“Una delle voci più originali e coraggiose degli ultimi anni.” E. Turpin - Il Giornale di Catalunya
“Un romanzo eccezionale con una combinazione sorprendente di intrigo e riflessione sulle relazioni familiari.” Gonzalo di Pedro - AR
F. J. Palma - Diario di Siviglia
“Un caso possibile, forse reale, e le sue conseguenze. Una costruzione ben concepita che fa della suspense il suo elemento essenziale e che cattura l’attenzione del lettore fino alla conclusione.” Sacro Sanz Villanueva - Il Culturale, Il Mondo Foto © Terry Vine/Stone/Getty Images Grafica: Costantino Margiotta/zero91 s.r.l.
ISBN 978-889538113-8
UN PADRE
Pedro Ugarte si conferma, con la sua scrittura elaborata ed incisiva, come uno di quei rari scrittori che riescono a raccontare la realtà.”
Pedro Ugarte
Pedro Ugarte (Bilbao, 1963), é una tra le firme più importanti della letteratura basca contemporanea. In Spagna ha pubblicato diverse raccolte di poesie e di racconti e tre romanzi: Los Cuerpos de las nadadoras, Una ciudad del norte e Pactos secretos. Già vincitore dei premi Nervion, Euskadi de Literatura e NH de Libros de Relatos, per il suo quarto romanzo, Un Padre (il cui titolo originale è Casi inocentes), gli viene assegnato, nel 2004, il X Premio Lengua de Trapo, da una giuria composta da scrittori del calibro di Almudena Grandes e Rafael Reig.
Pedro Ugar te
UN PADRE romanzo
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“C’è una sola cosa memorabile nella mia vita: avere avuto un figlio”. È la struggente confessione di Alberto Durrio, il protagonista di questo romanzo, che, contemplando la sua “opera d’arte”, dichiara la propria ineluttabile volontà di proteggerla dalle insidie piccole o grandi dell’esistenza, anche a costo della vita. Un giorno, il piccolo Leon resta prigioniero di una casa che brucia e suo padre, fuori, non trova il coraggio di entrare. A salvare il bambino, a sfidare le fiamme, sarà un estraneo, uno straniero. Da quel momento, per il padre, quelle certezze di amore assoluto e incondizionato lasceranno il passo a un senso di colpa che scava e lacera quella iniziale felicità. Il debito nei confronti del “salvatore”, ricade su Alberto Durrio con un conto che mette a saldo la sua stessa esistenza. A partire da questo conflitto morale, Un padre si trasforma in un’abbagliante favola sulla paternità, una riflessione filosofica che Pedro Ugarte consegna al suo protagonista attraverso un controverso status di genitore che, a sua volta – nella propria condizione di figlio – esplora il rapporto che lo lega ad una figura paterna ormai incosciente in un letto d’ospedale. Un Padre deve il suo successo alla storia intensa e attuale e alla profondità psicologica con cui l’Autore indaga le relazioni umane, muovendosi, con una scrittura asciutta ma commovente, sulle venature di un thriller psicologico di forte impatto emotivo.
Pedro Ugar te
un padre Traduzione di
Selena Nobile e Manuela Pincitore
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Titolo originale dell’opera: Casi inocentes Traduzione: Selena Nobile e Manuela Pincitore © Pedro Ugarte, 2004 © Ediciones Lengua de Trapo SL, 2004 © zero91 s.r.l., Milano, 2009 Printed in Italy ISBN 978-88-95381-13-8 I Edizione giugno 2009
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Questo è il mio figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto Mc. 1,11
Un padre
C’è una sola cosa memorabile nella mia vita: aver avuto un figlio. Tutto il resto non ha importanza dinnanzi a un simile cataclisma. So che molte persone conoscono l’importanza di questo avvenimento ma so anche che l’essere in apparenza un evento abituale, lo trasforma quasi in un aneddoto, in un fatto di costume che adorna, con pieghe somiglianti, la biografia di molti esseri normali e incostanti. Milioni di persone hanno riscattato tutta una vita di affanni e di sventure grazie a questo avvenimento singolare, a questa misteriosa trasmissione della coscienza che la carne perpetua su se stessa, con ostinazione, generazione dopo generazione, estendendo nel corso della storia lignaggi anonimi, segreti, il cui unico fine è di riprodursi, aggiungere un altro anello alla catena, una catena priva di nome certo, che non conserva memoria di se stessa, ma che si perpetra con incredibile ostinazione. Avere un figlio è un miracolo, sebbene questa condizione sia oscurata dalla frequenza, dalla mera statistica che lo trasforma in un fatto casuale e abituale. Avere un figlio è un miracolo complicato dalla burocrazia delle annotazioni dei registri, dal costume di battezzare e di celebrare i compleanni e dalla noiosa litania di parchi pubblici, altalene e scuole. Ad ogni modo, non smette di essere un miracolo e non smette di essere, allo stesso tempo, il compimento di un delitto
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sconvolgente, perché sai che la tua vita è un passaggio penoso, effimero e probabilmente inutile, eppure, per circostanze mai spiegate, decidi di delegare il suo esercizio e la ripetizione dei tuoi stessi problemi, a individui che moriranno in un futuro molto lontano e dei quali non riuscirai mai a sapere nulla, così come tu non sai nulla di quell’uomo medievale o di quella donna della preistoria alla quale rigorosamente devi quel tuo meccanico sbattimento di palpebre, il ritmo dei tuoi polmoni, la possibilità di pensare in questo momento ciò che stai pensando. Un figlio, d’altra parte, è anche un atto di fede; e se uno concepisce la vita come un patto involontario e prolungato con tutti i tipi di sofferenze, un figlio è anche una sconsideratezza. Non posso sostenerla con completa convinzione, ma ancora conservo la debole speranza che mio figlio arrivi a conoscere una qualche forma di felicità che, per circostanze attribuibili al caso o per mia stessa colpa, a me è stata negata. Da quel giorno in cui contemplai, attonito, quasi incredulo, come il piccolo corpo di León, quella sostanza disperata e insanguinata, emergeva dalle viscere di Regina (all’inizio con difficoltà, aiutato dal medico ma, dopo, con la vertiginosa facilità con cui scivola tra le mani un pesce viscido), compresi che qualcosa di eccessivamente grande si stava abbattendo su di me. Di fronte a quella responsabilità, tutte le altre si trasformarono immediatamente in qualcosa di insignificante, quasi in una distrazione. Questa nuova responsabilità era enorme ed era totale; conteneva il peso di tutto l’universo; un universo che, a partire da quel momento, mi vedevo obbligato a sostenere sulle mie spalle, con il solo aiuto delle mie forze, affinché non danneggiasse quella fragile creatura. Quando vidi León per la prima volta, sentii il desiderio di piangere e successivamente mi invase la perplessità di quegli
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uomini che, sorprendendosi a singhiozzare, se ne vergognano e non si spiegano cosa gli stia succedendo mentre assaporano, increduli, una lacrima salata che, alla fine del suo percorso, bagna le loro labbra. Ho dimenticato la composizione precisa della scena, l’aspetto della sala parto, il colore delle pareti o la voce, forse dolce, forse autoritaria, di ostetriche e infermiere. Ma il ricordo di un colpo al cuore, di una impetuosa scossa, ritorna senza alcuno sforzo ogni volta che penso a quel momento, a come depositarono il corpo di León, sporco, tremante, avvolto in liquidi organici, su un asciugamano sicuramente troppo ruvido per la sua pelle ancora vergine di graffi e di ferite. Lui, allora, appoggiò le braccia e finse o cercò di sollevarsi, sentendo, per la prima volta, il peso del suo corpo, la consistenza della propria identità: una percezione spaventosa che dovette frastornarlo e che, come una pesante catena, si trascina da allora e continuerà a trascinarsi fino al momento della sua morte. Tuttavia, León è nato due volte. Ed io sono responsabile solo della prima delle sue nascite. Questa dichiarazione appare complicata, ma ha segnato la vita di tre persone, quelle tre che, per un certo periodo, rappresentarono l’illusione di una famiglia: León, Regina ed io. Il mio nome è Alberto Durrio. Il mio cognome è quello di uno scultore le cui tracce possono ancora scovarsi in vari punti di questa città. Durrio è la storpiatura locale, perpetrata forse da secoli, di un cognome francese. Qualcuno, evidentemente, venne a vivere tra di noi quando ancora la formalità dei registri non aveva espropriato gli esseri umani della fugacità dei nomi, della possibilità che nuove abitudini e lingue ne modificassero la pronuncia. Tuttavia, nonostante quelle malinconiche statue di Durrio che costellano la città, mai ci fu nella mia famiglia, fin dove si ricordi, un artista rinomato.
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Mio padre lavorò tutta la vita come impiegato in banca e le sue abitudini erano quelle di un borghese annoiato: usciva a bere con gli amici della comitiva, andava allo stadio la domenica e manteneva con sua moglie una relazione di civile cortesia, freddezza e lunghi periodi di astinenza. Mio padre è ancora vivo, ma non è più capace di riprodurre nessuna di quelle abitudini né, tanto meno, quelle altre, più elementari, che sostengono l’identità delle persone. Riposa nel letto di un ospedale, sottomesso dagli infermieri che gli riservano una disciplina abbrutente di pulizia organica e attenzioni di routine (perché anche la pulizia, l’ordine sanitario, possono arrivare ad essere atti di brutalità). È da mesi ormai che non mi riconosce. Arturo ed io, i suoi due figli, ci alterniamo nelle visite, visite che realizziamo puntualmente, con rassegnazione, con docilità filiale, senza speranza, senza nessun effetto pratico, spinti dal dovere morale di non abbandonare nostro padre, di continuare ad essere presenti nella sua vita o in ciò che ancora resta di quella. E torna quindi la percezione del miracolo che significa la vita di León: mio padre sta lì, steso nel suo letto terminale, tramutato in una materia inerte e inespressiva. Ma a quella materia adesso profondamente inutile, devo tutto ciò che sono: il gesto delle mie labbra, il movimento tenue di un sopracciglio, la scelta del nome con il quale tutti mi chiamano o l’opportunità stessa che mio figlio sia nato. Comprendo che questo debito enorme è ciò che ci lega ai nostri genitori, e che l’amore risulta essere l’unica risposta permessa di fronte a coloro che ci diedero qualcosa che non può essere ripagato in nessun’altra maniera. Questo amore che gli dobbiamo si trasforma, però, in un peso perché si tratta di un debito impossibile da saldare, perché non ci sarà mai il tempo necessario per farlo, perché nessun prezzo immaginabile potrà mai essere sufficiente.
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Mi piaceva proclamare, pieno d’orgoglio, che Regina fosse una persona forte, solida, costante, la roccia inamovibile sulla quale era stato edificato il nostro focolare. Mi piaceva dirlo e mi sarebbe piaciuto che, di fatto, ciò fosse stato vero. Ma, nel profondo, mai ne fui molto sicuro. Avevo costruito una leggenda intorno a quell’ipotesi, ed ora avevo bisogno che la realtà la consolidasse. Avevo bisogno che la forza di Regina venisse confermata dai fatti. Dentro di me, in qualcuno di quei pozzi della coscienza dove il bene e il male si mescolano e si confondono, io alimentavo l’aspettativa di patire qualunque disgrazia solo per comprovare come la nostra famiglia trovasse protezione tra le braccia di Regina. Credevo che, davanti alle più grandi difficoltà, lei sarebbe stata capace di sostenere ogni cosa, che, perfino, avremmo vissuto una felicità ancora più intensa, appoggiati l’uno all’altra, raccolti nel calore della nostra casa, a difenderci dalle intemperie, dal vento ostile che soffiava la notte e che lottava per raggiungerci, insinuandosi tra le fessure delle finestre. Avevo bisogno di credere in quella forza che Regina custodiva come un tesoro dentro di sé e che amministrava saggiamente, occupandosi di León e caricandosi al tempo stesso del suo lavoro e della cura della nostra casa. Regina lavorava in casa. Aveva un piccolo laboratorio di restauro che avevamo
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sistemato in una delle stanze. Lì trascorreva ore e ore, seduta al suo tavolo, lavorando instancabilmente il legno di vecchi mobili tarlati, l’argilla di cocci di ceramica rotti. La stanza aveva un odore denso e penetrante, che forse impregnava tutta la nostra casa ma che, per noi, si rivelava solo lì, di fronte alle mensole dell’armadio dove Regina riponeva gli unguenti che applicava sulle sue opere: la trementina, il diluente, la gomma arabica o l’olio di lino. Era uno studio intimo illuminato appena da una lampada che disegnava un cerchio di luce sul tavolo da lavoro e lasciava il resto dell’ambiente immerso nella penombra. A volte Regina raggiungeva i suoi strumenti guidata solo dal tatto, come se la sua memoria conservasse una mappa con la localizzazione esatta di ogni singolo attrezzo. I pennelli, gli scalpelli, i barattoli di vernice e di lucido di Giudea riposavano negli scaffali, formando file perfette e ordinate, come una variegata mostra di oggetti sistemati manualmente. Regina, nel suo laboratorio, indossava un camice bianco e delle pantofole dello stesso colore; lavorava assorta, concentrata, avvolta in un profondo silenzio, abitante di una tana intima e sicura. Per lei il laboratorio era una versione più radicale della nostra casa, che avevamo sempre concepito come un rifugio sicuro. E mentre lavorava, intonava con una voce molto bassa una ninna nanna, la stessa che utilizzava durante la notte per far dormire León. Tendiamo sempre ad attribuire virtù mai del tutto comprovate alla persona che amiamo. Crediamo in lei con fermezza ma allo stesso tempo, in qualche modo misterioso, sappiamo che attribuirle virtù è anche un modo per dare conferma alle nostre speranze. Io riconoscevo a Regina una forza leggendaria, propria di inamovibili matrone, dee greche o impassibili donne contadine dalle mani ruvide e callose, disposte a sopportare la miseria con una buona disposizione d’animo. Confidavo che lei
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possedesse una forza sovrumana, come se ciò fosse una scusa che forse, con il tempo, potesse compensare le mie debolezze, le mie rinunce, i miei piccoli ricatti quotidiani, un attacco di disperazione o un impeto di collera. In realtà io non ero una persona difficile (lavoravo troppo, non la tradivo mai con altre donne, mi comportavo come un corretto padre di famiglia la cui condotta è sempre prevedibile e assestata), ma avevo una paura esasperata della realtà nella quale vivevo, come se la città fosse un altipiano pieno di pericoli. La città (quella città particolare che ognuno di noi va componendo man mano in base a lavori, contratti, case, negozi e uffici) mi sembrava un campo minato. Sarebbe arrivato il giorno in cui io avrei commesso qualche errore, avrei messo il piede nel posto sbagliato e tutto sarebbe esploso, annientando le mie convinzioni e i miei princìpi, con la stessa violenza con la quale una bomba dilania un essere umano e cosparge i suoi resti sul campo di battaglia. Io temevo che qualcosa di questo tipo potesse accadere nella nostra vita. Ma sarebbe stato proprio allora, pensavo, che Regina si sarebbe sollevata nel mezzo della distruzione, diventando un rifugio, una fortezza in cui io e León saremmo stati sempre al sicuro. Avevo bisogno di credere in lei, avevo bisogno di credere, ne avevo bisogno. Forse tutto si risolve nel fatto che, ogni volta che diciamo di credere in qualcosa, la certezza più recondita è che abbiamo solo bisogno di credere. E io credevo in León. E credevo in Regina. Quale altra cura mi restava? E continuo a credere in loro persino ora, che ormai non si trovano qui.
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Andavo a trovare mio padre almeno una volta alla settimana. Ed ero ogni volta più sicuro che quelle visite servivano solo ad alleviare un oscuro senso di colpa. Era da tempo che mio padre non riconosceva più nessuno e nessuna compagnia poteva salvarlo dalla sua profonda solitudine. Solo un pesante obbligo sosteneva la mia costanza: lui era mio padre, lui o quella materia inerte stesa su un letto, continuava a essere mio padre ed esigeva la mia lealtà. La sua memoria era andata dissolvendosi man mano che avanzava la malattia, come se dal quadro della sua vita, composto nel corso degli anni, fossero andati scomparendo, giorno per giorno, tratti interi, fino a trasformarsi in una tela vuota. Prima di perdersi per sempre nelle tenebre, quando gli era già difficile riconoscermi (o quando non mi riconosceva ma ancora mi confondeva con qualche altra persona), era solito parlarmi della sua infanzia, delle cose che faceva o diceva quando era giovane. Nel quadro della memoria, gli strati più antichi sono anche i più profondi. Egli si ricordava della sua infanzia: le docce di acqua fredda in una casa grande, gli anni della guerra civile o le sessioni di cinema nelle quali un pianista da sala accompagnava con le sue note i momenti topici di una pellicola muta. All’improvviso parlava dei cappelli, i cappelli con i quali tutti si coprivano il capo quando lui era ancora gio-
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vane. “Perché nessuno adesso porta il cappello?” domandava ad alta voce. La sua mente errabonda si soffermava a volte su quelle meditazioni e poi con i suoi occhi supplicava una risposta, come se chiedesse cose diverse, molto più importanti, o come se cercasse spiegazioni, una sola spiegazione che, velatamente, cambiasse tutta la sua esistenza. Quando nacque León, io e Regina lo portammo alla residenza dove mio padre era ricoverato. Gli mostrammo il bambino avvicinandoglielo al volto. Mio padre non seppe o non poté vedere nulla. Si limitò ad agitare le braccia nell’aria mentre alludeva ad esseri infernali che volevano distruggere la sua vita. Fu necessario allontanare il bambino perché non gli tirasse un pugno. Fu un incontro così deprimente che Regina uscì immediatamente dalla stanza stringendo il bambino tra le braccia. Da allora mi occupavo solo io di fare le visite. Non le condividevo nemmeno con Arturo; in fin dei conti, tutti e due eravamo sovraccarichi di impegni e dividerci le visite era un modo per aumentare il tempo in cui il vecchio stava in compagnia. Finii per assumere quella schizofrenia che invade i familiari di quei malati assenti, quando gli parlano, li accarezzano, immaginando che ancora possano percepire, in un qualche modo intuitivo, il loro affetto. Raccontavo a mio padre le cose di casa e del lavoro. Gli parlavo di suo nipote, dei passi che faceva nella sua particolare scoperta del mondo. Spesso gli raccontavo di qualche marachella e poi ridevo, cercando nei suoi occhi un gesto di complicità, una complicità che non arrivava mai. Cercavo di prendergli la mano (quelle mani distrutte, la cui pelle screpolata ricordava le fratture che ha lasciato su di un vetro una violenta pietrata), ma era un gesto che necessitava di un’alta dose di prudenza. A volte mio padre sentiva sfiorarsi da un corpo estraneo e si alterava, iniziava ad agitarsi e tornava a farneticare finché due o
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tre infermieri, allertati dai lamenti, entravano nella stanza e gli iniettavano sedativi. Altre volte, invece, dopo avergli parlato a lungo, avvicinavo la mia mano alla sua e parlando, raccontando storie lunghe e complesse, tristi o divertenti, perpetrando lenti movimenti di avvicinamento, riuscivo a raggiungere la sua mano, toccavo con le mie le estremità delle sue dita e, alla fine, le allacciavo e le accarezzavo lentamente. Mi concentravo in quel movimento, aguzzavo i sensi. Speravo che, attraverso quello sfioramento quasi impercettibile, egli riuscisse a sentire qualcosa di me. Ma non succedeva nulla. Non succedeva mai nulla. La sua mano non rispondeva alla mia carezza con un’altra carezza. Durante gli ultimi mesi era scomparsa dal corpo di mio padre ogni traccia di sensibilità. Perfino quella comunicazione attraverso il tatto si era rivelata impossibile. Quando il tempo era bello, di nascosto dagli infermieri, aprivo la finestra della stanza, mi appoggiavo sul davanzale e iniziavo a fumare. Osservavo mio padre a distanza come se tra di noi ci fosse una barriera fisica invalicabile: eravamo così vicini ma un abisso, una crepa aperta nella sua coscienza ci aveva separato per sempre. Io avevo rinunciato a cercare un modo per dimostrargli il mio affetto, perché un affetto senza risposta risulta sempre inutile; si auto distrugge. Era la stessa frustrazione che ti invade durante l’adolescenza, quando ami appassionatamente ma lo fai in segreto, da solo, senza un segnale che renda visibile il sentimento. Conservi come un tesoro quell’amore mai rivelato. E poi, con il tempo, il sentimento si dissolve, soffocato dalla mancanza di aria, e la persona amata non saprà mai di quella incredibile marea d’amore che l’aspettava, e nulla resta nel mondo che possa testimoniarlo. La medicina, con una certa superbia, riesce a far perpetuare un organismo umano quando la sua coscienza ha già rinunciato
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a stare con noi. Si tratta di un’operazione stupida e codarda, dinnanzi alla quale i figli non hanno nessun altro rimedio che non quello della pazienza, la rassegnazione, l’accettazione di quella gratuita continuazione di un meccanismo. Gli ospedali, soprattutto quelli geriatrici, sono spesso magazzini di fantasmi che non solo hanno perso tutta la speranza, ma che non sono nemmeno più coscienti di questa perdita. Nell’intimità di quel deprimente sanatorio, c’erano giorni in cui mio padre si immergeva in un sonno pacifico e profondo. Pertanto non poteva aggredirmi con i suoi spasmi collerici, né rivoltarsi contro fantasmi improbabili. Mi consolava pensare che forse stava riposando, che si sentiva in pace. In quelle occasioni prendevo coraggio e appoggiavo la testa sulle sue gambe. Le abbracciavo da sopra le lenzuola e mi mettevo a piangere, in preda a uno sconforto atroce, con la tristezza di un bambino che si trova solo nel bel mezzo della notte. Mi ricordavo di quando io ero molto piccolo, lui mi prendeva in braccio e io pensavo che la vita sarebbe andata sempre in quel modo: tra le braccia di mio padre, con le mie piccole mani ancorate sulla sua fronte. Era in quel momento che, ricordando quell’immagine remota, ricevevo una carezza di mio padre: la sua mano si sollevava lentamente, si posava sulla mia testa e mi consolava. Ma ciò accadeva solo perché io non potevo sopportare tanta indifferenza e muovevo una delle sue mani, fino a posarla sui miei capelli. Immaginavo quindi che, per qualche minuto, l’automa fosse tornato a vivere e si fosse degnato di capirmi. Ma era tutta una bugia.
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Carlos Segura, il mio migliore amico, era uno scrittore domenicale che ciclostilava con cura i suoi racconti e li regalava ai colleghi di lavoro, agli amici e ai parenti. Nella sua prosa grossolana e inesperta non vi era traccia alcuna di letteratura. Diceva di frequentare i classici. Per questo la maggiore ambizione dei suoi scritti risiedeva nelle dediche: “A Miguel de Cervantes”, “A Gustave Flaubert”, “Per Fiodor Dostoevskij”. Forse pensava che tali riconoscimenti, sperduti nel mare della storia, potessero aggiungere qualcosa ai suoi destinatari. Quando consegnava a qualcuno i suoi regali così personali, con estrema naturalezza pronunciava frasi come questa: «Ho dedicato questo piccolo racconto a Don Francisco de Quevedo». Altre volte, durante le conversazioni, Carlos parlava di Shakespeare con familiarità, con sconvolgente confidenza: «Il vecchio Will» sussurrava, dolce, nostalgico, come chi ricorda un intimo amico di infanzia. Per Carlos Segura gli abissi del tempo erano annullati da una mitica fratellanza letteraria, come se una segreta filiazione potesse unire intimamente Omero a Dante o a Tolstoj. Non leggeva libri contemporanei e non aveva alcuna intenzione di frequentare circoli letterari. Forse temeva il confronto con le migliaia di scrittori del suo tempo e la scoperta di condividere con loro la volgarità di una mera occupazione.
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I suoi scritti, di fattura così elementare, così primitiva, dimostravano un’assoluta incomprensione della materia letteraria ma proprio per questo si salvavano da qualunque critica, da qualunque conflitto personale. In realtà, Carlos Segura era un soggetto straordinario per ragioni molto diverse da quelle che immaginava, era uno di quegli individui che la vita colpisce, miracolosamente, in rare occasioni: Carlos Segura era un uomo felice. L’ammirazione che sua moglie gli dimostrava, l’edizione curata e artigianale di quei racconti ciclostilati e il rispetto che ispirava nei vicini o nei parenti sembravano bastargli per colmare una vita piena di giorni sereni e felici, di giorni rigorosamente e noiosamente uguali. Viveva trincerato in un’autosoddisfazione così pura che lo rendeva assolutamente invulnerabile. Per lo meno in questo, io davvero lo invidiavo. Carlos poteva parlare del suo ultimo progetto letterario, il cui protagonista era un cane sentenziando: «Gli animali si comportano a volte meglio delle persone». I suoi racconti finivano sempre con quel tipo di sentenze e grandi insegnamenti, la cui ridondanza veniva perfino rafforzata dalla elaborazione di una morale finale, evidenziata con lettere maiuscole scritte in grassetto e sottolineate. Dedicava i suoi libretti rilegati agli amici e lo faceva con una penna d’oro zecchino, tracciando un’epigrafe fatta di eccellenti incastonature. Si intratteneva in quelle occasioni con una responsabilità storica, come se la sua firma in calce siglasse il trattato che mette fine a una guerra centenaria. Poi contemplava la dedica, la ripeteva per sé, in un sussurro, e alla fine consegnava il manoscritto, sempre con movimenti cadenzati, liturgici, guidati da una qualche sorta di trascendenza. E i destinatari della dedica, sorpresi, pensavano che la storia della letteratura universale avesse prodotto un nuovo miracolo, un miracolo del quale senza dubbio avrebbero dato conto, a tempo
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debito, le tesi dottorali, i manuali scolastici, i saggi redatti nei secoli a venire. Nonostante la sua intimità con i classici, Carlos Segura non praticava nessuna forma di snobismo. Non c’era nulla di difficile o di tormentato nella sua relazione con le parole o con il resto dell’universo. Con la stessa naturalezza con la quale scriveva, giocava con i suoi figli alle altalene del parco. Era comprensivo, leale e sincero, forse aiutato dalle cristalline morali in cui si riassumevano i suoi scritti: «I poveri possono essere più felici dei ricchi», «Ci sono cose nella vita più importanti del denaro», «Ciò che più ammiro non è la bellezza esteriore ma l’altra». Quell’insieme di frasi fatte segnalavano una relazione con il mondo incredibilmente armoniosa e pacifica. La sua anima era un invaso d’acqua quieta, senza mareggiate, senza vortici, senza violente correnti sottomarine. Nella sua famiglia nessuno metteva in dubbio, però, che avesse un autentico talento, e tutti ammiravano il suo modo di dissimularlo, di dedicarsi alle cose semplici della vita: il suo hobby di preparare arrosti e insalate, la sua facilità di stare con i bambini, la sua capacità di trasformare il compleanno di un nonno in una riunione sentimentale, beata, nella quale tutti finivamo per convincerci che era possibile riuscire ad essere migliori aiutando gli altri. Carlos Segura era anche un impenitente organizzatore di riunioni familiari. Grazie a costanti e generosi inviti, noi – due o tre coppie di amici sposati – andavamo regolarmente a casa sua con il nostro rispettivo esercito di bambini. I pranzi erano uno sconcerto di grida e urla, di gente che andava e veniva portando cose, un intenso traffico di piatti con olive, patatine fritte o prosciutto di seconda scelta. Sul tavolo si confondevano le bottiglie delle bibite in formato familiare con le pappine che consumavano i piccoli. In quelle riunioni non c’era nulla che somigliasse al riposo o a qualche remota forma di tranquillità,
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ma Carlos e Rosana, sua moglie, facevano in modo che una tumultuosa e disordinata allegria si sovrapponesse al caos tribale. Dopo la merenda, Carlos si prendeva cura dei bambini e organizzava per loro concorsi e gare. Riusciva a far sì che i piccoli, ipnotizzati, gli obbedissero ciecamente. Era in quel momento che le mogli finalmente si sentivano liberate da tutti gli obblighi che noi uomini imponevamo loro con la nostra particolare inerzia. Formavano un cerchio, aprivano una bottiglia di spumante e fumavano, ridevano, parlavano delle loro cose. Ed era anche in quel momento che noi uomini, lontani dal tumulto dei bambini, facevamo lo stesso e trovavamo qualche argomento che potesse suscitare l’interesse di tutti: il prezzo delle assicurazioni auto, le aspettative lavorative, perché avremmo avuto altri figli o perché, per noi che già li avevamo avuti, ci sembravano una penitenza già sufficiente. Quelle riunioni domenicali, disordinate, rumorose ma al tempo stesso malinconiche (malinconiche come qualunque cosa che si è soliti fare le domeniche pomeriggio) erano possibili grazie ai progressi economici di Carlos e Rosana. I nostri amici stavano tirando su quattro bambini, ma non era questa l’unica virtù che conservavano delle numerose famiglie d’altri tempi. Carlos e Rosana si sottomettevano a costanti restrizioni personali per la loro prole, per la loro futura prosperità. Facevano un’economia propria dei tempi del dopoguerra, si rifiutavano di uscire la sera o di fare qualunque spesa che consideravano superflua. Lo stesso Carlos, nonostante i suoi interessi letterari, aveva pochi libri in casa e si accontentava di andare nelle biblioteche pubbliche per frequentare i suoi amici, i classici. Diceva di non potersi permettere di comprare dei libri perché doveva pensare ai suoi piccoli. In pratica, del vero scrittore non aveva nemmeno quell’egoismo irriducibile di chi potrebbe scrivere un romanzo di mille pagine, assorto, assente, su una tormentata
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scrivania da lavoro, mentre la sua famiglia sopporta privazioni oltre l’uscio della porta. Carlos e Rosana erano due laboriose formiche che andavano arricchendo poco a poco i magazzini sotterranei della colonia familiare. Contabilizzavano con cura le spese della casa, si preoccupavano di conservare i vestiti dei figli maggiori affinché i piccoli li ereditassero. Vivevano in quella visione comunitaria e fraterna dell’economia, profondamente solidale, che sorge, in realtà, solo quando le risorse sono scarse. Solo quando la sopravvivenza lo esige, gli esseri umani accettano di buon grado una qualche sorta di socialismo intuitivo. La famiglia di Carlos e Rosana era una specie di abnegata comune, immersa nei più semplici piaceri della vita e nella modesta previsione di ogni tipo di penuria. Per molti anni noi, amici della coppia, avevamo riso di quell’esistenza così rigorosa, piena di rinunce e di sacrifici; ciò vuol dire che ridevamo delle auto di seconda o terza mano che comprava Carlos o dei vestiti fuori moda di Rosana. Ridevamo del fatto che rinunciassero ad andare fuori durante le vacanze o ad uscire per andare con altre coppie in qualche ristorante. Sopportavano di buon grado perfino le nostre battute, consci del fatto che la loro fosse una missione più alta: portare avanti la loro numerosa famiglia. Ci sono però certi peccati veniali (magari lo fossero stati anche gli altri) che si trasformano in una immediata penitenza, perché sta di fatto che Carlos e Rosana, tempo dopo, ci presero di sorpresa: abbandonarono il loro appartamento in città e comprarono una villetta a schiera in periferia. Ma, nel loro nuovo stato, non ci fu superbia né petulanza, e nessuno di quei sentimenti che senza dubbio abbondava nei loro nuovi vicini, trionfatori di terza classe, beneficiari delle ultime briciole di una prosperità che scendeva a cascata da molto più in alto, dai
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consigli di amministrazione fino alla loro volgare sistemazione di impiegati, ispettori o vice. Carlos e Rosana erano dediti alla virtù eroica e umile del risparmio perseguendo l’obiettivo della loro vita: offrire il meglio ai loro figli e, in questo caso, offrirgli alcuni metri quadri di giardino. Quella generosità che prodigavano fece della villetta dei Segura il quartier generale dei nostri fine settimana: là ci recavamo noi, coppie valorose che avevano iniziato ad avere figli e che sentivano la necessità urgente di offrirgli uno spazio dove correre, giocare e sguazzare, di dargli un posto dove potessero manifestare la loro primaria felicità, convinti del fatto che i bambini vivono un’età nella quale la felicità ancora sembra possibile. Lì, in casa di Carlos e Rosana, si ripetevano le merende affollate, i barbecue, gli arrosti preparati nel bel mezzo del caos prodotto dai bambini che correvano e dalle brutte canzoncine trasmesse da una radio vicina. Loro avevano fatto della loro casa una specie di falansterio accogliente, un’infrastruttura cameratesca nella quale bisognava fare la coda per andare in bagno o ripartire con cura le vivande per impedire che i bambini litigassero tra di loro. Regina ed io, molte volte, parlavamo in privato di Carlos e Rosana. Come tutte le coppie professavamo quella complicità (quella viltà) che permette di vivisezionare impunemente gli altri, analizzarne i difetti, le loro manie o le stravaganze, nella certezza che ciò servisse ad unirci di più e a renderci indifferenti all’idea che, senza dubbio, altre coppie facevano su di noi gli stessi apprezzamenti nelle loro conversazioni intime. Quando nacque León, la villetta dei Segura già si era trasformata per tutti noi in una specie di paradiso in affitto. Lì c’era lo spazio sufficiente perché un bambino piccolo si considerasse
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alla scoperta di tutto un continente. Non appena León si mantenne in piedi sulle sue gambe, lo liberammo in quel palmo di giardino, dove la vita lo ossequiava con sorprese continue. León iniziò a parlare molto presto ma questa precocità non gli servì se non a dimostrare ancora di più il carattere elementare del suo cervello di bambino. «Albero, pietra, acqua», diceva sorpreso, meravigliato, indicando una piccola cosa, quando la sua minima esperienza lo obbligava a fare una specie di grande scoperta su un qualunque oggetto. Mi intenerivano quelle espressioni, quel modo appassionato di alzare il braccio, segnalare, con un indice minuscolo, un uccello o una nuvola e nominarli, nominarli a voce molto alta, come se così si producesse un’operazione magica. Compresi che la mente di un bambino è una specie di mappa inesplorata, un territorio vergine che va riempiendosi poco a poco di accidenti naturali, di frontiere politiche, di porti, cordigliere e trattati. La mente di León era una parete nuda dove la realtà aveva iniziato a dare pennellate, al principio con innocenza, con tratti grossolani e franchi. Solo con il trascorrere degli anni avrebbe completato quel quadro interiore. Sull’uniformità dei primi colori si sarebbero sovrapposti toni più sfumati; alle grossolane linee del disegno si sarebbero aggiunti dettagli del puntinismo, frammenti di violenza, pennellate di paura, di disinganno e di calcolato egoismo. L’opera avrebbe avuto bisogno di molto tempo prima di essere completata, e forse io non avrei mai potuto vederla. Da quei pensieri mi distraeva l’allegria di León, il suo stupore dinnanzi a un fiore selvaggio, davanti al tizzone del carbone del barbecue, la sua sorpresa di fronte alla rapida fuga di una lucertola o davanti a quell’immagine rotonda, perfetta come un pezzo di madreperla, con la quale la luna si mostrava nel cielo limpido di quelle notti d’estate. Il suo modo di dimostrare affetto a volte finiva per commuo-
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vermi. Regina gli aveva insegnato a dire: «Abbraccio forte!» ed era un ordine che scatenava tra di noi un gran numero di abbracci, dolcezze e carezze. A partire da quel momento proferire la parola d’ordine e correre ad abbracciarci si trasformò in una consuetudine. Erano abbracci pieni di franchezza perché erano incondizionati. Ancora non erano viziati dagli affanni ricattatori di un bambino un po’ più cresciuto né dall’indifferenza di un adolescente o da quella specie di calcolata e dolce ironia con la quale i figli maggiori tutelano (ma non comprendono, né pretendono di farlo) i loro genitori anziani. Si trattava di un affetto puro come l’acqua che sorge dalla neve, un’acqua che gli anni avrebbero agitato irrimediabilmente. A volte desideravo che León non crescesse più per fare di lui un gioco straordinario. La sua felicità si affidava a cose così semplici che perfino un padre debole e distratto come me poteva garantirla. A volte, però, mi sorprendeva la sua acquisizione di nuovi elementi che andavano componendo il suo carattere, l’elaborazione di una frase complicata che fino a quel momento non aveva mai pronunciato, la capacità di frapporre con una certa determinazione un rifiuto ai miei ordini, la prima malizia di un sorriso disposto alla corruzione o alla seduzione. E gli dicevo, senza parole, dal profondo della mia coscienza: No, non crescere, León. Non sai quello che stai facendo. Si tratta di un errore, un grave errore, forse l’unico di tutta la nostra vita. Ogni nuova scoperta che fai ti inorgoglisce ma ti allontana da quella felicità della quale ancora puoi godere. La tua intelligenza prenderà gradualmente forma ma vedrai che ciò non garantirà nulla di buono. Verificherai come tutto si farà più complicato. La vita finirà di essere un giardino e assumerà la forma di una scacchiera dove eserciti invisibili e linee di difesa e tattiche di attacco eseguiranno la loro danza sinistra. I tuoi genitori, sempre
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più vecchi, rimarranno relegati nell’agenda dei tuoi interessi e arriverà un momento, prima di quanto tu o io possiamo immaginare, nel quale non potremo più aiutarti, perché dovrai iniziare le tue avventure da solo. Perfino il tuo affetto verso di noi andrà trasformandosi poco a poco. Riconoscerai i difetti dei tuoi genitori, le loro manie, individuerai le loro debolezze. Non ti sarà difficile, con il tempo, fare una diagnosi precisa dei loro enormi fallimenti. Imparerai ad accettare che ti abbiamo deluso. Scoprire che non siamo forti, che non siamo così forti come credevi dal principio, sarà il modo con cui ti accorgerai della tua debolezza. Continuerai a volerci bene ma lo farai in una forma diversa, influenzata, allo stesso modo, dai tuoi interessi e dalle convenzioni sociali, e l’amore verso i tuoi genitori si trasformerà in una specie di irrimediabile e pesante accettazione, in un grave imperativo morale. Sì, continuerai a volerci bene ma tutto cambierà. Inventerai dolci o crudeli ironie su di noi. Saprai che il nostro amore è così incondizionato che potrai permetterti certi eccessi nella certezza che ti perdoneremo sempre. Tratterai con una straordinaria attenzione la tua prima fidanzata della scuola, quando nel passaggio monotono e formale per i corridoi di casa darai invece le spalle a tua madre. Quando realizzerai che io sono un uomo debole rinnegherai il mio nome e lo sostituirai con quelli di nuovi eroi che avrai incontrato lungo il tuo cammino, nuovi eroi che anche cadranno, l’uno dopo l’altro, fino a lasciarti solo, con il tuo scetticismo, con il tuo disinganno, con la tua grande e incomunicabile solitudine. No, non crescere, León, continua ad indicare le nuvole, continua a nominarle come se facendolo avessi scoperto la prima nuvola dell’universo. Il giorno in cui non alzerai la testa per vederle perché non costituiranno più una sorpresa, il giorno in cui ti sarai stancato di nominarle, sarà già, addirittura così repentino, per te, l’inizio della fine.
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Proprio mentre pensavo quelle cose, però, arrivava uno di quegli abbracci (abbraccio forte!) che riusciva a farmi dimenticare tutto, ad immergermi nel suo entusiasmo travolgente, a farmi simulare sorpresa per ognuna delle cose che lo sorprendevano. E quindi gli volevo ancora più bene, sempre se ciò era possibile. Gli volevo bene con la stessa intensità con la quale lui contemplava le nuvole o nominava le stelle. E quell’amore era come una spiaggia nascosta nel profondo dell’anima, che si andava allargando in forma vertiginosa, verso qualche luogo nascosto, senza fine.
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Quel pomeriggio di luglio, Carlos e Rosana avevano organizzato una delle loro abituali riunioni ma la convocazione fu così numerosa che la villetta a schiera, simbolo di tutta una vita di pertinace risparmio, era infestata di gente, rivelando quanto vano e quasi assurdo fosse lo sforzo di raggiungere il benessere ricorrendo a una lunga lista di invitati. Oggigiorno ci siamo trasformati tutti in persone eccessivamente attive: man mano che si avvicinava il mese di agosto, dunque, noi coppie con figli venivamo assalite dall’ansia. Era necessario pianificare il tempo libero, progettare svaghi e divertimenti, fare preparativi per le successive settimane. I più modesti si sarebbero rassegnati alla città, ai parchi pubblici circostanti. Altri avevano la partenza assicurata per i paesi dai quali provenivano, dove forse conservavano ancora una casa familiare, accudita durante il resto dell’anno da una nonna o una zia zitella. I più ricchi affittavano un appartamento in qualcuna di quelle insopportabili torri che fanno delle spiagge del sud una cortina di cemento. Regina ed io decidemmo di passare un paio di settimane in montagna, in un agriturismo dove León poteva giocare a contatto con la natura e noi sperimentare quella piacevole noia che provano i genitori quando verificano che, almeno, il loro figlio non si annoia. Quel rovente giorno di luglio, le vacanze erano sentite così vicine che
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tutti, eccitati, volevamo in qualche modo sperimentarle. Il bel tempo si era trasformato in un pretesa morale. Era socialmente inaccettabile rimanere reclusi in città, nelle abitazioni di sempre, mentre un sole degno di questo nome squagliava l’asfalto e infuocava le case. Diventava obbligatorio uscire, caricare l’auto di oggetti variegati e mettersi in marcia verso qualche posto (non importava dove), cercando disperatamente un qualche diversivo (non importava quale). Fu per la generosità di Carlos e Rosana, quindi, che cinque coppie di amici, con la rumorosa aggiunta di otto o nove bambini oltre ai figli degli anfitrioni, si ritrovavano ad affollare il minuscolo giardino della villetta, in attesa di una frugale merenda. Quel giorno il caos, l’eccitazione collettiva, l’anarchia infantile, furono più grandi del solito. Due o tre bambini piccoli, forse bisognosi di riposo, piangevano in continuazione, lanciavano cose e ossessionavano i loro genitori. L’imprevisto di una riunione così numerosa fece sì che Rosana, aiutata da altre donne, moltiplicasse in cucina le pentole della pasta e l’apertura di nuove scatole di pomodori, in risposta alla richiesta di tante bocche affamate. I problemi di organizzazione erano evidenti ovunque: qualche padre lottava contro inespugnabili vasetti sottovuoto o prodotti in scatola chiusi ermeticamente, qualche madre correva verso due bambini coinvolti in un inatteso litigio per cercare di rappacificarli. Le dimensioni del giardino della villetta si dimostravano ridicole dinnanzi alla presenza di tante persone riunite sotto la goffa prospettiva di trascorrere un giorno in campagna. Se ci fossimo ostinati nel progetto, se avessimo continuato ad intasare per qualche altra ora quel piccolo recinto, la situazione si sarebbe fatta insostenibile: ormai non c’erano solo urla di bambini, litigi, ma anche coppie che si insultavano a voce alta, uomini che ricordavano recenti o antiche offese, donne puntigliose che
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pronunciavano frasi velenose. Si avvicinava una catastrofe ed era necessario rinunciare alla convinzione che quella domenica pomeriggio, in quelle condizioni, sarebbe stata meravigliosa. In certe situazioni, l’intelligenza femminile reagisce con maggiore rapidità rispetto a quella degli uomini e pone un rimedio per evitare il naufragio. Rosana portò dalla cucina enormi dosi di pasta e recipienti pieni di salsa di pomodoro. Il pasto si convertì in un’esplosione di un rosso espressionista distribuito sulle tovaglie, sulle camicie e sui volti dei bambini. Regina ed io incrociammo lo sguardo varie volte per chiederci, attraverso quella comunicazione di coppia che non ha mai bisogno di parole, in che momento avremmo desistito da tutto ciò e saremmo fuggiti con León, verso casa, in cerca di qualche ora di pace. Fu allora che Rosana pronunciò la formula che avrebbe potuto assolverci dall’incipiente inferno. «Che ve ne pare se andiamo al fiume? Potremmo pescare i granchi!» Più in là, oltre l’affollata urbanizzazione di villette a schiera, si estendevano campi di cereali (forse, però, i contadini o un sindaco imprenditore già premeditavano di coprire di cemento e mattoni quella malinconica pianura) e un poco più in là correva un ruscello, protetto dal calore da una sottile linea di pioppi. La proposta ebbe un successo inatteso. In maniera disordinata, come un esercito di sanguisughe in ritirata, la gente abbandonò i piatti tinti di pomodoro e le masse di spaghetti che coprivano le tovaglie. Carlos corse dentro casa, in cerca dei suoi utensili da pesca (forse il desiderio di appropriarsene sarebbe stato un nuovo motivo di conflitto per quella caterva di bambini) e tutti pensammo per un momento che la realtà potesse ricomporsi, che correre al fiume e pescare – o far finta di pescare – e bagnarci i piedi e riposare sull’erba sotto un’ombra fresca, sarebbe stato un
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modo efficace con cui la tribù potesse eludere la sua imminente distruzione. Rapidamente si fecero i preparativi. I padri corsero alle macchine in cerca di qualche canna (perfino la finzione di poter pescare granchi con le canne sembrava quindi possibile, pur di calmare l’eccitazione di tanti bambini), di tricicli, sandali e costumi da bagno. Un sollievo attraversò gli eserciti alleati. I piccoli finalmente avevano un obiettivo, nitido e concreto, per dissolvere la loro crescente esasperazione. Regina ed io commentavamo spesso che i bambini somigliano ad una diga che sopporta la pressione di milioni di litri cubi d’acqua e che la loro vitalità ha bisogno di sfoghi come le chiuse. Senza di questi i bambini potrebbero esplodere. Carlos Segura organizzò dunque l’improvvisata escursione fino al fiume. Concentrò nelle sue mani gli scarsi e diversi utensili da pesca. Ottenne perfino che la folla di mocciosi lo accettasse come capitano di una nave immaginaria e che, tutti presi dalla finzione, obbedissero, a partire da quel momento, senza replicare. Quando i bambini concepiscono l’obbedienza come un gioco, è possibile ottenere da loro una disciplina castrense, qualcosa verso cui hanno forti resistenze nella vita reale. Benedetti dalla sorte, o forse solo confortati dall’aver trovato una via d’uscita, andammo in drappello verso il fiume vicino. I canti registrati, la scoperta di pozzi da pesca, il congetturare in che angoli reconditi si nascondevano i granchi, catturarono l’infanzia e la allontanarono dall’anarchia. Immediatamente si produsse una riorganizzazione di tutte le strutture. Le donne tornarono a riunirsi all’ombra e bagnavano i piedi scalzi nelle pozze vicino alla riva. Concordata la tregua con le generazioni future, noi uomini trovammo il tempo per fumare, stappare delle birre e parlare di nuovo delle assicurazioni auto, della situazione politica, del campionato di calcio, di tutti quei temi che gli uomini affrontano per riconoscersi ancora
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come esseri sessuati, autentici maschi, come se, una volta passati gli anni e compiuta la funzione di mettere al mondo figli, avessero paura che la loro mascolinità andasse dissolvendosi nell’amministrazione del focolare domestico. Io guardavo Carlos Segura con tenerezza. Gestiva quella squadra di mozzi con atteggiamenti militareschi, alimentava l’eccitazione collettiva con fittizi avvistamenti di granchi lì nel fondo dei pozzi, dove si precipitavano i bambini con reti, canne impossibili e, i più piccoli, con inutili pale di plastica. Carlos li convinse a comportarsi come i grandi e, quindi, a contare quanti eravamo e a giurare che avrebbero pescato granchi finché fossero stati capaci di riunirne un numero sufficiente per celebrare una splendida merenda. Le donne, da lontano, incoraggiavano l’operazione incitando i loro piccoli. I bambini sembravano posseduti da una tremenda responsabilità, di cui si facevano carico con fermezza. Era passata più di un’ora da quando Rosana aveva avuto la felice idea di partire alla volta del fiume. Tutto procedeva con sorprendente armonia, favoriti persino da quella ospitalità che la natura a volte offre, quando combina lo splendore del sole con una brezza fresca. Io fissai Regina, integrata nel cerchio delle donne. Stava fumando. Regina fumava in rarissime occasioni. Erano così tanti i suoi impegni, diceva, che poteva accendersi una sigaretta soltanto quando era libera. Tra le donne si sentivano risate frequenti, e noi, gli uomini, da lontano, con le birre in mano, ci sentivamo a disagio. Agli uomini (forse solo ai mariti) non piacciono le risate delle donne quando non vi partecipano: hanno il presentimento che in quei momenti vengano criticati, ridicolizzati, che tra loro si raccontino i difetti dei loro mariti, le loro goffaggini sessuali, l’intensità del loro russare o i loro capricci infantili. Erano delle risa laceranti, e qualcuno degli uomini, con l’innocenza di un bambino risentito, le rimproverò da lontano. Mi dava fastidio
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assumere quel ruolo di marito geloso e sospettoso, un marito convinto, nel profondo di se stesso, di superare le donne solo in forza fisica, perché riconosce a loro più saggezza e più astuzia e ne teme perfino la malvagità, una malvagità che loro scelgono di non esercitare mai del tutto, solo per pietà, per una specie di atavica misericordia verso quei dolci bruti con i quali condividono la vita. Gli uomini erano sospettosi, ma io pensavo che non ce ne fosse motivo. Sospettavano delle risate e dell’intelligenza delle donne, ma probabilmente erano infastiditi solo dal fatto che si divertissero. Abituati a vederle farsi carico di tutte le responsabilità domestiche, diventava per loro una forma di disordine, saperle libere da tutto quel lavoro. Carlos Segura si era incaricato di prendersi cura dei piccoli, e le donne, dunque, si occupavano di se stesse. Quella era una situazione strana per tanti mariti abituati alla sottile tirannia domestica, all’ipotesi mai comprovata di essere meritori di una doppia dose di riposo, una volta arrivati a casa. Io ero soddisfatto mentre guardavo Regina: per qualche minuto viveva per se stessa, esentata dal costante peso di prendersi cura di León e di investire tutte le sue forze nella gestione del nostro focolare. Era piacevole vederla distesa a chiacchierare con le amiche. Era rassicurante osservare Carlos mentre dirigeva quel tumulto di bambini. Voltai quindi la testa per vederli di nuovo. Formavano un cerchio intorno al capitano che aveva lanciato gli arnesi da pesca in un pozzo per cercare i granchi. Istintivamente iniziai a contare i bambini e provai a individuare León tra il lontano agglomerato di teste. Ebbi un presentimento. Corsi verso di loro e cercai León in mezzo alla tumultuosa battuta di pesca. Fu come se l’universo intero avesse concentrato tutto il suo peso su qualche punto sensibile del mio corpo e all’improvviso iniziasse a fare pressione. León, mio figlio, ventidue mesi e mezzo, era scomparso.
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Corsi verso il gruppo di donne, mi addentrai a spintoni e afferrai Regina per il braccio. «E León? Non lo vedo giocare con gli altri. Dov’è León?» Lei mi rivolse uno sguardo sorpreso, in cui non c’era alcuna risposta. Sembrava che la mia domanda fosse eccessivamente strana, stravagante, inconcepibile. Quindi le gridai contro, urlai con quella veemenza di chi cerca disperatamente un colpevole perché ha paura di riconoscerlo in se stesso. Gli altri ci guardarono con disagio ma in quel momento non mi importava di dover sostenere in pubblico l’armonia di coppia, quella convenzione sociale che a volte è troppo pesante. Precipitosamente, senza dire nulla a nessuno, Regina ed io iniziammo a ripercorrere la riva del fiume, tra i pioppi e gli ontani. Dopo qualche momento di sconcerto, tutti compresero quello che stava succedendo. Gli uomini e le donne si misero a nostra disposizione, seri, preparati, all’improvviso, a quella circostanza; al principio, però, mentre noi urlavamo chiedendoci spiegazioni, la prima cosa che fecero fu guardare verso i loro figli, localizzarli, verificare la loro posizione esatta, come se per un momento avessero temuto anche la loro scomparsa, e solo dopo, intimamente sollevati, sicuri che a loro fosse risparmiata la catastrofe, furono in grado di offrirci gesti di solidarietà, di essere propositivi e di agire razionalmente.
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Era come se la distanza con la quale contemplavano la nostra tragedia li rendesse più efficienti a scongiurarla. Regina ed io iniziammo a percorrere il fiume disperatamente, chiamando León a voce alta. Era una sensazione strana, quasi paralizzante, come se tutto l’amore verso nostro figlio acquisisse all’improvviso un peso fisico che ci assaliva impedendoci di fare qualcosa di veramente utile. Io lo cercavo tra gli arbusti e intorno agli alberi mentre si accavallavano, nella mia memoria, tutti i ricordi accumulati negli ultimi due anni: il suo curioso interesse per le gru e gli escavatori, la sua ostinazione nell’esaminarsi le dita dei piedi con un indice goffo e impacciato, la sua curiosità per il profumo dei fiori, una passione che nessuno gli aveva insegnato che però ci commuoveva. Pensai che non mi sarei mai perdonato se quel progetto di vita si fosse interrotto tanto precocemente, che sarebbe stato insopportabile conservare nella memoria il passato di León senza la certezza del suo presente, che di fronte alla sua assenza la mia vita si sarebbe trasformata in un tormento, un enorme accumulo di sabbia in cui nulla avrebbe avuto più valore. Regina urlava il nome di León e lo faceva in modo stridulo, con un tono sempre più graffiante, più disumano. Di tanto in tanto mi guardava valutando i risultati della mia ricerca o forse chiedendo spiegazioni, esigendo una giustificazione: “non ero forse io l’uomo di casa?” sembrava dirmi con gli occhi. Per l’ennesima volta furono Carlos e Rosana a prendere una decisione sensata. «Per Dio, non perdiamo le staffe» disse Carlos, prendendoci per il braccio. «Tornate a casa nostra, noi continueremo a cercare qui. Non è possibile che sia scomparso, deve stare in casa, deve pur stare da qualche parte.» «No, non è scomparso. È impossibile» ripeté Regina, come
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se avesse trovato nelle parole di Carlos una logica rassicurante e ripeterla le servisse per allontanare la minaccia. I suoi occhi erano arrossati e, sebbene si sforzasse di non piangere, il tono della sua voce si abbassava poco a poco e presagiva un forte crollo interiore. «Torniamo a casa» mormorai. Ci lasciammo dietro di noi un concerto di sguardi compassionevoli, di mani che stringevano con forza le spalle dei loro figli. Molto presto Carlos sarebbe tornato ad organizzare la ricerca di León lungo la sponda del fiume ma per un momento tutti sentirono il terrore di aver perso un figlio e il sollievo di ricordare che, alla fine, la tragedia riguardava solo noi. Regina ed io abbandonammo il fiume. Corremmo verso casa, all’inizio separatamente, percorrendo sentieri differenti di un pioppeto i cui alberi allineati suddividevano il terreno come una scacchiera. Più tardi, nei campi di grano, alla luce del sole, ci fermammo a volte, inutilmente, tracciando cerchi disperati, catturando con lo sguardo quella pianura che adesso si presentava così ostile, così crudele, solo perché non ci disegnava l’immagine piccola, curva, priva di paglia, di un bambino di due anni. All’improvviso la natura si era trasformata in uno spazio inospitale in cui non c’era León e nulla sembrava commuoversi. Nulla lamentava la sua assenza, né le nuvole che nominava, né i fiori che indicava con il dito, né il vento che arruffava senza sforzo i suoi fragili capelli biondi. Regina piangeva. A metà tragitto, finalmente, decisi di fermarmi e di assumere il ruolo che lei si aspettava da me: comportarmi come un uomo. Mi avvicinai a lei e la trattenni. L’abbracciai. Sussurrai parole rasserenanti, parole nelle quali io stesso non credevo. Non era successo nulla di grave. León si era solo disorientato. Quella era una zona isolata dove a malapena c’era
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traffico. León si trovava in casa di Carlos e di Rosana, forse terrorizzato dal vedersi per la prima volta totalmente solo. Ma c’era di sicuro. Stava di sicuro in casa. Doveva stare in casa. Altrimenti la polizia lo avrebbe trovato in poco tempo. «La polizia?» ripeté Regina. Menzionare la polizia non fu una buona idea: nominarla era la certificazione di una disgrazia, l’accettazione che León non era alla portata della nostra mano. «Rimangono ancora un paio d’ore di luce» sussurrai. Guardai verso la casa, dalla quale ci separavano solo un centinaio di metri. In quel momento vedemmo per la prima volta una colonna di fumo che usciva dai tetti. Fino a quel momento avevamo attraversato il campo di grano di fretta ma in modo disordinato, posseduti da un’agitazione che impediva che l’avanzamento fosse veramente rapido. In quel momento, quando verificammo che il fumo veniva dalla casa di Carlos, quando, in qualche modo tragico e oscuro, comprendemmo che León era lì, mi dimenticai di Regina, della sua disperazione e del suo pianto. Iniziai a correre in un’altra maniera, con sistematica premeditazione, in cerca di un’intuitiva linea retta che mi permettesse di arrivare quanto prima a casa. Era proprio la villetta di Carlos e Rosana quella che bruciava. Si era concentrata gente nei dintorni. Nelle villette confinanti, le persone erano occupate a prendere le loro cose entrando e uscendo dalle loro proprietà. Chiedemmo di un bambino piccolo ma nemmeno ci risposero, non avevano tempo per questo: il loro problema era minore ma, semplicemente, era il loro. Un fumo nero, lugubre, usciva dalle finestre superiori della casa e ascendeva macchiando di fuliggine le pareti. Regina arrivò un po’ più tardi e non smetteva di gridare, di ripetere disperatamente il nome di León. Notai che mi stringeva il braccio con una
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forza inconcepibile ma non lo faceva per cercare in me conforto: si trattava di un’esigenza, un ordine. Immediatamente compresi che non solo la mia felicità futura ma anche il mio matrimonio dipendeva dal fatto che León uscisse sano e salvo da qualche parte. Compresi che l’amore tra noi, tra Regina e me, si era trasformato in un filo fragile, trasparente, che brancolava nel buio. All’improvviso compresi, atterrito, che se qualcosa rimaneva tra noi questa erano i nostri doveri verso nostro figlio. In quel momento non c’era tempo per soffermarsi su quel presentimento. La mano imperativa di Regina, che stringeva il mio braccio, esigeva una qualche forma di eroismo. Ingoiai saliva. «Entrerò» mormorai. Il pianto di Regina si fermò immediatamente. Il suo silenzio era una crudele asserzione a quella possibilità. Mi indirizzò uno sguardo privo di misericordia. Io non avevo diritto alla paura, sembrava dirmi con gli occhi. Si ripropose tra noi quella implacabile differenziazione sessuale che impone all’uomo doveri speciali come esporsi all’estremo sacrificio per la propria prole; mentre la donna, obbligata ad altri sacrifici più prolungati però meno eroici, sa che ciò che spetta al marito non rientra nei propri doveri. Regina aveva accettato senza conflittualità di farsi carico, nella nostra casa, di più lavori di me, ma la contropartita era che, in momenti come quello, io dovevo comportarmi come un uomo forte e potente, un essere capace di confrontarsi, fosse solo per una volta, con l’ira della natura. Rivisse tra noi una richiesta genetica, atroce, irresistibile, una richiesta trasmessa all’essere umano dalla notte dei tempi, che mi obbligava a dare maggiore importanza alla vita dei miei figli che non alla mia. Ebbi la certezza che la donna, una donna atavica e terribile, credeva ciecamente in ciò. Non fui in grado di sostenere lo sguardo di
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Regina per altro tempo. Diressi lo sguardo verso la casa. Sentii che le mie gambe erano deboli e che lottavano per non tremare. Mi feci forza, raddrizzai la schiena e iniziai a camminare verso la porta. E sentii che quel giorno, qualunque fosse stato il suo finale, sarebbe stato senza dubbio il pi첫 importante della mia vita.
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Dalle fessure della porta si intravedevano minuscole, sottili colonne di fumo nero, ma quello non fu un indizio sufficiente per prevedere ciò che sarebbe accaduto dopo: il pomo della porta era rovente. Percepii che dall’altro lato di quella precaria frontiera si apriva l’inferno. Carlos mi aveva dato la chiave della sua casa. Il metallo blindato ancora compiva la sua logica meccanica e, quando girai la chiave, un ingranaggio in movimento emise un certo rumore di fondo. Aprii la porta, ma fui in grado di vedere solo le fiamme e dopo dovetti retrocedere con violenza: una vampata di calore mi obbligò a chiudere gli occhi e a proteggermi il volto con le braccia. Dal suolo, a pochi metri dalla porta, contemplai quella caverna nera, nel cui fondo, opacizzate dal fumo, s’individuavano pallide, remote lingue di fuoco. Iniziai a chiamare León gridando, o forse credendo di farlo: forse pronunciavo solo il suo nome a bassa voce, senza alcuna speranza, avvolto da un destino irrevocabile. Dietro di me Regina giaceva sul sentiero. Era svenuta e varie donne accorrevano ad aiutarla. Fu allora che un’ombra anonima, una specie di fugace profilo in movimento, attraversò la soglia della porta fino a perdersi oltre la coltre di fumo. Tardai un po’ prima di capire ciò che stava succedendo: qualcuno era entrato lì dentro. Mi alzai. All’inizio
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mi sentii offeso. Qualcuno aveva avuto il coraggio: uno stupido pudore maschile si rivoltò dentro di me. Mi avvicinai fino alla porta di casa, proteggendomi il volto con le mani incrociate che lottavano per mantenere le dita socchiuse e offrire qualcosa da vedere agli occhi. Da quell’oceano terribile emergeva un’insopportabile ondata di calore. Quindi compresi che mai avrei avuto il coraggio sufficiente per varcare quella porta, quella frontiera che separava il mondo dei vivi da un inferno in combustione, di implacabile sterminio chimico. Ma tutto ciò in quel momento non importava: qualcuno era entrato in casa. Mi rimisi a gridare il nome di León, da fuori, chiedendo che uscisse o che qualcuno lo portasse fuori, forse incitando quell’ombra vertiginosa che si era persa oltre la soglia. Alle mie spalle, Regina aveva riaperto gli occhi. Era circondata da persone compassionevoli ma era evidente che si sentiva profondamente abbandonata, che nessuno poteva offrirle alcun conforto. Finalmente, qualcuno di quei vicini che poco prima metteva in salvo i propri mobili, aveva manifestato uno slancio di pietà e si preoccupava di noi. Regina spiegava, tra i gemiti, che suo figlio si trovava all’interno della casa. Qualche uomo, quindi, si avvicinò alla porta ma si ritrasse spaventato. In generale, gli uomini stavano più vicini al fuoco ma lo contemplavano da una distanza di rispetto. Fu un momento di distrazione, una frazione di secondo nella quale smisi di guardare verso la porta. Non seppi nemmeno stare sufficientemente attento durante quel fugace istante in cui qualcuno risorse dalla casa in fiamme. Aveva tra le sue braccia una piccola figura, inerte, sottomessa in una specie di pacifico letargo. Quella silhouette nera aveva fatto un paio di passi, ed ora, esausta, si lasciava cadere al suolo. Le sue braccia liberarono il prezioso carico che portavano. León era lì, miracolosamente intatto, pallido come era sempre stato, biondo,
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tranquillo, posseduto da un sonno incomprensibile. A quel punto Regina ed io recuperammo tutte le forze che avevamo perso e gli corremmo accanto. Lo alzammo dal suolo e lo ricoprimmo di abbracci disperati. Lo abbracciammo con tutte le nostre forze. Lo abbracciammo con ansia, con avidità e con un orribile senso di colpa. Lo abbracciammo fino all’estenuazione. Lo facevamo, compresi molto più tardi, non perché eravamo stati sul punto di perderlo, ma perché sentivamo che, in qualche strano modo, già lo avevamo perso, e che solo se lo abbracciavamo, ora, con tutta la forza necessaria, avremmo potuto riportarlo, un’altra volta, verso di noi.
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“Una delle voci più originali e coraggiose degli ultimi anni.” E. Turpin - Il Giornale di Catalunya
“Un romanzo eccezionale con una combinazione sorprendente di intrigo e riflessione sulle relazioni familiari.” Gonzalo di Pedro - AR
F. J. Palma - Diario di Siviglia
“Un caso possibile, forse reale, e le sue conseguenze. Una costruzione ben concepita che fa della suspense il suo elemento essenziale e che cattura l’attenzione del lettore fino alla conclusione.” Sacro Sanz Villanueva - Il Culturale, Il Mondo Foto © Terry Vine/Stone/Getty Images Grafica: Costantino Margiotta/zero91 s.r.l.
ISBN 978-889538113-8
UN PADRE
Pedro Ugarte si conferma, con la sua scrittura elaborata ed incisiva, come uno di quei rari scrittori che riescono a raccontare la realtà.”
Pedro Ugarte
Pedro Ugarte (Bilbao, 1963), é una tra le firme più importanti della letteratura basca contemporanea. In Spagna ha pubblicato diverse raccolte di poesie e di racconti e tre romanzi: Los Cuerpos de las nadadoras, Una ciudad del norte e Pactos secretos. Già vincitore dei premi Nervion, Euskadi de Literatura e NH de Libros de Relatos, per il suo quarto romanzo, Un Padre (il cui titolo originale è Casi inocentes), gli viene assegnato, nel 2004, il X Premio Lengua de Trapo, da una giuria composta da scrittori del calibro di Almudena Grandes e Rafael Reig.
Pedro Ugar te
UN PADRE romanzo
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“C’è una sola cosa memorabile nella mia vita: avere avuto un figlio”. È la struggente confessione di Alberto Durrio, il protagonista di questo romanzo, che, contemplando la sua “opera d’arte”, dichiara la propria ineluttabile volontà di proteggerla dalle insidie piccole o grandi dell’esistenza, anche a costo della vita. Un giorno, il piccolo Leon resta prigioniero di una casa che brucia e suo padre, fuori, non trova il coraggio di entrare. A salvare il bambino, a sfidare le fiamme, sarà un estraneo, uno straniero. Da quel momento, per il padre, quelle certezze di amore assoluto e incondizionato lasceranno il passo a un senso di colpa che scava e lacera quella iniziale felicità. Il debito nei confronti del “salvatore”, ricade su Alberto Durrio con un conto che mette a saldo la sua stessa esistenza. A partire da questo conflitto morale, Un padre si trasforma in un’abbagliante favola sulla paternità, una riflessione filosofica che Pedro Ugarte consegna al suo protagonista attraverso un controverso status di genitore che, a sua volta – nella propria condizione di figlio – esplora il rapporto che lo lega ad una figura paterna ormai incosciente in un letto d’ospedale. Un Padre deve il suo successo alla storia intensa e attuale e alla profondità psicologica con cui l’Autore indaga le relazioni umane, muovendosi, con una scrittura asciutta ma commovente, sulle venature di un thriller psicologico di forte impatto emotivo.