a tutti quelli che ci cascheranno. Lo so che fa quella faccia per quello. È la faccia sua quando si sforza ma non ci riesce. Io sto per cambiare la mia posizione preferita sul divano. Mi si è addormentato il piede sinistro. Poi mi accorgo di un’altra foto del funerale di mio zio di trent’anni fa. Eccomi. Ho appena avuto un rigurgito. Si vede benissimo. Complimenti a mio padre che ha scattato la foto. Si vede meglio il vomito che la mia faccia. Mia madre e Chiara Giussani si danno dei colpetti di gomito. O comunque dei cenni di intesa. La death coach, prima, mi ha messo un fogliettino nella tasca. Come si faceva alle medie quando volevi dire a uno/una che ti piaceva ma non trovavi il coraggio. Divento rossa solo all’idea del ricordo. Mi chiedo da sola quanti giorni mancano. Mi rispondo come ancora sei? Per ingannare l’attesa mi metto a fare una prima lista di invitati al mio funerale.
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Miopadre&Miamadre Miofratello&Miasorella Nipotini di varia natura e grado Qualche ex di quelli che piangono comunque anche se non si ricordano + Bianca • La nonna (ah no, la nonna è morta) • Il fioraio • Qualcuno che suoni • Amici di cui non faccio il nome Leggo il biglietto nella tasca che mi ha lasciato la Giussani. Stessa calligrafia di quello di ieri. Sono fatti in serie. Chi li produce? Regola n° 4 Bisogna pensare anche al dopo. A quando tutto sarà finito.
Amici non piangete. È soltanto sonno arretrato. Walter Chiari
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Morire in fondo e? trendy:cover_stampa
16-10-2008
Pagina 1
Dario D’Amato
Se fosse possibile... mi piacerebbe una vita fatta di ultimi giorni, una vita in cui stai sempre a scegliere il vestito migliore per il tuo funerale…
Otto giorni per lasciare che accada qualcosa di inaspettato. Solo otto giorni. Un inesorabile conto alla rovescia che avvicina una giovane donna alla morte. Lei lo sa ed è fortunata perché, inseguendo una vita fatta di ultimi giorni, non arriverà impreparata. Sceglierà i fiori, l’abito giusto, selezionerà gli invitati, preparerà il discorso sotto gli occhi vigili di una Death Coach assoldata dalla madre. Come fosse un matrimonio, anche il bon ton funebre va rispettato. Nulla deve essere lasciato al caso per morire con stile. Otto giorni. Gli ultimi otto giorni per chiarirsi le idee sull’Amore, su Dio e, magari, per innamorarsi, come fosse la prima volta. O l’ultima… Con un linguaggio intonato ad una partitura musicale, Dario D’Amato salta sulle righe di questo lieve frammento di esistenza, quello di una trentenne che si muove tra gli strampalati componenti della sua famiglia: una madre cieca, un padre clown, una fidanzata “melodrammatica”. Un’esistenza in cui non c’è dolore né compiacimento, non c’è pietà né malattia ma c’è la Vita. Cinica, sprezzante, comica e beffarda.
MORIRE IN FONDO È TRENDY
DARIO D'AMATO è nato a Roma. Si forma nei workshop di sceneggiatura curati da Hanif Kureishi e Terry Gilliam. Come drammaturgo è stato finalista della rassegna Napoli Drammaturgia in festival e del premio Patroni Griffi del Teatro Eliseo di Roma. Ha scritto anche per la tv: tra gli altri I Cesaroni, 7 vite, Holly&Wood. È autore di due concept pilota di commedia in sviluppo, Trash e Limbo. Attualmente sta lavorando ad un film tv per FilmMaster e alla sceneggiatura di un lungometraggio. Ad intervalli irregolari scrive potenziali epitaffi anche su http://spregevole.blogspot.com
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foto © Getty Images/ Russell Underwood Progetto Grafico di copertina: Giacomo De Panfilis Si ringrazia per la realizzazione dei “Corvi”: Claudio Patriarca-franci&patriarca
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