E mira ed è mirata, e in cor s'allegra Architecture as Social Expression di Cesare Stevan
ino ai giorni nostri ogni gruppo sociale per crescere e consolidarsi ha sentito il bisogno di mostrarsi, rappresentando i propri obiettivi, F i propri riti, le capacità realizzative, i comportamenti ritenuti virtuosi.
Difficile dimostrare l'estraneità dell'architettura a questa rappresentazione, più facile concepirne un certo grado di inconsapevolezza nello svolgimento di un ruolo il più delle volte determinante. Mentre nessun progettista ha mai pensato seriamente di essere in qualche modo responsabile delle conseguenze derivanti dalla sua opera, considerevole è stato invece l'impegno dei progettisti a individuare gli ambiti più ristretti entro i quali l'architettura può assumere e svolgere un ruolo di operatore attivo definendo spazi destinati ad accogliere l'espressione epifenomenica dei legami che strutturano il gruppo e la conseguente predisposizione di eventi in cui gli uni si possano agevolmente vedere rispecchiati negli altri e in cui tutti possano adeguare progressivamente i propri comportamenti a regole comuni. La piazza della cattedrale e la piazza del palazzo comunale sono esempi, fin troppo noti, che testimoniano con le loro architetture l'attenzione progettuale posta nella realizzazione di spazi pubblici rappresentativi dell'egemonia di valori, religiosi, nell'un caso, e civili, nell'altro così come, più vicino a noi, le stazioni ferroviarie, gli aeroporti, i centri direzionali, gli shopping centers, hanno inverato spazi di incontro, di socializzazione e di scambio tipici della società delle macchine, manifestandone i molteplici e contrastanti valori e le meno esplicite, ma più cogenti, gerarchie di potere. Va sottolineato comunque che sempre il progetto architettonico nel rapportarsi al progetto sociale di un determinato momento storico non si è limitato ad interpretarlo, ma ha cercato di andare al di là del già difficile compito di tradurre nelle pietre un comune sentire e di sottolineare gli obiettivi qualificanti della comunità. Questo ruolo dialettico e propositivo del progetto ritengo che oggi si possa realizzare con sempre maggior fatica. Manca infatti un grande progetto sociale adeguato al nostro tempo cui fare, nel bene o nel male, riferimento. Pertanto gli spazi di aggregazione e di incontro che un tempo sembravano nascere quasi spontaneamente oggi, il più delle volte, ove faticosamente realizzati, falliscono il loro obiettivo. Il miracolo dell'aggregazione avviene infatti (come d'altronde è di ogni vero miracolo) proprio laddove non era stato previsto. Analizzando i numerosi e troppo limitati frammenti di progettualità sociale si è portati a interrogarsi su quali possano essere il carattere, la dimensione e le funzioni da attribuire alla architettura in una società globale che si avvia a concepire come normali incontri di centinaia di migliaia di persone. Circa un milione di persone che raggiunge annualmente New York per partecipare alla maratona mostra una nuova e del tutto inusitata dimensione della rappresentazione sociale di una società globale. Tra le risposte più strutturate che sembrano farsi strada troviamo da un lato le ipotesi di sviluppo di uno spazio di incontro virtuale, in cui l'architettura è presente solo come immagine; è una virtualità cui ci siamo allenati grazie alla pseudo partecipazione agli eventi consentita dalla diffusione in tempo reale e via satellite di tutto ciò che accade nel nostro pianeta e oggi ben coltivata da internet e dalle sue potenzialità di sviluppo. Sterilizzata dalle emozioni della materia, dal gioco importante dei cinque sensi, dalla luce e dal vento, da quel rinvio dei suoni che è particolare di ogni ambiente, l'architettura diviene muto simulacro di se stessa. Su un altro versante siamo invitati alla riflessione sulla architettura degli allestimenti provvisori ed effimeri dei grandi raduni mondiali. La città multietnica e multirazziale di cui spesso si parla non potrà certo nutrirsi di sole unità di vicinato, di parchi gioco per i bambini, delle tante piccole cose (alcune di pessimo gusto) "a scala umana" di un'umanità che non c'è più. Nel frattempo strade a più corsie di marcia e autostrade (oggi anche telematiche) organizzano il sistema di comunicazione materiale e immateriale, esse si sono sostituite agli antichi sentieri. Intere città commerciali o per lo svago e la ricreazione, per il tempo libero e l'evasione sono state progettate e sono nate dal nulla proponendo (da Disneyland ai villaggi vacanze) in modo nuovo la visione di grandi spazi per il sociale e per la sua rappresentazione. Molti progetti e realizzazioni, anche tra quelli che assurgono agli onori della cronaca e delle riviste di architettura, sono tuttavia assai lontani dal cogliere le nuove esigenze di mostrarsi di una società mondiale in forte trasformazione e via via più complessa nelle sue componenti. L'architettura in molti casi sembra seguire una sua
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strada in gran parte separata da quelle su cui si muove la società. Si fa spettacolo nello spettacolo, mette in scena se stessa e solo molto indirettamente aiuta a capire e a interpretare i segni del futuro, futuro peraltro fatto più di incertezze che di certezze. Si va così configurando una società che da un lato si appresta a consumare, senza alcuna coerenza, l'architettura del passato, recuperando e "imbellettando" quanto già esiste, dall'altro concepisce il nuovo come "immagini d'architettura" fruibili per i loro valori puramente formali, curandosi solo di ciò che si vede, disinteressandosi dei contenuti etici, prima ancora che estetici, del progetto. Un'architettura che, ove realizzata, punta sostanzialmente ancora al consumo e al posizionamento sul mercato con una griffe adeguata. E' evidente che si debba invertire la rotta e si debba immaginare in anticipo, per evitarlo, ciò che potrebbe riservarci una rappresentazione in cui gli attori/spettatori si muovano tra architetture che perpetuano, in modo quasi caricaturale, messaggi sempre più deboli e distorti di un passato reso irriconoscibile o tra architetture mute o loro incomprensibili, prive come sono di comuni radici storiche e di tensione a un comune divenire. In questo caso l'azione educativa e coesiva, mutuata dall'architettura, della rappresentazione sociale verrebbe progressivamente a mancare e con essa si dissolverebbero del tutto i legami che strutturano la nostra società. Deve quindi essere costante la sperimentazione di una architettura nuova che interpreti e diffonda i caratteri e i valori del nostro tempo e i cui contenuti siano utilizzabili come orientamento all'azione e alla pratica quotidiana di una pluralità di soggetti. Né può spaventare un'iniziale imperfetta collimazione tra progetto sociale e progetto architettonico. Il falansterio di Fourrier e l'Icaria di Cabet, proposte entrambe fortemente innovative a livello sociale, non si allontanarono di molto come riferimento dalla reggia di Versailles e dalla Città del sole di Campanella, ma la loro enunciazione fu feconda per una sperimentazione architettonica che ha impegnato le migliori intelligenze progettuali per più di un secolo, accompagnando e spesso anticipando i cambiamenti nelle diverse fasi della rivoluzione industriale. Oggi moltitudini di uomini, tenderanno sempre più a considerare ogni parte del pianeta come un luogo in cui poter vivere e lavorare da uomini liberi. In un mondo caratterizzato dalla copresenza e coabitazione di etnie, religioni, usi e costumi e culture diverse, in un mondo in cui cambiano di segno molti valori (la tolleranza si tinge dei colori dell'indifferenza, l'integrazione viene vissuta come un tentativo di cancellazione dell'identità, l'autoghettizzazione si qualifica come segno positivo della resistenza all'aggressione dell'omologazione) l'architettura, in parte anche rinunciando alla sua speranza di eternità, deve scoprire nuovi contenuti e nuovi modi di comunicarli e di renderli comprensibili al più gran numero di uomini; deve approfondire le tecniche per poter offrire a tutti gli uomini il beneficio della sua presenza, quelle garanzie di sicurezza e di ben-essere che costituiscono diritti inalienabili per tutta l'umanità. Nella ricerca di un nuovo più rispondente ai nostri bisogni materiali e psichici non può essere trascurata, come si è visto, la riflessione sull'architettura dell'allestimento e dell'effimero. Inutile ricordare che molti allestimenti settecenteschi per le feste e in particolare per le feste urbane, che si concludevano con la riduzione in cenere di quelle architetture di fiori, di carta e di tela, furono il modo in cui una società, a fronte delle radicali trasformazioni che la investivano, reagì operando una grande esercitazione in previsione di quelli che avrebbero potuto essere i suoi più adeguati futuri ambienti di vita; innescando contemporaneamente una esercitazione collettiva di creatività e di progressivo radicamento di nuovi comportamenti e abitudini. Ho espresso con piacere questi pensieri per l'Arca perché ne ho apprezzato l'apertura, senza censure, a tutto ciò che oggi si sta sperimentando nel campo dell'architettura permettendo di cogliere in una visione d'insieme i segni anche minuti del cambiamento. Uno scritto, come si vede, senza citazione di movimenti, di "stili", di architetti, convinto come sono che ciò che oggi interessa definire è il prodotto (l'architettura), la sua qualità e i gradi di libertà che consente agli uomini, e meno i produttori (pochi troppo noti e molti sconosciuti progettisti). Un'immagine poetica, che è anche un augurio, può sintetizzare e concludere queste note. Sono i versi di un grande poeta che amerei dilagassero nel villaggio globale animandone le architetture, le case, le strade, il paesaggio, l'animo e il comportamento degli abitanti. "... tutta vestita a festa/la gioventù del loco/lascia le case e per le vie si spande/e mira ed è mirata, e in cor s'allegra".
ight down to our times, to grow and establish itself every social group has felt the need to show itself, representing its objectives, R rites, constructive skills, and patterns of behaviour considered to be
virtuous. Its hard to show architecture is excluded from these acts of representation, much easier to imagine it might be somewhat unaware of the often crucial role it has to play. While no designer has ever seriously thought of being in any way responsible for the consequences of his or her creative work, designers have put a lot of effort into individuating narrower realms in which architecture can take on and carry out an active role in defining spaces designed to accommodate the epiphenomenal expression of interpersonal bonds and relations structuring the group, and the subsequent arrangement of events in which people are reflected in each other and in which everybody can gradually adjust their behaviour to rules we all follow. The cathedral square and city hall square are all too familiar examples whose architecture bears witness to the stylistic attention taken over constructing public spaces representing the hegemony of either religious or civil values, just as, closer to home, railway stations, airports, business centres, and shopping centres, have constituted places for congregating, socialising, and trading, typical of the machine age, bringing out its numerous, conflicting values and its less explicit but more cogent hierarchies of power. In any case, it ought to be pointed out that the way architectural designs interact with society at a given moment in history has never confined itself to an interpreting role, it has tried to move beyond its already difficult task of translating a sort of shared feeling into stone and of underlining the objectives characterising a given community. This dialectically positive role of design is, in my opinion, a lot harder to achieve nowadays. What is lacking is a social project which, for better or worse, we can all refer to. In the meantime, the congregation and meeting spaces which once seemed to take shape almost spontaneously, now, where they are actually built, usually fail in their intent. The miracle of congregation usually happens (like all miracles of course) where it is least expected. Analysing the numerous, but insufficiently large fragments of social design, we are forced to ask ourselves what nature, scope and functions to assign to architecture in a global society which treats meetings of hundreds of thousands of people as the norm. The fact that about one million people travel to New York each year to take part in the marathon gives a new and completely unexpected dimension to social representation in a global society. The most carefully structured solutions being developed include, on one hand, the idea of creating virtual meeting places, where architecture takes the form of mere image: we are already used to this kind of virtual reality thanks to pseudo-participation in events through real-time broadcasting via satellite of everything happening on our planet (something now well-exploited by the Internet and its potential developments). Sterilised by the emotions of matter, the key interplay of the five senses, light and wind, as well as that reverberating of sounds peculiar to each different place, architecture is turning into a silent simulacrum of itself. On the other hand, we are asked to ponder over the architectural design of temporary, transient installations for the great world get-togethers. Of course the multi-ethic, multi-racial city that is so often talked about cannot possibly be confined to neighbourhoods, children's playgrounds, and lots of small houses (some of awfully bad taste) geared to the "human needs" of people who are no longer there. Meanwhile, multi-lane highways and motorways (including the telematic highways) are the focal points of material and immaterial communication, they have taken the place of old paths. Entire shopping cities or cities serving entertainment, leisure, recreation and free-time purposes have been designed and created from nothing, offering (from Disneyland to holiday villages) a new vision of big facilities for hosting and representing the social sphere. Lots of projects and constructions, including those that hit the headlines or make the pages of architecture magazines, can hardly be described as catering for a rapidly changing and increasingly complicated world society's needs to show itself off. More often than not, architecture seems to be following its own path and moving on a quite different plane from the rest of society. A show within a show, representing itself and only very indirectly bothered about helping us understand and interpret signs of the future, a future which is more uncertain than certain.
This is gradually producing a society that, on one hand, seems ready to incoherently consume the architecture of the past, redeveloping and "embellishing" what already exists, and, on the other, treats the new as "architectural images" to be exploited for its purely formal features, taking an interest only in what can be seen and ignoring not only the aesthetic but, first and foremost, the ethical contents of design. Architecture which, when it is built, still focuses on consumerism and on occupying its own "designer" position on the market. Obviously a different approach needs to be adopted. We need to take action in advance to avoid the consequences of a form of representation whose actors/spectators move among works of architecture which, almost like caricatures, send out weak and distorted messages of a past which is hardly recognisable, or among silent works of architecture that people cannot understand, lacking as they are in common historical roots or projective tension towards a common becoming. In this case, the educational-congregational force, altered by architecture, of social representation would gradually peter out and with it all those bonds structuring our society. There must, therefore, be constant experimentation into a new form of architecture that interprets and spreads the characteristics and values of the age in which we live and whose contents can be used to guide the action and daily practice of a number of different subjects. We must not be put off by the fact that social planning and architectural design initially coincide. Fourrier's phalanstery and Cabet's Icaria, both highly original designs on a social level, are not that different from Versailles Palace and Campanella's Sun City. They were outstanding for their architectural experiment that occupied the leading architectural minds for over a century, moving with or ahead of the various changes taking place during different phases of the industrial revolution. Masses of people from different cultural backgrounds will increasingly tend to treat every part of the planet as somewhere to live and work as free men and women. In a world in which different races, religions, habits, customs and cultures co-exist in the same space, a world of changing values, (tolerance comes to resemble indifference, integration is treated as an attempt to cancel identity, and self-imposed isolation is seen as a positive sign of resistance to the aggressive force of homologation), architecture, as it comes to give up all hope of lasting for ever, must take on new contents and new ways of communicating them and making them comprehensible to a larger number of people; it must elaborate techniques capable of offering people the benefits of its presence as a guarantee of the kind of safety and well-being that are inalienable rights of the whole of mankind. In the quest for new designs that cater for our material and psychic needs, we cannot, as we have seen, ignore the architectural design of installations and temporary constructions, indeed they deserve special attention. There is no point in mentioning that those eighteenth-century installations for festivals and, in particular, for urban festivals, that ended up with works of architecture made of flowers, paper and cloth being burnt to cinders, was society's way of reacting to the radical changes it was undergoing, getting all worked up about what might be its future living environments and, at the same time, triggering off a collective hive of creativity as new behavioural patterns and habits took shape. I was only too pleased to express these thoughts for l'Arca, because I appreciate its openness (rather than narrow-mindedness) to new experimentation into architecture, allowing the signs of change to be gathered in one single vision. As we can see, I have not mentioned movements, "styles" or architects, in the belief that what we need to define nowadays is the product (architecture), its quality and degree of freedom that allows people rather than producers (a few overly famous designers and many others not famous enough). A poetic image, that is also a hope for the future, sums up and brings these notes to a close. They are the verses of a great poet who, I hope, will be there in our global village injecting life into the architecture, houses, roads, landscape, soul, and behaviour of its inhabitants. "....tutta vestita a festa/la gioventù del loco/lascia le case e per le vie si spande/e mira ed è mirata, e in cor s'allegra" (..all dressed up/the young people leave their homes and flood into the streets/and stirring and being stirred at, rejoice in their hearts".
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I limiti dell’interpretazione In Prague espansione di Praga ha coinvolto L’ nomi importanti dell’architettura contemporanea. In particolare, il pro-
getto che merita ora la nostra attenzione è il nuovo centro polifunzionale progettato da Jean Nouvel nel quartiere di Andél, nei pressi di Smìchov, alla periferia di Praga. Praga rimane sempre la città ceca degna della sua tradizione culturale e industriale. La birra, i tessili, la meccanica, ma, soprattutto, gli strumenti di precisione e quelli musicali, sono prodotti tipici del suo artigianato. Per queste attività Praga è diventata il più grande nodo ferroviario della Boemia e il centro più importante della navigazione sulla Moldava. Ma Praga è anche un notevole centro commerciale. Per questi motivi oggi diventa indispensabile il suo sviluppo sul territorio ed ecco che essa cerca una direzione per la sua espansione. Fra le cinque aree disponibili, per questo impulso di crescita abitativa e commerciale, sono state proposte: Smìchov e Dejvice a ovest, e Holesovice, Karlin e Pankràc a est. Andél, in quanto luogo di intersezione ferroviaria e viaria, è stato definito il nodo più adatto ad affrontare il primo sviluppo della città e, soprattutto, il più idoneo da attrezzare con una struttura commerciale. Sono circa 90.000 le persone che ogni giorno transitano ad Andél. Ecco, in sintesi, le ragioni che
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hanno fatto nascere il progetto del centro polifunzionale. Jean Nouvel interpreta, così, il senso dello sviluppo della città, ponendo molta attenzione al modo con cui mettere un segno, al modo come triangolare il territorio e tracciare l’ideale “solco” per fondare l’ulteriore sviluppo urbano. Il progetto, con la sua impostazione formale e distributiva, diventa il coagulo di un ideale supporto capace di contenere, in chiave contemporanea, il racconto della Praga del futuro. Sta proprio in questo la capacità di un abile professionista che, incurante di una visione formale e tradizionale, riesce, proprio attraverso l’architettura, a descrivere la contemporaneità, a identificare in quale modo la tradizione ceca, e quella di Praga in particolare, può fondersi in un luogo nevralgico del territorio per diventare la continuità tra un passato ormai desunto e il nostro operare contemporaneo. Ecco come Nouvel si esprime e forma un vero e proprio racconto, trasformandosi quasi in “autore” di un romanzo che contiene il passato, il presente e, inoltre, descrive un futuro legato alle certezze della tecnica e del costruire tecnologico. Insomma, un salto dalla tradizione artigianale alla concretezza contemporanea, raccontata in modo sapiente e abile. Vi si legge chiaramente il ricordo del suo progetto dell’Istituto del Mondo
Arabo a Parigi, edificio che contiene, in modo analogo a questo di Praga, la somma di tutti quei segnali che la tradizione porta con sé e dai quali non ci si può scostare. Nouvel disegna, così, un’architettura di grande afflato moderno e attuale. La storia recente lo celebra, insieme a Gilbert Lezenes, Pierre Soria e Architecture Studio per essere stato capace di realizzare un’opera a Parigi, talmente degna da farlo diventare uno dei più validi architetti contemporanei. Qui a Praga, lo stesso Nouvel, malgrado non ripeta dei fatti formali già sedimentati nella sua architettura, si pone con un linguaggio nuovo, non consueto, ma, soprattutto, cerca attraverso il colore, un confronto con la spiritualità sommersa della città, imponendosi al paesaggio come se volesse intraprendere nuovi dialoghi. Appare chiaro il suo demistificante viaggio nella critica contemporanea dell’architettura e nelle teorie costruttive contemporanee, dalle quali sembra voglia ripartire. Nouvel vuole insistere sul fatto che qualsiasi oggetto architettonico può essere arte solo se chi lo guarda, e lo vive, può supporre che esistano ragioni valide che hanno spinto l’architetto a esibirlo come opera. Non è questo il caso. Ma è proprio quello che accade ogni giorno, quando la critica, fatta da pochi sedicenti
Progetto: Architectures Jean Nouvel
“colti” dell’architettura, attribuisce una poetica a un architetto. L’architettura deve diventare un’attività quasi senza soggetto, dove l’architetto si disperde. Jean Nouvel, proprio in questo lavoro, sembra abbia trovato il modo di annullarsi, trasferendo nel progetto forti emozioni attraverso piccole frasi di architettura e, soprattutto, attraverso sensibili segni di alta professionalità. In un momento di babele interpretativa dell’architettura vale ciò che ha commentato Umberto Eco, a proposito dei “limiti dell’interpretazione”, cioè che se l’autore di una qualsiasi opera è morto, com’è che continua a vagare ed è sempre più protagonista? E’, fuori da ogni dubbio, colpa del mercato, della critica contemporanea dell’architettura, che non fa che sfruttare, per i propri fini, i tratti tipici dell’architettura romantica. E’ certo che Jean Nouvel ha scritto, ancora una volta, a Praga un brano di architettura nel quale non può che sentirsi pietrificato in un’immagine di autore capace di spostare ogni forma di critica consueta. Possiede una ricchissima varietà di scritture, dalle quali si può intuire il tracciato, per il divenire di una città come Praga, che fa ammettere che il vero architetto lascia nello “spazio” dell’architettura un segno di sé che lo identifica. Mario Antonio Arnaboldi
Nella pagina a fianco, piante del piano terra (spazi commerciali), del quarto livello (uffici) e delle coperture e foto aerea dell’area di Andél nel quartiere di Smìchov a Praga dove sorgerà il nuovo polo commerciale, per uffici e parcheggi. Sotto, modello della facciata ovest.
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rague’s expansion has involved P in some of the more important names in contemporary architec-
ture; one of these is Jean Nouvel w h o s e l a t e s t p r o j ec t d e s e r ve s o u r attention: the new multifunctional center in the Andél quarter, not far from Smìchov, on the Prague perifery. Prague continues to be a city that honors its cultural and industrial traditions. Beer, textiles, mechanics and above all precision and musical instruments remain the traditional creations of its able craftsmen. For these reasons Prague has become not only a noteworthy commercial center but also the most important r a il w a y h u b i n B o h e m i a a n d t h e most important navigational center on the Moldava. Now further expansion is necessary and the city is looking for a direction in which to grow. There is room for this residential and commercial growth among five major districts: Smìchov and D e j v i ce i n t h e we s t , H o l e s ov i ce, K a r li n a n d P a n k r à c i n t h e e a s t . Andél, in its strategic position as a railway and commercial nexus, is considered the perfect place for initial city development and in particular the most suitable spot for the develo p m e n t of a co mm e r c i a l ce n t e r . (Nearly 90,000 people cross Andél in any given day). These, in short, are the reasons which gave birth to the
multifunctional center project. Jean Nouvel has carefully interpreted the latest developments in Prague paying a great deal of attention to how this territory should be interpreted, how the plans should be laid to trace the ideal “tract” for this latest urban development. With its formal and distributive definitions, the project is the coming together of a n i d e a l s t r u c t u r e t o co n t a i n t h e story of Prague’s future in contemporary key. This is exactly the strength of a capable professional - he is able to describe the contemporary through his architecture regardless of a necessary formal and traditional vision. H e i s a b l e t o i d e n ti f y t h e w a y i n w h i c h t h e C zec h t r a d iti o n , a n d Prague tradition in particular, can merge with a nerve-center like Andél in order to become the continuity between a defunct past and contemporary architecture. This is how Nouvel expresses himself to tell a real story, pratically becoming the “author” of a novel which contains the past, the present and outlines a future grounded in the certainty of technological technique and construction. It is essenti a ll a l e a p f r o m t h e c r a f t s m a n ’ s tradition into contemporary concrete expressed in a knowing and able way. You can clearly read reminders
of his project for the Arab World Institute in Paris-a building that mirrors this new building in Prague in that it contains the sum of all those signals which tradition carries with itself and which cannot be denied. This is how Nouvel designs a n a r c h it ec t u r e of g r e a t m o d e r n i n s p i r a ti o n . N o u ve l , a l o n g w it h Gilbert Lezenes, Pierre Soria and Architecture Studio has been able to create an architecture in Paris deserving enough to have him considered one of the most valid contempor a r y a r c h it ec t s . H e r e i n P r a g u e Nouvel is working to forge a new relationship with the city’s buried spirituality through colors. He is using new language and avoiding repetition of ideas already present in his earlier works, casting his shadow on the countryside as if he wanted to intiate a new dialogue. Nothing could be clearer than this demystifying voyage into contemporary architectural criticism and constructive theory from which he seems to want to launch a new beginning. Nouvel wants to insist that any architectural object can be art only if those who look at it and live in it can believe that valid reasons exist for the architect to exhibit his building as a work of art. This is not the case. But it is exactly what happens every day when architectural criticism (composed of the would-be “cul-
Opposite page, plans of the ground floor (retail spaces), fourth level (offices), and roof, and aerial photo of the Andél area in the Smichov neighbourhood of Prague, where the new complex of offices and car parks is to be located. Below, model of the west facade.
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t u r e d ” c r ow d ) a tt r i b u t e p oe t r y t o architecture. This forces architecture to become something almost without subject; a realm in which the architect can easily lose himself. Jean Nouvel seems to have found in this project a way to eliminate himself, to transfer strong emotions through tiny architectural phrases and above all through sensible signs of the highest professional standard. In these times of chaotic architectural interpretation one can see the merit in Umberto Eco’s comments about “the limits of interpretation” when he queried why, if the author of a work is dead, should he continue to circulate and become evermore protagonist? It is, beyond a doubt, the market’s fault. No less guilty is contemporary architectural criticism which does nothing more than take advantage of the typical aspects of romantic architecture for its own purposes. One t h i n g i s ce r t a i n : i n P r a g u e J e a n N o u ve l h a s o n ce a g a i n w r itt e n a chapter in architecture in which he cannot help but feel solidified as an author capable of pushing aside every form of casual criticism. This work possesses a rich variety of writing within which one can trace Prague’s coming of age. Jean Nouvel forces us to admit that a true architect leaves an indelible mark in the architectural “space” which he constructs.
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Vista zenitale dell’area che costituisce uno dei nodi di accesso alla città con le stazioni ferroviaria, degli autobus e metropolitana che accolgono ogni giorno circa 90.000 persone. Sopra, fotomontaggio nella strada principale del quartiere di Andél, attualmente priva di funzionalità e omogeneità
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architettonica. Sotto, prospettiva del modello con in primo piano la facciata nord. Le varie facciate del complesso differiscono l’una dall’altra, ma sono tutte basate su due idee di fondo: l’inserimento di elementi grafici e del colore e la combinazione di porzioni vetrate e opache con frangisole.
Zenith view of the area forming one of the entrance hubs to the city with railway, bus, and underground stations handling about 90,000 people each day. Above, photomontage on the main road through the Andél neighbourhood, currently below standards on both a functional and architectural level.
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Below, perspective view of the model showing the north facade in the foreground. The complex’s various facades are different from each other, but all based on two basic ideas: the incorporating of graphics and colours and a combination of glass/opaque sections fitted with shutters.
Sopra, rendering e, sotto, particolare del modello. Il complesso di sei edifici progettato da Jean Nouvel si sviluppa attorno alla stazione della metropolitana e degli autobus. Una tettoia in vetro copre l’ingresso della stazione e segna l’ingresso dell’edificio a
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due piani destinato agli spazi commerciali. Le coperture degli altri volumi differiscono l’una dall’altra sia per materiali (vetro, acciaio, tubolari) sia per forma, sia per funzione, alcune di esse, infatti, ospitano terrazze pubbliche con bar o ristorante.
Above, rendering and, below, detail of the model. The complex of six buildings designed by Jean Nouvel is constructed around the bus and underground station. A glass roof covers the station entrance and marks the entrance to the two-
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storey building holding retail facilities. The roofs over the other structures differ in terms of materials (glass, steel, piping), design, and function; some of them hold public terraces with a bar or restaurant.
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Credits Project: Architectures Jean Nouvel Associated Architects: Atelier 8000 (Jiri Stritecky, Martin Krupauer) Engineering: Setec, Onex, Metrostav-Statika Project Manager: Frédérique Monjanel Project Manager Assistants: Laurence Daude, Patty Heyda Commercial Consultant: Noël Calzada Facade Consultant: Robert Jan Van Santen
Dall’alto in basso, rendering della fronte nord, cartatterizzata da una facciata vetrata curva a terrazze e da un elemento grafico serigrafato che rappresenta un angelo (Andél); prospetto ovest e sezione AA. A destra, rendering della facciata ovest, su cui sono riportati in serigrafia poemi Cechi dedicati agli angeli.
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Graphics: Eric Anton Cad Design: Michel Calzada Quantity Surveyor: MDA Groupe International (John Collinge) Model: Jean Louis Courtois Computer Renderings: Eric Anton & Dominique Duchemin Client: ING Real Estate (Mr Jaap Joldersma, Mr Everts)
From top down, rendering of the north front featuring a terraced curved glass facade and a serigraphed logo of an angel (Andél); west elevation and AA section. Right, rendering of the west facade with serigraphed Czech poems dedicated to angels.
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i sono voluti quasi dieci anni, ma C la nuova Accademia del Mont Cenis inaugurata nell’agosto scorso a
Herne, nella Ruhur, si è certamente guadagnata l’attesa di questa lunga gestazione segnando una tappa importante nella storia dell’architettura contemporanea. Intervento di concezione assai evoluta e indubbiamente pionieristico nel campo dell’architettura bioclimatica, il complesso firmato dai francesi Jourda et Perraudin, vincitori di un concorso bandito nel 1991 (l’Arca 69), conquista il primato della più importante centrale di energia solare nel mondo con la dotazione di oltre diecimila pannelli a cellule fotovoltaiche che rivestono la copertura di una imponente scatola vetrata di 72 x 168 metri con un’altezza di 15 metri. Nella sua apparente semplicità, il progetto ci dà le coordinate di lettura per comprendere e valutare a tutto tondo il tema oggi tanto dibattuto della sostenibilità, soprattutto per quanto riguarda il contributo che questa ricerca può offrire nella definizione di nuovi linguaggi, di percorsi alternativi a quelli che oggi disegnano il nostro paesaggio costruito condizionando in parte le nostre abitudini sociali, i rapporti di vita comune e di relazione in un contesto urbanizzato. La grande serra di Sodingen, il quartiere sviluppatosi attorno all’antica miniera del Mont Cenis, oggi al centro di un programma di rivitalizzazione e recupero delle aree dismesse, va oltre la rigida applicazione di un insieme di parametri tecnici atti a garantire le condizioni di ecocompatibilità ambientale dell’edificio, per dar vita a una sorta di “paradiso ecologico”. Gli aspetti legati al risparmio energetico, all’uso di materiali completamente riciclabili, allo sfruttamento dell’energia solare come al riciclaggio delle acque piovane confluiscono in un concetto di qualità degli spazi, di atmosfere percepite, di ambienti di vita particolarmente favorevoli al benessere fisico e psichico dei fruitori. Il centro ospita infatti parecchie funzioni che oltre alla cerchia di addetti ai lavori si rivolgono anche al pubblico più vasto ed eterogeneo degli abitanti della città di Herne. Cuore del complesso è il centro di formazione dei funzionari del Ministero degli Interni della regione Nordrheinen-Westfalen che rappresenta il motore dell’intero sviluppo della città e della regione. Complementari a esso sono il potenziamento di una serie di servizi rivolti alla fruizione pubblica, dalla creazione di circa 250 nuovi alloggi alla costruzione di un nuovo centro commerciale, di una sala polivalente e di una biblioteca. Il tutto inserito in un piano riqualificazione paesaggistica e ambientale in sintonia con il contesto d’origine.
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La genialità dell’intervento degli architetti francesi, che hanno da tempo indirizzato la loro ricerca nel campo dell’architettura bioclimatica, è di aver escogitato una sorta di sistema a “scatole cinesi” creando una micro-città protetta dalle aggressioni climatiche esterne e in perfetta osmosi con il paesaggio esterno. Lo spazio della serra scandito dagli ordini giganti dei pilasti in abete e dalle orditure regolari della struttura in legno, acciaio e vetro delle superfici perimetrali ospita i blocchi degli edifici raggruppati in due stecche parallele lungo un percorso centrale. Le condizioni climatiche ricreate in questo ambiente sono simili a quelle temperate delle zone mediterranee. Questo effetto, prima applicazione dei risultati di una ricerca sviluppata nel quadro di un progetto finanziato dall’Unione Europea, è ottenuto facendo confluire diverse componenti come la modulazione della luce filtrata dal sistema dei fotovoltaici a densità variabile in copertura, la possibilità di apertura delle facciate durante l’estate che evita il surriscaldamento interno, la presenza dei bacini d’acqua che ingentiliscono la strada centrale favorendo il raffrescamento della temperatura o l’immissione di aria fresca prelevata dalle zone ombreggiate all’esterno attraverso i tunnel delle uscite di sicurezza. Il microclima interno autorizza una notevole economia di materiali e strutture utilizzati per la costruzione degli edifici interni realizzati in relazione alle particolari esigenze funzionali: piani in cemento con pareti in muratura per gli alloggi, travi e pilastri in cemento armato con trama regolare per il centro formazione, strutture in cemento e legno per la biblioteca, il ristorante e centro commerciale e la sala polivalente. La doppia enfilade di edifici che si coglie dalla strada centrale è vivacizzata dalle diverse scelte tipologiche, dal volume conico della biblioteca percepibile fin dall’esterno alla soluzione a ballatoio di due blocchi di edifici per abitazione fino al sistema di terrazze e percorsi in legno che relaziona i vari edifici con lo spazio della serra. Gli ambienti comuni, come una sorta di vero e proprio giardino d’inverno, si offrono al pubblico in un’accogliente cornice naturale arricchita dalla presenza di percorsi in ghiaia, specchi d’acqua, superfici vegetali e angoli di verde. Finalmente un esempio convincente e completo di un linguaggio coniato secondo criteri di architettura bioclimatica che fino a oggi è stata troppo spesso relegata alle qualità delle soluzioni tecnologiche senza avere la forza di produrre delle reali trasformazioni nel modo di vivere e di strutturare il nostro paesaggio architettonico. Elena Cardani
t has taken almost ten years, but Iwhich the new Academy of Mont Cenis, opened last August in Herne
in Ruhur, was certainly well worth waiting for and marks a key moment in the history of contemporary architecture. An extremely advanced and pioneering design in the field of bioclimatic architecture, the complex bearing the signatures of the French team of Jourda and Perraudin, winners of a competition launched in 1991 (l’Arca 69), can claim to be the world’s most important solar power station equipped with over ten thousand panels fitted with photovoltaic cells covering the roof of a huge glass box measuring 72 x 168 metres and 15 metres high. The project’s apparent simplicity provides us with the means of understanding and assessing the much-debated issue of sustainability, particularly as regards the contribution this research can provide in devising new idioms and alternative ways to design the built landscape, influencing our social habits, ordinary relations, and interaction with the urbanised environment. The huge glass house in Sodingen, a neighbourhood that built up around the old Mont Cenis mine, now at the centre of a plan to redevelop and inject fresh life into abandoned areas, is more than just the rigid application of technical parameters designed to guarantee the building’s eco-compatibility to create a sort of “ecological paradise”. Energy saving, the use of totally recyclable materials, the exploitation of solar energy, and recycling of rain water, combine to create quality spaces, a pleasant atmosphere and ideal living conditions ideal for users’ physical-mental well-being. The centre serves several functions aimed at all the inhabitants in the city of Herne, and not just people closely involved in these issues. The heart of the complex is the training centre for officials working for the Nordrheinen-Westfalen Ministry of Internal Affairs, the real driving force behind the city and entire region’s development. At the same time a number of services serving public purposes have also been reinforced, including the creation of about 250 new houses and the construction of a new shopping mall, a multi-purpose hall, and library. The whole lot incorporated in a landscape-environmental redevelopment scheme in harmony with its surroundings. The clever thing about the project designed by the French architects, who have been experimenting with bioclimatic architecture for
some time now, is the way they have created a sort of “Chinese boxes” system to create a micro-city sheltered from the weather outside (in both summer and winter) and in perfect osmosis with the outside landscape. The arrangement of space inside the glass house - dictated by huge fir-wood columns and the regular pattern created by the wood, steel and glass structure of the perimeter surfaces - holds the blocks of buildings grouped into two parallel rows along a central path. The climatic conditions recreated in this environment are similar the temperate climate of Mediterranean zones. This effect, the first application of the results of research carried out as part of a project financed by the European Union, is the result of a combination of different components, such as the modulating of light filtered through a system of photovoltaic cells of varying density placed on the roof, the possibility of opening up the facades in summer to avoid over-heating inside, the presence of water basins “refreshing” the central path and cooling down the temperature or letting in fresh air from areas shaded by the emergency exit corridors. The micro-climate which is created inside allows plenty of savings on the materials and structures used to construct inside buildings designed to serve special practical purposes: concrete floors with brick walls for the houses, reinforced concrete beams and columns designed in regular patterns for the training centre, and concrete and wood structures for the library, restaurant, shopping mall, and multipurpose room. The double-row of buildings along the central way is livened up by stylistic features, a cone-shaped library that can even be seen from the outside, the gallery design of the two housing blocks, and the system of wooden paths and terraces bringing the different spaces into interaction with the space inside the glass house. Sheltered from the rain and wind, the communal spaces are pleasant places for socialising, which, like a real winter garden, are set in a pleasant natural context embellished with gravel paths, pools of water, landscaped surfaces, and green corners. At last we have a convincing example of an idiom coined to cater for the kind of bioclimatic-climatic architecture too often reduced to mere technology and incapable of producing real changes in how we live in and structure our architectural landscape.
Paul Raftery
Copertura tutta fotovoltaica Academy of Mont Cenis
Progetto: Jourda & Perraudin Architectes
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Nella pagina precedente e, in questa pagina, un particolare e la facciata nord dell'Accademia del Mont-Cenis a Herne, un'ex zona mineraria nella Ruhur. Il centro, realizzato in funzione di principi di architettura bioclimatica rispetta le caratteristche ambientali e paesaggistiche della zona
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ponendosi come motore della rivitalizzazione della città e della regione. Sotto, dal basso in alto, a sinistra, pianta del complesso, schema dei percorsi e sistema delle zone a verde; a destra, sezioni su un edificio all'interno della serra e sul cono della biblioteca.
Previous page and, below, detail and north facade of the Mont-Cenis Academy in Herne, an abandoned mine in Ruhur. The centre, designed along bioclimatic architectural lines, fits in with the area's environmental-landscape features, acting as a driving force behind the
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city and region's development. Below, from bottom up, left, plan of the complex, diagram of paths and landscaping system; right, sections a building inside the glass house and across the library cone.
Viste notturna e diurna della facciata principale della serra. L'essenzialità della struttura vetrata che segue una trama regolare con passo di 1,2m/2,4m/12m/24m di
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massimo rilievo alla trasparenza dell'involucro lasciando chiaramente percepire la distribuzione interna degli edifici allienati su entrambi i lati di una via centrale.
Nighttime and daytime views of the glass house's main facade. The simplicity of the glass structure, following a regular pattern at intervals of
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1.2m/2.4m/12m/24m, emphasises the transparency of the shell and clearly reveals the layout of the building interiors along either side of a central path.
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In queste pagine, particolare dell'ampia pensilina d'ingresso, che si proietta sul parco circostante, e viste dell'ambiente interno ritmato dalla maglia di pilastri in legno di sezione circolare e rettangolare assemblati con giunti in
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acciaio. La serra che si sviluppa su una superficie di 11.700 mq garantisce delle condizioni climatiche simili a quelle temperate delle zone mediterranee con un notevole risparmio di energia. Al suo interno, gli edifici sono strutturalmente semplici,
con strutture in cemento e muratura, o in travi e pilastri, a seconda delle funzioni, e sfruttano la qualità del microclima della serra con ampie aperture e terrazze che favoriscono i rapporti di vita comune.
These pages, detail of the wide entrance canopy projecting onto the surrounding park, and views of the interior environment patterned aorund a web of circularand square-sectioned wooden columns assembled out of steel ■
joints. The glass house, covering a surface area of 11,700 square metres, provides similar climatic conditions to Mediterranean zones, guaranteeing plenty of energy saving. Inside, the buildings are structurally simple, featuring concrete
and brick, or made of beams and columns according to their function. The glass house's micro-climate is exploited through wide oepnings and terraces encouraging socialising.
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Credits Project: Françoise Jourda et Gilles Perraudin Architectes Structural Engineering: Arup, Schlaich Bergemann + Partner, HL Technik AG Photovoltaic Panels: Pilkington Solar International Glass Facades: Gebr. Schneider Wood Structures: VHM, Kaufmann Client: EMC, NRW, Stadt Herne, IBA, Stadtwerke Herne
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Un angelo sopra Berlino The New Reichstag
Progetto: Foster and Partners
■ Schizzo
prliminare della nuova cupola del Reichstag di Berlino ed esploso assonometrico.
■ Preliminary
sketch of the new dome of the Reichstag in Berlin and axonometric blow-up.
un suo saggio, Walter Benjamin Iinnriflette su un quadro di Paul Klee cui un angelo dalla bocca aperta e
a comprometterne l’esistenza, ci si misero anche gli architetti della DDR che con un intervento, ancora di spregio al simbolo che esso rappresentava, non solo demolirono completamente la cupola e la maggior parte delle strutture interne, ma rimaneggiarono tutto quanto l’edificio spogliandolo delle sue decorazioni e occultando quel tanto di presenze storiche che si erano salvate all’interno con pannelli di gesso e amianto. Poi, per anni, ha vissuto silenziosamente, al margine, come una presenza inquietante che portava sul suo corpo le ferite di una città violentemente tagliata in due da un assurdo destino. Dopo la caduta del muro, si decise di riassegnare a Berlino il ruolo di capitale della Germania riunificata e l’antico Parlamento avrebbe dovuto rappresentare il nuovo corso storico. Nel 1992, lo studio Foster and Partners viene invitato, assieme ad altri 14 studi di architettura, a proporre un’ipotesi di riconversione delle antiche rovine in un nuovo par-
lamento. Nel secondo livello di selezione, Foster riesce a convincere la Giuria che la sua proposta è la più adatta a rappresentare il nuovo corso democratico. Nel 1995, tolti i veli con cui Christo e Jean-Claude avevano avvolto il simulacro della storia tedesca, come in un atto catartico, iniziano i lavori per la rinascita della nuova Casa Comune. Ma come rappresentare la democrazia? Come rappresentare un’istituzione che deliberatamente vuole segnare la distanza dalla storia passata, ma non dimenticare e, allo stesso tempo, vuole essere portatrice delle nuove istanze sociali e, soprattutto, vuole essere il simbolo di una delle più solide democrazie del mondo? E’ evidente che non esistono di per sé forme democratiche o forme totalitarie (in tale errore sono incorsi molti storici), ma esiste una struttura profonda costituita da concetti che, in un determinato momento storico, meglio rappresentano la forma di governo di un popolo e i
suoi destini. Foster intuisce le parole-chiave e associa al principio della democrazia il tema della trasparenza e a quello del corso politico il tema dell’ambiente. Egli decide di mantenere quanto esiste del vecchio edificio ottocentesco sino alle più recenti tracce (come i graffiti lasciati sull’intonaco dai soldati sovietici), ma dentro e sopra le antiche memorie sovrappone un segno che incide là dove l’antico simbolo della cupola dominava la costruzione. Foster non ricostruisce la sua forma originaria, ma propone un dispositivo perché il nuovo Parlamento esprima l’idea di un processo democratico fatto di trasparenza e luminosità. Un’imponente cupola di vetro, appoggiata alle antiche strutture, copre la pianta centrale dell’aula parlamentare. Essa è il luogo da cui il pubblico può partecipare, osservando dall’alto, ai lavori assembleari e, allo stesso tempo, tramite un doppio sistema di rampe elicoidali, diviene luogo privilegiato per una
vista a tutto campo della città (sul tetto piano è collocato un caffè e un ristorante aperto anche ai visitatori). Non solo, ma, riaperta l’entrata originale, l’accesso per politici e pubblico è il medesimo ed è disposto sull’asse visivo che conduce alla poltrona del cancelliere. Il piano terra assolve il ruolo di vestibolo di tutto il sistema, la camera del Parlamento si situa al piano nobile, i luoghi di lavoro del presidente e del Consiglio sono collocati al secondo piano mentre al terzo vi sono le sale di riunione dei distinti gruppi e la sala stampa. Ma il valore della cupola non è semplicemente quello di icona tradizionale, così come ci deriva dal mondo classico, essa vuole rappresentare i nuovi principi di democrazia attraverso la sua trasformazione in un dispositivo in cui luce ed energia esprimono un differente rapporto con l’ambiente. Essa diventa una vera e propria lanterna poiché questa sorta di scultura luminosa, a forma di cono rovesciato, trasmette,
con la sua moltitudine di specchi come in un faro, la luce orizzontale entro la grande sala. Inoltre, allo scopo di rendere ancora più evidente la strategia di un’architettura pubblica in grado di auto-produrre l’energia che consuma, si è ricorso all’uso di combustibili rinnovabili (olio di palma, colza e girasole) che consentono un’emissione di ossidi di carbonio inferiore del 94% rispetto al combustibile fossile, e a sistemi di accumulo del calore estivo mediante cisterne d’acqua interrate a notevole profondità che viene ceduto nella stagione fredda tramite scambiatori di calore e viceversa: l’acqua fresca dell’inverno viene utilizzata per assorbire calore nella stagione calda per rinfrescare gli ambienti. Inoltre, l’energia prodotta in eccesso viene riutilizzata in altri edifici pubblici contigui. Vengono persino ripristinati antichi condotti che dal tetto superiore del pronao d’ingresso consentono di ventilare naturalmente la grande sala centrale. Remo Dorigati
a lt e r B e n j a m i n o n ce w r o t e W a bo u t a P a u l K l ee p a i n ti n g depicting an open-mouthed angel
i n g co n s t r u c t e d d u r i n g W il h e l m II n d ’ s e r a b a c k i n 1894 we r e n o t enough to jeopardise its existence, the East German architects did their bit too, totally demolishing the dome and most of its interiors and completely renovating the entire building, stripping it of its decoration and hiding any historical remains left on the inside behind plaster and asbestos panels. For years it was just left quietly out on the edge, like a disturbing p r e s e n ce w h o s e bo dy c a rr i e d t h e wounds of a city that had been violently cut in two by its own absurd fate. After the collapse of the wall, it was decided to restore Berlin to its former place as the capital of unified Germany, turning its old Parliament Building into a landmark for a fresh start. In 1992 Foster & Partners and 14 other architecture firms were invited to produce their own designs for
converting the old ruins into a new Parliament Building. At the second stage of selection, Foster managed to persuade the Jury that his design was the best way of embodying a new vision of democracy. In 1995, after removing the veils in which Christo and Jean-Claude had wrapped this simulacrum of German history, as a sort of purifying rite, work began on rebuilding this great landmark. But just how can democracy be represented? How can we represent an institution that is deliberately trying to break with the past without forgetting it, and at the same time w a n t s t o phy s i c a ll y e m bo dy n ew social needs and, most significantly, wants to symbolise one of the most solid democracies in the world? Of co u r s e, t h e r e i s n o s u c h t h i n g a s intrinsically democratic or totalitarian forms (lots of historians have fallen into this trap), but there is a sort of deep structure of concepts
which, at any particular time in history, are the best way of representing a nation’s form of government and its fate. Foster has a feel for key-words and has managed to associate the principle of democracy with the idea of transparency, new politics with environmental issues. He has decided to keep the remains of the old nineteenth-century buildi n g r i g h t d ow n t o it s m o s t r ece n t traces (like the graffiti left on the plaster by Soviet soldiers) and then place a new sign over the old remains right where the old dome used to stand. Foster has not rebuilt the original design, he merely allows the new Parliament Building to represent the idea of a democratic trial based on transparency and light. A huge glass dome resting on the old structures covers the central plan of the Parliament Hall. This is where the public can watch the proceedings from above and, at the same time, it
creates a place affording a 360-degree v i ew of t h e c it y t h a n k s t o a t w i n system of spiral ramps (the flat roof holds a cafeteria and restaurant also open to visitors). Moreover, now that t h e o r i g i n a l e n t r a n ce h a s bee n reopened, politicians and the general public share the same way in, situated on the visual axis leading to the Chancellor’s Seat. The ground floor acts as a hall for the entire system, the Parliament House is on the top floor, the rooms for the President and Council are on the second floor, while the third floor houses the meeting rooms for the various groups and the press room. But the dome is not just a conventional icon, as it was in antiquity, it is also supposed to embody the new principles of democracy by turning into a mechanism through which light and energy set up new relations with the outside environment. It becomes a sort of lantern because
t h i s k i n d of l u m i n o u s s c u l p t u r e shaped like an upturned cone uses its mass of mirrors (like a lighthouse) to transmit light into the main hall. In order to emphasise even more the idea of a public work of architecture capable of automatically generating the energy it consumes, renewable fuels (palm oil, colza oil, and sunflower oil) were used, giving off 94% less carbon oxides than fossil fuel. It was also decided to adopt summer heat accumulation systems supplied by underground water tanks placed at great depths; heat is given off in winter through heat exchangers and vice-versa: the fresh water in winter is used to absorb heat in summer to cool down the premises. In addition, the excess energy generated is reused in other nearby public buildings. Old pipes on the top roof of the entrance pronaos have even been brought back into operation to naturally ventilate the large central hall.
dagli occhi spalancati guarda verso il passato dove appare un cumulo di rovine. La pietà lo vorrebbe trascinare verso il basso, ma la forza del cielo spinge le sue ali verso l’alto, verso il futuro cui volge le spalle. “Ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta”. Poche architetture possono rappresentare come il Reichstag di Berlino la tempesta che ha sconvolto la civiltà europea del ventesimo secolo. Dopo essere stato bruciato dai nazisti nel 1933 come disprezzato simbolo della democrazia, diventa nel 1945, dopo una sanguinosa battaglia, l’immagine della conquista della città da parte dell’Armata Rossa (chi non ricorda il soldato sovietico che sventola la bandiera sul cumulo di macerie?). Ma, come se l’incendio e la distruzione del massiccio edificio neobarocco, innalzato nel periodo guglielmino nel 1894, non fossero stati sufficienti
with its eyes wide open looking back towards a pile of ruins in the past. A feeling of pity almost drags the angel down but the power of the heavens pushes his wings upwards towards the future on which he turns his back. “What we call progress is this storm”. Few works of architecture represent the storm that has shaken European civilisation in the twentie t h ce n t u r y a s effec ti ve l y a s t h e Reichstag in Berlin. After being burnt down by the Nazis in 1933 as a despicable symbol of democracy, it came to represent the Red Army’s taking of the city in 1945 after ferocious fighting (how can we possibly forget the Soviet soldier waving his flag over the mounds of rubble and ruins?). But as if the burning and destruction of the huge neo-Baroque build18 l’ARCA 143
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planimetria generale e, a destra, pianta del mezzanino. Al centro, pianta del piano terra e, a destra, pianta del primo piano. In basso, sezione trasversale.
■ Below,
site plan and, right, plan of the mezzanine. Centre page, plan of the ground floor and, right, plan of the first floor. Bottom of page, cross section.
■ Sotto,
pianta del terzo piano e, a destra, pianta del quarto piano. Al centro, pianta del secondo piano e vista notturna della grande cupola vetrata. In basso, sezione longitudinale.
■ Below,
plan of the third floor and, right, plan of the fourth floor. Centre page, plan of the second floor and nighttime view of the large glass dome. Bottom of page, longitudinal section.
Richard Davies
■ Sotto,
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vista esterna della cupola in acciaio e vetro e l’interno dell’aula plenaria. A destra, particolare dell’esterno del nuovo Reichstag in cui l’intervento di Foster si inserisce sul volume preesistente.
■ Below,
outside view of the steel and glass dome and interior of the plenary chamber. Right, detail of the outside of the new Reichstag with Foster’s design incorporated in the old structure.
Dennis Gilbert
Dennis Gilbert
Willebrand
■ Sotto,
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della cupola è suddiviso in un livello panoramico aperto al pubblico e in uno, sottostante, che contiene l’aula primaria del Parlamento Tedesco. L’intervento di Foster si pone come segno della trasparenza e dell’apertura della nuova democrazia della Germania unificata. Le
parti specchianti del cono rovesciato che si incunea all’interno fungono da elementi riflettenti per portare la luce naturale in tutti gli ambienti, mentre la grande rampa elicoidale organizza il percorso di ascesa lungo il perimetro della cupola e consente di avere diverse panoramiche della città di Berlino.
■ The
inside of the dome is divided into an observation level open to the public and a lower level holding the main chamber of the German Parliament. Foster’s design is a sign of the transparency and openness of the new democratic organisation of unified Germany. The reflective parts of the
inverted cone slotted inside act as mirrors drawing nautral light into all the premises. The large spiral ramp orgniases the upward path along the perimeter of the dome and provides a variety of different views across the city of Berlin.
Willebrand
■ L’interno
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e a destra, particolari dei nuovi corridoi inseriti nei piani inferiori del vecchio Parlamento. Al centro, la seduta panoramica all’ultimo livello visitabile della cupola. In basso, particolare della rampa elicoidale che sale lungo il perimetro della cupola.
■ Below
and right, details of the new corridors running through the lower levels of the old Parliament. Centre page, the panoramic bench in the middle of the top level of the dome open to visitors. Bottom of page, detail of the spiral ramp rising up along the perimeter of the dome.
Credits Project: Foster & Partners Structures: Leonhardt Andrä & Partners, Ove Arup & Partners, Schlaich Bergermann & Partner Acoustics: Müller BBM, IKP, George Plenge
Lighting: Claude Engle Conservation: Acanthus Quantity Surveyors: BAK AG, Davis Langdon & Everest Engineer: W.Stucke Client: Bundesrepublik Deutschland
Willebrand
Dennis Gilbert
■ Sotto
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Dai miti alla natura Kagoshima Community Center for Seniors
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Progetto: Takasaki Masaharu Architects
Il Kagoshima Community Center for Seniors visto da sud-ovest. Il complesso, destinato ad accogliere anziani, sorge a Ibusukishi, nella prefettura di Kagoshimaken. L’insieme occupa un’area di oltre 93.000 mq, mentre il costruito circa 17.000 mq; le strutture portanti sono in calcestruzzo armato.
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Kagoshima Community Center for Seniors viewed from south-west. The complex, catering for the elderly, stands in Ibusukishi in the prefecture of Kagoshimaken. The complex covers an area of over 93,000 square metres and a built area of approximately 17,000 square metres; the bearing structures are made of reinforced concrete.
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l Kagoshima Community Center Isuale for Seniors pone un quesito inue intrigante. Come va interpre-
tata un’architettura che ricorda un raffinato esercizio di scrittura tra il Pulp e il visionario? Come una fantasiosa costruzione oppure come qualcosa di parallelo all’arte del costruire? Il mondo dell’architettura sembra dunque buttare fuori tutto ciò che ha trangugiato in questi anni di contaminazione tra generi e linguaggi. Il complesso, recentemente realizzato a Ibusukishi, nella Prefettura di Kagoshimaken e destinato a ospitare una comunità di anziani, rivela subito un conflittuale (ma forse è più esatto definirlo dialettico) rapporto con il luogo; a partire dal “contatto” col terreno: più che una costruzione realizzata in cantiere, l’insieme si presenta come un’articolata struttura dalle linee dinamiche emersa improvvisamente dalle viscere della Terra. Aldilà delle raffinate soluzioni strutturali - dove a una spettacolare, basculante, apparente instabilità, è opposta grande maestria ingegneristica -, Masaharu si conferma progettista di matrice “narrativa”. Le sue architetture sembrano infatti generate da un evento, da un frammento di storia (viaggio immaginario nelle viscere della Terra), che in qualche modo rivelano il senso della loro presenza. Il momento metaprogettuale di
Il complesso visto da nord, in una veduta a volo d’uccello e, nella pagina a fianco, visto da ovest. Il centro presenta un’ampia scelta di optional, tra gli altri: impianti sportivi, biblioteca e uno spazio teatrale.
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Masaharu è dunque in sintonia con i linguaggi multimediali e ipertestuali che caratterizzano la contemporaneità in tutte le espressioni di comunicazione. Un’architettura è “ipertestuale” quando è in grado di creare comunicazione tra progettista e resto del mondo. Ovvero: quando si tende a uscire da griglie progettuali tradizionalmente destinate ad ambiti disciplinari di derivazione scientifica come l’architettura. Il Kagoshima Community Center è un esempio illuminante di fuga da un certo specialismo in favore di una ricerca sulla contaminazione tra linguaggi; è un “ipertesto architettonico” poiché dispone di un codice di lettura tridimensionale, è una struttura con più identità oltre la funzione dell’edificio. Il linguaggio citazionista, denso di rimandi a un immaginario collettivo tra occidente e oriente - dopo gli studi presso la Meijo University, Masaharu collabora con alcuni atenei occidentali, tra cui il Graz Institute of Technology -, sembra porsi come ideale contrappeso all’ormai declinante stagione decostruzionista. Il Kagoshima Community Center è un sistema spaziale concluso nelle sue premesse culturali: è un levigato “abito” su misura cucito addosso a una tipologia sociale medioalta e omogenea, di cui si sa tutto. Dove tutto deve avere un senso a priori: il complesso è infatti progettato secon-
do una cosmogonia ricca di immagini mitologiche desunte dal Kami, divinità riferibili a forze e fenomeni della natura come alberi, montagne ecc. Il sinuoso percorso coperto orientato a est è l’“Arbor of the sun”, una lama ritorta e sospesa, collegata a una microarchitettura ogivale. La forma ogivale è un po’ il seme generatore di tutta la complessa geometria del Kagoshima Community Center e spiega come sia multiforme il percorso progettuale di Masaharu quando crea i propri sogni architettonici. Anche una certa ambiguità fa parte delle premesse di progetto. L’articolata conformazione di questo centro per anziani cela una sorta di inganno - un ambiente così fortemente caratterizzato, quasi fiabesco, non sarebbe più adatto ad altri usi? -, ma forse va interpretato come un atteggiamento giocoso per dare il senso della molteplicità della vita. Ideato come un villaggio di accoglienza e attività ricreative, il centro è caratterizzato da una spazialità sfuggente, difficilmente percepibile nella sua globalità. Ma è proprio l’ambiguità semantica dell’ingannevole a creare energia, teatralità e quel senso di infinito che aleggia in tutte le opere di Masaharu. Razionalità espressiva. Fuori il complesso è un’architettura che suggerisce l’idea di un villaggio tecnologico spaziale semovente (di rigore la
terminologia ambigua: spazio architettonico o spazio cosmico?) e l’antropomorfo (frammenti di armature di guerrieri sparsi sul campo dopo una battaglia), dentro rivive il secolare “razionalismo” dell’architettura tradizionale giapponese. Insomma, quando l’architettura è medium di se stessa ma anche motore sociale e culturale che unisce vecchie e nuove generazioni. Gli spazi interni definiscono l’alto standard di accoglienza, sia sanitaria che residenziale attraverso arredi e attrezzature spoglie di ogni sovrastruttura “espressionistica”. I percorsi indoor sono comunque improntati alla massima differenziazione e riconoscibilità. Si va dalle ascetiche stanze per otto ospiti fino ai sorprendenti volumi ogivali dell’atrio centrale - dove è ricavato anche uno spazio teatrale - a quello della piscina. Il “razionalismo espressivo” di Masaharu è ravvisabile soprattutto nella grande hall centrale attraverso un velato omaggio a un progettoicona, il “Teatro totale” di Gropius, ideato per Erwing Piscator e mai realizzato, dove viene ripresa, con spericolata allusione al dirigibile, la metafora del movimento (il “Teatro totale” con palcoscenico e platea rotanti doveva creare nuove dimensioni percettive nel rapporto tra spettatore e azione scenica). Carlo Paganelli
he Kagoshima Community CenT ter for Seniors poses an unusual and intriguing question: How should
one interpret an architecture which r ec a ll s a r ef i n e d w r iti n g e x e r c i s e s o m ew h e r e be t wee n P u l p a n d t h e visionary? Should it be seen as a fantasized construction or as something parallel to the art of constructing? The architectural world seems therefore to be expressing everything it has absorbed in these years of contamination between genres and languages. The complex, recently completed in Ibusukishi in the Prefecture of Kagoshimaken and destined to host an elderly community, reveals immediately a conflictual (or perhaps it can be more exactly defined as dialectical) relationship with the site; beginning with its “contact” with the terrain: more than a construction built on a worksite, the complex presents itself as an articulated structure of dynamic lines immersed suddenly in the bowe l s of t h e e a r t h . A bove a n d beyond the refined structural solutions-wherein a spectacular, unfixed, a pp a r e n t i n s t a b ilit y i s o pp o s e d with a grand engineering majesty Masahauru affirms his status as a planner of “narrative” matrixes. His architecture seems to have been generated by an event, from a fragment of history (an imaginary voyage into the bowels of the earth), that in some way reveals the sense of his prescence.
Therefore Masaharu’s metaprojectual moment is in synch with the multimedial and hypertextual languages that characterize contemporanity in all expressions of communication. Architecture is “hypertextual” when it is capable of creating communication between the architect and the rest of the world; more to the point: when it tends to come out of the projectual grids traditionally destined for disciplined scientific environments like architecture. The Kagoshima Community Center is an illuminating example of the escape from certain specialism in favor of an investigation into the contamination between languages; it is an “architectural hypertext” insofar as it uses a three-dimensional reading code and is a structure with more identities than that of its simple function as edifice. The citationist language, dense with reminders of a collective imagination between occident and orient-after studying at Meijo University, Masaharu collaborated w it h s eve r a l we s t e r n a c a d e m i e s seems to position itself as an ideal counterbalance to the receding deconstructionist season. The Kagoshima Community Center is a spacial system concluded in its cultural premises: it is a “polished suit” custom fit to a mid-level and homogeneous social typology about which we already know everything. A
place where everything must have its a priori sense: in fact the complex is planned according to a cosmology rich in mythologic images gleaned from the Kami, a God connected with forces and phenomena of nature such as trees, mountains, etc. The sinuous covered path heading eastwards is the “Arbor of the sun”, a twisting and suspended blade connected to an ogival microarchitecture. The ogival form is a bit like the germinating seed of the entire geometric complex of the Kagoshima Community Center and it explains how multiform Masaharu’s projectual route can be when it realizes its architectural dreams. The articulated conformation of this center for the elderly is a kind of trickwouldn’t an environment this strongly characterized, almost imaginary, be better suited to other uses? But perhaps it is better interpreted as a playful reaction that gives a sense of the multiplicity of life. Invented as a welcoming village for creative activity, the center is characterized by an escaping spaciousness which is difficult to perceive in its entirety. But it is exactly the semantic ambiguity of trickery that creates energy and theatricality in that sense of in infinite that permeates all of Masaharu’s works. Expressive rationality. Beyond the complex there is an architecture which suggests the idea of a self-propelled
t ec h n o l og i c a l s p a c i a l v ill a ge ( t h e ambiguous terminology is par for the course: architectural space or cosmic space?) and the anthropomorphous (fragments of weapons spread here and there across the battlefield after conflict) inside revives the secular “rationalism” of traditional Japanese architecture. In short, when architecture is a medium in and of itself and also a social and cultural motor for uniting old and new generations. The internal spaces define a high standard of welcoming, both sanitarily and residentially through decorating and furnishings stripped of every “expressionistic” overstructures. The indoor paths are marked by the maximum differentiation and recognizableness. We move from the ascetic guestrooms to the surprising ogival spaces in the central hall-where a theatrical space has also been carved out-and to the swimming pool. Masaharu’s “expressive rationalism” is visible above all in the great central hall wherein a veiled homage to a projecticon, Gropius’s “total theater” planned for Erwing Piscator but never constructed where the metaphor of movement is picked up with a daring allusion to the blimp (the “total theater” with rotating stage and platea was to have created new perceptive dimensions in the relationship between the spectator and the scene action).
The complex viewed from north in a bird’s-eyeview and, opposite page, viewed from the west. The centre offers a wide range of facilities including: sports facilities, a library, and a theatre.
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Sopra, particolare dell’edificio principale visto da est; a destra, sotto, pianta del primo livello e sopra, pianta del secondo livello. ■ Above, detail of the main building viewed from the east; right, below, plan of the first level and, above, plan of the second level. ■
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Nell’immagine in basso, particolare del percorso principale; a sinistra, sopra, pianta del quarto livello e, sotto, pianta del terzo livello. ■ Bottom of page, detail of the main path; left, above, plan of the fourth level and, below, plan of the thrid level. ■
In alto, particolare della copertura dell’edificio principale, che può accogliere fino a 500 persone; a sinistra dall’alto in basso, prospetto sud-est, sezione, prospetto a nord-est e veduta del teatro all’aperto. Nelle pagine seguenti, interno della hall centrale e spazio destinato alla piscina.
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Above, detail of the roof on the main building, which can hold up to 500 people; left from top to bottom, south-east elevation, section, north-east elevation with a view of the outdoor theatre. Following pages, interior of the central hall and swimming pool.
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Immagine grande, la piazza principale; in alto, veduta notturna della grande piazza vista da est e, qui sopra, la sala multimediale.
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Main picture, central plaza; top, nighttime view of the central plaza viewed from the east and, above, multi-media room.
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Credits Project: Takasaki Masaharu Architects Structural Engineers: Tanaka Laboratory, Waseda University Client: Kagoshima-Ken Prefecture
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La sfida del cambiamento Seibu Dome a coscienza della crisi, il senso di L dubbio sono parte del bagaglio che il progetto di architettura si trascina
appresso nel viaggio verso il nuovo millennio. Kajima Design ci porta a riflettere sui destini globali dei territori del mondo, di cui l’architettura si sente responsabile. Nessuno crede più che le risorse energetiche di cui disponiamo siano infinite, anzi nella coscienza pubblica più attenta si fa strada la consapevolezza che molta parte del territorio antropizzato sia stato compromesso da un uso poco accorto del suolo. La gente comune vive sulla propria pelle i risultati di una architettura pensata in modo slegato dalle condizioni del luogo in cui si vive. Le grandi catastrofi naturali ci fanno sentire impotenti: terremoti, inondazioni, tornadi e quant’altro ci mettono subito in guardia nei confronti del nostro spregiudicato ottimismo, ovvero l’illusione positivista di saper costruire la casa dell’uomo come un riparo efficace contro una natura matrigna. Ma la speranza progettuale è una forza propositiva troppo connaturata dentro di noi e rinasce sempre. Allora non è un caso che segnali di cambiamento ci arrivino proprio dal Giappone, laddove la percezione della crisi del progetto è più acuta, nonostante la quantità enorme di produzione. L’architettura di Kajima Design è un sensore prezioso per la sua diversità rispetto alle architetture che popolano le metropoli del sol levante: spesso esibizioniste, ridondanti, di forte impatto emotivo, destinate magar a diventare dei landmark, ma senz’anima. Ormai testimoni di un’economia affluente, e di un potere bancario sempre più instabile. Anche in questi tempi di flessione, di transizione stiamo assistendo a un fenomeno di risveglio, o per lo meno c’è qualcuno che si interroga: Kajima Design rappresenta un pool di progettisti che riflettono sul modello di sviluppo del pianeta, sulla necessità di una nuova simbiosi con la natura, sull’uso cosciente dell’energia, senza sprechi, Kajima Design in Giappone è una delle punte di diamante di questa nuova progettazione organica, ma senza nessuna formulazione estetica a-priori, nessuna tendenza stilistica viene propagandata, ma si cerca di modificare la città attraverso l’architettura concreta, vivibile, cambiando lo stile di vita corrente. Un impegno che deve portare a un uso conscio della risorsa ambientale, verso “una volontaria limitazione di desideri insaziabili”. L’importanza dei progetti di Kajima Design sta nell’affermare l’inevitabilità morale della “sfida del cambiamento”. Architettura che vuole spingere alla consapevolezza, mentre fornisce un umile servizio alla comunità
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umana. Non è un caso che le grandi corporation del progetto siano le prime nel mondo che si rendono conto del bisogno di un nuovo approccio, perché operano fuori dalle utopie accademiche e si confrontano con il mercato concreto, che richiede innanzitutto qualità, attenzione e un’immaginazione progettuale più naturale e meno meccanicistica, hi-tech o formalistica. Il tema del gioco collettivo, delle grandi adunate oceaniche di folle che assistono allo sport è utilissimo per misurare questa saggia mistura promossa da Kajima, mescolanza di cosciente attenzione all’ambiente e rispondenza alle richieste di una committenza vigile sui costi e sulle prestazioni qualitative degli edifici. Il Seibu Dome è un esempio di rinnovo di una struttura per il gioco del baseball all’aperto, inserita in un contesto naturale molto caratteristico, le colline Samaya. Il tema era di progettare una copertura che rendesse fruibile la struttura sportiva anche nelle condizioni meteorologiche meno favorevoli, senza violentare la bellezza naturale all’intorno.Tutto questo doveva essere organizzato nei tempi del fuori-stagione, per non perdere neanche un giorno di gioco. Così si è creato il primo stadio semi-chiuso al mondo. In questo senso: la copertura è come una sorta di gigantesca conchiglia adagiata sul campo da gioco, appoggiata a colonne a forma di V. L’aria passa agevolmente, sotto forma di una brezza gentile che proviene dal parco circostante. In questo modo si sono ottenuti sensibili risparmi rispetto a una struttura chiusa con areazione forzata e si ottiene l’immersione visiva nel verde per gli spettatori. La struttura del tetto è stata montata in due fasi, prima costruendo l’anello metallico di supporto, quindi innalzando la membrana di copertura centrale, del peso di ben 2000 tonnellate. Le due coperture costituiscono un sistema integrato di controllo del calore e della luminosità, nonchè dell’acustica interna, la cui parte trasparente è basata su un modulo continuo di conchiglie conoidi, su una griglia strutturale di 7.5 m, per favorire la visione del gioco e togliere il senso di oppressione. L’area coperta, del tutto ragguardevole, è di oltre 42.000 metri quadri. Un’architettura che sa respirare con la natura, che si lascia attraversare dall’aria e che sa organizzare il divertimento di grandi masse di persone favorendo la fruizione consapevole del paesaggio, questo è il Seibu Dome. Queste sono le cattedrali del nuovo millennio, le grandi opere con una speranza, dove forse troviamo un pezzetto di anima in più. Un segnale di svolta, rispetto al secolo che abbiamo attraversato, dominato dalle macchine acefale e dallo sviluppo incontrollato. Stefano Pavarini
sense of crisis and feeling of A doubt are part of the heritage architectural design is taking into
the next millennium. Kajima Design forces us to reflect on the world’s global destiny, for which architecture feels responsible. Nobody is under the illusion any more that our energy resources will last for ever, in fact there is considerable public awareness that most of the anthropized territory has been jeopardised by thoughtless exploitation of the land. Ordinary people are forced to live with the results of architecture designed with no concern for the state of the place where they live. We feel powerless in face of natural disasters: earthquakes, floods, tornadoes etc. call into question our unbridled optimism, or in other words the positivist illusion of being able to build homes to protect ourselves against harsh nature. But there is no escaping from the hopes we invest in design, and it is hardly surprising that Japan, where the crisis in design is most deeply felt despite all the architectural work under way, is showing signs of change. Kajima Design’s architecture is an invaluable touchstone due to how different it is from all the rest of the architecture in big cities in the Land of the Rising Sun: often loud, redundant, emotionally striking and destined to become landmarks, but lacking in heart. They bear witness to a flourishing economy and a powerful but increasingly unstable banking system that could collapse any minute. During this period of relative depression and transition, we are witnessing a certain re-awakening or, in any case, at least someone is posing important questions: Kajima Design in Japan can boast a pool of architects working on the current state of global growth, the need for a new symbiosis with nature, and conscientious energy exploitation with no unnecessary waste; Kajima Design is one the leading Japanese exponents of a new form of organic design free from a-priori aesthetics, rejecting stylistic propaganda in favour of altering the city through concrete, inhabitable architecture designed to change current lifestyles. These efforts ought to result in conscientious use of environmental resources by “voluntary constraints on insatiable desires”. The importance of Kajima Design’s projects lies in their insistence on the inevitable moral of “the challenge of change”. Architecture that attempts to create a certain awareness as it provides a humble service for the human community.
Progetto: Kajima Design
It is no coincidence that major design corporations are the first to realise the need for a new approach, probably because they work outside the utopian realms of academic institutions and have to come to terms with the real market that is looking, above all, for quality, care, and more natural and less mechanistic, high-tech or formal stylistic imagination. The theme of communal play, huge get-togethers involving massive crowds of sports fans is an extremely useful way of gauging this clever blend proposed by Kajima, a mixture of eco-awareness and compliance to the demands of clients, who pay careful attention to the costs and quality standards of buildings. The Seibu Dome is an example of how to redevelop an outdoor baseball ground in a highly characteristic natural setting, the Samaya hills. The project was to design a roof making the sports facility usable even in awful weather conditions, without jeopardising the natural beauty of the surroundings. All this had to be carried out during the offseason so as not to lose even a day’s playing time. This resulted in the construction of the world’s first semi-indoor stadium. By which we mean that the roof is a sort of huge shell resting on V-shaped columns. Air flows through smoothly in a gentle breeze coming from the surrounding park. This allowed notable savings compared to a closed structure with force air-conditioning, and also helps blend everything visually into its surroundings, much to the spectators’ benefit. The roof structure was assembled in two phases, first constructing the metal support ring and then raising the central roof membrane weighing as much as 2000 tons. The two roofs form a combined heat, lighting, and acoustics control system, whose transparent section is based on a smooth module of cone-shaped shells placed on a 7.5-metre structural grid to make it easier to watch the games and create a more relaxing atmosphere. The roofed area covers over 42,000 square metres. Architecture that breathes with nature, lets air run through it, and can organise the entertainment of large masses of people encouraging intelligent use of the landscape: in a nutshell Seibu Dome. These are the cathedrals of the new millennium, large-scale works fostering hope, blessed perhaps with a little more heart. A turning point compared to the century that is drawing to a close, with all its brainless machines and uncontrolled growth.
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Nelle pagine precedenti viste del nuovo Seibu Dome Stadium, realizzato da Kajima Design a Tokorozawa, Prefettura di Saitama, Giappone. La caratteristica principale di questo enorme impianto per il baseball, che copre una supeficie di oltre 42.000 mq, è la grande copertura circolare a
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membrana poggiata su un anello strutturale rivestito di metallo sostenuto da 12 grandi colonne a V perimetrali. La membrana è costituita da fasce di "gusci" conoidi inserite in una griglia modulare di 7,5 m in tubi di acciaio. Lo spazio aperto tra la copertura e le tribune consente una circolazione
dell'aria e un'acustica ottimali. Sotto dall'alto in basso, planimetria generale e particolare della pianta e sezione della copertura a membrana; pianta del piano terra e pianta della copertura; sezione AA, sezione BB, prospetto nord e particolare della sezione.
Previous pages, views of the new Seibu Dome Stadium built by Kajima Design in Tokorozawa in the Prefecture of Saitama, Japan. The main feature of this huge baseball ground covering a surface area of over 42,000 square metres is a large circular membrane roof resting on a metal-clad structural
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ring held up by 12 large Vshaped perimeter columns. The membrane is constructed out of bands of cone-shaped "shells" fitted on a modular grid of 7.5-metre steel tubes. The space opened up between the roof and stands allows air to circulate freely and creates optimum
acoustics. Below, from top down, site plan and detail of the plan and section of the membrane roof; plans of the ground floor and roof; AA section, BB section, north elevation, and detail of the section.
Credits Project: Kajima Design Design Supervision: Yoshiro Ykehara Main Contractor: Kanto Branch, Kajima Corporation
Scale= 1:1,500
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è sempre stato, almeno in C’ quest’ultimo dopoguerra e fra gli architetti più impegnati o attrat-
ti dal dibattito teorico e critico, un forte penchant per concetti, metodologie, dispositivi, messi a punto e proposti o applicati in altri contesti scientifici e culturali. Risulta persino difficile tentare un elenco dettagliato di esempi: dopo una prima fase di particolare successo per così dire mondano, le varie suggestioni rimangono, in genere, compresenti, sovrapponendosi, sommandosi, intrecciandosi, fino a dare luogo a quello che con qualche buona ragione potrebbe essere considerato un vero e proprio corpus a sé stante, dai caratteri, se non del tutto, almeno abbastanza originali, proprio a causa di questa frammistione asistematica. Procedendo in ordine sparso, chi non ricorda le ideologie della ricostruzione comunitaria, ovviamente risibili a fronte di metropoli da cen-
tocinquant’anni e più decollate senza ritorno in direzione diametralmente opposta? O gli innamoramenti urbanistici (il primo amore, poi, come si sa, non si scorda mai) per improbabilissimi quartieri aconflittuali, da popolarsi con persone non stressate e gentilissime, e magari moderatamente vernacolari per scelte compositive e di materiali? Mentre invece si accresceva con ritmo esponenziale una popolazione reale di veri dannati della Terra: blue collars collassati e ridotti al lumicino dal progressivo inesorabile crollo del settore secondario, accoppiato alla dilapidazione sciagurata di tempo, vita indotta da pendolarismi contorti e forsennati; white collars nevrotici e insicuri, aggressivi e succubi nel medesimo tempo di nuove gerarchie violente e sempre sul filo esile dell’obsolescenza personale, scandita dai ritmi sempre più veloci dell’innovazione tecnologica. Da
segnalare ancora, poi, almeno la grande passione suscitata dallo strutturalismo (di un soffio preceduto dalla semiologia), in un primo tempo più di derivazione antropologica, poi attaccato dal versante ben più erto della linguistica. E dopo ancora, le elucubrazioni, potenzialmente piuttosto esiziali, di segno marcatamente epistemologico, sovente risolte in derive heideggeriane e post: con conseguenti produzioni di scritti difficili e confusi, di integrazione veramente improbabile in un qualche sfondo specificamente architettonico. Sorvolando infine sulle più recenti incursioni decostruzioniste, in vario modo incrociate da flirt con pensieri più o meno deboli; e sulle suggestioni cyber tuttora in corso, tanto per fare degli esempi tra i tanti possibili. D’altra parte va detto che tutto ciò denota che l’architettura è tutt’altro che un corpo morto; anzi, è
vivissimo; e questa indomita e spregiudicata curiosità di fondo la distingue, in positivo, da campi odiosamente paludati, saccenti, o soltanto desolatamente tesi a perpetuare status autoritari ereditati da secoli passati. Se poi l’insieme che ne risulta è molto mélange, o poco ortodosso nel trattamento delle citazioni, pazienza; vita e tensione sono sempre meglio di calcificazione e imbalsamazione. A distanza di anni, anche tutto il can can suscitato dall’irruzione del cosiddetto postmoderno, a piedi giunti nel bel mezzo del piatto in un momento di stanchezza, andrebbe rivisto bene, soprattutto i giudizi negativi e inappellabili allora espressi, sovente anche molto excathedra. In questi ultimi tempi, una simpatia speciale l’ha suscitata un piccolo libro di Marc Augé, Nonluoghi. Malgrado le argomentazioni e i ragionamenti ivi contenuti vengano condotti dall’autore in termini suoi
propri, cioè squisitamente antropologici, con spunti fisici rarissimi e piuttosto indiretti, il titolo-locuzione è stato immediatamente sussunto, nei modi e nelle accezioni più svariati, ma comunque sempre con entusiasmo, da architetti e urbanisti. Naturalmente queste incorporazioni hanno limiti di campo aleatori e incerti; ma anche l’evanescenza, l’effetto fading, ha suggestione e fascino suoi. Miguel Angel Roca, per esempio, parlando di Cordoba (Argentina), ma più in generale delle città, definisce come “non luoghi” le zone prive in qualche modo di identità o di riconoscibilità, le situazioni di periferia indistinta, isotrope, a rischio di degrado o già slum o terrains vagues, nei confronti delle quali le grandi infrastrutture esterne, commerciali prevalentemente e comunque di servizi, non costituirebbero rimedio. Sarà davvero così? Con
ogni probabilità no. Le trasformazioni avvenute sono profonde e in larga misura insondate o trattate con strumenti forse, ormai, da tempo obsoleti. Ma di fronte ai risultati architettonici di questi nuovi Centri di Partecipazione Comunale la questione può passare in secondo piano. Una scelta di fondo di politica sociale (il decentramento amministrativo locale) ha permesso di mettere a punto un programma molto stimolante, di ampiezza inconsueta, da trattare con forme adeguate e originali. Questa nuova declinazione di un motivo ricorrente (i “condensatori sociali”, così cari ai costruttivisti russi) vede Roca sviluppare con abilità una personale poetica, basata sulla composizione di pezzi distinti, dotati di forme proprie ben riconoscibili. Veri personaggi, protagonisti e comprimari, si potrebbe dire, di una pièce architettonica la cui trama
si fonda sull’incessante intersezione di spazi pubblici molto movimentati, percorsi, terrazze, piazze, gallerie: un dispositivo complesso per la moltiplicazione delle occasione di incontro, di scambio, per questa volta non mercantile. Così, tante architetture di varia scala danno luogo, nel complesso, a una sola architettura di notevole consistenza, ma rispettosa delle diverse individualità formali che la compongono. Non è un’operazione semplice e il controllo degli esiti richiede molta perizia. Il palcoscenico qui è fatto di spazi: spazi reali fittamente popolati, non partizioni illusorie di quinte bidimensionali. Nuovi luoghi vs. non luoghi? Forse, in realtà, queste paradossalmente sono una delle forme possibili di cose e situazioni che Augé chiamerebbe, a buon diritto, non luoghi. Il che non toglie che possano rispondere bene alle istanze e agli usi di una socialità
profondamente mutata e in continua trasformazione. D’altra parte, però, ciò comporta che nodi architettonici di questa fatta, o analoghi anche se formalmente diversissimi, finiscano probabilmente con l’avere scarsa, o improbabile, utilità, in termini di morfologia urbana, ricuciture, riscatti e così via (vedi anche il dibattito in corso sulle periferie: aria fritta, in generale, si direbbe; qualche motivo pure ci sarà). Rimane, comunque, il fatto che, riportando il filo del discorso in un campo più proprio, a Cordoba Roca abbia contribuito non poco a rimettere in gioco dalle fondamenta elementi che sembravano perduti o non più percepiti o rimossi o che altro. Nuove aggregazioni funzionali comprendenti destinazioni d’uso a forte densità sociale configurano infrastrutture di natura nuova, da trattarsi per mezzo di architetture. Maurizio Vogliazzo
hundred years’ history which have taken off in the opposite direction? And what about those passionate town-planning programmes (and as we know, nobody ever forgets their first love) for rather unlikely peaceful neighbourhoods populated with kind, relaxed people, and designed perhaps using vernacular styles and materials? In actual fact there was a demographic boom in the Earth’s damned: stressed-out blue-collar workers threatened with extinction by the gradual but relentless decline in the industrial sector, combined with all the time-wasting associated with hectic commuting; neurotic and insecure white-collar workers, bristling with aggression but, at the same time, slaves to merciless new hierarchies leaving them teetering on the brink of personal obsolescence due to a general acceleration
in technological progress. It is also at least worth mentioning structuralism (right on the heels of semiology), initially deriving from anthropology, but then drawing on the much more forceful tool of linguistics. And then those painstaking, potentially rather disastrous studies of a distinctly epistemological nature, often resulting in a general drift in the direction of Heidegger and producing complicated, confused writing hardly suitably for an architectural context. Finally, we won’t both too much about recent forays into deconstructivism, flirting in some way of other with more or less weak thought, or inspirations currently being drawn from the world of cybernetics, just to mention a few possible examples. It ought to be pointed out that all this shows that architecture is any-
thing but dead; indeed, it is actually alive and kicking, and its bold and relentless curiosity makes it stand out positively from other static, rather presumptuous fields, often sadly only interested in maintaining the status quo of a power structure handed down across the centuries. And if this creates a rather unorthodox melting pot of citations, then so be it; life and tension are better than stuffiness and frozen inertia. At a distance of some years, all the hullabaloo surrounding the way so-called postmodernism burst on the scene during a rather weary period ought to be taken a closer look at, particularly the sweeping negative criticism it received form the academic world in particular. Recently, a little book by Marc Augé entitled Non-Places has met with most people’s approval. Even
though the arguments and thoughts contained in the book are presented along the author’s own distinctly anthropological lines, with only the odd passing allusion to the physical world, its title has been enthusiastically adopted in various ways and means by architects and town-planners. Of course there are inevitably problems and risks associated with its incorporation in other fields; but even this sort of fading effect is fascinating in its own right. Talking about Cordoba (Argentina) and cities in general, Miguel Angel Roca, for instance, defines “nonplaces” as areas with no identity or distinctive features, faceless suburbs in danger of degenerating into slums, which cannot be redeveloped by the kind of huge infrastructures mainly found in the retail or services sector.
But is this right? Probably not. Deep changes have taken place, which have not yet really been probed properly using the right instruments. But in view of the architectural results produced by these new Community Centres, the matter can be sidelined for a moment. A clear-cut socio-political line (the decentralising of local administration) has made it possible to draw up an unusually far-reaching and stimulating programme to be handled using the right forms. This new approach to a familiar issue (the kind of “social condensers” the Russian constructivists were so fond of) has enabled Miguel Angel Roca to develop his own very personal blend of artistry based on assembling separate pieces with their own identifiable forms. Real characters, whom we might describe as the
stars or secondary figures in an architectural play whose plot is based around an endless intersecting of public spaces full of motion, paths, plazas, and arcades: an intricate means of creating more opportunities to meet together and exchange views on a non-mercenary basis. Lots of works of architecture of different scales combine to form one single work of substantial architecture, which certainly does not overwhelm the different styles from which it is formed. This is no easy business and controlling its results takes great skill. Here the stage is made of spaces: densely populated real spaces, not deceptive divisions in the form of two-dimensional curtains. New places versus non-places, then? Perhaps, in actual fact, these are rather strangely just one of the possible forms of things and situa-
tions which Marc Augé would rightly describe as non-places. But this does not mean they cannot serve the needs and purposes of a society that has changed and is still changing quite dramatically. On the other hand, architectural nodes of this kind (or similar) usually end up being relatively useless in terms of urban morphology, knitting operations etc. (note the debate under way on suburbs: a lot of nonsense most people say, but there must be something to it). Getting back to the point, there can be no doubt that Roca’s work in Cordoba has brought certain elements back into play that seemed to have been lost, not even been noticed, or abandoned altogether etc. New functional aggregations of great social utility creating new types of infrastructures to be treated using architecture.
Cordoba si rinnova New Strategies Progetto: Miguel Angel Roca
ver since the IInd World War, E those architects must deeply involved or interested in theoreticalcritical debate have almost inevitably drawn on concepts, methods, and devices developed and proposed or applied in other scientific-cultural contexts. It is hard to even draw up a detailed list of examples: after an initial phase of what we might described as popular success, these influences have generally co-existed, intermingled, and blended together to create what we might well call an authentic corpus in its own right with, at least to some extent, its own original features emerging from this random mix. Proceeding in no particular order, who can forget the ideological tenets of community reconstruction, obviously quite laughable compared to huge cities with over five 46 l’ARCA 143
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CPC Ruta 20
per questo Centro CultuIdalraleprogetto e Amministrativo, lungo la strache da Cordoba porta alle Punilla
Valleys verso ovest, è stato sviluppato con una chiara composizione geometrica. Come in altri edifici simili, il Centro di Partecipazione Comunale Ruta 20 ha anche la funzione di porta urbana. E’ formato da due volumi e contiene uno spazio pubblico racchiuso tra due
elementi curvi che forma una sorta di occhio. Questo volume a doppia curvatura incorpora un muro che agisce come diaframma per la luce verso sud e come punto di connessione tra i vari volumi. Da un lato sono ospitate una sala espositiva e uno spazio polifunzionale, mentre dalla parte opposta si trova un volume cilindrico che contiene l’auditorium. Sulla fronte sud, la presenza
una serie di cubi individua i blocchi delle aule e della biblioteca, illuminata da un lecernario centrale. Il secondo elemento che costituisce il CPC Ruta 20 è un cilindro di quattro piani, anch’esso con un lucernario centrale verso il quale si aprono le diverse funzioni amministrative, sociali e politiche. Un frangisole, che funge anche da collettore solare, fa da corona a questo nucleo centrale vetrato.
he project for this CulturalT Administration Centre along the road from Cordoba to the Punilla Valleys over in the west has been devised with great geometric precision. Like other similar buildings, the Ruta 20 Community Centre is also designed to be a gateway to the city. It is constructed out of two structures and contains a public space
enclosed between two curved elements forming a sort of eye. This double-curved construction encloses a wall that acts as a diaphragm for light towards the south and as a connection point between the different structures. One side holds an exhibition room and a multi-purpose space, while over on the other side there is a cylindrical structure holding the audi-
torium. A set of cubes over on the south front hold classrooms and a library lit through a central skylight. The second element of Ruta 20 is a four-storey cylinder, which also has a central skylight above all the various administration, social and political functions. A shutter, also functioning as a solar collector, acts as a crown over this glass central core.
Nelle pagine di apertura, schizzo della pianta della città di Cordoba, in Argentina, con gli interventi di Miguel Angel Roca e vista dall’alto del Centro di Partecipazione Comunale Ruta 20. A sinistra, dal basso, planimetria generale, pianta del piano terra e pianta del primo piano. ■ Opening pages, sketch of the plan of the city of Cordoba in Argentina, showing Miguel Angel Roca’s work and a view from above of the Ruta 20 Community Centre. Left, from bottom up, site plan, plan of the ground floor, and plan of the first floor. ■
Edificio/Building A 1. Salone centrale/Central Lounge 2. Sala polifunzionale/ Multi-purpose hall 3. Bar 4. Biblioteca/Library 5. Palcoscenico/Stage 6. Teatro/Theatre 7. Vuoto centrale/Central space 8. Uffici/Offices 9. Biblioteca/Library 10. Galleria/Gallery Edificio/Building B 1. Atrio/Lobby 2. Aula assemblee/Assembly hall 3. Uffici/Offices 4. Banca/Bank 5. Alcalde 6. Vuoto centrale/Central space 7. Uffici Amministrativi/ Administration offices 8. Delegato/Delegate
Nella pagina a fianco, prospettiva della fronte nord del complesso. ■ Opposite page, perspective view of the north front of the complex. ■
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Gli interni sono illuminati naturalmente grazie al lucerna0rio vetrato centrale e alle bucature delle pareti perimetrali in cemento.
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The interiors are naturally lit through a central glass skylight and holes in the concrete perimeter walls.
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Particolari della grande scala centrale, dell’atrio di ingresso e del lucernario vetrato. L’armonia dei volumi curvi determina una geometria molto dinamica del complesso.
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Details of the large central staircase, the entrance lobby, and glass skylight. The harmonious curved structures create a dynamically geometric layout for the complex.
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CPC Monseñor Pablo Cabrera
uesto Centro di Partecipazione Q Comunale è situato nel Barrio Poeta Lugone lungo la strada per
l’aeroporto all’ingresso nord della città. E’ costituito da un prisma rettangolare strutturato ai lati di una strada centrale che funge da atrio e si sviluppa su un piano terra e tre piani superiori. Al piano terra sono organizzati i vari uffici di servizio comunale e una sala espositiva; al
primo piano ci sono il bar e l’ingresso dell’auditorium; il secondo piano è occupato dalla biblioteca e da uffici; infine, al terzo piano ci sono altri uffici. La copertura del prisma riprende quella a shed della vicina zona industriale e, grazie ad ampie vetrature, consente l’ingresso della luce naturale negli spazi interni. Il prisma è perimetrato da un muro tondo di cemento che racchiu-
de anche i volumi che ospitano la Sala della Giunta e gli spazi per Consiglieri, l’auditorio e la biblioteca. Le zone all’aperto sono protette da un pergolato. Infine, dal muro circolare parte una quinta/ponte ad esso perpendicolare che attraversa la grande arteria stradale erigendosi come una vera porta urbana e offrendo la possibilità di accedere all’edificio pubblico da un livello intermedio.
his Community Centre is locatT ed in Barrio Poeta Lugone along the road to the airport at the north
entrance to the city. It is constructed out of a rectangular prism built along the sides of a central road that acts as a lobby and is spread over a ground floor and three upper floors. The ground floor holds the various community service offices and an exhibition room;
the first floor holds a bar and the auditorium entrance; the second floor contains a library and offices; finally, there are more offices on the third floor. The prism roof is designed like the sheds on the nearby industrial estate and, thanks to wide glass windows, allows natural light to flow into the interiors. The prism is surrounded by a round concrete wall enclosing the
structures holding the Council Chamber and facilities for the Councillors, the auditorium, and library. The outdoor areas are sheltered behind a pergola. Lastly, there is a curtain/bridge perpendicular to the circular wall that runs across the main road and acts as a gateway to the city, also providing access to the public building on an intermediate level.
1. Biblioteca/Library 2. Uffici e aule/Offices and rooms 3. Spazi comuni/Common rooms
1. Anfiteatro/Amphitheatre 2. Foyer 3. Bar 4. Uffici/Offices 5. Esposizioni/Exhibits 6. Delegato/Delegate 7. Sala matrimoni/ Wedding chamber
Vista aerea del centro di Partecipazione Comunale Monseñor Pablo Cabrera. Sopra, dal basso in alto, piante del piano terra, del primo piano e del secondo piano.
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Aerial view of the Partecipazione Comunale Monseñor Pablo Cabrera Centre. Above, from bottom up, plans of the ground floor, first floor, and second floor.
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1. Uffici Amministrativi/ Administration offices 2. Esposizioni/Exhibits 3. Camerini e sala prove/ Dressing rooms and rehearsal rooms 4. Alcalde 5. Giunta/Council 6. Piazza degli Artigiani 7. Piazza/Square 8. Ponte pedonale/ Pedestrian bridge
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Particolari dei muri esterni in cemento grezzo e delle aree esterne protette dal pergolato. Nella pagina a fianco, vista dal basso della passerella che soprapassa la grande strada per l’aeroporto e costituisce una vera porta urbana.
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Details of the rough concrete outside walls and outside areas sheltered behind a pergola. Opposite page, view from below of the walkway over the main road to the airport, acting as a real gate to the city.
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Particolari dell’atrio di ingresso e della scala centrale che collega i quattro piani del complesso.
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Details of the entrance lobby and central stairway connecting the four floors of the complex.
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Credits Projects: Miguel Angel Roca Client: Ciudad de Cordoba
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Purezza e geometria Kashima City Hall
dei suoi ultimi progetti, la City Hall di Kaschima-machi, una cittadina situata nell’isola di Kyushu che fronteggia il mare della Cina dell’Est. Kashima è fra la città di Sesabo e Nagasaki, a circa quindici minuti di macchina a sud di Kumamoto. Sono questi i paesaggi della più profonda tradizione giapponese, sono luoghi che descrivono la storia del Giappone e la sua partecipazione alla contemporaneità. Kurokawa si inserisce in questo paesaggio con le sue esperienze progettuali e la sua cultura, riuscendo a portare, con questo progetto, quei contenuti di “saggezza” progettuale tipici di chi ben sa che l’architettura è il racconto più vivo del passaggio dalle origini degli eventi storici e culturali ai risultati formali dell’architettura. La City Hall di Kashima è situata in un’area di coltivazione del riso, su un terreno disposto tra due fiumi, il Midori e il Kase, adiacenti allo storico laghetto Uki-Jima. Il richiamo all’acqua non è casuale in quanto l’intero progetto contiene una forte memoria di questo elemento. Elemento naturale che ha condizionato le radici stesse del Giappone, radici alle quali Kurokawa fa riferimento spingendosi alla loro ricerca fino a trovare nel segno dell’acqua un elemento capace di segnare un tracciato “liquido” che appare regolato, in modo forte, da una matematica frattale. La pianta della City Hall, che si articola su segni quali il cerchio, il quadrato, la diagonale e, in modo spirituale, il Sepolcro di Idera, ha come fondo una significativa ispirazione alla filosofia matematica. Il numero appare come un “esperanto” destinato a colloquiare con le forme e con le idee del “mondo”. Fa apparire un sentimento di rigore e di disciplina che unisce il modo di sentire dell’uomo contemporaneo. Questo “ordine” richiama alla memoria l’origine professionale di Kurokawa, quando progettava, insieme a Kenzo Tange, Kawai Kamiya, Arata Isozaki, Youji Watanabe e Hisada Koh, l’ordine nuovo dei tracciati lineari destinati a rompere l’antico sistema centripeto di Tokyo. Ritornano, così, le origini del Kurokawa del “Metabolismo” per distinguere le grandi strutture pubbliche, sviluppate in tre dimensioni, quindi leggibili come immagini architettoniche in grande scala, a partire dai semplici involucri destinati al lavoro e alla casa. Non a caso nasce in quella forma così definita, nello sviluppo dei progetti di Kurokawa, il grattacielo di Nagakin dove la singolarità della forma è destinata a celebrare la cellula abitativa che è alla base dell’aggregato urbano. Il suo
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segreto progettuale, che si intuisce anche in questo progetto della City Hall di Kashima, rimane nella purezza geometrica del modo con cui aggrega gli elementi; è lo sforzo che continua a ripetere, a partire dal suo iniziale progetto/ricerca del Museo di Belle Arti della Prefettura di Saitama, il segreto che rimane racchiuso nella sua aderenza al numero; di quel numero che è frutto della matematica che investe la logica e le norme del progettare e che trova, nell’equilibrio colto di Kurokawa, una risposta progettuale. Questi progetti, compresa la City Hall di Kashima, diventano segni forti sul territorio, sono “competenti” forme che raccontano l’evolversi della tecnologia e della tecnica costruttiva, forme che ci portano a meditare sul modo di “fare architettura”. Ogni segno di questi progetti sembra di facile intuito, ma non è assolutamente così. Le origini, il correre della sua professione, unitamente allo sforzo dinamico e intellettuale di Kurokawa, il suo amore per la modellazione della pietra e per il progetto in generale, lo spingono a confermare ogni volta i suoi risultati. Insomma, sembra che per il suo futuro questo progettista ci voglia suggerire il quadro di una cultura esteriormente funzionale, frantumata, sganciata dalle esitazioni, dai dubbi, dalle perplessità, dalle problematiche che proprio la storia dell’architettura ha contribuito a suscitare e a suggerire. Ma non è detto che, per una oggettiva identificazione del lavoro di Kurokawa nel mondo dell’edificazione, quell’orizzonte problematico sia meno apprezzabile della microesperienza del progetto nel suo modo di essere composto. Del resto, di fronte ai “pateracchi” dell’odierna difformità di stili potrebbe davvero tornare di attualità l’ordine della disciplina di un percorso capace di segnare con rigore le origini per poter essere poi confermato in un risultato davvero efficiente. In una riflessione più ampia occorrerebbe anche che la componente politica, quella decisionale per intenderci, non fosse assente in questo processo di evoluzione. Non esiste più nulla, nel fare, che non sia il risultato di una sinergia di intenti e di differenti competenze. L’architettura è somma, è identità, è morale, è il frutto di un lavoro fatto “insieme”, per poterne usufruire insieme. Non va dimenticato che, nel cambiamento in atto della contemporaneità, Kurokawa ha vissuto da vicino gli ultimi quarant’anni del Giappone teatro di un lento, profondo mutamento, un vero e proprio dramma che ha prodotto una rivoluzione nel metro di giudizio sui valori dell’arte e della cultura, cultura che va dal periodo Muromachi al periodo Edo. Mario Antonio Arnaboldi
nce again Kisho Kurokawa has O s h ow h e i s o n e of t h e “w i s e men” of architecture. This is what
emerges from one of his most recent projects, the City Hall in Kaschimam a c h i , a t ow n o n t h e i s l a n d of Kyushu in the East China Sea. Kashima lies between the cities of Sesabo and Nagasachi, above fift ee n m i nu t e s ’ d r i ve s o u t h of Kumamoto. These landscapes are deeply entrenched in Japanese tradition, places that narrate the history of Japan and its role in modern society. K i s h o K u r o k a w a u s e s h i s ow n culture and design expertise to fit into the setting. T h i s p r o j ec t s h ow s t h e k i n d of stylistic “wisdom” of someone who is only too aware that architecture h a s a l w a y s p r ov i d e d t h e li ve li e s t account of the landscape from the very first cultural-historical events to the great stylistic achievements of architecture. Kashima City Hall is situated in a r i ce f a r m i n g a r e a , o n a p l o t of land between two rivers, the Midori and Kase, alongside Lake Uki-Jima. W a t e r i s a c t u a ll y a r ec u rr i n g theme in this entire project. It is a natural element at the very roots of J a p a n e s e c u lt u r e, r oo t s t h a t Kurokawa evokes through experimentation allowing water to mark a “liquid” path apparently described by fractal mathematics. T h e C it y H a ll ’ s p l a n , d e s i g n e d a r o un d geo m e t r i c fo r m s li k e t h e circle, square, diagonal and, on a spiritual level, the Idera Old Tomb, is actually inspired by mathematical philosophy. Numbers are a sort of “Esperanto” designed for interacting with forms and ideas of the “world”. They bring out a sense of precision and discipline embodied in contemporary man’s way of being. T h i s “o r d e r ” r e m i n d s u s of K u r o k a w a ’ s p r ofe ss i o n a l b a c k ground, of the days when he worked with Kenzo Tange, Kawai Kamiya, A r a t a I s oz a k i , Yo u ji W a t a n a be, and Hisada Koh, on creating a new order of linear paths to break up Tokyo’s old centripetal layout. Kurokawa’s “Metabolism” returns to construct big three-dimensional facilities that can be interpreted as l a r ge- s c a l e a r c h it ec t u r a l i m a ge s based on simple forms for life at work and home. It is hardly surprising that the kind of well-defined form found in Kurokawa’s projects lies behind the Nagakin skyscraper, whose unusual form is designed to bring out the cell-type living units characterising the urban environment. The secret behind his design philosophy, that can also be seen in the project for Kashima City Hall,
lies in the geometric purity of the way he brings the different elements together; he has been working along these lines ever since his first project/experiment for the Fine Arts M u s e u m i n t h e P r efec t u r e of Saitama and the secret lies in his faith in numbers; the kind of numbers generated by the mathematics at the base of architectural design, cleverly exploited in the careful balance Kurokawa achieves. These projects, including Kashima C it y H a ll , t u r n i n t o l a n d m a r k s , “competent” forms telling us about progress in technology and building technique, forms that forces us to reflect on the how “architecture is made”. Every single aspect of these projects seems quite simple, but this is deceptive. The earliest part of his career and the progress he made, h i s dy n a m i s m a n d i n t e ll ec t u a l force, his love of shaping stone and designing in general, explain why Kurokawa’s work has been a continuing success. In other words, Kurokawa intends to work along strictly fragmented, f un c ti o n a l li n e s , f r ee f r o m t h e doubts, perplexities and problems that the history of architecture has h e l p e d c r e a t e a n d evo k e. B u t , of course, this does not mean that such problems are less effectively treate d i n K u r o k a w a ’ s wo r k t h a n i n micro-design and the way it is put together. In light of the general “conformity” of the prevalent deformity of styles, the disciplined order of an approach that can draw on the origins of architecture to construct interesting results. P o liti c s , o r i n o t h e r wo r d s t h e d ec i s i o n - m a k i n g p r oce ss , wo u l d also have to be included in any full treatment of this matter. Nowadays, nothing can be achieved without a s y n e r g y of d i ffe r e n t s k ill s a n d intents. Architecture is a sum total, it is identity and morality, the result of “working together” to create something to be used together. I t i s wo r t h r e m e m be r i n g t h a t Kisho Kurokawa has had first-hand e xp e r i e n ce of t h e s l ow a n d d ee p changes Japan has undergone over the last forty years, a dramatic state of affairs that has brought about a revolution in how to judge the valu e s of a r t a n d c u lt u r e f r o m t h e Muromchi to the Edo period.
Tomio Ohashi
isho Kurokawa si è confermato K ancora una volta un “sapiente” dell’architettura. Lo testimonia uno
Progetto: Kisho Kurokawa
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Nella pagina di apertura e sotto, viste del nuovo Palazzo Comunale di Kashima-Machi, vicino a Kumamoto, in Giappone. L’edificio è collocato al centro di uno specchio d’acqua artificiale che richiama il noto laghetto Uki-Jima che si trova nelle vicinanze di questa
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cittadina al centro di vaste risaie. A sinistra, sezione. Sotto, dal basso in alto, planimetria generale, piante del primo e secondo piano, del terzo piano e delle coperture. ■ Opening pages and below, views of the new Kashima-Machi City Hall
near Kumamoto in Japan. The building is located in the middle of a pond recalling the Uki-Jima lake that is not far from this town in the middle of rice lands. Left, section. Below, from bottom up, site plan, plans of the first and second floor, third floor and roofs.
A sinistra, sezione. Sotto vista generale dell’edificio i cui muri perimetrali, rosso ocra, sono inclinati e sembrano fluttuare sul sottostante specchio d’acqua.
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Left, section. Below, general view of the building whose sloping ochre-red perimeter walls seem to flutter in the pool of water below.
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Particolari dell’esterno. Il fondo dello specchio d’acqua è decorato con disegni geometrici realizzati in pietra locale che rappresentano i disegni delle incisioni nella vicina Idera Old Tomb; sotto, il ponte di ingresso, il disegno riproduce la mappa della città.
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Details of the outside. The bottom of the pool of water is decorated with geometric designs made of local stone representing the drawings engraved in the nearby Idera Old Tomb; below, the entrance bridge, the drawing shows a map of the city.
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Particolare del muro perimetrale aggettante verso l’esterno.
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Detail of the perimeter wall jutting outwards.
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Credits Project: Kisho Kurokawa General Contractor: Takenaka Corporation Client: Kashima-Machi City
In alto, vista dell’edificio dalle risaie circostanti. Sopra e a destra, viste degli interni. L’edificio si sviluppa su tre piani con gli uffici disposti attorno a una corte centrale quadrata che si inserisce asimmetricamente nella pianta circolare. Tutti gli ambienti, ampiamente vetrati verso il cortile centrale, ricevono da questo la luce naturale.
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Top of page, view of the building from the nearby rice fields. Above and right, views of the interiors. The building is constructed over three levels with offices arranged around a square central courtyard which slots asymmetrically into the circular plan. All the environments receive natural light through the glass windows facing the central courtyard.
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