Un mondo quasi perfetto

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Luigi Pelazza

LUIGI PELAZZA

UN MONDO QUASI PERFETTO

UN MONDO QUASI PERFETTO

Luigi Pelazza è nato a Torino nel 1969 e vive a Vigone (TO). Dopo aver militato nell’Arma dei Carabinieri, si trasferisce in Sardegna dove conduce, su una emittente regionale, il programma di denuncia I Rompiscatole. Nel 2002 approda alle Iene su Italia Uno come inviato e autore di quelle inchieste giornalistiche che lo hanno fatto conoscere e amare dal grande pubblico. Nel 2007 ha vinto il premio giornalistico internazionale Guido Carletti per il servizio realizzato nel Congo intitolato Enfant Sorciers, i bambini indemoniati. Un mondo quasi perfetto è il suo primo libro.

16-11-2008

Progetto Grafico Giacomo De Panfilis

€ 0 .0 15

www.zero91.com

zero | novantuno

In questo straordinario libro d’inchieste, Luigi Pelazza traccia il percorso accidentato dei mali universali di questo Mondo quasi perfetto. Diamanti insanguinati, Clandestini, Zingari, Racket delle Bare e Pedofilia sono solo alcuni temi che ricompongono l’eterna tensione tra il bene e il male che l’autore propone attraverso l’esperienza del suo lavoro in prima linea. Dietro ogni indagine ci sono vite in pericolo, c’è un disagio atavico o solo un modo di affrontare la quotidianità che continua irrimediabilmente a gravitare intorno al denaro. Come si può raccontare la storia di quei bambini del Congo ripudiati e troppo spesso uccisi dai genitori perché una superstizione locale o uno stregone corrotto ha visto in loro il demonio? L’autore non si ferma alla fotografia del male, il suo istinto e la sua coscienza gli impongono di scavare nella vita e nelle motivazioni di ogni stato del mondo o di ogni regione italiana. Certo, quando ci si spinge troppo alla ricerca di un racconto obiettivo, a volte si rischia la vita. E capita anche che il cronista possa entrare nel mirino della camorra che lo ha già condannato. In questo Mondo quasi perfetto si segue però l’esempio del coraggio e, a volte, dell’incoscienza.



LUIGI PELAZZA

UN MONDO QUASI PERFETTO

zero | novantuno


Copyright © 2008 Luigi Pelazza Copyright © 2008 zero91 s.r.l., Milano Printed in Italy

I Edizione dicembre 2008 II Edizione febbraio 2009 ISBN 978-88-95381-11-4

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A Romano Pelazza, mio padre. Te ne sei andato senza disturbare, così in silenzio. Questo libro lo dedico a te, è il frutto dei tuoi sacrifici. Mi manchi Papà…



Introduzione

Quando mi hanno chiesto di scrivere questo libro ne sono rimasto subito entusiasta, ho pensato che stampare su carta le esperienze che ho vissuto in prima persona durante la realizzazione dei servizi sarebbe stata una sfida alla memoria. Rivivere ancora quei momenti, incontrare in astratto di nuovo quelle persone, vedere le loro facce, ascoltare le loro storie, percepire le loro paure. Proverò a presentarvi quelle vite incrociate, a farvi entrare nelle loro storie con rispetto. Come forse sapete, io lavoro alle Iene. Quello che faccio e come lo faccio si vede in tv. Quello che non si vede è ciò che i tempi televisivi tagliano per trattenere il pubblico o solo perché non è giusto, in certi casi, un accanimento sulle immagini più crude. È una scelta condivisibile ma che, a volte, rende monca la verità e forse non offre tutti gli strumenti per capire e contestualizzare il tema trattato. Chi sa perché e qual è la logica per cui, in un angolo di mondo, dei guerriglieri

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hanno mutilato gli arti della povera gente per un pugno di pietre preziose? Chi conosce bene le ragioni e le condizioni del mercato clandestino degli organi umani? Chi prova davvero pena per quegli immigrati che rischiano la vita per un tozzo di pane? Chi sa riconoscere nel vicino di casa un maledetto pedofilo? In televisione, per i temi che vado a trattare, mi servirebbe più tempo. Lo chiedo a voi, alla vostra attenzione. Tra queste pagine c’è quel tempo che il piccolo schermo ci nega, c’è l’occasione per approfondire e, forse, anche per non dimenticare. Questo libro è il risultato del mio lavoro e di tutti gli autori delle Iene a cui va il mio ringraziamento, in particolare a Riccardo Festinese e Alessandra Frigo, i miei due insegnanti. Se vi sono piaciuti i miei servizi sappiate che il merito non è solo mio, ci sono anche loro. Scrivono, girano assieme a me i servizi e vanno in sala di montaggio a ultimare il pezzo. Siamo, in ogni momento, una squadra. Qualcuno a volte mi chiede: «ma quante persone siete quando girate un servizio?» Magari si pensa che, vista l’importanza della trasmissione, abbiamo al seguito un cameraman, un microfonista, una truccatrice e un bodyguard. Siamo solo e sempre in due, l’autore ed io. Un ringraziamento particolare va inoltre a Davide Parenti, il papà delle Iene. Grazie per la fiducia che mi hai dato. Ma ora cominciamo il nostro giro intorno ad un mondo quasi perfetto.

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Luigi Pelazza

Un diamante è per sempre

Mercoledì 13 agosto 2008, ore 19:30. Mi trovavo al buio in una stanza dell’hotel 5-10 di Freetown, capitale della Sierra Leone, Africa. Il generatore che produceva l’energia elettrica si accendeva sempre alle 20:00 e solo allora arrivava anche l’acqua calda. Entrai comunque nella doccia, dopo aver aperto il rubinetto appoggiai le mani alla parete. Lasciai che il mio corpo venisse bagnato da quel gettito freddo ma piacevole. E cominciai a pensare a ciò che avevo visto in quella terra, alle parole che avevo udito, ai ricordi che mi avevano attraversato per lasciarmi dentro un vuoto che non riuscirò mai a colmare. La Repubblica della Sierra Leone è uno Stato dell’Africa Occidentale, sulla costa dell’Oceano Atlantico. Confina con la Guinea a nord e a est e con la Liberia a sud-est. Una nazione con poco più di cinque milioni di abitanti che, nel 1991, ha conosciuto l’atrocità di una guerra civile che si è spenta solo nel 2002. Questo conflitto era stato fomentato dai ribelli del Fronte Rivoluzionario Unito, il RUF, creato da Fonday Sankoda con la complice collabo-

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razione di Charles Ghankay Taylor, un signore della guerra che è stato il Presidente della Liberia sino al 2003 e che è stato processato dai tribunali speciali della Sierra Leone e dell’ONU per crimini di guerra e delitti contro l’umanità. Quando nacque, il RUF urlava uno slogan liberatorio. Non più Schiavi, non più Padroni, Potere e ricchezza al Popolo!» La verità è che i signori della guerra miravano solo a far cadere il governo della Sierra Leone e impadronirsi delle miniere diamantifere riscattate con il sangue della povera gente. Sono le contraddizioni di questo mondo imperfetto: quel paese ha il secondo primato tra le nazioni più povere del mondo con un reddito pro capite di appena 250 dollari annuali, ma nel sottosuolo sono nascosti i diamanti più preziosi della Terra. Gli stessi che arricchiscono le nostre gioiellerie. Il Fronte Rivoluzionario Unito cedeva le gemme al Presidente della Liberia che pagava con armi e munizioni da scaricare contro chi si fosse opposto alla dittatura della Sierra Leone. E come un circolo vizioso, mentre dei guerriglieri fanatici eliminavano e “recidevano” i loro nemici, il Presidente di un altro paese continuava ad arricchirsi. Certo, in questo frangente si è incuneata una serie di intermediatori senza scrupoli come Richard, un inglese che da più di trent’anni fa il minatore. Aveva cominciato da ragazzo in Inghilterra a scavare con la pala e, dopo gli studi, era rimasto sempre nel campo diamantifero. Era un tipo simpatico, uno di quelli con cui si scherza come si fa con i buoni amici ma

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che, ad un tratto, mi lasciò esterrefatto. Gli chiesi da quanto tempo si trovasse in Sierra Leone. «12 anni.» Feci un veloce calcolo e gli formulai un’altra domanda. «Quando c’era la guerra, lavoravi nelle miniere?» Rispose di sì. «Non avevi paura che i guerriglieri ti ammazzassero per impadronirsi delle miniere?» «No, loro ci proteggevano.» Cazzo, quel Richard appena conosciuto, quel bontempone, durante la guerra aveva trafficato con i guerriglieri del RUF. «Quindi, durante la guerra anche tu vendevi le pietre al RUF?» Lo chiesi scandendo bene le parole in maniera che non ci fossero fraintendimenti. «Sì, sì», mi rispose sorridendo. Sì… il cazzo, pensai io. Quel pezzo di merda anglosassone si era arricchito sulla pelle degli altri. Forse avrebbe spento quel sorriso se avesse saputo che, nel mio servizio, avrei mandato in onda queste belle dichiarazioni. Sicuramente alla sua compagnia non avrebbe fatto piacere far sapere che, nonostante vi fossero leggi europee che vietassero la vendita dei diamanti estratti in quelle zone di guerra, aveva autorizzato persone come Richard a continuare i loro traffici. Per fortuna c’è qualcuno come padre Maurizio, un salesiano che si occupa delle vittime di quelle stragi. Quando gli dissi che il mio paese d’origine era Vigone, un piccolo

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centro di appena 5.000 abitanti della provincia di Torino, ebbe un sussulto. Lui a Vigone, negli anni ‘70, aveva svolto per un anno il noviziato, prima di farsi prete. Cominciò a elencarmi i nomi delle famiglie che ricordava e che, ancora oggi, risiedono nel mio bel paesino. Mi diceva del prete di allora, Don Pino, che io ricordo benissimo, e di una donna, la sua perpetua, molto brava nel cucinare e a litigare col sacerdote. «Non ricordo più il nome di quella donna, era piccolina, vispa e molto cordiale.» «Si chiama Marisa Pelazza. È mia madre.» Aveva fatto la governante presso Don Pino, per più di dieci anni. Com’è piccolo il mondo! Padre Maurizio mi chiese più volte se stessi dicendo la verità. All’inizio, pensava che mi stessi prendendo gioco di lui. Poi continuammo a parlare dei progetti che intendeva portare avanti in Sierra Leone, con l’aiuto dell’associazione Sole Terre. Il prezzo di questo tragico baratto che scambiava i diamanti con le armi è stato documentato: durante questi 10 anni di scontri, il RUF ha commesso migliaia di omicidi impietosi e mutilato circa 1.200 persone, fra bambini uomini e donne. Sono crimini con un conto ancora aperto. Ho sentito lo sfogo dei superstiti mutilati, li ho incontrati in un grande caseggiato che è ancora usato dalle comunità per celebrare feste e riunioni. Erano presenti un importante capo villaggio e le autorità del posto: il capo della Polizia locale, un sacerdote cristiano e il sindaco. Jasmine, il nostro interprete, avrebbe dovuto spiegare a quella gente il motivo della mia presenza. Prima ricordò che, nonostante la fine della guerra, c’erano ancora

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alcune fazioni di guerriglieri non controllati dal RUF che compivano furti e saccheggi nei villaggi. Jasmine parlava con un’enfasi misurata ma io fui distratto da una donna seduta in prima fila che nascondeva goffamente la mano destra dietro la schiena. Presto mi accorsi che non la stava nascondendo ma appoggiava un piccolo moncherino sull’anca dando l’impressione di una mano che in realtà non c’era. Piano piano, i miei occhi cominciarono a vedere al di là della massa indistinta che affollava quello spazio, solo nella prima fila contai 19 vittime del RUF: a qualcuno mancava una mano, altri le avevano perse entrambe, altri ancora non avevano più le gambe. Erano tutti lì, in bella mostra, ma io non mi ero accorto di loro. Non subito. Quella gente mostrava una calma disarmante, ascoltava di volta in volta le autorità che prendevano la parola. Chissà quante volte avevano già sentito quei discorsi, chissà quante volte qualcuno aveva già promesso un aiuto, ma dopo tutto quel tempo nulla era cambiato. Vedevo in loro la rassegnata consapevolezza che la propria vita era cambiata dal momento in cui avevano perso una parte del corpo. Niente avrebbe potuto restituire quelle persone che non erano più. Per vestirsi, mangiare, lavarsi, avrebbero sempre avuto bisogno di qualcun altro. Non avrebbero più potuto prendere in braccio i loro figli o accarezzarli alla mattina appena svegli. E tutto questo, non per via di un infortunio sul lavoro, un incidente automobilistico o un’altra disgrazia. No. Tutto questo per la ferocia del RUF. Ed io? Che cosa avrei dovuto dire, come avrei potuto

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rassicurarli? Che cosa avrei potuto promettere, di cambiare loro la vita? Erano centinaia intorno a me ma io non ero un Messia che con un tocco al polso mutilato avrebbe fatto ricrescere il palmo e le dita. E non avrei potuto neanche salvarli dalla fame, dalla febbre gialla, dall’epatite e dalla malaria. Il sacerdote, con la sua bella omelia, li invitò a pregare e a perdonare perché i loro aggressori sarebbero stati, chissà quando e chissà come, giudicati da Dio. Per il momento, nella vita terrena, quelle parole non bastarono neanche a me. La riunione terminò con una canzone di gruppo e, come in un rito beffardo, l’assemblea era invitata a battere il tempo con le mani. Di fronte a me, una donna accompagnò quel canto festoso seguendo il ritmo con i suoi arti amputati. Mi paralizzò con un nodo alla gola, scesi dal palco e mi avvicinai a lei per abbracciarla. Mi sussurrò una parola in quella sua lingua per me incomprensibile ma, anche oggi, sono certo che mi abbia chiesto… Perché? Ecco perché mi trovavo lì. Jasmine non lo aveva ancora detto. Ero lì per far riecheggiare ancora quei perché nelle orecchie dei guerriglieri del RUF. Militari che ho incontrato in una stanza buia su cui campeggiavano dei poster di uomini che avevano lottato tutta la vita per la pace. Un’altra contraddizione di questo mondo imperfetto. Entrai subito con una domanda diretta: «Perché vi siete arruolati nel RUF?» Mi guardarono e risposero sorridendo. «Non ci siamo arruolati di proposito. Un giorno, nel 1994, il RUF arrivò nel nostro villaggio e come loro abi-

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tudine, cominciarono a sparare e a bruciare le capanne. Ci radunarono in gruppo e a noi ragazzi chiesero di arruolarci. Se ci fossimo rifiutati ci avrebbero uccisi.» Prese la parola un altro. «Un mio amico ha provato a ribellarsi, era vicino a me, in piedi. Gli spararono un colpo alla testa con la pistola. Io non ho avuto scelta.» «Quanti anni avevate quando vi siete arruolati?» «Io 20 e lui 21.» «Una volta arruolati avete ricevuto un addestramento?» «Non c’era un vero addestramento, ci facevano sparare ad alcuni bersagli con il kalashnikov e la pistola, poi dovevamo strisciare per terra camminando sui gomiti, come avevamo visto fare ai soldati americani nei film. Chi non lo faceva bene, veniva picchiato.» «Vi hanno spiegato per quale motivo è nato il RUF?» «Per liberare la Sierra Leone da un Governo despota e opprimente, che non pensava al benessere della gente.» «Credevate in questa missione?» «Avevamo 20 anni, non importava quello che pensavamo noi, a loro servivano guerriglieri e basta.» «Avevate un grado di comando?» Mi rispose prima quello vicino a me e poi l’altro. «Io ero un maggiore, comandavo diversi uomini.» «Io no, ero un soldato semplice.» «Come si faceva a salire di grado?» «Si dovevano portare a termine delle missioni, se dimostravi forza e sufficiente cattiveria, allora venivi valutato e

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ti passavano di grado.» «In che cosa consistevano le missioni che dovevate portare a termine?» «I capi decidevano che, ad esempio, dovevamo entrare in un villaggio e bruciarlo. Oppure altre volte si dovevano amputare solo le mani, altre ancora le braccia, o le gambe, e così via. Ogni missione era decisa da loro e noi dovevamo eseguire.» «Avete picchiato qualcuno?» Risposero meccanicamente. «Sì.» «Bruciato villaggi?» «Sì.» «Violentato le donne?» «Sì.» «Avete mai ucciso delle persone?» Si guardarono come se non volessero rispondere e poi si rivolsero al nostro gancio e gli chiesero se le loro facce, una volta terminata l’intervista e mandata sul canale italiano, si sarebbero viste. Avevamo concordato di nascondere quei volti, li avremmo scontornati, sgranati, avremmo sfuocato le loro colpe con il velo dell’anonimato. Li invitai a parlare liberamente ma si tennero ad un passo dalla verità. «Quando entravamo nei villaggi, l’ordine era quello di terrorizzare la gente sparando ad altezza d’uomo.» Sostenevano di non aver mai puntato su un preciso bersaglio umano ma di aver esploso quei colpi mortali solo perché i capi lo ordinavano e, in quella squadra, chi si ri-

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fiutava di ubbidire sanciva la propria condanna a morte. «C’è un’immagine che vi è rimasta impressa nella mente, e che continua a turbarvi?» Risposero senza esitazioni ma con un certo distacco. «Vedevamo gente che scappava. L’ordine era di sparare e uccidere chi fuggiva. C’erano anche donne violentate e poi uccise, bambini che piangevano e villaggi in fiamme.» Lo avevano fatto anche loro. I guerriglieri avevano scontornato, sgranato e cancellato tutta quella gente dalla loro memoria. Erano rimaste tante immagini, tante sagome indistinte, uomini e donne disperate come prede senza un volto, senza un nome. Non avrebbero mai riconosciuto né avuto pietà di una giovane donna, Ramina, che durante la guerra ha perso tutto. Questo è quello che mi ha raccontato. «Erano le 07:00 di una mattina piovosa, ero sveglia e stavo preparando un po’ di manioca per mio marito e la bambina. Lo facevo sempre fuori, era lì che avevamo il fuoco per cucinare. A un certo punto vidi correre verso di me alcune mie amiche. Erano terrorizzate e gridavano: «scappate, scappate, stanno arrivando quelli del RUF.» Sono tornata a casa, ho preso la mia bambina per legarla con una fascia dietro la mia schiena. Mio marito mi disse di andare nel bosco perché lì mi sarei potuta nascondere con mia figlia. Lui voleva cercare di salvare il possibile, almeno le sementi di grano per la farina. Ho lasciato casa con il cuore in gola correndo verso la foresta che distava dal villaggio non più di cento metri. Presto mi raggiunsero delle altre persone, quasi tutte donne con i loro bambini.

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Scappavano tutti nella mia stessa direzione. Io provai a nascondermi dietro a dei cespugli. Guardando nella direzione del villaggio, si videro arrivare 5 o 6 jeep con sopra decine di ragazzi che imbracciavano i fucili. La bambina piangeva e non riuscivo a farla stare zitta, le misi la mano sulla bocca per attenuare le sue grida. Volevo aspettare mio marito, speravo di vederlo uscire di casa. Ero sola con mia figlia e non sapevo cosa fare. Quando le Jeep si fermarono in mezzo al piazzale del villaggio, i ragazzi del RUF scesero velocemente e cominciarono a sparare in aria e ad altezza d’uomo, e in varie direzioni. Gridavano, entravano nelle case e scaricavano la loro rabbia con chi trovavano dentro. Le donne venivano trascinate per i capelli in mezzo al cortile e poi picchiate con il calcio del fucile. Poi assieme a loro spinsero anche gli uomini. Mi ricordo che un anziano uscì dalla sua abitazione con le mani in alto, in segno di resa. Andò incontro a un ragazzo del RUF, camminava lentamente pregandolo di non sparare: in cambio gli avrebbe dato ogni sua cosa. Il ragazzo lo lasciò avvicinare a circa tre metri da sé, poi si voltò verso gli altri guerriglieri, quasi a cercare approvazione e si mise a ridere a gran voce. Il vecchio era fermo, immobilizzato dalla paura, tremava. Il ragazzo gli disse qualcosa che non capì, alzò il fucile e fece fuoco. Il vecchio allora stramazzò a terra in una pozza di sangue, ma si muoveva ancora. Quel ragazzo cominciò a colpirlo alla nuca con il calcio del fucile. Tre, quattro colpi e il corpo di quell’uomo cessò di vibrare. Poi radunarono una cinquantina di persone nel piazzale del villaggio. Urlavano tutti per la paura di mori-

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re e, tra loro, c’era anche mio marito. Ne scelsero una decina e li misero in fila indiana, poi presero un ceppo di legno e lo sistemarono in testa alla fila. Arrivò un ragazzo con un grosso machete e intimò al primo della fila di appoggiare il braccio sul ceppo ma quello piangeva e urlava. Continuava a supplicare la grazia, sosteneva di non aver fatto niente. Gli risposero alcuni del RUF ribadendogli che aveva votato per il nuovo presidente della Sierra Leone e che quindi era contro di loro. Tutti noi lo eravamo. Gli si avvicinarono quattro guerriglieri e con la forza presero lui e il suo braccio e lo appoggiarono al ceppo. Si divincolava ma non riuscì a liberarsi. Vidi un giovane soldato del RUF portare in alto la mano stringendo il machete e poi vibrarlo in basso. Un urlo mise fine a quell’atrocità. L’avambraccio cadde a terra. Il giovane mutilato emise dei gemiti strazianti e cominciò a rotolare nel piazzale tenendo, con l’altra mano, quello che rimaneva del suo arto. L’orrore continuò fra le grida, il terrore della gente e i sogghigni dei guerriglieri che tenevano sempre le armi puntate in segno di minaccia. Si avvicinarono nuovamente al ragazzo, lo raccolsero da terra e ancora lo avvicinarono al ceppo. Non gridava più, pareva non sentisse alcun dolore. Li guardava e basta. Piangeva in silenzio e, quando il machete vibrò nell’aria per la seconda volta staccandogli la mano, nel villaggio non si udì più alcun rumore. Nessuno che gridava o che piangeva. Si erano tutti rassegnati alla loro sorte. Condussero quelle cinquanta persone in una casa, chiudendo porte e finestre. Poi appiccarono il fuoco e chi tentava di uscire veniva giustiziato con una raffica di mitra.

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Non potrò mai dimenticare le urla, le torce umane che vidi uscire da quella casa in cerca di salvezza. Alcune le lasciarono morire bruciate vive, altre le aiutarono, sparandogli. Mio marito era fra quelle persone. Non ho potuto fare niente per salvarlo. Terminate le barbarie, razziarono il villaggio e si prepararono la cena in mezzo a quei corpi martoriati dai proiettili e bruciati dalle fiamme, per poi salire sulle loro jeep e allontanarsi. Aspettai circa due ore prima di uscire, volevo essere certa che non ci fossero più guerriglieri. Insieme agli altri fuggiaschi ci avvicinammo al nostro villaggio. Tutti piangevamo i nostri cari. I guerriglieri del RUF avevano distrutto ogni cosa, non c’era né cibo, né acqua, e poi rimaneva il rischio che tornassero. Prendemmo la decisione di spostarci in gruppo verso altre destinazioni. Entrai in casa alla ricerca di qualcosa da mangiare ma riuscii a trovare solamente un po’ di pane. Avevamo un po’ di risparmi, li tenevamo nascosti dietro una piccola cassapanca. Nulla, li avevano trovati. Pensai alla mia bambina, spaccai il poco pane rimasto e lo misi in una ciotola con dell’acqua. Raccolsi qualche vestito e mi radunai fuori assieme agli altri. Un uomo, amico di mio marito sembrava essere quello più esperto e tutti noi lo seguimmo. Cominciammo a percorrere a piedi una strada che ci avrebbe dovuto portare in un altro villaggio. Lì avremmo chiesto aiuto. Quel villaggio, non lo abbiamo mai raggiunto. A un certo punto, mentre stavamo camminando con i nostri fagotti e i bambini sulla schiena, qualcuno vide delle altre auto sopraggiungere nel senso di marcia opposto al nostro. Eravamo terrorizzati, era il no-

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stro turno. Ci avrebbero raggiunto e condannato a morte. Io non pensavo a me, volevo solo mettere in salvo la mia bambina. Ricominciai a correre, lasciando cadere a terra i pochi stracci che avevo portato con me. Udivo delle grida che mi rincorrevano, delle voci che mi dicevano: «puttana, adesso ti ammazziamo». Correvo come mai avevo fatto prima, ma non servì. Mi urtò qualcosa ma non riuscì a farmi cadere, né avvertivo dolore. Sentivo solamente un leggero senso d’umido che scorreva lungo il mio corpo, sul fianco destro. Un secondo urto che questa volta mi buttò a terra. Il senso di bagnato che sentivo prima, apparteneva a mia figlia. Era il suo sangue. Con il machete, mentre mi rincorrevano, avevano cercato di falciarmi ma avevano preso la gamba della mia bambina che si staccò di netto. Lei urlava, ma pensavo fosse scossa dalla paura per quello che stava accadendo. Una volta a terra, cercai di prenderla in braccio ma me lo impedirono. Uno di loro l’allontanò e gli altri mi saltarono addosso. Mi violentarono. Non sentivo niente, tenevo gli occhi chiusi e pensavo solo alla mia bambina. Non so dirvi in quanti hanno abusato di me. Mi ricordo però che ogni volta che uno di loro finiva poi mi sputava addosso e si allontanava lasciando il posto all’altro. Non si accontentarono di questo, alla fine presero un ramo e me lo infilarono dentro. Non mi restava che aspettare la morte; invece si allontanarono, lasciandomi sola con la mia bambina. Strisciai per raggiungerla e la presi in braccio. Con la camicia che avevo addosso, feci un laccio in modo da fermagli il sangue, la caricai sulla schiena e, con tutta la forza che avevo in corpo, cominciai

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a camminare senza sapere quale direzione prendere. Camminavo e basta. Ricordo solo che a un certo punto mi sono svegliata in un letto d’ospedale. Ero a Koidu, la capitale del distretto del Kono. Una ONG mi aveva trovata sulla strada e soccorsa. A mia figlia, per via di un’emorragia, avevano dovuto amputare anche ciò che era rimasto della sua piccola gamba. Mi hanno raccontato che ho percorso in quelle condizioni più di 50 kilometri. Ho subito tre operazioni e non potrò mai più avere figli.» Ramina oggi ha 28 anni e sua figlia 12. Padre Maurizio ha trovato loro una casa. Ramina sa che lei e la figlia non si potranno più sposare, né avere un uomo, perché mai nessuno le accetterà in quelle condizioni. Però sarebbe stato inutile raccontare questa storia ai guerriglieri del RUF che avevo davanti. Seguivano un’altra logica, ogni loro azione la motivavano con una causa scatenante. Uccidevano perché dovevano farlo e “mai a sangue freddo”, si ancoravano ad una singolare attenuante dei loro omicidi. «Eravate poco più che ragazzi, vi sentivate forti?» «Quando cominci ad avere un fucile in mano per giorni, puoi fare quello che vuoi, ammazzare chi vuoi e avere le donne che ti piacciono. Questo ci piaceva.» «Ora avete dei figli?» «Sì.» «Direte loro che avete fatto parte del RUF?» Si guardarono quasi spaventati da quella domanda. «No per carità, mai.» «Che cosa direte loro, se un giorno a scuola studieranno

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la guerra dei diamanti e il RUF? Come spiegherete ai vostri figli che cos’era il RUF?» «La morte, la sofferenza, una guerra sbagliata che ha rovinato la vita di migliaia di persone.» «Avete mai incontrato qualcuno, a cui durante la guerra avete fatto del male?» Nel chiederlo, pensai subito a Ramina e a quello che le era accaduto. «No mai, perché abbiamo combattuto in una zona lontana da qui.» «E se lo doveste incontrare?» «Non potremmo guardarlo in faccia.» Non era quello che mi aveva raccontato quell’uomo a cui i guerriglieri avevano amputato entrambe le braccia e ucciso la moglie dopo averla violentata. Ma dopo molti anni, per uno strano gioco del destino, mentre si trovava per strada seduto a chiedere qualche soldo, vide uno dei suoi carnefici dall’altra parte della strada, lo stesso che gli aveva distrutto la vita. Lo riconobbe subito, era diventato un uomo di 35 anni ma le sue sembianze non erano cambiate, aveva ancora gli stessi occhi. Si alzò e andò subito nella sua direzione. Era fermo e si stava guardando intorno, come se stesse aspettando qualcuno. Gli si parò davanti e lo salutò – «ti ricordi di me?» – facendo vedere le sue amputazioni. Il guerrigliero non disse niente, non provò nemmeno a far finta di non conoscerlo, disse soltanto «si mi ricordo, eravamo in guerra». Cominciarono a parlare di quei tempi ma non gli ricordò cosa aveva fatto a lui e alla sua famiglia, non

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ce n’era bisogno. Il mendicante era morto fuori, l’uomo di fronte a lui era morto dentro. Si mise a piangere, lo abbracciò chiedendogli perdono per quello che aveva fatto. Andarono insieme a casa e, senza dire ai figli chi era quel signore, anche se la dispensa era davvero povera, gli fece preparare qualcosa da mangiare. Quando si salutarono, l’ex guerrigliero promise che avrebbe aiutato quella famiglia ma, da quel giorno, non si fece più vedere. Chiesi al mendicante dove aveva trovato la forza di perdonare. Mi confessò di aver pensato subito ad una vendetta, di aver cercato qualcosa intorno, un pezzo di legno, un mattone, da prendere in mezzo ai moncherini e spaccare la testa a quell’uomo. Poi però aveva pensato che aggiungere altra violenza alla violenza non avrebbe comunque cambiato le cose. Grazie a padre Maurizio anche lui aveva una casa e sognava un futuro più felice per i propri figli. «Quei tempi», mi disse «non torneranno più». Intanto mi mostrava una protesi alla cui estremità aveva fissato un cucchiaio che riusciva a governare a seconda dell’angolazione. Posizionato a 90 gradi, riusciva a mangiare i cibi contenuti in piatti fondi, inclinato a 120/150 gradi diventava l’unico aiuto per i cibi all’interno dei piatti piani. Si illuminò mostrandomi quell’invenzione come se quell’arnese avesse dato un frammento di normalità alla sua vita. Fissai un’immagine sulla parete dei guerriglieri. «Dietro le nostre spalle c’è un poster che raffigura Malcom X. È un uomo che ha lottato per la pace. Che cosa c’entra con voi?»

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Mi rispose l’uomo seduto vicino a me, lo fece con convinzione. «In quel periodo, anche a noi avevano professato la guerra come strumento di pace.» «Se dovesse succedere ancora la stessa cosa, se vi obbligassero ad arruolarvi minacciandovi di morte, che cosa fareste?» «E tu? Che cosa faresti?» E io? Che cosa avrei fatto? Ritornando verso la macchina, cercai inutilmente di separare il torto della guerra dalla ragione della sopravvivenza, mi domandai se quegli assassini andassero perdonati o se meritassero anche loro la morte per quello che avevano fatto. Conclusi che non ero io a dover decidere. Eravamo tutti un po’ sconvolti da quello che avevamo sentito. Il fatto di udire quelle barbarie compiute proprio da due ex del RUF, ci dava ancora di più il senso esatto di quello che era successo per dieci anni. Sentire la testimonianza di una persona a cui hanno amputato le mani e guardarlo in faccia mentre ti sta parlando, ti tocca profondamente, ma avere di fronte uno di quelli che l’ha fatto, ti lascia una vertigine nell’anima. Ti senti quasi in obbligo di vendicare tutte quelle vite strappate, ma è una reazione arrogante e istintiva. Non è questa la giustizia. Un particolare però trapela da una di queste storie: quella di un uomo sui 30 anni a cui il RUF ha amputato la gamba destra e la mano sinistra. Lui non la pensa come quel mendicante. La sua storia stava quasi per finire bene. I

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guerriglieri, una volta assaltato il suo villaggio, se ne stavano per andare e a lui, come ad altre persone, non avevano fatto nulla. Fece lo sbaglio di parlare ad un ragazzino di non più di 10 anni, un bambino soldato. Aveva notato che, durante le aggressioni, imbracciava un fucile ma era impaurito e restava immobile. Gli disse solamente «dove sono i tuoi genitori?» Lui non rispose, ma un altro ragazzo più grande sentì e riprese il bambino. «Tu ora sei un soldato del RUF e devi agire di conseguenza.» Presero quell’uomo e, sotto gli occhi del ragazzino, gli amputarono la mano e la gamba. Lo fecero solo come gesto dimostrativo. Questo è quello che mi ha detto prima di concludere la sua storia. «Un giorno, anche fra 50 anni, lo incontrerò e gli riserverò lo stesso trattamento. Non lo voglio uccidere, sarebbe troppo comodo. Deve patire il dolore e l’umiliazione che ho penato e sto continuando a soffrire io. Nella mia vita non ho altri obbiettivi oramai se non quello di cercare il mio AMICO.» Lo disse con una rabbia così forte che, sulle labbra, gli si fermò un rivolo di bava e sono certo che un giorno porterà a termine il suo piano. Al quadro che mi ero fatto mancava ancora un tassello importante. I diamanti. Li trovammo nei pressi di Sandor, città del distretto del Kono, in cui si trova la miniera Milestone e le decine di uffici con insegne gigantesche che raffigurano la gemma preziosa. Volevamo vedere com’era fatto un diamante grezzo, che è molto diverso da quelli che siamo abituati a vedere nelle gioiellerie, quanto costava e quali leggi regolavano il commercio con l’estero.

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Dapprima scegliemmo d’entrare con la telecamera a vista e chiedere l’autorizzazione a riprendere spiegando quali domande avremmo fatto. Capimmo subito che il commercio dei diamanti, in Sierra Leone, non era in mano ai commercianti della Liberia ma era gestito da quelli provenienti dal Libano. Uno di loro, un libanese, ci fece entrare e accomodare e poi rispose a tutte le nostre domande. Ci spiegò che in Sierra Leone, se si vogliono commerciare le pietre all’estero, bisogna possedere un’autorizzazione del governo che viene rilasciata dietro un pagamento di 40.000 dollari all’anno. Dopo di che, si possono acquistare i diamanti dai libanesi ed esportarli all’estero. Ci sono pene molto severe per chi fa viaggiare, in aeroporto, un diamante senza licenza per la libera esportazione. Quel commerciante aggiunse che lui non avrebbe mai venduto le pietre ad acquirenti che non gli avessero, prima, fatto vedere la licenza. Poi ci mostrò alcune gemme di varie misure e ci illustrò i prezzi. Rimasi sbalordito quando sentii che un diamante grezzo da 1,60 karati – che tagliato avrebbe raggiunto comunque le dimensioni di circa 1 karato – me lo avrebbe fatto pagare circa 600 euro. In Italia una pietra della stessa karatura, di colore H (colore medio commerciale di un diamante), con impurità pari a VS (Very Small), quando la pietra non è perfettamente pura, l’avrei pagata, con lo sconto circa 10.000 euro, contro i 600 della Sierra Leone. E non ho scoperto l’acqua calda: diversi articoli di quotidiani internazionali e addirittura dei reportage fatti da giornalisti Europei, puntavano il dito sulla De Beers, com-

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pagnia diamantifera mondiale che ha, dagli anni del dopoguerra a oggi, monopolizzato di fatto il commercio delle gemme preziose. Si dice che la De Beers, nelle sue casseforti, abbia così tanti diamanti che, se li immettesse di colpo sul mercato, farebbe crollare i prezzi. Esperti gemmologi dicono addirittura che una pietra da un karato, in gioielleria, potrebbe scendere da circa 10.000 a 2.000 euro. In America intanto la De Beers è sotto l’occhio vigile dell’FBI che l’ha indagata proprio perché negli anni è riuscita a costruire un cartello sui diamanti, avendo così il potere decisionale sul commercio mondiale, determinandone il prezzo di acquisto e di vendita. Nel periodo della guerra, dal 1991 al 2002, le Nazioni Unite vietarono il commercio di diamanti provenienti dalla Sierra Leone e la De Beers fu ancora accusata di non osservare quella legge, continuando, invece, a comprare e a vendere in tutto il mondo i diamanti insanguinati. Tornando al nostro amico libanese, decidemmo di metterlo alla prova. Terminata l’intervista ufficiale, lo avvicinai con indosso una microcamera e inventai che alla mia fidanzata sarebbe tanto piaciuto avere una pietra delle sue. Gli chiesi di vendermene una precisando ovviamente di non avere alcuna licenza. Il liberiano non solo non mosse alcuna obiezione ma si prodigò in alcuni consigli preziosi su come nasconderla alla partenza in aeroporto: avrei potuto occultarla nel tubetto del dentifricio, all’interno delle mutande o in bocca per all’occorrenza, ingoiare la pietra.

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Intanto quella terra di nessuno è ancora ostaggio dei predatori venuti da altri paesi. Gli abitanti della Sierra Leone vivono ancora quasi in una condizione di schiavitù, in baracche fatiscenti, esposti alle malattie, vittime consapevoli di un destino che impone solo povertà. Sembrano non sapere che quei sassi, trovati sotto terra dall’altra parte del mondo, vengono acquistati a delle cifre inimmaginabili. Quante cose sembrano non sapere, ma forse le sanno. A volte torna un’immagine fissa nel mio cervello: sto guardando un film e lo schermo è diviso in due. Da una parte, sulla sinistra, c’è un uomo all’interno di una gioielleria che compra un diamante per la sua amata. La commessa usa tutte le parole che conosce per spiegare al meglio le caratteristiche di quella gemma e l’importanza della pietra. Lo fa tenendo in mano il gioiello sotto una luce bianca che permette al diamante di riflettere tutta la sua lucentezza. L’uomo è felice dell’acquisto che sta per fare… Sulla destra del teleschermo, nello stesso momento in cui l’uomo sta comprando la pietra, vedo macchine entrare nei villaggi, bruciare le capanne, violentare le donne e mettere in fila indiana diverse persone. Sono nere e sono in Sierra Leone. Ad una ad una vengono immobilizzate per quelle braccia che presto verranno mozzate. I superstiti si piegano dentro le miniere. Quando le immagini svaniscono, da una parte, l’uomo esce dal negozio con il suo bel pacchettino in mano e, dall’altra, un nero seduto su un marciapiede di Freetown chiede l’elemosina, ma senza poter usare le mani. Le ha perdute per sempre.

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Ricordo anche io la romantica tentazione di comprare une gemma sulla scia di una frase per un amore senza tempo: UN DIAMANTE È PER SEMPRE. Magari anche un vostro prezioso gioiello, splendente e di una luce pura e disarmante, è sporco di sangue. Ovviamente molti di voi non hanno colpa, allora non potevate saperlo ma oggi è bene che si sappia che nel mondo sono rientrate in circolo migliaia di pietre preziose, tenute segretamente nascoste per anni in casseforti robuste, che non devono cancellare nella nostra memoria le tracce di quel sangue. Infatti, se entrate in una gioielleria e acquistate una pietra, nessun commerciante sarà in grado di escludere che il diamante sia stato estratto in Sierra Leone, nel bel mezzo del conflitto. Queste pagine avranno un senso se aiuteranno padre Maurizio a sviluppare alcuni progetti in corso. Sul sito www.soleterre.it troverete tutte le informazioni per contribuire a questa missione di pace. UNA MUTILAZIONE È PER SEMPRE. Ma l’orrore può avere fine.

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Un mondo quasi perfetto:cover_definitiva

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Luigi Pelazza

LUIGI PELAZZA

UN MONDO QUASI PERFETTO

UN MONDO QUASI PERFETTO

Luigi Pelazza è nato a Torino nel 1969 e vive a Vigone (TO). Dopo aver militato nell’Arma dei Carabinieri, si trasferisce in Sardegna dove conduce, su una emittente regionale, il programma di denuncia I Rompiscatole. Nel 2002 approda alle Iene su Italia Uno come inviato e autore di quelle inchieste giornalistiche che lo hanno fatto conoscere e amare dal grande pubblico. Nel 2007 ha vinto il premio giornalistico internazionale Guido Carletti per il servizio realizzato nel Congo intitolato Enfant Sorciers, i bambini indemoniati. Un mondo quasi perfetto è il suo primo libro.

16-11-2008

Progetto Grafico Giacomo De Panfilis

€ 0 .0 15

www.zero91.com

zero | novantuno

In questo straordinario libro d’inchieste, Luigi Pelazza traccia il percorso accidentato dei mali universali di questo Mondo quasi perfetto. Diamanti insanguinati, Clandestini, Zingari, Racket delle Bare e Pedofilia sono solo alcuni temi che ricompongono l’eterna tensione tra il bene e il male che l’autore propone attraverso l’esperienza del suo lavoro in prima linea. Dietro ogni indagine ci sono vite in pericolo, c’è un disagio atavico o solo un modo di affrontare la quotidianità che continua irrimediabilmente a gravitare intorno al denaro. Come si può raccontare la storia di quei bambini del Congo ripudiati e troppo spesso uccisi dai genitori perché una superstizione locale o uno stregone corrotto ha visto in loro il demonio? L’autore non si ferma alla fotografia del male, il suo istinto e la sua coscienza gli impongono di scavare nella vita e nelle motivazioni di ogni stato del mondo o di ogni regione italiana. Certo, quando ci si spinge troppo alla ricerca di un racconto obiettivo, a volte si rischia la vita. E capita anche che il cronista possa entrare nel mirino della camorra che lo ha già condannato. In questo Mondo quasi perfetto si segue però l’esempio del coraggio e, a volte, dell’incoscienza.


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