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Cesare Maria Casati

S’ha da fare!

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ncora una volta nel nostro Paese sta avvenendo un fatto inspiegabile contro l’architettura contemporanea. Inspiegabile perché mosso solo da una cultura prevenuta e da idealismi falsi e pretestuosi, ancorati a ipotetiche difese dell’ambiente e del paesaggio. Parlo del progetto di Oscar Niemeyer per Ravello. Ecco la storia o almeno quanto appare dalle cronache. Un sociologo di indiscussa fama come Domenico De Masi ottiene in regalo dall’amico Oscar Niemeyer un progetto per un auditorium da costruire a Ravello. Il Comune ottiene i finanziamenti e la costruzione sta per iniziare. Occorre premettere che, come tutti sanno, Oscar Niemeyer è uno dei maggiori architetti ancora viventi, che il progetto inviato è un piccolo capolavoro, che la critica tutta ha espresso pareri elogiativi e che Ravello, famosa per i suoi concerti estivi all’aperto, è luogo di rara bellezza. Peraltro, Ravello, come tutti gli altri luoghi delle coste italiane, negli anni del dopoguerra, ha subito costruzioni plurime anonime e certamente anche abusive. Come da manzoniana memoria, al momento di iniziare i lavori sono comparsi i soliti “bravi”, Italia Nostra e Lega Ambiente, a gridare “questa costruzione non s’ha da fare”! Basta costruire! Si deve procedere solo per sottrazioni, l’edificio nuovo deturperebbe la costa e la vista della bella Ravello. Parte un ricorso al TAR (Tribunale Regionale Amministrativo) e in attesa di sentenza tutto viene sospeso. Ora mi chiedo: a quale titolo si oppone un’associazione come Italia Nostra che si definisce nel suo statuto: “…nata nel 1955 dalla volontà di un piccolo gruppo di persone…contro un nuovo sventramento del centro storico di Roma.” E poi “…Il nostro compito non si esaurisce nel salvare dall’abbandono e dal degrado monumenti antichi, bellezze naturali o opere dell’ingegno…”. E ancora a quale titolo si oppone un’associazione come Lega Ambiente che nel suo statuto si definisce: “…associazione di cittadini a diffusione nazionale che opera per la tutela e la valorizzazione della natura e dell’ambiente delle risorse naturali, della salute…delle speci animali e vegetali, del patrimonio artistico e culturale, del territoriale e del paesaggio” e qui viene il bello: “a favore di stili di vita, di produzione e di consumo…”. Si direbbe che nessuna di queste stimabili associazioni, senza fini di lucro, abbia esperienza, ideali e cultura specifica per giudicare un progetto di architettura e tanto meno il valore estetico e culturale che la sua realizzazione potrebbe rappresentare per Ravello e per l’Italia tutta. Proprio grazie a questi atteggiamenti veteroconservatori Venezia ha dovuto nel passato rinunciare a un palazzo di Wright sul Canal Grande e a un ospedale di Le Corbusier. E’ un po’ come far intervenire gli architetti a dare pareri se salvare o no la foca monaca. Cosa aggiungere se non l’invito a leggere l’intervista che abbiamo fatto a Niemeyer prima del fattaccio e chiedere a tutti gli architetti italiani, e non, di intervenire e di far intervenire soprattutto i loro istituti, autorizzati per legge a parlare di architettura come il Consiglio Nazionale degli Architetti e tutti gli ordini professionali italiani. Evidentemente le prese di posizione di De Seta, di Prestinenza Puglisi e di tutti noi non sono bastate. Diciamo solo che questa volta “s’ha da fare!”

It is going to happen!

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nce again something inexplicable is happening against architecture in Italy. Inexplicable because it is motivated by prejudice and false ideals based on alleged respect for the environment and landscape. I am talking about Oscar Niemeyer’s project for Ravello. Here is the story, at least as we have read about it in the news. A famous sociologist like Domenico De Masi is given a project for a new auditorium to be built in Ravello as a gift from his friend Oscar Niemeyer. The council comes up with the financial backing required and work is all set to begin. It ought to be pointed out, as we all know, that Oscar Niemeyer is one of the world’s greatest living masters of architecture, that the project in question is a little master piece and has received nothing but praise from all the critics, and that Ravello, famous for its outdoor concerts in the summer, is a place of rare beauty, which, like all places along the Italian coasts, has certainly been abused by lots of bland buildings since the last world war. But just like in Manzoni’s famous novel, the usual “good guys” suddenly appeared just as work was about to begin (Italia Nostra and Lega Ambiente) to cry out “this building must not happen.” No more building, it is time to start removing things, the new building would spoil the coastline and the wonderful view of beautiful Ravello. An appeal is made to the TAR (Regional Administrative Council), and everything suddenly grinds to halt while waiting for sentence to be passed. Now I wonder why an association like Italia Nostra should oppose being its by-laws state that: “…founded in 1955 thanks to the determined efforts of a small group of people …against the disembowelment of Rome city centre.” Going on to say “Our job is not just to save ancient monuments, natural beauty or works of genius from being left to rot and ruin…”. And why should oppose an association like Lega Ambiente, whose bylaws describe it as “…an association of people from all over the country working to safeguard and promote nature and the natural resources of the environment, heath… animal and vegetable species, the artistic-cultural heritage, the land and landscape” and then here is the good bit: “in favour of life styles, production and consumption…”. It would seem that neither of these respectable non-profit organisations has the specific experience, ideals and culture required to judge an architectural design, never mind the aesthetic-cultural value its construction might bring to Ravello and the whole of Italy. Thanks to ultraconservative attitudes like these, Venice has already missed out on a building along Canal Grande designed by Wright and a hospital by Le Corbusier. It is a bit like asking architects to decide whether or not to save the monkseal. What else can we say, except inviting to read our interview with Niemeyer that dates back to before these sorry events, and to ask all Italian and non-Italian architects to take action and get their institutes involved. Institutes which are authorised by law to talk about architecture, such as the National Council of Architects and all the other professional associations in Italy. Evidently, the stand taken by De Seta, Prestinenza Puglisi and all the rest of us has not been enough. Let’s just say that this time “it is going to happen!” 190 l’ARCA 1


Nella pagina a fianco, schizzi preliminari per l’Auditorium di Ravello e, a sinistra, viste del modello.

Archivio Niemeyer

Opposite page, preliminary sketches for Ravello Auditorium and, left, views of the model.

di/by Nicoletta Trasi

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Oscar Niemeyer

l civico 3940 di Avenida Atlantica, a Copacabana, nel palazzo Ypiranga, in un edificio Art Déco all’ultimo piano, Oscar Niemeyer mi riceve nel suo studio da artista. La prima forte sensazione è la vista straordinaria della baia di Rio de Janeiro che sembra penetrare con forza dalle ampie vetrate ricurve; la seconda è il vedere i muri bianchi disegnati da lui con schizzi di celeberrimi progetti e scritte come “la cosa più importante non è l’architettura ma la vita, gli amici, e questo mondo ingiusto che dovremo cambiare”. Da questo spazio fatto di luce e di muri bianchi, andiamo nel suo studiolo privato dove c’è invece poca luce, molti colori, molti libri, uno scrittoio e un tavolo da disegno. Qui Niemeyer concepisce da solo i suoi progetti come è da sempre abituato a fare, perché – sostiene – l’architettura è un fatto molto personale. Disegna in parallelo l’idea e i concetti che originano quelle linee e solo dopo aver completato questo processo di schizzi e parole che definisce explicação necessária, passa il tutto ai suoi più stretti collaboratori per lo sviluppo successivo. Così sono nati dal suo pennarello nero i progetti tra i più importanti del nostro tempo che dagli anni Trenta fino a oggi, hanno arricchito il patrimonio architettonico mondiale, dal Brasile alla Francia, passando per l’Italia, l’Algeria o New York, per citarne solo alcuni, tracciando un percorso nuovo che ha avuto la libertà come punto di partenza e la bellezza come obiettivo essenziale. Noto per le sue idee politiche e da sempre militante, Niemeyer sa rifiutare un incarico piuttosto che contravvenire ai suoi ideali: recentemente ha rifiutato di partecipare al progetto per la ricostruzione del World Trade Centre. Ha invece accettato di lavorare a due progetti al di fuori del Brasile, a Londra per il Padiglione smontabile per la Serpentine Gallery di Hyde Park e in Italia per l’Auditorium di Ravello. Quest’ultimo, attorno a cui si dibatte molto in questi giorni, è stato un dono generoso che Niemeyer ha fatto al comune di Ravello, lavorando gratis, fedele ai principi umani che ha generosamente coltivato per tutta la sua esistenza: “un sentimento di solidarietà – ha scritto – mi ha accompagnato tutta la vita. Io avrei vergogna se fossi un uomo ricco”. Il progetto di Ravello nasce da due intenzioni: creare un complesso non eccessivamente costoso semplice e ardito capace di

lasciare nel paesaggio ravellese un segno inconfondibile ma non dissonante. All’Auditorium si accederà da una piazza che permetterà di godere sia il panorama che il sorprendente edificio; l’entrata protetta da una copertura dalla forma spettacolare porta alla sala dove il parterre per il pubblico, di 500 posti ampliabili a 700, sfrutta il declivio naturale del terreno. Il posto per l’orchestra e il foyer sporgono arditamente nel vuoto senza sostegni; l’orchestra avrà il mare da sfondo affinché “la gente mentre ascolta la musica, possa vedere il mare”. Una struttura semplice, di forma concava, con grandi vetrate e cemento armato intonacato di bianco, in cui eleganza plastica e chiarezza lineare, alleate con potenza e leggerezza, creano un lessico formale che fa aderire quell’edificio a quel luogo come se Niemeyer fosse vissuto lì. In realtà non ci è mai stato e ciò dimostra, come egli stesso sostiene, che “nell’architettura l’intuizione svolge un ruolo importante come la conoscenza”. Non posso infine non ricordare senza emozione che dopo circa mezz’ora di dialogo, in compagnia di un sigaro e di due caffè, Niemeyer schizza con un pennarello nero su un foglio bianco del suo scrittoio tre suoi celebri progetti, autografa questo schizzo e offrendomelo dice: “Li ho fatti perché mi piace creare, realizzare qualcosa di bello, ma ho sempre considerato la mia opera di architetto secondaria rispetto a qualcosa di molto più importante: la fine delle ingiustizie. Alla mia età ne sono sempre più convinto”. Capace di coniugare le doti di grande uomo con quelle di grande architetto, Niemeyer, 96 anni compiuti, è ancora pieno di ispirazione e le sue opere semplicemente straordinarie. Si perderebbe una grande occasione in Italia se il progetto di Ravello restasse sulla carta!

L’autrice ringrazia Oscar Niemeyer per la preziosa collaborazione; altri ringraziamenti vanno a Luiz Otavio Barreto Leite e Jair Valera dello studio Niemeyer per la collaborazione e per le immagini. The writer of this article would like to thank Oscar Niemeyer for his precious help; further thanks go to Luiz Otavio Barreto Leite and Jair Valera from the Niemeyer firm for their help and the pictures they provided.

Today

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scar Niemeyer welcomed me into his artist’s studio at no. 3940, Avenida Atlantica in Copacabana, in an Art Déco building called Ypiranga. The most striking thing of all is the incredible view of Rio de Janeiro Bay that almost seems to burst in through the wide glass windows; the next thing to hit me are the white walls, designed by him, decorated with sketches of famous projects and articles such as “the most important thing is not architecture but life, friends and this unfair world in which we live.” We move out of this space composed of light and white walls into his private study where there is very little light, lots of colours, plenty of books, a writing desk and a drawing board. This is where Niemeyer designs his projects on his own, as he always has done, because – so he claims – architecture is a very personal matter. He simultaneously thinks up the idea and concepts underpinning the basic lines and only after completing this process of sketches and words he calls explicação necessária does he pass it all on to his closest assistants to be developed further. This is how his black felt-tip pen has designed some of the most important projects of our age from the 1930s to the present day, enriching the world architectural scene from Brazil to France via Italy, Algeria and New York, to mention just a few, and tracing a new path working from freedom as a starting point to beauty as the crucial goal. Renowned for his militant political ideas, Niemeyer would rather refuse a commission than compromise his ideals: he recently refused to take part in the competition to rebuild the World Trade Center. On the other hand, he did agree to work on two projects outside Brazil, one in London to design a pavilion that can be dismantled for the Serpentine Gallery in Hyde Park, and the other Italy to design Ravello Auditorium. This latter design, which has recently been at the focus of debate, was a generous gift from Niemeyer to the city of Ravello, working free of charge in keeping with the human principles he has so generously cultivated all his life: as he once wrote “I have always had this feeling of solidarity. I would be ashamed if I were a rich man.” The Ravello project derives from two basic intentions: to create a complex that is not too expensive or daring, capable of leaving its own unmistakable, harmonious trace on the landscape. A plaza will

lead through to the Auditorium affording a panoramic view of both the building and landscape; the entrance sheltered beneath a spectacularly designed roof leads to the 500 stalls seats for the audience (that can be extended to 700) drawing on the natural slope in the land. The orchestra pits and foyer project boldly into space with no supports: the orchestra will have the sea for a backdrop so that “people can see the sea while they listen to the music.” A simple, concaveshaped structure with large glass windows and whitewashed reinforced concrete, in which sculptural elegance and linear clarity combine with power and lightness to create a stylistic vocabulary knitting the building into its location as if Niemeyer had lived in the place. In actual fact he has never been there, which proves (as he claims) that “in architecture intuition plays as important a role as knowledge.” Finally, I cannot help mentioning with a certain emotion in my hear that after a half-hour chat smoking a cigar and drinking two cups of coffee, Niemeyer used his black felt pen to sketch three of his most famous projects on a white sheet of paper on his desk, signed the sketch and as he handed it to me said: “I made them because I like being creative, making beautiful things, but I have always felt my work as an architect to be of secondary importance compared to something much more significant: the end of injustice. At my age I am more convinced of that than ever.” A great man as well as a great architect, Niemeyer, who is now 96 years old, is still full of inspiration and his designs are quite simply magnificent. Italy will really miss out on a great opportunity if his project for Ravello is left at the drawing board! A sinistra, Oscar Niemeyer nel suo studio di Copacabana. Left, Oscar Niemeyer in his office in Copacabana.

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Archivio Niemeyer

Sopra, piante e sezioni longitudinale e trasversale dell’Auditorium di Ravello. A destra e nella pagina a fianco in basso, viste delle favelas di Rio de Janeiro. Above, plans and longitudinal and cross sections of Ravello Auditorium. Right and opposite page bottom, views of the favelas in Rio de Janeiro.

O.N.: In pochi progetti il paesaggio è stato così importante per me. N.T.: Lei ha sempre creduto nel potere dell’immaginazione; quale è nei vostri progetti di oggi e quale è stato nei vostri progetti precedenti, il rapporto tra l’immaginazione e le tecniche che sono di volta in volta a nostra disposizione? O.N.: Nell’Università di Costantinopoli, in Algeria, erano previsti ventisei edifici, e noi ne abbiamo realizzati solamente sei. Credo che questa Università sia un esempio di creatività, tecnica e innovazione educativa incontestabile. N.T.: Poco prima di venire nel vostro atelier ho visitato una delle più grandi favelas di Rio de Janeiro: chiedo il vostro parere su questi agglomerati di povertà e di violenza e soprattutto se credete che l’architettura possa aiutare ad alleggerire, a migliorare queste condizioni tristi ed ingiuste. Avete qualche idea o proposta? O.N.: L’unica cosa importante per cambiare questo mondo è la rivoluzione.

A conversation between Nicoletta Trasi and Oscar Niemeyer N.T.: Looking at the beautiful photograph on the wall opposite your desk showing the sinuous lines of three female nudes, you said that: “I am attracted by freely sensual curving lines, like the curves you find in the mountains in my country, in its winding rivers, ocean waves and the body of a woman. The universe is made of curves.” Your architecture seems to send out a message of freedom that moves beyond architecture itself. Could you expound upon this idea, giving some recent examples? O.N.: The question of curves in architecture is a complicated matter. When there is a big span and an interesting design to be created, there is a natural and desirable inclination towards curves; as in the case of the roof over the main hall in Paranà Museum for instance. On other occasions, an architectural surprise might suggest a curve, as in the case of the recently constructed Hyde Park Pavilion in London. In cases like the Alvorada Building or the headquarters of Mondadori I actually designed all the different columns to void the kind of repetition associated with Greek columns. N.T.: Invention and surprise are really to the fore in your design for Ravello Auditorium: how would you account for that? O.N.: As is inevitably the case, the lie of the land, its slope and existing views account for how the design takes shape. The rest…..is down to the architect’s imagination. N.T.: What are the innovative technological aspects of this project? O.N.: First and foremost, finding the right design for the auditorium, drawing on the setting and cutting-edge technology. And then providing visitors with the chance to get a full view of the building as they approach it, interacting naturally with the design. This can be done by placing the entrance some distance from the building. In my opinion, every aspect of technological innovation was vital.

N.T.: Can you describe how landscape/design interact in Ravello Auditorium? O.N.: Only in very few projects has landscape been so important for me. N.T.: You have always believed in the power of imagination; how do imagination and available technology relate in the projects you are currently designing and those you designed in the past? O.N.: Twenty-six buildings were planned to be constructed for Constantinople University in Algeria, and we only built six of them. I think this university is an example of creativity, technology and indisputable innovation in education. N.T.: Just before coming to your workshop I visited one of the biggest favelas in Rio de Janeiro: I would like to know what you think about these melting-pots of poverty and violence and, most significantly, whether you think architecture can help improve these sad and unfair living conditions. Have you got any suggestions or ideas? O.N.: Revolution is the only way to change this state of affairs.

In alto a sinistra, il Nuovo Museo di Curitiba, realizzato da Niemeyer nel 2002; a destra, vista e schizzi preliminari per la realizzazione del Serpentine Gallery Pavilion, realizzato a Londra nel 2003. Top left, the new Curitiba Museum, realized by Niemeyer in 2002; right, view and preliminary sketches of Serpentine Gallery Pavilion in London, realized in 2003.

Nicoletta Trasi

Nicoletta Trasi

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Una conversazione di Nicoletta Trasi con Oscar Niemeyer N.T.: Osservando la bellissima fotografia posta sul muro di fronte alla vostra scrivania che raffigura le linee sinuose di tre nudi femminili, voi avete detto: “Sono attratto dalla linea curva libera e sensuale, la curva che si incontra nelle montagne del mio Paese, nei corsi sinuosi dei suoi fiumi, nelle onde del mare, nel corpo della donna. Di curve è fatto l’universo”. Le vostre architetture sembrano voler esprimere un messaggio di libertà che va oltre l’architettura stessa. Potete approfondire questo concetto portando esempi recenti? O.N.: Il problema della curva in architettura è più complesso. Quando bisogna coprire grandi luci e l’ambiente da creare è favorevole, l’attrazione per la curva sorge come una cosa naturale e desiderabile; la copertura della grande sala del museo di Paranà serva da esempio. Altre volte è la sorpresa architettonica che suggerisce la curva, come nel caso del padiglione di Hyde Park a Londra, recentemente costruito. Altre volte ancora, per evitare la ripetizione, che le colonne greche favorivano, ho disegnato l’insieme delle colonne del palazzo dell’Alvorada e della sede della Mondadori. N.T.: Nel progetto per l’Auditorium di Ravello l’aspetto dell’invenzione, della sorpresa è particolarmente sviluppato: potete spiegare in che senso? O.N.: Come capita sempre, la forma del terreno, la sua pendenza e il panorama esistenti, giustificano la soluzione adottata. Il resto… è l’immaginazione dell’architetto. N.T.: Quali sono gli aspetti tecnologici innovativi di questo progetto? O.N.: Innanzi tutto trovare una soluzione per l’auditorium, traendo vantaggio dal panorama e dalla tecnica attuale. Poi offrire ai visitatori la possibilità di avere, quando si arriva, una vista completa dell’edificio e di penetrarci in modo naturale. L’entrata posta a distanza dall’edificio, permetterà questo. Secondo me, tutti gli aspetti di innovazione tecnologica sono stati molto importanti. N.T.: Potete descrivere il rapporto paesaggio/progetto nell’Auditorium di Ravello?

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Jean-Paul Viguier

Jean-Paul Viguier

Fra numero e linguistica Media Library in Reims

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Credits Project: Jean-Paul Viguier SA d’Architecture Project Team: Patrick Senné (Project Manager); Marcel David, Frédéric Morel (Architects); Christel Catteau (Infographics); Jean-Claude Gourec (Model); Vincente Allior (Perspectives) Execution: Jacobs Serete Facades: Arcora Acoustics: Capri Quantity Surveyor: Socotec Piling: Ascistes Client: Mairie de Reims

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eims, città di origine celtica della Champagne, è famosa per la sua Cattedrale gotica che presenta, lungo il colmo, le 42 statue dei re francesi ivi incoronati. La tradizione, la cultura del luogo e la stessa Cattedrale hanno ispirato la costruzione di una Mediateca che sorge di fronte alla Cattedrale. Il progetto, affidato a Jean Paul Viguier, è obbediente al recupero della facciata dell’Hotel de Police e alla presenza dominante di una delle Cattedrali più belle del mondo. Tema molto difficile, specie nel confronto con epoche diverse e con tradizioni edificatorie molto disparate. Non occorre sottolineare che l’intervento appare molto coerente e aderente ai suoi presupposti progettuali nel ripetere ancora una volta l’annoso confronto con la tradizione, con la storia e, soprattutto, con l’uso della linguistica. Ma quale linguistica? Quella espressa da una contemporaneità tecnologica? Quella romantica che si rivolge timidamente a un passato classico? Quella incerta di una non cura culturale che impone solo una forma sconosciuta e personale di un autore? In questo caso non appare nessuna di queste; vi è solo il desiderio di scandire uno spazio urbano con un intervento che segna la continuità e che coinvolge, attraverso la sua trasparenza, il dominante monumento storico. Rimane da fare, però, una dissertazione sulla linguistica in generale che questo progetto richiama. Subito viene da dire che se il progetto contemporaneo imparasse a esprimersi meglio, la nostra architettura apparirebbe più ricca. La crescita della cultura di un Paese, espressa dalle forme dell’architettura, è sempre stata legata alla linguistica. E’ vero perché, secondo una recente indagine comparativa internazionale, quasi il 40% della popolazione dei così detti architetti è nell’impossibilità o in penose difficoltà dinanzi al compito di analizzare o di comporre una breve o semplice frase progettuale e, soprattutto, di eseguire altrettanto semplici analisi statiche strutturali. Dagli anni Cinquanta in poi, lo sviluppo economico italiano si è strettamente intrecciato alla crescita dei livelli di istruzione e, in particolare per quanto ci interessa, dell’uso di una linguistica architettonica di uno scialbo razionalismo. Al largo uso della linguistica razionalista non corrispondono quelle più ricche conoscenze che gli architetti di altre nazioni sono stati in grado di sviluppare, in quanto vengono da una sicura ed estesa capacità di innovazione linguistica, come per esempio è avvenuto in Spagna o in Giappone. I calcoli, la referenza del progetto con la matematica, invece di essere un ingrediente indispensabile al progetto, sono spesso considerati una tribù che affolla l’architettura. Questa estraneità e, diciamolo pure, antipatia verso i numeri da parte dei progettisti, è un fenomeno abbastanza recente e, anche, una notevole dimostrazione d’ingratitudine, giacché non è azzardato sostenere che fu proprio il numero, legato al suo equilibrio, a tenerla a battesimo. Non è numero la scanditura linguistica del progetto? Non sta forse dietro a un rigido scheletro geometrico il segmento progettuale che è in grado di ospitare il clamore dello spazio architettonico, di qualsiasi spazio aureo nelle sue proporzioni, come fosse una sequenza scandita dal numero dei fotogrammi di un episodio filmato. Jean-Paul Viguier sembra abbia assorbito questo lungo coinvolgimento, sciogliendo la soluzione della Mediateca in una piacevole assonanza fra numero ritmico e linguistica. Mario Antonio Arnaboldi

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eims, the home of Champagne originally founded by the Celts, is famous for its Gothic cathedral with 42 statues of French kings crowned inside perching along its ridge. Tradition, local culture and the Cathedral itself were the inspiration behind the construction of a Media Library standing in front of the Cathedral. The project, commissioned to Jean Paul Viguier, renovates and restores the façade of the Hotel de Police and fits in nicely with the striking presence of one of the most beautiful cathedrals in the world. This is a tricky design issue, particularly in the way it has to confront different periods in history and contrasting building traditions. There is no need to point out that the project seems to fit in and comply neatly with the premises underlying the project as it strives once again to confront tradition, history and, most significantly, linguistic style. But what kind of linguistic idiom? The kind drawing on modern-day technology? A type of Romantic idiom timidly evoking the classicism of the past? Or an uncertain lack of cultural attention merely imposing some unknown, personal design form? None of this seems to be the case here; there is just a real desire to design an urban space instilling a sense of continuity and using transparency to draw in such a key historical monument. But we still need to take a closer look at the “linguistics” generally underpinning this project. It must immediately be pointed out that if contemporary design learned to express itself more effectively, our architecture would look much more impressive. The cultural development of a nation, as expressed through architectural design, has always be linked to its linguistic idiom. This is brought out by the fact that a recent comparative survey on an international scale has shown that almost 40% of all so-called architects cannot or at least struggles to either analyse or compose a brief or simple design phrase and, most significantly, to make simple static structural analyses. It also needs to be pointed out that, ever since the 1950s, Italian economic growth has been closely interwoven with a rise in young people’s educational standards and, what is most interesting for us, the use of a lacklustre rationalist architectural idiom. Extensive use of a rationalist idiom is not matched by the greater know-how of architects from other countries deriving from a more self-assured approach to linguistic innovation, as we can see for instance in Spain or Japan. Calculations, and design’s relation to mathematics, all arguments which, instead of being a vital ingredient in any project, are often treated like a sort of tribe inhabiting architecture but indecipherable to most people working in the field. The lack of familiarity or (let’s call a spade a spade) genuine dislike for numbers expressed by most architects is a rather recent phenomenon and also a real sign of ungratefulness, since it is safe to say that numbers, linked with balance, lie at the very foundations of architectural design. Are not numbers the linguistic underpinning of design? After all, is not any design segment capable of hosting the clamour of architectural space of a golden space in terms of its proportions supported by a rigid geometric framework, as if it were a sequence determined by the number of stills in a film clip. Jean-Paul Viguier seems to have taken all this in, designing his Media Library around a pleasance assonance between numbers, rhythm and linguistics.

Viste dell’esterno e dell’interno e, in basso, piante del piano terra e del primo piano della Mediateca realizzata in Place de la Cathédrale a Reims. Nelle pagine successive vista generale della mediateca, realizzata sul terreno prima occupato dall’Hôtel de Police, di cui si è in parte conservata la facciata. Views of the exterior and interior and, bottom, plans of the ground and first floors of the Media Library built in Place de la Cathédrale in Reims. Following pages, overall view of the media library built on the old site of the Hôtel de Police, whose façade has been maintained in part.

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Viste del nuovo edificio che nonostante le linee razionaliste si inserisce armoniosamente nel contesto storico di Reims, anche grazie all’adozione di un ritmo di facciata

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regolare a base quadrata che si rifà ai canoni codificati da l’Arte della Costruzione. Inoltre, la grande trasparenza, mantenuta anche in copertura, dichiara il forte rapporto con la cattedrale gotica,

visibile da ogni punto della porzione nuova della mediateca. Views of the new building which, despite its rationalist lines, fits neatly into the historical setting of Reims, thanks also

to the rhythmic pattern of squares on the facade evoking the coded canons of the Art of Building. Its notable transparency, also characterising the roof, epitomises its close bonds with the Gothic cathedral that

can be seen from anywhere in the new section of the media library.

Vista dell’interno della mediateca che occupa una superficie di 6.500 mq in cui, oltre agli spazi di consultazione e agli uffici amministrativi, si trova anche un

auditorium da 200 posti e una sala espositiva. View of the inside of the media library covering an area of 6,500 square metres,

where, in addition to reference facilities and administration offices, there is also a 200-seat auditorium and exhibition room.

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MS&R

Filosofia non-interventista

Vista complessiva del Mill City Museum, realizzato a Minneapolis sui resti del Washbrun A Mill, il più grande mulino industriale della prima metà del Novecento, realizzato originariamente nel 1878 e distrutto da un incendio nel 1991, dopo che da 60 anni

era stato abbandonato. La nuova destinazione di questo storico edificio è quella di museo della ricca storia del mulino, del fiume Mississippi che qui forma le Saint Anthony Falls, le più grandi cascate del Midwest - e della città.

Overall view of the Mill City Museum designed in Minneapolis on the remains of Washbrun A Mill, the largest industrial mill from the first half of the 20th century, originally designed in 1878 and destroyed by a fire in 1991 after being abandoned for 60 years.

This historical building is now being used as a museum outlining the eventful history of the mill, River Mississippi – which form Saint Anthony Falls at this point, the biggest waterfalls in the Midwest – and city.

Mill City Museum, Minneapolis

Credits Project: MS&R Principals: Thomas Meyer, Jeffrey Scherer, Garth Rockastle Client: Minnesota Historical Society

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Piet Sieger/MS&R

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el 1870 la città di Minneapolis, nel Minnesota, strappò il primato di flour milling capital, che potremmo tradurre come capitale della produzione di farina, alla rivale St. Louis. Il miracolo era avvenuto grazie all’acqua del fiume Mississippi, alla coltivazione intensiva dei vasti campi a frumento, ai progressi nel trasporto ferroviario e all’uso avanzato delle nuove tecnologie meccaniche. Cioè alla costruzione di gigantesche fabbriche specializzate nella produzione su vasta scala del prodotto. Tra queste, due spiccavano. Erano la Washburn A Mill, costruita nel 1878 e la Pillsbury A Mill del 1881. Entrambe erano così imponenti che anche nelle locandine pubblicitarie le rispettive compagnie ne riproducevano con efficaci disegni le architetture maestose e tranquillizzanti. D’altronde la farina era la principale ricchezza e il principale motivo di orgoglio di Minneapolis. Tanto per fare qualche numero: la Pillsbury A produceva ogni giorno quasi 2 milioni di chili di prodotto; quotidianamente nella città si lavoravano oltre 12 milioni di filoni di pane; nel 1880 la farina costituiva i due terzi del prodotto industriale cittadino. Il primato venne perso a seguito della grande crisi economica del 1929. Da allora la capitale della produzione divenne Buffalo. Nel solo 1931 sette fabbriche vennero demolite. Nel 1956 sul lato est del Missisippi rimase esclusivamente la Pillsbury A; mentre la Washburn A, che si trova sulla riva ovest del fiume, venne chiusa nel 1965. Nel 1971 la Washburn A, oramai in disuso e in un miserevole stato di degrado, viene inclusa nel National Register of Historical Places, nel 1983 è designata National Historical Landmark. Nel 1991 è distrutta da un incendio appiccato forse dai senza dimora che vi cercavano riparo. Sarà definitivamente abbandonata sino a quando non si decide di riutilizzarne i resti per un grande museo, che, attraverso il pretesto della ricostruzione dei processi produttivi dell’epoca, si fa carico di mostrare e tramandare uno capitoli più importanti della storia sociale, urbana e economica di Minneapolis. Il progetto, la cui costruzione comincia nel marzo del 2001, è affidato a Meyer, Scherer & Rockcastle Ltd. ( MS&R), uno studio di architettura fondato nel 1981 specializzato, tra le altre cose, nel restauro di complessi storici e nella costruzione di edifici istituzionali. Tra questi ultimi spiccano, a mio avviso, il Carthage College Hedberg Library caratterizzato da materici setti in pietra che elegantemente contrastano con il coronamento metallico e la Ridgedale-Hennepin County Center Expansion con la sua ondeggiante copertura. La scelta di MS&R per il nuovo museo di Minnneapolis è di disarmante chiarezza. Consiste nel lasciare più o meno inalterate le rovine della fabbrica e inserirsi con un corpo vetrato che si differenzia chiaramente dall’esistente. In questo modo, oltre a raggiungere una serie di obiettivi alla scala edilizia sui quali ci soffermeremo tra poco, gli architetti riescono a ottenere sufficiente libertà di composizione per svincolarsi da un sistema di costrizioni che altrimenti avrebbero inibito l’obiettivo urbanistico prefissato: realizzare un edificio alla scala territoriale, un elemento poroso – usiamo la loro definizione – piuttosto che chiuso e rigido, in grado di interconnettere il downtown, cioè il centro città, e il fiume. Il progetto, infatti, fa parte di un ampio piano per qualificare il fronte riva lungo il Mississippi con costruzioni anche di grande qualità quale il nuovo Guthrie Theater progettato dal francese Jean Nouvel. Rispetto però al teatro di Nouvel, che non rinuncia alla poetica

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In alto da sinistra: sezione sul museo verso ovest; sezione sul museo verso est; prospetto sud; sezione sugli uffici (ex magazzini del grano) verso est. A destra, nella pagina a fianco, piante dei piani primo, secondo, quarto/settimo, ottavo, nono. Top, from left: section of the museum towards the west: section of the museum towards the east: south elevation; section of the offices (former wheat stores) towards the west. Right, opposite page, plans of the first, second, fourth/seventh, eighth and ninth floors.

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del gesto, il museo di MS&R è tutto giocato su una apparente mancanza di segno architettonico, tanto che come ha notato Linda Mack sullo “Star Tribune” (29 nov. 2003) il museo continua ancora a sembrare una fabbrica bruciata e in disuso e la maggior parte dei visitatori dimentica persino di osservare che la costruzione è stata oggetto di un lungo lavoro di ristrutturazione e di ampliamento da parte di uno studio di architettura. E a controprova di questa affermazione nota che del nuovo edificio si fanno fatica anche a distinguere le porte di ingresso collocate sulla 2nd Street. Segno, in un’epoca, forse eccessivamente tormentata dall’ego di creatori titanici, di una positiva, o comunque interessante e degna di nota, inversione di tendenza. Se nell’architettura l’edificio rifiuta qualsiasi ricostruzione posticcia, nell’allestimento, in linea con una brillante tradizione didattica anglosassone, si ricostruiscono con dovizia di particolari i processi produttivi, i sistemi di trasporto, i macchinari. Per i bambini, ma anche per i più grandi, il museo è un’avventura con cui interagire, non un luogo inaccessibile da guardare a distanza. Il primo giorno è stato visitato da quasi 10.000 persone che hanno fatto la fila per godersi a gruppi di trenta il multimedia show, una passeggiata in ascensore lungo gli otto piani della fabbrica, durante la quale viene raccontata la storia del luogo, ricorrendo anche alle voci di coloro che vi hanno lavorato tra il 1920 e il 1965. I bambini hanno giocato con le ricostruzioni e gli apparati didattici e sono rimasti entusiasti, come Sara, una ragazzina di 12 anni che ha dichiarato il proprio apprezzamento – it was just fun to play in the water – con una semplice frase che credo farebbe la gioia di qualunque architetto. Autenticità dell’architettura, artificialità dell’allestimento. Esattamente il contrario di quanto si usa fare in Italia dove l’edificio storico viene falsificato, impedendo all’osservatore di distinguere il reperto dalla ricostruzione mentre l’allestimento è un insieme di frammenti slegati tra loro, mai sufficientemente illustrati da didascalie e apparati didattici. Vista in questa luce la filosofia parzialmente non-interventista di MS&R appare più che mai opportuna, anche perché lo stesso edificio, restaurato, sarebbe diventato una ricostruzione alla Disneyland. Certo, anche la scelta, di lasciare le rovine come sono presenta inconvenienti: per esempio quello della caduta in una pictoresque monumentality che, attraverso l’effetto rudere colpisce più il sentimento che la ragione. E in effetti le immagini dell’edificio cadente affiancate dai vetri ultramoderni del nuovo, se in questo caso appaiono riuscite, rappresentano una scelta estrema da valutare caso per caso e con molta attenzione. Mi viene alla mente però un altro esempio riuscito in cui si è adoperato un approccio simile, questa volta in Sicilia per mano di Giacomo Leone, uno dei più dotati progettisti che operano nel territorio nazionale. E’ il centro delle Ciminiere a Catania in cui le vecchie fabbriche di zolfo sono lasciate nel loro spoglio stato di degrado, a dura testimonianza di un tempo trascorso, che occorre ricordare ma non falsificare dietro rivestimenti fasulli, pitture colori pastello e un nitore che non poteva appartenere al luogo. E’ l’immaginazione del singolo che deve ricostruire la storia non l’intonaco dell’architetto. E per fare questo, molte volte ciò che resta, anche se in forma di rovina o di reperto degradato, basta. Forse, in termini strettamente semantici, avanza. Luigi Prestinenza Puglisi

I

n 1870 the city of Minneapolis in Minnesota took over the mantle of being the nation’s flour milling capital from its rival St. Louis. This miracle was possible thanks to water from the Mississippi River, intensive farming of huge wheat fields, progress in rail transport, and the use of cutting-edge mechanical technology. In other words, the construction of gigantic factories specialising in manufacturing the product in bulk. Two of these factories particularly caught the eye: Washburn A Mill, built in 1878, and Pillsbury A Mill from 1881. Both were so impressive that the companies running them used fancy drawings of their majestic and reassuring architectural designs for their advertising posters. After all flour was the real pride of Minneapolis. Here are some of the figures: Pillsbury A produced almost 2 million kilos of it every day and the city produced over 12 million loaves of bread on a daily basis; in 1880 flour accounted for two thirds of the city’s industrial production. The city was knocked off its pedestal by Buffalo in the wake of the great economic crisis of 1929. As many as 7 factories were knocked down in 1931 alone. In 1956 Pillsbury A was the only mill working over on the east side of the Mississippi, and even Washburn A, over on the west bank of the river, was closed down in 1965. Washburn A, which had been abandoned and left in a miserable state of decay, was entered in the National Register of Historical Places in 1971 and then made a National Historical Landmark in 1983. In 1991 it was destroyed in a fire possibly set off by some of the homeless who were living inside it. It was finally abandoned until it was decided to convert its remains into a huge museum, which, allegedly to reconstruct the old manufacturing processes, turned into a showpiece for one of the key periods in the social, urban and economic history of Minneapolis. Work began on constructing the project in March 2001, in the hands of Meyer, Scherer & Rockcastle Ltd. ( MS&R), an architectural firm set up in 1981 and specialising, among other things, in redeveloping historical complexes and constructing public buildings. In my opinion, two of the most striking of all are the Carthage College Hedberg Library featuring stone stanchions contrasting neatly with its metal crown, and the Ridgedale-Hennepin County Center Expansion with its undulating roof. MS&R’s approach to the new museum in Minneapolis is startlingly clear-cut. It involves leaving the factory ruins more or less as they are and incorporating a glass section that really stands out from the old premises. In this way, as well as achieving certain building objectives (which we will look at more closely a little later), the architects have enough stylistic freedom to shake off a number of constraints which otherwise would have prevented them from hitting their town-planning goals: to build a territorial-scale building, a porous feature – as they put it – rather than something stiff and closed, capable of connecting up to the downtown neighbourhood and river. The project is actually part of major plans to redevelop the river front along the Mississippi where there are other high-quality buildings such as the new Guthrie Theater designed by the French architect Jean Nouvel.

Compared to Nouvel’s theatre, with all its stylistic artistry, MS&R’s museum plays entirely on an apparent lack of architectural sign, to such an extent that Linda Mack noted in the Star Tribune (29th Nov. 2003) that the museum still looks like a burnt-down and abandoned mill and most visitors do not even notice that the building has been carefully renovated and extended by an architectural firm. And to underline the point, she also notes that it is even hard to make out the entrance doors along 2nd Street. This is evidence, at a time when the creative ego is to the fore, of a positive, interesting and noteworthy reversal in trend. Whereas the building’s architecture refuses to revert to fake reconstruction, the furnishing, on the other hand, draws on superb Anglo-Saxon teaching tradition to meticulously reconstruct all the details of the production processes, transport systems and machinery. For both the young and old the museum is an adventure to be actively enjoyed, not an inaccessible place to be studied from afar. Almost 100,000 visitors turned up on the first day, queuing up to enjoy the multimedia show in groups of thirty, a lift ride up the eight floors of the factory as they were told about the place’s history, even hearing the voices of people who worked there between 1920-1965. The children played enthusiastically with the reconstructed objects and teaching props and a 12-year-old girl called Sara said “it was just fun to play in the water”. A simple way of putting it that I think any architect would be delighted to hear. Authenticity in the architecture and artificiality in the furbishing. Exactly the opposite of what happens in Italy, where historical buildings are made-over to prevent onlookers from distinguishing relics from reconstruction, while the furbishing is a combination of disconnected fragments, never sufficiently backed-up by slides and explanatory aids. Seen in this light, MS&R’s non-interventionist approach is more to the point than ever, since the building would have looked like some kind of Disneyland reconstruction if it had been renovated and restored. Of course leaving the relics as they are inevitably causes certain inconveniences: for instance a lapsing into picturesque monumentality that tends to work more along the lines of sentiment than reason through its ruins-effect. And indeed images of the decaying building alongside the new ultra-modern glass windows are a sort of (in this case winning) gambol, to be carefully analysed and assessed whenever they are used. Another successful attempt at this kind approach immediately comes to mind, this time in Sicily at the hands of Giacomo Leone, one of the most talented Italian architects. I am referring to the Chimneys Centre in Catania, where the old sulphur-manufacturing factories have been left in their natural state of decay as a powerful sign of passing time, that needs to be evoked without being falsified by imitation cladding, pastel shades of paint or a brightness that is alien to the place in question. Individual imagination must reconstruct history, not architectural whitewashing. And to achieve this, what is left behind (even just relics or ruins) is often quite enough. Indeed, in strictly semantic terms, it is more than enough. 190 l’ARCA 15


Assassi Production

Sopra, il Washburn Crosby A Mill dopo l’incendio del 1991. Sotto, spaccato assonometrico del progetto di ristrutturazione e destinazione a museo, uffici e residenze dell’edificio storico.

Above, Washburn Crosby A Mill after the 1991 fire. Below, axonometric cutaway of the project to reconstruct the old building and convert it into a museum, offices and residences.

Sopra, il cortile ricavato tra le rovine, che contiene i resti dei due pozzi per le turbine che fornivano l’energia per il funzionamento del mulino; a destra, l’ingresso principale del museo che si apre verso il centro della città. Sotto, esploso assonometrico con l’integrazione delle vecchie e delle nuove strutture.

Above, the courtyard cut out between the ruins, which holds the remains of two wells for the turbines supplying energy to run the mill; right, main museum entrance opening up to the city centre. Below, axonometric blow-up showing how the old and new structures are knit together.

VECCHIO/OLD

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1. Vecchi binari: ingresso al museo Rail corridor: entry to the museum 2. Vecchia armatura per i bidoni di farina Existing flour bin armature

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3. Head House: Ampliamento museo/museum expansion 11 4. Humboldt Mill: uffici museo/museum offices

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5. Silos: distribuzione energia e serbatoio acqua fresca/distribute energy & chilled water storage 6. Museo storico su tre piani esistnti History Museum: in three existing floors

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7. Cortile delle Rovine Ruin Courtyard 8. Ex uffici del mulino: condominio Utility Mill: condominiums

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NUOVO/NEW 9. Torre della Farina: teatro storico in un ascensore Flour Tower: history theatre in an elevator

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10. Uffici su 5 nuovi piani sopra il museo Offices in 5 new floors over museum

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11. Facciata nuova con serigrafia del diagramma sezionale del 1894 New facade with 1894 sectional diagram

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12. Terrazza panoramica al 9° piano 9th floor observation desk 13. Ascensore di vetro Glass elevator

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L’atrio cui si accede dall’ingresso principale, in cui la vecchia struttura è stata lasciata intatta. Sotto a sinistra, particolare della scala, racchiusa da pareti vetrate, che dal terzo piano conduce al Cortile delle Rovine al piano terra. Sotto, a destra, particolare della nuova facciata in vetro serigrafato con il diagramma in scala reale di una sezione disegnata nel 1894 dell’edificio. Nella pagina a fianco, particolare della facciata rivolta verso il fiume, in cui è evidente l’integrazione di materiali e strutture vecchi e nuovi. The lobby, which can be entered through the main entrance, whose old structure has been left untouched. Below, left, detail of the stairs, enclosed by glass walls, leading from the third floor to the Courtyard of Ruins on the ground floor. Below, right, detail of the new serigraphed glass façade showing a life-size diagram of a section of the building designed in 1894. Opposite page, detail of the façade facing the river, clearing showing how the materials and old and new structures are woven together.

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Manuel Oncina Architects

Manuel Oncina Architects

Per la comunità

Cardiff-by-the-Sea Library

The north entrance, in front of the car park, of the new Cardiff-bythe-Sea Library.

Credits Project: Manuel Oncina Architects Project Team: Manuel Oncina (Principal Designer), Robert Milewski (Detailing), Catherine Marshall (Interior Design), Mark O’Brien (Construction Support) Structural Engineering: Hassa Atapour, Atapour Engineering Mechanical Engineering: Marc Bender, E/C Engineering Electrical Engineering: Ted Keiller, Turpin & Rattan Engineering Landscape Design: Pat Caughey/Wimmer Yamada and Caughey, Marian Marum/Marum Associates Project Management: Rick King/RDK, Paul Chelminiak/RDK Consulting Main Contractor: Bernerd Martin (Superintendent), Dale Sana (Manager)/Philips National Owner: County of San Diego (Jeff Redlitz)

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C

on 32 succursali e due biblioteche mobili, la San Diego County Library fa circolare ogni anno quasi cinque milioni di libri, riviste e materiale audiovisivo; dei quasi tre milioni di abitanti della Contea, oltre 655.000 possiedono una tessera per l’accesso a una biblioteca. Ultima nata tra le succursali della SDCL, è la nuova Biblioteca di Cardiff-by-the-Sea – piccola comunità sulla costa a una cinquantina di chilometri a nord di San Diego – progettata da Manuel Oncina e inaugurata lo scorso anno. L’edificio occupa 600 metri quadrati in un’area urbana prevalentemente pedonalizzata, e contiene oltre 20.000 libri, postazioni per computer, aree dedicate ai bambini e sale di riunione nelle quali vengono organizzati periodicamente eventi e incontri culturali pubblici. Nel suo progetto, improntato ai principi di sostenibilità ambien-

tale ed energetica, Oncina ha tenuto conto sia delle necessità funzionali e di confort sia del rispetto dell’ambiente circostante, realizzando un edificio basso che si integra con i forti caratteri naturali della cittadina, affacciata sul mare e immersa nel verde. Ha così impostato la pianta conservando tre grandi Pini di Torrey esistenti sul lotto e ha concepito la costruzione come una sorta di guscio amorfo che sembra generato dall’infrangersi delle onde sulla costa. Due gli ingressi principali della biblioteca: uno, sul lato nord, si apre verso il parcheggio appositamente realizzato a servizio della nuova struttura; l’altro, verso sud, affacciato su un piccolo giardino collegato direttamente alla zona pedonale. Le facciate settentrionale e occidentale, alte circa 7 metri, sono prevalentemente vetrate, con frangisole mobili, e orientate in modo da trarre il massimo vantaggio dalla luce naturale. I lati meridionale e orientale sono

leggermente più bassi e articolati con linee curve e angoli acuti che determinano ampie zone ombreggiate e protette dall’incidenza diretta dei raggi dell’intenso sole californiano. Il sistema strutturale, che rispetta i rigidi vincoli antisismici della regione, è costituito da un sistema di travi e montanti in acciaio. I rivestimenti murari sono in stucco bianco con le finestre a tutta altezza realizzate con vetri pigmentati di verde a bassa energia. La copertura, anch’essa ondulata a ricordare il movimento dell’oceano, è in acciaio anodizzato rivestito con pannelli di rame verde. Per la climatizzazione interna dell’edificio viene utilizzato un sistema di raffreddamento e riscaldamento a bassa velocità di emissione che garantisce (insieme all’inserimento di pannelli fotovoltaici in alcune porzioni dei muri esterni) un’efficienza energetica migliore del 12,5% rispetto a quella richiesta dalla normativa della California. Anche i materiali utilizzati per gli interni sono stati

scelti in base alla loro eco-compatibilità come per esempio moquette, gomma e linoleum provenienti da riciclaggio per i pavimenti e pannelli in medite – un materiale realizzato con segatura compressa che contiene meno colle e altre componenti potenzialmente tossiche rispetto al legno laminato – per i controsoffitti. All’interno, la struttura in acciaio verniciato bianco e i condotti contenenti i sistemi tecnici sono stati lasciati a vista. Nel complesso questa operazione, fortemente voluta dalla comunità, si pone dal punto di vista sociale come nuovo polo aggregativo e culturale per i cittadini e dal punto di vista progettuale come un esempio di come, pur con budget non cospicui, si possano realizzare edifici non solo consoni alla propria funzione ma anche innovativi sul piano tecnologico (in questo caso soprattutto in termini di ecosostenibilità ed efficienza energetica). Elena Tomei

Viste degli esterni della biblioteca, inserita in un quartiere a prevalenza pedonale e realizzata tenendo conto dell’ambiente circostante. L’altezza massima dell’edificio è di circa 7 m, sul lato nord, per non interferire con la vista verso l’oceano delle costruzioni residenziali circostanti. La sua pianta frastagliata richiama l’andamento della costa battuta dalle onde del Pacifico. Sopra, prospetto ovest. View of the outsides of the library incorporated in a mainly pedestrian neighbourhood and designed in relation to the surrounding environment. The building’s maximum height is approximately 7 m, over on the north side, so as not to interfere with the view towards the ocean of the surrounding residential buildings. Its staggered plan evokes the outline of the coast where the waves break. Above, west elevation.

Frank Damin

L’ingresso nord, antistante il parcheggio, della nuova Biblioteca di Cardiff-by-the-Sea.

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Pianta della biblioteca. Plan of the library 1. Atrio/Main hall 2. Servizio lettori/Reader service 3. area adulti e giovani/Adult and young area 4. Area bambini/Childrens area 5. Sala lettura informale/Informal reading 6. Area multimediale/Multimedia area 7. Area operativa/Staff work area 8. Sala ricreativa staff/Staff loungebreak room 9. Ufficio bibliotecario/Librarian’ s office 10. Custode e magazzino/Janitor’s closet, storage 11. Centro copie/Copy centre 12. Fontanella/Drinking fountain 13. Bagno donne/Women’s restroom 14. Bagno/Unisex restroom 15. Aula seminari/Seminar room 16. Libreria Friends/Friend’s bookstore 17. Dispensa/Pantry 18. Magazzino A/Storage room A 19. Centralina telefono/Telephone utility alcove 20. Centralina elettrica/Electrical utility alcove 21. Centralina climatizzazione/Air handler room 22. Cortile meccanica/Mechanica l yard

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T

he 32 branches and two mobile libraries belonging to the San Diego County Library hand out almost five million books, magazines and audio-visual tapes each year; in actual fact, over 655,000 of the almost three million inhabitants in the County own a library ticket, underlining just how seriously San Diego County takes culture. The latest branch of the SDCL is the new library in Cardiff-by-theSea, a small coastal town near Encinitas (60,000 inhabitants), about fifty kilometres north of San Diego that was founded by a couple of farmers originally from Wales and a painter from Boston, who, having put aside his brushes in 1910 to become a real estate agent, chose this stretch of the Pacific coast to found a city. Back in 1914, as a homage to the Welsh saying that “you will not be wise unless you read” (now adopted as the motto of the organisation called “Friends of the Cardiff-by-the-Sea- Library” set up in 1984 to extend and redevelop the old library), Cardiff-by-the-Sea met its inhabitants’ demand for a library by setting one up in the S.M. Holbrook drug store. The new facility was planned to be opened on 22nd March 2003 to coincide with the eighty-ninth anniversary of the establishing of the little library back in 1914. The library, designed by Manuel Oncina, opened last year, thanks to the determination and (partly financial) efforts of the Friends of the Cardiff-by-the-Sea Library Association – that also takes care of running library activities – and backed up by the Hamilton-White Foundation and County Library system. The area takes up 600 square metres of space in a mainly pedestrian urban neighbourhood at the crossroads between Newcastle Avenue and Liverpool Drive and holds over 20,000 books, computer points, special children’s areas, and meeting rooms where public cultural gatherings and events are held regularly. Manuel Oncina’s project, designed along the lines of environmental and energy compatibility, took into account both functional/comfort requirements and eco-friendliness, creating a lowlevel building knitting in with the town’s striking natural features overlooking the city and landscaped into its surroundings. He designed the building plan to incorporate three big Torrey Pines standing on the lot and built it like a sort of amorphous shell that appears to be generated by the waves breaking along the coast –

waves that have made this spot so popular with surfers. There are two main entrances to the library: one over on the north side opening up to the car park specially designed to serve the new facility; the other facing south looks onto a little garden connected directly to the pedestrian area. The north and west facades, each about 7 metres tall, are mainly made of glass with mobile shutters, carefully directed to take full advantage of the natural light. The south and east sides are slightly lower and feature curved lines and acute angles forming large shaded areas sheltered from any direct rays of hot Californian sunlght. The structural system, conforming to the region’s strict anti-seismic standards, is constructed out of a system of steel beams and uprights. The walls are plastered white and the full-height windows to the north made of low-energy green-pigmented glass. The roof, which is also undulating to evoke the movement of the Ocean waves, is made of anodized steel clad with green copper panels. A low-emission-speed cooling and heating system is used for the inside air-conditioning ensuring (together with the installation of photovoltaic panels in certain parts of the outside walls) 12.5% better energy efficiency than that set down by Californian regulations. Even the materials used for the interiors were chosen for their ecocompatibility, such as, for instance, the carpets, recycled rubber and linoleum carpet for the floors, and panels made of medite – a material designed with a compressed cut that contains less glue and other potentially toxic substances than laminated wood – for the double ceilings. Inside, the white-painted steel structure and the conduits holding the technical systems have been left exposed and add an “industrial” touch that seems to fit in nicely with the building’s “green” technological features. The neighbourhood, and pedestrian area in particular, was completely redeveloped. Overall speaking, this operation, that the community was so keen on, aims, on a social level, to provide the community with a new cultural-congregational facility and, on a design level, to show how to design buildings (even on lowish budgets) that that not only serve a purpose but are also technologically innovative (in this case, notably in terms of eco-sustainability and energy efficiency). Elena Tomei

Viste degli interni, in cui la struttura in acciaio e i condotti contenenti i sistemi tecnici sono a vista. Per la climatizzazione interna dell’edificio viene utilizzato un sistema di raffreddamento e riscaldamento a bassa velocità di emissione che garantisce un’ottima efficienza energetica. Anche i materiali utilizzati per gli interni sono stati scelti in base alla loro eco-compatibilità come per esempio moquette, gomma e linoleum provenienti dal riciclaggio per i pavimenti e pannelli in medite - un materiale realizzato con segatura compressa che contiene meno colle e altre componenti potenzialmente tossiche rispetto al legno laminato - per i controsoffitti. Views of the interiors, whose steel structure and conducts holding the utilities are left exposed. A low-emission-speed heating and cooling system ensuring optimum energy efficiency is used to control the inside climate of the building. Even the materials used for the inside of the building were chosen for their eco-compatibility, such as, for instance, the carpet, recycled rubber and linoleum for the floors, and panels made of mediate – a material designed out of a compressed saw that contains less glue and other potentially toxic components compared to laminated wood – for the double ceilings.

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Sparano + Mooney

Vibrazioni eteree

Arcadia Historical Museum

Detail of the façade of the Ruth and Charles Glib Arcadia Historical Museum, California, sheltered behind wooden shutters.

Credits Project: Sparano+Mooney Project Team: John P. Sparano and Anne G. Mooney (Principals), Michael Atkinson, Matt Bean, Rene Berndt, Mahnaz Zahiry, Tomahisa Miayuchi (Project Team). Consultants: Melisa Keeler (Exhibits/Graphics), Moroko & Shwe (Mechanical Engineering), Felix Roth & Associates (Electrical Engineering), Koh & Associates (Structural Engineering), Civil Trans (Civil Engineering), Gil Flores (Landscape Architecture), Jo Drummond (Specifications) Client: The City of Arcadia (Don Penman and Cindy Rowe, Project Management), The Arcadia Historical Society (Carol Libby, Curator) and the Ruth V. and Charles E. Gilb Family Foundation

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arcel Proust decripta per esteso nei volumi della recherche quel destino che nei nomi dei paesi sarebbe impresso. Elias (Lucky) Baldwin nel 1877, dopo aver fatto fortuna con le miniere di argento in Nevada, si ritaglia una porzione di terra con il nome di Arcadia. Ed è questa toponimia da idillio impossibile a sorprendere in California, ai piedi delle San Gabriel Mountains che circondano lo sterminato spray di Los Angeles. Arcadia ben tangibile, americana, dotata di tutt’altra concretezza, ma, in confronto a ciò che intorno accade di infernale persino consona al nome di battesimo. Ora questa comunità, grazie a un nuovo piccolo museo dedicato nel proprio centenario ai suoi trascorsi, potrà gettare su se stessa uno sguardo retrospettivo storiograficamente consapevole. Conformemente al nome, anche l’architettura di questo Arcadia Historical Museum posato sull’erba trattiene con eleganza qualcosa di anteriore. Restituirebbe come un sensore il gusto per gli edifici isolati, bassi sull’orizzonte, alleggeriti, luminosi, ben areati; il contrappunto sorvegliato di volumi e materiali semplici; la rarefazione dei diaframmi; gli spazi coperti ma non chiusi. Aspetti in cui si ritroverebbero quei caratteri dell’architettura, favoriti dal clima e dall’insieme delle condizioni ambientali, tanto californiani quanto viennesi, poiché innescati dal contatto di Rudolph Schindler e Richard Neutra con le dimensioni e gli spazi liberi di un continente più vasto. Divenuti poi leggendari e apolidi in considerazione di quell’applicazione, intelligente e raffinata, delle ricadute filantropiche dell’industria post-bellica, spinta da Arts & Architecture in un’epoca ottimista ormai lontana. Il progetto si deve allo studio Sparano+Mooney Architecture, con base a Los Angeles. Forse per devozione alla faglia di Sant’Andrea si è determinato il disassamento in pianta di due parallelepipedi uguali, quello per l’esposizione è parallelo al parcheggio sulla strada e si snoda nell’altro di servizio, messo di traverso, in una lobby di ingresso. Questi due elementi instaurano da fratelli un primo movimento nella composizione. Gli spazi ben temperati di mediazione con l’esterno stabiliscono una dinamica ulteriore. A sud, nel triangolo scaleno stirato tra i due corpi divaricati, viene sistemata su di uno zoccolo la terrazza coperta per le iniziative outdoor. Un volume longitudinale, più grande e leggero, avvolge con un andamento diverso il blocco bianco dell’esposizione, supera in quota l’altro in mattoni rossi che in basso lo interrompe e sopravanza, delimita una gabbia di transizione davanti all’ingresso oppure un’estensione della mostra quasi all’aperto. Si tratta di un volume vibrante ai bordi, fatto per metà d’aria; a un’essenziale struttura bianca in acciaio sono fissate di taglio e in verticale delle assi di legno distanziate ad arte. Queste pareti ingannatrici, striate da venature perfettamente rette, appariranno, secondo l’angolo di incidenza dello sguardo, solidissime ma transitive – e allora stupiranno – o eteree come sono in verità – specie la notte in controluce. Le aperture tagliano gli strati sovrapposti dell’edificio con logica rigorosamente asimmetrica, senza trascurarne la massima efficacia notturna. Ed è proprio alle prerogative del disegno che questo progetto si affida, sensibile a misure, proporzioni, materiali, luci. Come si trattasse, considerati i tempi e ineludibili le mode, di un’anamnesi d’architettura. Decio Guardigli

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n the various volumes of Searching for Lost Time, Marcel Proust provides a full account of how place names can have fateful consequences. After making his fortune out of the silver mines in Nevada, Elias (Lucky) Baldwin buys a piece of land called Arcadia in 1877. This idyllic-sounding place, at the foot of the San Gabriel Mountains that surround the endless sprawl and spray of Los Angeles, calls to mind that Arcadia lost who knows where in the Peloponnese. But this is a very tangible and concrete American Arcadia, whose name is quite fitting in contrast with all the hellish goings-on around it. Thanks to a new little museum devoted to the place’s own centenary, this community can look back on its past with greater historical awareness. In keeping with its name, even the architecture of the Arcadia Historical Museum holds something elegant inside as it nestles on the grass. Like some sort of sensor, it gives us a taste for isolated buildings, crouching on the horizon, light weight, brightly lit and well aired; the carefully gauged counter point created by simple structures and materials; rarefied diaphragms; covered but not enclosed spaces. Aspects of distinctive architectural features as at home in California as in Vienna (helped along by the climate and the general environmental conditions), since they derive from Rudolph Schindler and Richard Neutra’s contact with the huge wide open spaces of a much vaster continent. Features that are now legendary and stateless due to the clever and refined application of the philanthropic repercussions of post-war industry, driven along by Arts & Architecture in an optimistic period that now seems long ago. The project is the work of the Sparano+Mooney Architecture firm based in Los Angeles. Perhaps out of some sort of devotion for the San Andreas Fault, the plan has been slipped into equal-sized parallelepipeds, the exposed one is parallel to the car park along the road and winds into the other service parallelepiped placed crossways inside an entrance lobby. These two features, like brothers, inject some initial motion into the design. The firmly constructed spaces mediating with the exterior create even greater dynamism. The covered terrace for indoor events is placed on a block to the south, inside a scalene triangle stretching between the two separate sections. A larger and lighter longitudinal structure envelops the white exhibition block, passing over the red brick block that breaks it up and moves beyond it at the base, and bounding a transition cage in front of the entrance or an almost open-air extension to the exhibition. This structure vibrates around the edges and is half made of air; the carefully separated wooden planks are attached vertically and diagonally onto a simple white structure made of steel. These deceptive walls, lined with perfectly straight veins, look either extremely solid but transitive – and hence startling – or airy as is actually the case (particularly at night against the light), depending on the angle from which they are observed. Openings cut through the building’s overlapping layers in a strictly asymmetrical way, having maximum effect at night. This project relies heavily on the prerogatives of design, with its careful measures, proportions, materials and lights. Considering the times and inescapable trends, it is as if it were suffering from architectural amnesia.

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Particolare della facciata protetta da frangisole in legno del Ruth and Charles Glib Arcadia Historical Museum, California.

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Pianta del museo, vista dell’ingresso sull’angolo nordovest e, nella pagina a fianco, particolare dei rivestimenti in legno e mattoni a vista.

Plan of the museum seen from the entrance over on the north-west corner and, opposite page, detail of the wooden claddings and exposed bricks.

John Linden

John Linden

A. Spazio espositivo/Exhibit Space B. Ufficio curatori/Curators Office C. Atrio/Lobby D. Sala riunioni/Meeting Room E. Magazzino/Storage F. Cortile di ingresso/Forecourt G. Spazio espositivo all’aperto/Outdoot Exhibit Space H. Spazio eventi all’aperto/Outdoor Events Space

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Vista dello spazio interstiziale che separa la parete esterna di frangisole in legno dal muro perimetrale che delimita l’area espositiva. Sotto, vista notturna dell’ingresso del museo. Nella pagina a fianco, particolare dei rivestimenti esterni che combinano, in un gioco di pieni e vuoti, ombre e trasparenze, legno, mattoni, intonaco.

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Deborah Bird/SM

Deborah Bird/SM Deborah Bird/SM

Deborah Bird/SM

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View of the interstitial space separating the outside wall of wooden shutters from the perimeter wall bordering the exhibition area. Below, nighttime view of the museum entrance. Opposite page, detail of the outside claddings made of a combination of wood, brick and plaster in an interplay of solids and spaces, shadows and transparency.

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a città si muove: si muove male, almeno nelle sue rappresentazioni più eclatanti, per progetti che non raccontano nulla di nuovo, ma contemporaneamente essa non cessa di produrre idee e progetti che vanno ricercati attraverso la lettura di segni apparentemente impercettibili; non è certo che le immagini che accompagnano queste brevi riflessioni, apparterranno poi al mondo tangibile, eppure sono testimoni di un percorso inarrestato e inarrestabile del progredire delle idee che trovano nuovi e innovativi mezzi di diffusione. Se la città reale appare così “sconfortante”, altri sono diventati i luoghi per la rappresentazione della progettazione architettonica. La nostra generazione, quella che da poco più di un decennio ha concluso il proprio percorso accademico, apparentemente fatica a trovare spazi reali, fisicamente tangibili, nei quali veder conclusi i propri progetti: nulla di nuovo, probabilmente, generazioni prima della nostra si saranno forse già trovate in queste condizioni. La domanda di architettura innovativa e di pregio sembra oggi particolarmente contratta, anche se qualche interrogativo sulla preparazione tecnica dei nuovi architetti forse andrebbe posto, di fronte a un mercato che sembra richiedere sempre più professionisti capaci di elaborare “tavole tecniche” e realmente esecutive, piuttosto che esclusivamente “grandi idee”. Non si vuole qui discutere sulla qualità del lavoro complessivo né assegnare un valore professionale, estetico o qualitativo da porre in relazione alle dimensioni reali di intervento, ma apparentemente proprio le dimensioni con le quali molti giovani, e meno giovani professionisti sono chiamati a misurarsi sono oggi quelle, nei casi migliori, dell’abitazione monofamiliare o della media catena di esercizi commerciali. Soprattutto, apparentemente, nessuno riesce a raggiungere soglie accettabili di una seppur vaga “sicurezza economica” derivata dall’esercizio della professione. Ma questa, forse, è un’altra storia. Oggi, grazie all’utilizzo delle tecniche informatiche, si disegna e si “ri-disegna” moltissimo, a costi e tempi reali oggettivamente minori, ma in proporzione si costruisce molto meno; contemporaneamente e sorprendentemente, tuttavia, la capacità dei professionisti di fornire ai costruttori elementi progettuali realmente operativi, sembra essere fortemente diminuita. Sarebbe errato immaginare i centri urbani del nostro mondo occidentale, soprattutto nel caso dell’Italia, come strutture incapaci di mutare nel tempo la propria immagine: nonostante la crisi di un modello, le nostre città sono effettivamente in lenta evoluzione: chi le guardasse dall’alto non potrebbe fare a meno di notare il grande numero di gru che ne caratterizza lo skyline, segno inconfondibile di un’attività edilizia, se non altro di tipo “puntuale”. Grandi aree, effettivamente, hanno subito o stanno subendo processi di intensa trasformazione, ma è un mondo per certi aspetti distante, i cui protagonisti, gli attori principali, sono le grandi multinazionali della progettazione architettonica, e i grandi investitori immobiliari: non sembra essere questo il luogo in cui le generazioni più giovani possono esprimere materialmente il proprio linguaggio progettuale. Dove, se si escludono rari e ridotti spazi interstiziali, in quale luogo “fisico” e reale la nostra generazione riuscirà a lasciare il proprio segno? Mi è capitato di partecipare alle attività di un ateneo straniero, dove grandi investimenti economici e finanziari sono normalmente profusi per la preparazione di giovani architetti: per chi proviene dal mondo accademico italiano, la ricchezza dei mezzi, la qualità dell’insegnamento a disposizione sono quantomeno sorprendenti. Tuttavia, di fronte alla produzione accademica degli studenti, ai loro singoli “progetti di laurea”, emerge quasi un paradosso: da un lato questi sono chiamati a confrontarsi con temi connessi alla progettazione, addirittura in vasta scala di “parti di città” sempre più estese, dall’altro la preparazione professionale nei confronti di temi alla scala piccola o minima è per molti versi trascurata, indifferente, irrilevante, quan-

Elastik do viste le caratteristiche del mercato, saranno proprio queste dimensioni minime a caratterizzare la maggior parte della vita professionale dei futuri architetti. Non si possono, tuttavia, arrestare i sogni, e non si può impedire ai professionisti più intelligenti e più capaci di continuare a pensare e produrre, indipendentemente dalla congiuntura economica e dalla domanda di architettura innovativa: come detto, è possibile oggi disegnare moltissimo, rappresentare le proprie idee attraverso metodi informatici sempre più avanzati, confrontare e confrontarsi attraverso canali innovativi: sorge e si crea un mondo parallelo a quello della città reale, dove la rete è divenuta il vero luogo della rappresentazione dell’architettura. Si spalancano spazi immensi e virtualmente infiniti, dove le disponibilità economiche dei singoli, l’esperienza, la collocazione geografica e persino l’età degli attori è irrilevante, anche quando il mercato della domanda di architettura di qualità e di pregio, o anche solo quello più attento alle innovazioni lessicali e sintattiche della progettazione, sta consentendo alla nostra generazione di realizzare interventi in scala minima, e mentre le città del mondo, con ritmi diversi a seconda delle aree geografiche ed economiche, crescono e si rinnovano nel segno, nei casi più fortunati, del cattivo gusto o sempre più spesso della confortante reiterazione di qualcosa di già visto. La sperimentazione architettonica reale, l’impiego e l’utilizzo dei linguaggi progettuali più avanzati, il confronto e la discussione, nell’impossibilità di emergere nel mondo reale e tangibile, si sono probabilmente trasferiti altrove, nel mondo impalpabile delle reti informatiche, che consentono un accesso, una visibilità e soprattutto forme di connessioni fino a ieri praticamente impensabili. L’architettura più avanzata di oggi non risiede nelle città o nelle metropoli, ma nella rete. Ha senso, allora, dalle pagine di questa rivista, parlare di Elastik? Sì, probabilmente, ma prima (o dopo) ogni lettore attento e curioso dovrebbe accendere il proprio computer e connettersi al sito www.elastik.net. Queste pagine, e questo testo, hanno forse anche, modestamente, il compito di suggerire l’inizio di un viaggio, e di proseguire più in là, verso altri siti, altre immagini e altri microcosmi. Siamo qui di fronte alla rappresentazione concreta di un fenomeno vastissimo e peraltro già in atto: non bastano più la carta o le immagini stampate per rappresentare gli aspetti multiformi di un’idea; è necessario connettersi alla rete per capire meglio, per comprendere, per osservare da un’angolatura differente, o da più angolature, per costruire da sé una opinione complessiva. Il sito di Elastik è sonoro, colorato, per ceri aspetti realmente interattivo; lo spettatore è in grado di scegliere un accompagnamento musicale tra quelli disponibili, il colore e le geometrie di sfondo. La visita al sito può essere lunga e i percorsi infiniti: le immagini attraenti, seducenti e seduttive, e di nuovo, i suoni apparentemente sono in grado di stabilire quasi il tono emotivo con il quale si affronta il cammino: quindi ogni lettore al quale le immagini stampate suscitano una forma qualsiasi di attenzione, dovrebbe prendere il tempo necessario per il viaggio. Chi osserva, ha l’impressione di entrare realmente in un microcosmo nel quale si legge, si guarda, si ascolta e si gioca: un viaggio che vale la pena di intraprendere, e che, chi scrive, invita a compiere in modo autonomo. Rimane un’inquietudine di fondo: ha significato ancora chiedersi se è rilevante cercare nel mondo reale i segni concreti, la realizzazione materiale di quanto, tra l’altro, il sito di Elastik riporta? Più in generale: cos’è questo sito, che cosa si mostra, cosa rappresenta, quale il messaggio: ogni lettore potrà fornire a se stesso la risposta più giusta. Si registra una frattura sempre più profonda tra il mondo dell’immaginato e quello “reale”: un oggetto, un’idea, un progetto esiste se è in rete, e il messaggio diviene sempre più forte quando al mero disegno si accompagnano brevi filmati, sottofondi musicali, spazi dedicati alla discussione tra i navigatori. Filippo Beltrami Gadola

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he city is on the move: moving badly, at least in its most eye-catching instances, due to projects that have nothing new to say, but at the same time it keeps on producing ideas and projects to be interpreted by reading apparently imperceptible signs; the pictures accompany these few brief comments will never belong to the real world, yet they bear witness to a never-ending and unstoppable line of progress in ideas finding new and innovative means of diffusion. While our real cities look so “disconcerting”, other places have taken on the mantel of representing architectural design. Our generation, those who graduated just over a decade ago, seems to be struggling to find real, physically tangible space for expressing its own designs: this is probably nothing new, generations that went before probably found themselves in the same quandary. Today there seems to be even less room for quality, innovative architecture, although there might also be some questions marks surrounding the technical expertise and know-how of some of the upand-coming architects, in face of a market looking more and more for experts capable of drawing up “technical charts” for genuinely feasible projects and not just “big ideas”. I have no intention of discussing the overall quality of the work or of passing a professional, aesthetic or qualitative judgement on the actual scale of these designs, but it does seem that a lot of young and not so young architects now find themselves working, in the best of cases, on single-family houses or medium-size shops. Most significantly, nobody apparently seems able to reach the acceptable threshold of what even vaguely approaches “economic security” from practising their profession. But perhaps that is a different story altogether. Today, computer technology makes it possible to design and “redesign” extensively, at genuinely lower costs and much more quickly, but in proportion there is a lot less actual building going on; at the same time (and most surprisingly), there seems to be a decreasing ability to provide builders with projects that can genuinely be carried out. It would be wrong to imagine cities here in the west, particularly in Italy, as structures incapable of changing their image over time; despite the fact that certain approaches have been called into question, our cities are actually slowly evolving: anyone observing them from above could not help noticing all the cranes on our skylines, an unmistakable sign of building work, at least here and there. Large areas have genuinely undergone or are undergoing intensive change, but in some respects this is a very distant world, whose key players are major multi-national architectural design firms and leading international real estate investors: this does not seem to be the place where the younger generations can give free vent to their own design idiom. With the exception of the odd, tiny interstitial space, where is the real “physical” room for our generation to leave its own trace? I have had the chance to see how a foreign university works, where major economic-financial investors are normally so involved in training young architects: the wealth of resources available and standard of teaching are, to say the least, surprising. Yet, there is something paradoxical about the academic work of these students and their individual “degree projects”: on one hand, these young people are expected to tackle design-related issues, even on the major scale of increasingly larger “parts of the city”, on the other they are tending to overlook, disregard or even snub small or minimal size designs, even though considering the nature of the market, it is on these small dimensions that most of their future professional careers as architects will be focused. It is impossible to say with any certainty how many of these students will actually get the chance to work on projects on the kind of scale they are used to tackling on their degree courses, but probably only a small percentage: only a few, very few,

of us (perhaps just the lucky ones) will manage to express themselves through a few “signs” traced on a sheet of paper – the profession will expect a lot more of them. Nevertheless, you cannot hold back dreams and you cannot hold back the creative flow of the smartest and most skilled professionals, regardless of the economic state of affairs or demand for innovative architecture: as we have already said, it is now possible to design extensively, draw on cutting-edge computer technology to express your own ideas, and confront yourself and others along innovative channels : a parallel world to the real city is rising up and being created, where the web is the real means of representing architecture. Immense, virtually infinite spaces open up, where the economic resources of individuals, experience, geographical location, and even the age of the players involved, are totally irrelevant, even when the market for high quality architecture or even just architecture with an eye for lexical-syntactic innovations in design only allows our generation to work on the smallest of scales and cities all over the world are growing and redeveloping (at different rates depending on the geographical and economic areas in question), in the best of cases, in the name of bad taste or, increasingly, the consoling reiteration of something we have already seen: real architectural experimentation, the use and employment of cutting-edge design idioms, confrontation and debate, have most likely gone elsewhere (seeing as they are not allowed to emerge in the real, concrete world), into the intangible world of computer networks providing access, visibility and, above all, forms of connection quite unthinkable until just very recently. Nowadays, cutting-edge architecture lies in the network, not the city or metropolis. So is there any sense in talking about Elastik in this magazine? Yes, most likely, but first (or afterwards) interested, curious readers ought to turn on their computers and connect up to the site http://www.elastik.net. What is written here is only, modestly, intended to point to where a journey begins, as it heads off towards other sites, other images and other microcosms. We are dealing with the concrete embodiment of a vast phenomenon that is already under way: paper and printed pictures are no longer capable of representing the multi-faceted aspects of an idea; you need to link up to the net to gain a deeper understanding and comprehension, to look at things from a different angle or more than one angle, to establish your own more informed opinion. Elastik’s site is full of sound and colour, and in some respects is genuinely interactive; visitors can choose from a selection of accompanying music and even choose their own background colour and shapes. You can spend almost endless time visiting the site: the pictures are entrancing, enticing and seductive, and once again the sounds seem almost capable of setting the emotional tone for tackling this journey: so readers in any way attracted by printed images ought to take time out to make the trip. Anyone looking at the site gets the impression they are really entering a microcosm where you can read, listen and play: a journey worth taking and which the writer of this article suggests you take for yourselves. But there is still something disturbing in the background: it there still any point in wondering whether it is worth looking for concrete signs in the real world, the physical realisation of what, amongst other things, you can see in Elastik’s site? More generally speaking: what is the site, what does it show and represent, what is the message it is sending out: readers can come up with their own answers. An even deeper fracture has appeared between the imaginary and “real” worlds: an object, an idea or a project exists if it is on the web, and the message gets even more powerful when designs and drawings are accompanied by short film clips, musical backgrounds, spaces devoted to discussions between “surfers”.

Agora Dreams and Visions

Agora Dreams and Visions

Elastik

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School of Economics, Murska Sobota (Slovenia)

Credits Project: Elastik: Mika Cimolini, Tomaz Pipan, Peter Senk Collaborators: Polona Curk (structural engineering), Edvard Stok Civil Engineering: Gasper Blejec Calculations: Janka Plevnik Client: Municipality of Murska Sobota

Questo progetto per la Scuola di Economia della città slovena di Murska Sabota è organizzato dal punto di vista spaziale tenendo conto dei flussi, temporali e funzionali, degli utilizzatori (studenti, docenti, personale amministrativo, visitatori). Ne risultano due parti fisse separate tra loro (destinate ai programmi di insegnamento) che si connettono in un punto focale flessibile e pubblico. Questo atrio centrale, pensato come una galleria verticale, è lo spazio della socializzazione e dell’incontro tra i diversi frequentatori della scuola. La forma ondulata della pianta e la stratificazione dei piani contribuiscono all’armonizzazione del complesso scolastico con l’ambiente circostante prevalentemente boschivo. Nella pagina a fianco, da sinistra a destra, piante del piano interrato, del primo piano (sopra) del piano terra (sotto), e del secondo piano con le diverse funzioni: aule e uffici amministrativi nelle stecche ondulate; anfiteatro, biblioteca e centro sportivo nella porzione terminale del complesso.

This project for the School of Economics in the Slovenian city of Murska Sabota is spatially organised in line with the temporal and functional flows of users (students, staff, administration workers, visitors). The result is two separate but fixed parts (serving teaching purposes) connected in a flexible, public focal point. This central lobby, designed like a vertical gallery, is a socialising and meeting space for all the people attending the school. The undulating form of the building plan and layering of different levels help knit the school complex smoothly into the mainly wooded surroundings. From left to right, plans of the basement, first floor (above), ground floor (below) and second floor showing the various functions: teaching rooms and administration offices in the undulating blocks; amphitheatre, library and sports centre in the end section of the complex.

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Tibaut Residence, Moravske Toplice (Slovenia)

Credits Project: Elastik: Igor Kebel, Mika Cimolini Landscaping: Darja Matjasec Lighting: Tomaz Bercic CFD Analysis: AVL Structural Engineering: Konstant Biro Service Engineers: Ales Matus, Darko Zalik Client: Peter Tibaut and Natasha Ritonja

Questa casa, di 270 mq su tre piani in un’area di 741 mq, è concepita come una successione di spazi ibridi che fluiscono senza interruzioni dal salone principale. In questa pagina, pianta del piano terra, viste prospettiche, sezioni e diagramma delle funzioni che si svolgono nelle diverse parti della casa durante le ore del giorno.

Rendering degli interni, in cui pareti, pavimenti e arredi si fondono l’uno nell’altro rendendo ogni ambiente flessibile alle diverse funzioni abitative. Rendering of the interiors, where the walls, floors and furnishing blend together to make all the premises flexible to all the different living requirements.

This 270-square-metre house built on a 742square-metre site is designed like a sequence of hybrid spaces flowing smoothly into the main lounge. This page, plan of the ground floor, perspective views, sections and diagram of the functions carried out in the various parts of the house during the daytime.

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Sissi Installation, Gallery W139 Amsterdam

Credits Project: Elastik: Igor Kebel, Francesca Sarti, Ek van Rosendaal, Mika Cimolini Client: Sissi and W139 Gallery

Elastik ha realizzato una sorta di montagnaarena per la mostra dell’artista italiana Sissi presso la Galleria W139 di Amsterdam. Lo spazio ha la funzione di un palcoscenico per la performance dell’artista intitolata The Walk. L’installazione trasforma la coreografia di Sissi in una serie di linee geometriche che riproducono i suoi movimenti attraverso lo spazio della sala principale della Galleria.

In alto, e sopra, schizzi preliminari per la definizione dell’installazione all’interno dello spazio espositivo. In basso, due momenti della performance di Sissi. Il progetto di Elastik ha trasformato lo spazio in un’esperienza drammaturgica in cui la superficie a disposizione è tramutata in un ambiente intimo dal fluire di un paesaggio bianco, liscio e ondulato che si curva, si innalza e si abbassa nelle tre dimensioni.

Elastik has designed a sort of mountain-arena for the exhibition of the Italian artist Sissi at the W139 Gallery in Amsterdam. The space acts as a stage for the artist’s performance entitled The Walk. The installation turns Sissi’s choreography into a series of geometric lines reproducing the artist’s movements through the space in the main hall of the Gallery.

Top and, above, preliminary sketches for designing installation inside the exhibition space. Bottom, two episodes in Sissi’s performance. Elastik’s project turned the space into a dramatic experience, where the surface area available is transformed into a cosy environment by the flow of a smooth, white, undulating environment that curves, rises and dips in three dimensions.

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Lara Bohnic 107 Jewellery Shop, London

Credits Project: Elastik: Igor Kebel, Mika Cimolini On Site Engineering: Simon Matthews Carpenter: Andrew Matthews Client: Lara Bohnic 107

Questa piccola gioielleria di 35 mq (+ 51 mq di pareti) è stato realizzata da Elastik in Hoxton Square a Londra, utilizzando come materiali principali legno, tessuti e cavi in fibra di vetro. L’idea di base è quella dello scarto, nell’esperienza dell’acquisto, tra ciò che si conosce e ciò che non si conosce; si è così cercato di trasformare il legame tra i gioielli creati da Lara Bohnic e le aspettative dei clienti in linee geometriche definendo un ambiente intimo e ricco di sorprese. In questa pagina, piante del negozio, con la definizione dei possibili percorsi dei visitatori e lo studio dei divisori fatti di teli bianchi. Nella pagina a fianco, sopra, la pianta con la sistemazione dei contenuti. A sinistra, vista del negozio, le cui pareti sono come dematerializzate grazie all’uso di membrane di tessuto bianco. Le teche espositive costituiscono una sorta di percorso di scoperta in quanto si illuminano, grazie a dei sensori di movimento, al passaggio dei visitatori.

This small jewellery shop covering 35 square metres (+ 51 mq of walls) was designed by Elastik in Hoxton Square, London, using wood, fabrics and fibreglass cables as the main materials. The basic idea is a shift in the shopping experience between what we know and what we do not know; this involved an attempt to turn the link between the jewels designed by Lara Bohnic and the customers’ expectations into geometric lines to create a cosy setting full of surprises. Opposite page, plans of the shop showing how the various paths taken by visitors are set out and a study of the partitions made of white sheets. Above, the plan showing how the contents are set out. Left, view of the shop, whose walls seem to be dematerialised by the use of white fabric membranes. The showcases form a sort of discovery route as they light up thanks to movement sensors as visitors pass by.

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Artec Studio

Overgrip, il nuovo complesso produttivo e direzionale di Sossai Group realizzato a San Vendemiano (TV).

Overgrip, the Sossai Group’s new manufacturing and business complex in San Vendemiano (Treviso).

Complessità e appartenenza Overgrip Complex

Credits Project: Giuliano Magnoler Artec Studio Project Team: Giuliano Magnoler, Fabio Miotto, Mara Grassi, Arianna Buso Construction Manager: Renzo Manfioletti Structural Egineering: Renzo Manfioletti, Claudio Bernardi Consultants: Ermenegildo Sossai, Fausto Cattivelli, Mike Davidson, Marco Pellegrini (envelopes egineering) Blue Project – Lodovico Bergamo (internal partitions) Main Contractors and Suppliers: Tonon (builder), Presystem (precast), Somec (integrated envelopes), Pilkington Architectural (glasses), Abba; Pichler Stahlbau; Crea 96; Sicaf; Casalgrande Padana; Edile Ceramica; Faram Client: Sossai Group

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rchitecture as representation, spindoctoring or leaving an indelible distinguishing feature. There are plenty of instances of public or private patrons opting to furbish themselves with headquarters fitting their prestige and leadership in their own fields. In the most successful and cleverly designed instances, these buildings, gauged to complex and very demanding functional-stylistic briefs, are capable of injecting fresh life into design, on one hand encouraging experimentation into new ideas and idioms, and on the other providing a considerable contribution to creating a new architecturescape, sometimes resulting in a redeveloping and revamping of dilapidated cityscapes. These remarks are perfectly appropriate for the recent Italian (at last) design of the new Overgrip complex on the San Vendemmiano (Treviso) industrial estate. This is the new super cutting-edge headquarters of the Sossai Group, a firm specialising in the high-tech façade design industry. In this case the architecture does not just provide a highly characteristic reading of the client’s ambitions, it actually turns into a piece of experimentation and investigation into the research technology and systems that are the firm’s reason for being and developing. The sheer size of the project area, 35,000 square metres, is intelligently exploited to set out the three blocks, approximately 16,500 square metres of covered area grouping production-management functions in one huge headquarters, so as to optimise research and development (working around high technological and stylistic sophistication), also incorporating new spaces devoted to technical offices and laboratories. The most innovative feature is the shell designed to hold the offices, which has been given one single and smoothly-flowing design that rejects the blandness of standardisation through its different finishing/stylistic touches. The use of transparency, embodied in glass facades in various designs, alternates with the more mineral substance of ventilated facades made of natural stone, which carefully combine solids and spaces to guarantee privacy while opening up to the outside. This skin, which is sensitive to changes in weather, also provides a means of controlling energy flows, mainly in the form of light and heat, carefully confronting the latest cutting-edge concepts in energy saving and sustainability. An innovative way of integrating the shell and systems ensures it works like a bio-climatic chamber with an energy-regenerating cavity placed between the two layers of double glass skin, allowing plenty of vertical closure. The system lets recyclable air be recovered from the inside premises and conveyed through the cavity, salvaging residual energy. During winter hot air from the inside is blown around the outside shell to reduce the temperature difference and prevent heat loss. In summer cooled and dehumidified air ensures the cavity is constantly “washed” to prevent overheating. All this is completed by an elaborate system of reflective filtering curtains that allow the lighting to be controlled both manually and using a mechanical system that reads the sun’s position and the intensity of its radiation. Technology is given just the right stylistic rendering in certain key perceptual features, such as the two curved sectors of façade that shelter the entrance and business-administration offices and the large sunscreen made of a structure closely geared to the stylistic vocabulary of the rest of the building.

Foto Piccinni

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rchitettura come rappresentazione, promozione di un’immagine, segno indelebile di individuazione. Sono numerosi gli esempi di committenti pubblici e privati che scelgono di dotarsi di sedi in grado di veicolare il loro prestigio, la loro leadership a livello di fruizione generalizzata. E’ il caso di una recente realizzazione finalmente italiana, il complesso Overgrip nella zona industriale di San Vendemiano (TV), nuova sede super all’avanguardia di Sossai Group, società specializzata nel settore dei sistemi di facciata ad alto contenuto tecnologico. Confluiscono in questo intervento molteplici e complesse valenze che oltrepassano il concetto di pura rappresentazione dell’immagine di un Gruppo. L’architettura in questo caso, infatti, si fa carico non solo di tradurre in oggetto fortemente connotato le ambizioni del committente, ma diviene, essa stessa, momento di sperimentazione, di approfondimento, di ricerca di tecnologie e di sistemi che sono la ragione di vita e di crescita dell’azienda. L’estensione delle dimensioni dell’area di intervento, 35.000 metri quadrati, viene intelligentemente sfruttata per organizzare i tre blocchi, circa 16.500 metri quadrati di superficie coperta, che riuniscono le funzioni produttive e direzionali accorpandole in un grande headquarter, in modo da ottimizzare, secondo un concetto di sofisticazione tecnologica e formale, le funzioni di ricerca e sviluppo con nuovi spazi dedicati a uffici tecnici e laboratori. L’aspetto più innovativo investe l’involucro destinato a contenere le zone destinate agli uffici per il quale è stato concepito un unico e continuo sistema che sfugge a un’anonima e standardizzata soluzione formale, attraverso espressioni e finiture diverse. L’uso della trasparenza, declinata in vetrofacciate di diversa concezione, si alterna all’aspetto più minerale di facciate ventilate in pietra naturale che in un calibrato alternarsi di pieni e vuoti mediano le esigenze di discrezione dei singoli ambienti con quelle di apertura verso l’esterno. Questa pelle, sensibile alle variazioni climatiche, diviene nel contempo mezzo attraverso il quale regolare i flussi di energia, principalmente sottoforma di luce e di calore, confrontandosi in modo adeguato con i più avanzati concetti di sostenibilità e risparmio energetico. Una innovativa integrazione tra involucro e impianti consente di garantire il funzionamento come camera bioclimatica a recupero energetico di un’intercapedine interposta tra i due strati della doppia pelle in vetro, che costituisce ampi settori delle chiusure verticali. Il sistema consente di recuperare l’aria di ricircolo dai locali interni e dirigerne il flusso attraverso l’intercapedine, recuperandone l’energia residua. D’inverno viene prelevata l’aria calda dall’interno e portata a lambire l’involucro esterno diminuendo la differenza di temperatura che provoca dispersione di calore. In estate, l’aria già deumidificata e raffrescata, assicura un continuo “lavaggio” dell’intercapedine, evitando fenomeni di surriscaldamento. Il tutto è completato da un sistema di tende riflettenti e filtranti che permette di modulare l’intensità luminosa sia manualmente, sia con un sistema meccanico che legge la posizione del sole e l’intensità della radiazione. Gli aspetti tecnologici trovano una loro specifica e coerente dimensione espressiva in alcuni elementi di particolare impatto percettivo, come i due settori curvi di facciata che schermano l’ingresso e gli uffici, e il grande frangisole, costituito da una struttura fortemente integrata nel linguaggio formale dell’edificio. Elena Cardani

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A sinistra, schema esemplificativo del funzionamento delle facciate a recupero energetico nella stagione invernale; a destra in quella estiva. In basso, particolari costruttivi dei sistemi di facciata. Left, exemplary diagram of how the energy-regeneration facades work in winter; and, right, in summer. Bottom, construction details of the façade systems.

Sopra, schizzo preliminare; a fianco, planimetria generale e, sotto, particolare della facciata sud-ovest. A destra, dal basso in alto, piante del piano terreno, del primo piano e sezione longitudinale sugli uffici. Above, preliminary sketch; opposite, site plan and below, detail of the south-west façade. Right, from bottom up, plans of the ground floor, first floor and longitudinal section of the offices.

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L'involucro dell'edifico è costituto per circa il 75% da superfici trasparenti, vetrofacciate e facciate a doppia pelle con sistema di recupero energetico integrato agli impianti, che individuano i settori destinati agli uffici. About 75% of the building shell is made of transparent surfaces, glass facades and doubleskinned facades with an energy regeneration system integrated in the systems marking the office sectors.

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Particolare del settore curvo di facciata che individua l’atrio d'ingresso e gli uffici commerciali e amministrativi. La pelle esterna è sostenuta da pinne in vetro che portano vari settori verticali con speciali sistemi di ritenzione in acciaio inox. Detail of the curved façade sector marking the entrance lobbies and businessadministration offices. The outside skin is held up by glass fins carrying various vertical sectors by means of special stainless steel retention systems.

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Particolare dell’atrio d’ingresso, schermato dalla facciata a doppia pelle. Detail of the entrance lobbies and double-skinned façade screen.

Particolare delle suddivisioni interne realizzate con la nuova serie di pareti S100. Le pareti con montanti in alluminio sono state utilizzate nelle versioni a pannellatura cieca in lamiera skinplate o legno e a pannellatura trasparente, in vetro di sicurezza dotate di tendine microforate. Detail of the internal divisions created by the new range of S100 walls. The walls with aluminium uprights features wooden or skinplate blank panelling or alternatively transparent panelling made of safety glass fitted with microperforated curtains.

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Cesare Monti

Design e creatività

Reflex in Roncade (TV) Nella pagina a fianco, l’ingresso della sede di Treviso della Reflex, azienda produttrice di mobili in cristallo. Opposite page, entrance to the Treviso headquarters of Reflex, a manufacturer of glass furniture.

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“D

al cucchiao alla città”, un concept francamente andato un po’ in disuso, sembra ora ritrovare un po’ di smalto attraverso il lavoro di un giovane architetto, Cesare Monti, che ha provato a interpretare con leggerezza e disincantata ironia un tema non facile: unificare il linguaggio dell’architettura con quello del design. L’occasione nasce con l’incarico di progettare la nuova sede della Reflex, azienda produttrice di raffinati arredi, in cui il vetro è il materiale dominante. In realtà, ciò non si realizza anche nella configurazione architettonica della sede Reflex, poiché la prevalenza delle masse murarie prevale non poco sulle superfici vetrate. Tuttavia, nell’economia estetica generale, l’immaterialità trova un suo spazio, ponendosi come elemento qualitativo quale segno d’identità a fronte di una quantità destinata invece a soddisfare la funzione. Posto sull’asse dell’ingresso principale, il gigantesco bow-window gioca sulla trasparenza totale, proiettando l’interno verso l’esterno, citando così in un sol colpo il Manifesto dell’Architettura Futurista e il “rovinismo” praticato da James Stirling quando anticipava di molti decenni l’avvento dell’architettura destrutturata. Quando le citazioni producono idee, ben vengano: e poi l’architettura, quasi sempre si alimenta autoriproducendosi all’infinito. Un infinito relazionato, nel caso dell’architettura, alla sapienza tecnologica del progettista. La notevole superficie e lo sporto fortemente inclinato del bow-window presupponevano una struttura robusta ma elastica, per scaricare il carico del vento. Il sistema della vetrata strutturale era la risposta tecnologica in grado di garantire affidabilità e bellezza. Tuttavia, anche se tale sistema è nella sua piena maturità applicativa, vista la particolare conformazione del bow-window c’era ancora margine per l’invenzione ingegneristica. Insomma, bisognava realizzare un sistema ricorrendo, oltre che alle rotule, anche alla tecnologia navale attraverso l’impiego di un sistema composto da una struttura primaria realizzata con un albero di alluminio estruso per l’occasione ma con caratteristiche simili a quelle impiegate per gli alberi dei catamarani. “La sezione di spessore 35 decimi è stata definita – spiega Cesare Monti – attraverso progressivi affinamenti di calcolo che rinunciando ad affidare nella simulazione una qualsiasi resistenza alle lastre di vetro ha fatto gravare tutti gli sforzi di esercizio, indotti soprattutto dall’azione del vento, sulle crocette e quindi sulle sezioni degli alberi centrali. Di particolare entità risulta quindi la componente del momento torcente dovuto alla notevole ampiezza delle ali (crocette in termine nautico). Tutti i vetri risultano, con dispositivi diversi, liberi di avere movimenti traslatori”. Nata come soluzione per svincolare le superfici vetrate dal condizionamento del telaio, la vetrata strutturale, anche se oggi non realizza il sogno dell’immaterialità assoluta, induce però a nuove riflessioni sul rapporto fra tecnologia e linguaggio. Se è vero che l’architettura sta attraversando un momento di gran mutamento attraverso ibridazioni e rispecchiamenti con altri settori creativi, viene da chiedersi quali siano i percorsi in grado di suggerire orizzonti certi per il futuro. Ovvero: se sia il linguaggio del progetto a trovare nella tecnologia i materiali già pronti, oppure sia la tecnologia a produrre i materiali per soddisfare le aspettative degli architetti più creativi. Carlo Paganelli

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he old adage “from the spoon to the city”, a concept that is quite frankly rather overlooked these days, seems to have been brought back into vogue by the work of a young architect, Cesare Monti, who has tried to adopt a light and ironic approach to what is certainly a tricky issue: bringing together the idioms of architecture and design. The chance arose when he was commissioned to design the headquarters of Reflex, a firm manufacturing elegant furniture mainly made of glass. A predominance which, it must be said, is not found in the architectural design of the Reflex offices, where solid walls are more prominent than glass surfaces. Nevertheless, the overall design leaves plenty of room for immateriality, which is taken as a qualitative sign of identity as opposed to quantity serving practical purposes. The huge bow-window along the main entrance axis plays on complete transparency, projecting the inside outwards, simultaneously citing both the Futurist Manifesto of Architecture and the “ruinism” James Stirling practised when he was decades ahead of deconstructed architecture. Citations are certainly welcome when they produce ideas: and then architecture, like art, inevitably feeds itself of endless self-reproduction. Infinity related (in the case of architecture) to the designer’s technological expertise. The considerable surface area and highly sloping incline of the bow-window suggested a solid but flexible structure to discharge the wind load. The structural glass system was a technological expedient guaranteeing both reliability and “good looks.” But although this is now a tried-and-tested system, there was still room for a bit of engineering ingenuity thanks to the special form of the bow-window. What was needed was a system making use of ship-building technology by drawing on a system composed of a primary structure made of a specially extruded aluminium mast with similar features to those used for the mast of a catamaran. “The section measuring 35 tenths in width was developed – so Cesare Monti told us – by devising increasingly accurate computations which, refusing to allow any resistance to sheets of glass in the simulation, resulted in all the operating loads (mainly due to wind) weighing on the crosstrees and hence on the sections of the central masts. The torque due to the considerable wingspan (or crosstrees as they are called in the ship-building industry) turned out to be quite notable. In different ways, all the sheets of glass turn out to be free from any translational motion. Originally devised as a solution to free the glass surfaces from frame constraints, structural glass (although not quite the dream of immateriality come true) does at least cause us to rethink the whole issue of how technology relates to idiom. Bearing in mind that architecture is going through a period of great change through hybrid forms and reflections off other fields of artistry, it is worth asking where this will all lead in the future. Or, in other words, we might wonder whether it is design idiom that finds ready-to-use materials in technology or whether technology produces the materials for meeting the expectations of even the most creative architects. 190 l’ARCA 49


Particolare della vetrata strutturale e, in basso, l’atrio.

Particolare di una parete realizzata con vetrata strutturale.

Detail of the structural glass window and, bottom, the lobby.

Detail of a wall made of structural glass.

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Particolari del soppalco appeso e carenato nell’intradosso. Details of the mezzanine suspended from and constructed into the intrados.

Nella pagina a fianco, prospetto, sezione, ingresso e schizzi di progetto. La realizzazione del bow-window ha richiesto l’impiego di tecnologie prese dalle costruzioni navali. Nello schizzo di progetto, un dettaglio della connessione crocetta albero. Opposite page, elevation, section, entrance and design sketches. The bowwindow was designed using technology borrowed from shipbuilding. A detail of the mast-crosstree connection taken from the design sketch.

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In queste pagine, dettagli di interni e, in basso, un tavolo della produzione Reflex. These pages, details of the interiors and, bottom, a table of Reflex’s products.

Project: Cesare Monti – Gemin Studio Engineering: Mario Bassignana Structural Engineers: Studio Ingegneria Crosato Collaborators: Cristiano Pistis, Corrado Curti, Mariella Merlo, Paola Bertelli Aluminium Spars: Maxspar Genova Main Contractor: Novacasa Structure and Glazing: OST Stefani, Tecnomontaggi Glass Manufacturers: Omnidecor, S.V.B., Isoclima Glazing Components: Vetra System Oxidal, Colcom Steel Cables and Assistance: Tensoteci Sealant Suppliers: Dow Corning Domotronic and Plants: Eurogroup Stones: Morseletto Client: Reflex Lucatello

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Arep

Nella pagina a fianco, vista aerea della nuova stazione di Shanghai Sud. A destra, schizzo preliminare per il Museo di Pechino.

Arep

Opposite page, aerial view of the new Shanghai South Station. Right, preliminary sketch for Beijing Museum.

Arep in Cina

In Shanghai and Beijing

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Credits Project: AREP and ECADI Client: Minister of the Railways (for the station); City of Shanghai (for the urban development, the access, the infrastructure)

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ono anni, questi nostri che stiamo attraversando, che in un futuro non lontano saranno con ogni probabilità visti come quelli dei grandi adeguamenti infrastrutturali: poderosi almeno quanto quelli che, nei Paesi già robustamente industrializzati, avevano segnato la seconda metà dell’Ottocento e il primo Novecento, quando una parte del nostro pianeta era stata una prima volta avviluppata da un vero e proprio sistema di reti, per il trasporto delle persone e delle cose, dell’energia, delle informazioni; e le grandi città, non soltanto quelle capitali, erano state innervate con nuovissimi impianti tecnici (ancor oggi in larga misura egregiamente funzionanti), e punteggiate da architetture anch’esse del tutto nuove, della mobilità, dello scambio, del commercio. Quando, per esempio, oltralpe gli ingénieurs facevano gli ingénieurs, come avrebbe detto Brassens, e c’erano architetti come Hector Horeau e urbanisti come Eugène Hénard. E quando invece, forse non è poi così inutile battere e ribattere dove il dente duole, chissà mai che un giorno non si riesca a prendere qualche misura odontoiatrica, al di qua delle montagne era già facile toccare con mano divari e distanze già allora smisurate: in Italia Milano, un caso che vale per tutti, inaugura la sua Stazione Centrale, bella e obsoleta, nel 1931; non possiede, a tutt’oggi, una rete fognaria anche soltanto plausibile; un sistema antincendio urbano, né impianti di lavaggio strade e di irrigazione, malgrado la sovrabbondanza delle acque di falda; mantiene con caparbietà una viabilità con sezioni e caratteri da borgo agricolo di media grandezza, a fronte di volumi di traffico del tutto fuori scala. Sicché, se si scorre questo progetto (la realizzazione si concluderà nel 2005, cioè domani) per la nuova Stazione per i treni ad alta velocità di Shanghai Sud, ennesima opera firmata da AREP di concezione limpidissima, si potrebbe questa volta davvero dire che la Cina è vicina; purtroppo non per noi, caso mai ci risulta un poco più lontana, come dimostrano con evidenza palmare i tracciati e i cantieri TAV (ora TAC) della nuova e allo stesso tempo vecchissima linea Torino-Milano, nel suo genere difficile coniugazione di scempio ambientale, know-how da buttare e miope idiozia strategica. Inutile continuare a piangere sul latte versato e che si continua a versare. Certamente di maggior conforto e ovviamente più utile, anzi doveroso, mantenersi al corrente prima che il futuro sia già dietro le spalle. La gran piastra perfettamente circolare di Shanghai, dalla sezione garbatamente rialzata lungo il bordo, per riunire con intelligenza le ragioni di ordine statico con quelle di una dovuta attenzione nei confronti di tradizioni formali locali, costituisce una declinazione originale nel panorama internazionale vivacissimo dei nodi infrastrutturali intermodali. Pur essendo destinata a organizzare e risolvere l’intersezione e lo scambio fra flussi di traffico terrestre, su rotaia e su gomma, la conformazione di questa stazione presenta diverse analogie con edifici aeroportuali di recente generazione. Lo spazio coperto è immenso e, pur essendo mosso e articolato, non presenta soluzioni di continuità: al di là delle evidenti ricadute in termini di facilità d’uso da parte del pubblico dei viaggiatori, garantite dal nitore dei layout, il risultato è quello di un

insieme variegato di panorami, interamente protetto dagli agenti atmosferici, dotato di un suo microclima ben controllato, come non sarebbe dispiaciuto a Richard Buckminster Fuller. Un luogo piacevole nella metropoli, in grado di ospitare infiniti incontri, scambi, tragitti random di flaneurs, transiti di moltitudini variegate per scopi e direzioni. Nuove forme di possibili identità, i cui caratteri e la cui tenuta sono dati dalla progettazione accurata delle condizioni di fondo. Perfino in condizioni al limite, come quella cinese, in pieno stress da sviluppo accelerato. In qualche modo, come si vede, le trasformazioni sociali profonde, i comportamenti mutati, le vite in-between, le ibridazioni d’uso, insomma gli stati instabili, trovano loro habitat nell’architettura delle infrastrutture. Una precisa, indiscutibile indicazione di campo: al momento, forse, l’unico possibile per l’architettura, che sembra rinunziare perfino alla propria competenza sugli spazi interni. Una piena consapevolezza di questi fatti ha permesso ad AREP di maturare una competenza rara, che innerva progetti e realizzazioni infrastrutturali diversi per scala, complessità, scelte compositive, e così via, ma fra di loro connessi e apparentati dalla medesima ratio operandi. La recentissima occasione fornita dal nuovo Museo storico di Pechino, da erigersi lungo il grande asse est-ovest della città, che prima tra l’altro costeggia la Città Proibita e la Piazza Tien An Men, dà ora modo di valutare e di sperimentare con attenzione la possibilità, o meglio l’opportunità, di affrontare e trattare temi di natura diversa da quelli più consueti mantenendo salde le abituali modalità di approccio e gli obbiettivi. Il programma prevede superfici per 60.000 metri quadrati, 8.000 dei quali da dedicarsi a esposizioni temporanee, altri 17.000 all’esposizione permanente di opere d’arte e oggetti legati alla storia di Pechino, i rimanenti da ripartirsi in un centro ricerche, sale conferenze, ristorante, shops, servizi per il pubblico. AREP, qui con Jean -Michel Wilmotte, procede trattando l’insieme come un grandissimo spazio riparato, di scala urbana, che unifica sotto una lastra piatta rettangolare di copertura, in acciaio, tre volumi ben distinti per forma e consistenza materica. Il più imperioso di essi è obliquo, fuoriesce perfino in aggetto, ha un cuore distributivamente non semplice, ospita le collezioni permanenti ed è fatto in bronzo; il secondo ha facciate interne rivestite di legno, e racchiude i materiali della storia della città, modelli e piante, attrezzature interattive; il terzo, destinato ai tecnici, ai ricercatori e al personale, è in mattoni. Una città nella città: queste tre architetture differenti ne generano una terza, fatta di ampi e modellati spazi interstiziali, che divengono piazze, strade, passerelle ben protette dalle intemperie, tagliate vie dalla copertura lontana. Nuovi panorami per scenari di vita nella metropoli. Pur nella differenza delle forme, si vedono bene le analogie con la Stazione: non soltanto concettuali ma anche fisiche, in termini cioè di qualità di condizioni dello stare dentro simili specie di spazi. Last but not least: un po’ di aria fresca nel gran parlare di musei che da anni ci accompagna. Maurizio Vogliazzo

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he age in which we live will most probably be looked back on in the not too distant future as a period of major infrastructural developments: just as ponderous as those marking the second half of the nineteenth and first half of the twentieth centuries in certain already highly industrialised nations, as part of our planet was first wrapped in an authentic system of networks for transporting people and things, energy and information; back when major cities (not just capitals) were reinforced with a backbone of brand-new technological systems (still nearly all still working nicely) along with equally modern works of architecture, means of transport and trade-business services. When, for instance, French engineers were being engineers, as Brassens would have put it, and there were architects like Hector Horeau and town-planners like Eugène Hénard. And when over on this side of the Alps (perhaps there is no harm in touching this soar point yet again, in the hope that it might be healed some day) you could already see and feel the sheer size in the gap that had opened up: in Milan in Italy, there was the emblematic case of the opening of Central Station, beautiful and already obsolete back in 1931; and even now the city still does not have its own proper sewage system, urban fire-fighting service or road-cleaning and irrigating system, despite all the underground water; and its road network is the kind you expect to find in a middle-size farm town, which is expected to handle a staggering amount of traffic. So taking a look at this project (planned to be completed in 2005, viz. tomorrow) for a new station for high-speed trains in Shanghai South, yet another wonderfully clear-cut design by the AREP firm, it might well be said that China is getting closer; although, unfortunately for us here in Italy, it might seem to be even further away, as can clearly be seen from the TAV (now TAC) routes and building sites on the new, and at the same time extremely old, Turin-Milan line, as it struggles to combine environmental destruction, useless know-how and idiotic strategic shortsightedness. There is no point in carrying on crying over spilt milk (that is still being spilt). It is certainly more reassuring and obviously more useful, not to say our duty, to keep up-to-date before the future becomes a distant memory. Shanghai’s perfectly circular main platform with a neatly elevated section around the edge, in order to cleverly equate static requirements with the need to respect local formal traditions, is a novel design even on the extremely lively international scene for transport junctions. Despite being designed to organise and sort out intersecting ground traffic flows on rail and road, its form has plenty in common with some of the latest generation of airport buildings. The covered space is huge and, despite being intricate and lively, is also smoothly flowing: apart from obvious repercussions in terms of ease-of-use for passengers thanks to its clear-cut layout, the result is a wide range of viewpoints, all sheltered against the weather and furbished with a well-controlled micro-climate – something Richard Buckminster Fuller would have admired. A pleasant place in the city equipped to host an endless array of

meetings, exchanges, random wandering, and passers-by heading off in all directions for all kinds of different purposes. New forms of potential identity, whose features and congruency derive from its carefully gauged underlying design. Even in extreme situations, as is the case in China, when fast progress inevitably brings with it plenty of stress and strain. Somehow, as we can see, deep-reaching social changes, changes in behaviour, in-between lives and hybrid uses, viz. unstable states, find their natural habitat in the architectural design of infrastructures. A clear-cut and indisputable approach: at the moment, perhaps the only way ahead for architecture, as it even seems to be giving up its own jurisdiction over interior spaces. Complete awareness of these facts has enabled AREP to gain a rare sort of expertise, underpinning infrastructural projects and designs on different scales and of varying complexity and style etc., but connected together and related to the same ratio operandi. The recent opportunity provided by the new historical Beijing Museum, planned to be built along the city’s main east-west highway (incidentally skirting past the Forbidden City and Piazza Tien An Men), now offers the chance to assess and carefully experiment with the possibility, or rather opportunity, of tackling and dealing with rather unusual issues, without abandoning the familiar approach and goals. The brief refers to a surface area of 60,000 square metres, 8,000 of which to be devoted to temporary exhibitions, a further 17,000 for permanently displaying works of art and objects related to the history of Beijing, and the rest to be shared between a research centre, conference halls, a restaurant, shops and public facilities. AREP (here working with Jean-Michel Wilmotte) has designed the whole complex like one huge sheltered urban-scale space combining three separate structures (in terms of shape and material) beneath a flat rectangular steel sheet roof. The largest of these three structures is oblique, overhanging and features a complex layout hosing the permanent collections; it is made of bronze. The second structure has wood-clad facades and holds materials related to the city’s history, models and plans, as well as interactive props. The third structure designed for technicians, researchers and staff is made of brick. A city within the city: these three different works of architecture generate another made of extensive, carefully shaped interstitial spaces, that turn into squares, roads and passage ways carefully sheltered from the weather and cut out of the distant roof. A new setting for the events of urban life. Despite the difference in their forms, there are obvious similarities with the Station: not just conceptual but also physical in terms of sharing the same approach to inner living, particularly in terms of spaces. Last but not least: a bit a fresh air amidst all the talk of museums of recent years.

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Shanghai South Station

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In basso, rendering e studio per la struttura della copertura della Stazione Shanghai Sud, il cui progetto è il risultato di un concorso internazionale in tre fasi vinto congiuntamente da

AREP ed ECADI. La forma circolare, destinata a divenire un nuovo simbolo della dinamicità della metropoli cinese, garantisce grande fluidità funzionale, offrendo ai veicoli comode vie d’accesso

e ai passeggeri, percorsi interni brevi. Bottom, rendering and study for the roof structure over Shanghai South Station, whose design emerged from a threestage international

competition won jointly by AREP and ECADI. The circular form, designed to be a new symbol of this great Chinese city’s dynamism, guarantees notable functional fluidity, providing

vehicles with easy access routes and passengers with short inside pathways.

Dall’alto in basso, sezioni e planimetria generale del progetto che copre un’area di 53 mq. Il leggero dislivello tra le aree di servizio e le sale di attesa crea un ampio anfiteatro da cui è visibile l’intero

ambiente interno e da cui tutte le funzioni e i percorsi sono facilmente individuabili. From top down, sections and site plan of the project covering an area of 53 sq.m.

The slight height difference between the service areas and waiting rooms creates a large amphitheatre affording views of the entire interior (all of whose functions and passage ways are easy to spot).

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Beijing Museum Nella pagina a fianco, in basso, rendering del nuovo Museo di Pechino; a sinistra, dal basso, piante del piano terra, del 16° e del 22° livello; a destra dal basso, sezione trasversale, sezione longitudinale, prospetto nord. A sinistra, rendering dell’atrio principale col cilindro inclinato, rivestito di bronzo, che custodisce la collezione permanente e, sotto, vista del museo dalla Fu Xing Men Avenue, l’arteria che in futuro ospiterà i maggiori centri culturali della città. Opposite page, bottom, rendering of the new Beijing Museum; left, from bottom, plans of the ground floor from the 16th-22nd level; right, from bottom, cross section, longitudinal section, north elevation. Left, rendering of the main lobby showing the sloping cylinder clad in bronze holding the permanent collection and, below, view of the museum from Fu Xing Men Avenue, the road destined in future to accommodate the city’s main arts facilities.

Credits Project: AREP, Atelier Jean-Michel Wilmotte, architecture, Design Institute of the Ministry of Construction of Beijing (Architect: Cui Kai) Client: City of Beijing

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Rendering del progetto vincitore del concorso per il Centre Pompidou di Metz, la cui inaugurazione è prevista per gli inizi del 2007. La realizzazione di questo Centro rappresenta una nuova tappa della

politica di decentralizzazione e diffusione iniziata dal Centre Pompidou nel 1997. La scelta di Metz, in una posizione geograficamente strategica, vicina alla Germania, Belgio e Lussemburgo, proietta

l’influenza artistica del Centro a livello europeo. Rendering of the winning project in the competition to design the Pompidou Centre in Metz, which is planned to open in

early 2007. The construction of this new centre is the latest stage in the decentralising policy first launched by the Pompidou Centre in 1997. The decision to opt for Metz in its strategically situated

Nuovo Centre Pompidou In Metz Progetto vincitore Winner project Shigeru Ban Architects + Jean de Gastines, Philp Gumuchdjian Engineering: Ove Arup & Partners Economy: Davis Langdona Lanscaping: Michel Desvigne

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ralasciando l’importanza per la città di Metz e per lo stesso Centro Pompidou di una scelta in grado di caratterizzare il futuro sviluppo della regione e dell’istituzione culturale come è questa per il progetto del nuovo Centro Pompidou, l’occasione del concorso espletato fornisce gli strumenti per qualche riflessione sugli ultimi sviluppi dell’architettura museale in Europa. L’opportunità è particolarmente stimolante in quanto la lista dei concorrenti selezionati include alcuni fra i più attivi e innovativi architetti europei. La giuria, presieduta per gli architetti da Richard Rogers, ha selezionato nell’ordine i progetti di Shigeru Ban Architects, Tokyo, in associazione con il francese Jean de Gastines, e Philip Gumuchdjian, Londra; Stephan Maupin e Pascal Cribier, Parigi; Herzog & de Meuron, Basilea; ed ex-aequo quelli di Foreign Office, Londra, e uapS, Parigi; Nox, Rotterdam, Dominique Perrault, Parigi. Tutti i progetti sembrano condividere l’interesse per una qualità oggettuale e autonoma degli edifici proposti, come ci si sarebbe potuto aspettare in relazione al programma istituzionale e simbolico del centro culturale, da realizzarsi in un’area non fortemente condizionante dal punto di vista del tessuto urbano. A parte questo aspetto generale, le proposte si differenziano per la strategia spaziale, apparentemente secondo due correnti.

Una prima, comprendente il lavoro di Maupin-Cribier e quello di Foreign Office-uapS, individua nettamente il confine fra interno ed esterno degli edifici, riferendosi a una nozione consolidata di involucro e di separazione del microclima interno artificiale dall’esterno naturale. Le due proposte riguardano edifici dotati di una pelle continua e di bucature caratterizzanti. In particolare, il sistema proposto da Foreign Office-uapS è basato sull’estrema iterazione dell’invenzione di Marcel Breuer per il Withney Museum of American Art, a New York: a sua volta ripresa da Le Corbusier, la finestra quadrangolare estrusa diagonalmente verso l’esterno a formare un tronco di piramide, è fra i più noti elementi iconografici riconducibili alla nozione di museo. Nella proposta, a differenza di quanto accade al Withney, dove le finestre sono “applicate” sulla superficie verticale dei volumi, gli elementi tronco-piramidali culminanti con le bucature vetrate costituiscono l’intero sistema involucro, sostituendo all’idea di superficie perimetrale quella di una morfologia continuamente variabile e tri-dimensionale. Una seconda corrente comprende il progetto dei vincitori Shigeru Ban-de Gastines-Gumuchdjian, oltre a quello di Nox, e di Perrault. Questo secondo tipo di approccio riconsidera il rapporto fra interno ed esterno dell’edificio, ne critica l’assolutezza, e propone una mediazione graduale, disponendo per la realizzazione di tre tipi di condizioni spaziali: interno, esterno, e spazio intermedio. La

proposta di questa condizione aggiuntiva intermedia ha diverse ragioni: da un punto di vista museografico si riferisce alla necessità di rispondere all’esigenza di creare uno spazio collettivo ampio ed adatto alla nuova missione del museo contemporaneo che, oltre ad offrire lo spazio per la gestione e la fruizione della collezione temporanea o permanente, costituisce un luogo per l’intrattenimento e per il tempo libero. Lontano dal ricordo di un museo aulico ed elitario, il museo contemporaneo vuole proporsi alle famiglie e al pubblico generico, in osservanza al precetto utopico di diffondere l’arte al centro della vita quotidiana della comunità. Questo spazio viene identificato come esterno al museo vero e proprio, ma interno al sistema di visita e di intrattenimento, quindi coperto e confinato. Un’altra ragione per questo dispositivo è la possibilità di gestire questo luogo intermedio in maniera sostenibile: in quanto vasto, il controllo totale del microclima di questo luogo intermedio avrebbe costi enormi, mentre per lo più esso è definito da membrane che permettono la ventilazione naturale più o meno coadiuvata da impianti tecnologici Il progetto di Herzog & de Meuron si colloca a cavallo fra le due correnti, integrando temi dell’una e dell’altra, distinguendosi per una proposta elegante e simbolica. Alessandro Gubitosi

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eaving aside the importance of making the right choice for the future development of the city of Metz and the Pompidou Centre itself, the competition to design and build a new Pompidou Centre also provides the means for examining and analysing the latest developments in museum design in Europe. The opportunity is particularly interesting and exciting because the list of selected entrants includes some of the busiest and most innovative European architects working on museums. The jury, chaired by Richard Rogers for the architects, chose (in order) the projects designed by Shigeru Ban Architects, Tokyo, in conjunction with the French architect Jean de Gastines, and Philip Gumuchdjian, London; Stephan Maupin and Pascal Cribier, Paris; Herzog & de Meuron, Basle; and, jointly, Foreign Office, London, and uapS, Paris; Nox, Rotterdam, Dominique Perrault, Paris. All the projects seem to share the same interest in the objectrelated and self-contained qualities of the proposed buildings, as was only to be expected bearing in mind the official brief and symbolic function of a cultural centre to be built in an area relatively free from town-planning constraints. Apart from this general consideration, the projects work along two different (contrasting) spatial lines.

location near Germany, Belgium and Luxemburg, projects the Centre’s range of artistic influence onto a European level.


Il progetto vincitore è caratterizzato da un'ampia struttura in acciaio e legno, tesa a partire da una guglia centrale e composta da moduli esagonali. La struttura, che ricopre l'insieme degli spazi del centro, è rivestita da una membrana in fibra di vetro traslucida. Tre gallerie in struttura d'acciaio rivestite da pannelli metallici laccati, sono destinate agli spazi espositivi e si sovrappongono e incrociano sotto la copertura aprendosi alle estremità verso l'esterno. The winning project features a large steel and wooden structure stretched from a central spire and composed of hexagonal sections. The structures, covering all the centre’s spaces, is clad with a translucent fibreglass membrane. Three steel galleries clad with shiny metal panels serve the exhibition spaces and overlap and cross-over beneath the roof, opening up to the outside at the ends.

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Il complesso è composto da tre elementi distinti: un edificio basamento sormontato da un tetto terrazza, un parallelepipedo corrispondente alla navata e due gallerie curve, poggiate su

Secodo classificato Runner up Stéphane Maupin-Pascal Cribier Engineering: Setec

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pilotis. Il volume-basamento è rivestito con elementi in cemento posati scalarmente, di misure diverse, che lasciano libere delle trasparenze. Le gallerie sopraelevate,

destinate agli spazi espositivi, sono rivestite in metallo con ampie aperture sull’esterno. Lo spazio libero sottostante è pavimentato da un suolo minerale e sormontato da un giardino sospeso.

The first approach, featured in the work of Maupin-Cribier and the Foreign Office-uapS, clearly distinguishes between the inside and outside of the buildings, drawing on the tried-and-trusted notion of a shell and the separating of the artificial interior micro-climate from the natural exterior. The two designs are for buildings furbished with a curtain skin and distinctive perforations. The system proposed by Foreign Office-uapS is based on taking Marcel Breuer’s invention for the Withney Museum of American Art in New York to its reiterative extreme: borrowed, in turn, from Le Corbusier’s quadrangular windows extruded diagonally towards the outside to form a pyramidal trunk, now one of the most distinctive features of all museum designs. In this project, in contrast with the Withney design, where the windows are “applied” to the vertical surface of the structures, the truncatedpyramidal elements culminating in the glass perforations form the entire shell, replacing the idea of a perimeter surface with a variable, three-dimensional curtain morphology. A second line of thinking encompasses the winning project designed by Shingeru Ban-de Gastines-Gumuchdjian, as well as those by Nox and Perrault. This second type of approach takes a fresh look at how the inside and outside of a building interact, criticising such absoluteness and suggesting a sort of gradual mediation working around three types of space: interior, exterior

The complex is made of three separate elements: a basement building with a terraced roof, a parallelepiped corresponding to the aisle and txo curve-shaped galleries resting on pilotis.

The basementstructure is clad with concrete elements rising up to different heights leaving room for transparencies. The raised galleries (also of different heights) serving exhibition

purposes are clad with metal with wide openings on the outside. The free space beneath the building is paved in one single material and has a hanging garden above it.

L’edificio descrive un viaggio attraverso una città verticale, formata da zone dense e compresse a da aree decompresse. La vista del Centro è ritmata da fasi di introspezione, nelle sale espositive e da elementi di

and intermediate space. This extra intermediate kind of space has various reasons for being: in museum terms, it refers to the need to create an extensive communal space serving modern-day exhibition purposes which, as well as providing room for handling and using temporary or permanent collections, also acts as an entertainment and leisure facility. Poles apart from the old-fashioned idea of museums as elevated and elitist, modern-day facilities are aimed at families and the public in general, in line with the utopian dream of taking art to the hub of everyday community life. This space is looked upon as being outside the museum itself, but inside the basic visit and overall entertainment programme, so in some sense covered and confined. Another reason for this kind of device is the possibility of finding a sustainable way of managing this intermediate place: due to its sheer size, complete control over the micro-climate of this intermediate setting would be extremely costly, whereas in actual fact it is made of membranes that allow natural ventilation, helped along to some extent by technological systems. The project designed by Herzog & de Meuron lies somewhere between these two approaches, incorporating aspects of both, but standing out through its elegant, symbolic design. Alessandro Gubitosi

apertura, nei luoghi di incontro. Il nuovo Centro si iscrive nell’immagine della città, le sue proporzioni e la sua pelle riflettente dialogano con i monumenti del paesaggio urbano.

The building describes a journey through a vertical city formed of thick, compressed areas and decompressed areas. The centre has introspective sections in the exhibition rooms and more open

meeting places. The new centre is knit into the city image, its proportions and reflective skin interact with the city monuments.

Terzo classificato Third place Herzog & de Meuron Structures: RFR Engineering: SBE Ingénierie, Sogecli

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Quarto classificato ex aequo Joint fourth place Nox Engineering: Ote Ingénierie Museography: Ducks Scéno A destra e nella pagina a fianco, in alto, l’edificio presenta una forma monolitica a doppie curvature. L’aspetto esterno è liscio, rivestito nelle parti più basse da una superficie metallica opaca e nella parte alta formato da una parete bianca traslucida. Sulla pavimentazione esterna si alternano bande ondulate minerali e vegetali metre il raccordo alla base dell’edificio è risolto da volumi a forma di tunnel o di branchie che ospitano una vetrina d’arte e la caffetteria. Right and opposite page, top, the building has a monolithic double-curved form. It looks smooth on the outside, is clad at the bottom with an opaque metal surface, and formed out of a translucent white wall at the top. The outside paving features alternating mineral and vegetable bands, while the connection to the base of the building is composed of tunnel-shaped structures or branches holding an art showcase and cafeteria.

Quarto classificato ex aequo Joint fourth place Foreign Office Architects (FOA) UapS Engineerig: Trouvin-Serequip Coyne et Bellier L’edificio è compatto e cubico, rivestito da moduli volumetrici irregolari, tipo punta di diamante troncata. Le sfaccettaure sono in pannelli metallici olografici e danno all’edificio un aspetto riflettente, policromo e iridato. La facciata orientata a ovest è vetrata a tutt’altezza. This is a compact, cube-shaped building clad with uneven structural units (looking rather like truncated diamondtipped features). The facets are made of holographic metal panels making the building look multicoloured and reflective. The façade facing west is allglass and full-height.

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Quarto classificato ex aequo Joint fourth place Dominique Perrault Engineering: Coyne et Bellier Economy: Cabinet Ripeau Hydraulic plants: Jean Schmit Engineering Il Centro è individuato da una grande tenda metallica aperta sui quatro lati. Al suo interno, un edificio a forma di parallelepipedo con facciate argentate a specchio e una base trasparente. Lo spazio perifierico che si origina tra la copertura metallica e l’edificio accoglie i momenti pubblici, collettivi, animandosi con il gioco di riflessi e trasparenze delle superfici. The centre features a large metal curtain open on four sides. Inside, there is a parallelepiped-shaped building with silverplated reflective facades and a transparent base. The peripheral space originating between the metal roof and main building holds the public, communal features, drawing life from an interplay of reflective and transparent surfaces.

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David Raponi_HOV

La porta dell’Adriatico

Found Space Theatre, Ancona Il progetto del Found Space Theatre è stato presentato al concorso internazionale promosso dalla International Organization of Scenographers, Technicians and Theatre Architects. Si tratta di una linea ricerca di teatro sperimentale tesa a instaurare una relazione simbiotica tra setting e spettacolo, intepretando il contenitore come spazio libero. Il progetto di HOV si inserisce in uno spazio di risulta individuato nella vecchia discarica dell’ex Ospedale Umberto I di Ancona. Sopra, studio delle curve generatrici e delle coordinate per la costruzione del corpo in vetroresina e poliestere. The Found Space Theatre project was entered in the international competition organised by the International Organization of Scenographers, Technicians and Theatre Architects. This is a line of research into experimental theatre aimed at setting up symbiotic relations between setting and performance, treating the theatre as a free space. The HOV project slots into some of the space left from the old Umberto I Hospital in Ancona. Above, study of the underlying curves and co-ordinates for constructing the glass resin and polyester body.

Credits Project: David Raponi_HOV Collaborators: Michele Gabbanelli, Serenella Ottone, Eleonora Moscardi

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l progetto è stato presentato in occasione del concorso internazionale che il comitato di OISTAT (International Organization of Scenographers, Technicians and Theatre Architects) promuove ogni quattro anni. Suddivise in categorie, le proposte dovevano concentrarsi a scelta su una delle quattro differenti tipologie di spazi per la rappresentazione: il teatro di produzione (producing theatre), il teatro adattabile (adaptable theatre), il found space theatre, il teatro di riconversione (converted buildings). Il progetto architettonico/teatrale di HOV e Michele Gabbanelli indaga il tema del found space per la rappresentazione di “A” – uno schema di testo appositamente scritto – collocando lo stage al centro di un organismo paradigmatico il cui nucleo è individuato nella vecchia discarica dell’Ospedale Umberto I ad Ancona. Il found space theatre è una recente linea di ricerca nella sperimentazione teatrale. Il tema della rappresentazione emerge da un luogo speciale, appropriandosene. L’opera è univocamente in corrispondenza con lo spazio e nuovi ambienti stabili o temporanei – piuttosto che teatro è appropriato definirlo stage – sono allestiti per le necessità degli spettatori e degli attori. Ciò instaura una relazione simbiotica fra il setting e lo spettacolo tanto più articolata quanto maggiori sono le derive simboliche della rappresentazione. Capoluogo delle Marche, Ancona (100.000 abitanti) si adagia ad anfiteatro sui rilievi di un promontorio del mare Adriatico. Fondata dai Greci Siracusani nel tardo IV secolo a.C. (Ancona < A. G. ankon, gomito), con i Romani la città prosperò. Nel IX secolo d. C. divenne una repubblica marinara semi-indipendente sotto il controllo nominale dei papi, cui passò in modo definitivo nel 1532. Fu annessa al costituendo Regno d’Italia nel 1861. I bombardamenti della II Guerra Mondiale e il terremoto del 1972 la danneggiarono seriamente. Ruolo fondamentale nella storia di Ancona è stato quello del suo porto, il principale del medio Adriatico sia per scambi commerciali sia per trasporto passeggeri. Uno dei monumenti più famosi è infatti l’Arco di Traiano (pure un riferimento al transeunte!), perfettamente conservato ed eretto in prossimità del porto dall’imperatore che di quest’ultimo aveva ordinato l’ampliamento (II secolo d. C.). L’Arco appare ancor oggi come il centro vitale della città, sorta d’ombelico che dà nutrimento e nuova linfa, oltre ad aprire porte verso l’Ignoto. Ancona però è anche una città d’arte, cui fiori all’occhiello sono la Cattedrale di San Ciriaco, l’arena romana, il Vecchio Faro, la fortezza Napoleonica, l’Adriatico attorno: tutto contribuisce a rendere il centro storico di Ancona scenario ideale per un evento “in bilico”: tra Est e Ovest, tra Notte e Giorno, tra Bene e Male, tra Fuoco e Acqua, tra Natura e Cultura, tra Malattia e Salute. Dove, quindi, avrebbe potuto aver luogo la tragedia di un personaggio amletico se non in una città di transizione come Ancona, il cui vecchio ospedale, circondato da edifici storici e squarci naturali, è in fase di dismissione e trasferimento? Un rito, più che uno spettacolo: ancestrale come il mare; pagano come l’ex tempio sulla collina di fronte; feroce come le battaglie dei gladiatori nella vicina arena; mortale come la terrazza naturale sul centro storico ove per un secolo sono stati accumulati rifiuti ospedalieri; puro come la macchia mediterranea che separa l’area

prescelta dal precipizio sul mare. L’ipotesi è che tutti i padiglioni dell’ospedale vengano trasferiti tranne uno. Centinaia di spettatori/attori vi si riuniscono per vivere la loro amletica mancanza di un padre. Aspettando il proprio turno, sono distesi sui letti e assistono dal video allo scioglimento del “nodo maternale” di chi li ha preceduti. I barbari (nel senso etimologico di stranieri) venivano dal mare. Come Orazio, cui Amleto si riferisce come padre, amico e nemico: Sfascia il mio cuore, dio in tre persone! (…) Divorziami, scioglimi, spezza il nodo, rapiscimi, imprigionami: se tu non mi incateni non sarò mai libero, casto mai se tu non mi violenti. (J. Donne, Holy Sonnets-Sonnet XIV: Batter My Heart) Un drammaturgo in odor di saggezza non si preoccuperebbe di garantire ad antieroi del genere neppur un briciolo di felicità. Ma la tentazione è forte: voli d’angeli ci conducano a casa cantando; e il resto, ovviamente, è silenzio. L’Ospedale “Umberto I” di Ancona fu costruito nella seconda metà dell’Ottocento come insieme di singoli edifici ognuno destinato a una particolare divisione di cura. Tale tipologia a padiglioni ha nel tempo quasi raddoppiato le sue dimensioni fino a occupare gran parte del versante del Monte Cardeto in direzione della città. Nelle varie fasi di ricollocazione dei distretti sanitari i differenti reparti di cura sono stati trasferiti progressivamente presso una nuova struttura e il complesso è quindi vuoto (la proprietà ha avviato una fase di ricerca per un suo futuro utilizzo). Le attività di supporto logistico all’attività medica – impianti tecnologici, magazzini e depositi, locali per la manodopera e la manutenzione, discarica, etc. – nel tempo sono state raggruppate nella parte alta dell’area – complessivamente di circa 35.000 mq – non accessibile al pubblico e poco visibile. La distribuzione funzionale associata alla permanenza della struttura ospedaliera, che ha attraversato indenne tutto lo sviluppo della città negli anni, ha mantenuto un isolamento privilegiato della zona e la possibilità ora di riscoprire luoghi e vedute impreviste. Lo spazio della vecchia discarica si trasforma in un nucleo “puro” ed estremo dove i protagonisti della “rappresentazione” si uniscono. Uno dei padiglioni esistenti dell’ospedale raccoglie il pubblico negli ultimi due piani. Esso è mantenuto nello stato attuale sia nella distribuzione delle camere sia nella dotazione di servizi. La distribuzione prevede gli spettatori/attori ospitati sui letti di degenza per 120 posti. La passerella conduce direttamente dal secondo livello dell’edificio allo spazio dell’incontro ed è prevista sul lato opposto una rampa di uscita nella zona camerini destinata all’attore cui corrisponde il ruolo di Orazio. Tutte le tecnologie e i materiali utilizzati per la costruzione sono di derivazione nautica: la struttura è in vetroresina e poliestere con rifinitura di superficie in stucco opaco antisdrucciolo, le superfici trasparenti rimovibili in polcarbonato termoformato, l’ingresso in plastica morbida e la pavimentazione in gomma drenante per esterni. Michele Gabbanelli

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his project was entered in an international competition organised every four years by OISTAT (International Organization of Scenographers, Technicians and Theatre Architects). Divided into categories, entrants must choose to focus on one of the four different types of staging facilities : production theatre, adaptable theatre, found space theatre, or converted buildings. The theatre/architectural project designed by HOV and Michele Gabbanelli investigates the issue of found space for staging “A” – a specially written text layout – placing the stage in the middle of a paradigmatic organism whose hub lies in the waste dump belonging to the Umberto I Hospital in Ancona. Found space theatre is a recent line of research in experimental theatre. The theme of staging emerges from a special place, that it takes over. The work is entirely geared to permanent and temporary space and new settings – it would be more accurate to call it stage rather then theatre – all furbished and fitted out for both the audience and actors’ needs. This sets up symbiotic relations between setting and show; relations which are more elaborate the more symbolically intricate the performance involved. Ancona is the regional capital of the Marches, a sort of amphitheatre resting on the slopes of a promontory in the Adriatic Sea. Founded by the Greeks from Syracuse in the late-4th century B.C. ( Ancona from the Greek word ankon meaning elbow), it really prospered under Roman rule. It became a semi-independent maritime republic under the nominal rule of the Vatican, which finally took over complete control in 1532. It was eventually annexed to the newly founded Kingdom of Italy in 1861. Air raids during the 2nd World War and an earthquake in 1972 both caused considerable damage to the city. Ancona is an art city, whose main attractions are the Trajan Arch, San Ciriaco Cathedral, the Roman arena, the Old Lighthouse, the Napoleonic Fort, and the surrounding Adriatic Sea: all this helps make Ancona’s city centre the ideal setting for an event “wavering” between the east and North, Night and Day, Good and Evil, Fire and Water, Nature and Culture, and Health and Illness. Where else could the dramatic events of a Hamletic character unfold if not in a transit city like Ancona, whose hospital, surrounded by historic buildings and views of the natural landscape, is gradually being abandoned and transferred elsewhere? A ritual rather than a show: as old as the sea; pagan like the old temple over on the hillside; as ferocious as the gladiator battles that once took place in the nearby arena; mortal as the natural terracing in the old city centre where hospital waste was left to build up for over a century; and as pure as the Mediterranean “stain” separating the pre-selected site from the sheer cliff down to the sea. The plan is to move all the hospital wards except one. Hundreds of audience/actors meet to live out their Hamletic absence of a father.

Waiting their turn, they lie on beds and watch a video of the untying of the “maternal knot” of those who went before them. The barbarians (in its meaning as foreigners) came from the sea. Like Horace, who Hamlet refers to as a father, friend and enemy: Batter my heart, three-personed God, (…) Divorce me, untie or break that knot again, Take me to you, imprison me, for I, Except you enthrall me, never shall be free, Nor ever chaste, except you ravish me. (J. Donne, Holy Sonnets-Sonnet XIV: Batter My Heart) A wise playwright would not allow even a drop of happiness to anti-heroes like that. But the temptation is hard to resist: flying angels lead us home with their song; and all the rest, of course, is silence. “Umberto I” Hospital in Ancona was built in the latter-half of the nineteenth century as a group of individual buildings, each serving as a separate ward. This ward layout has almost doubled in size down the years to cover much of the hillside of Mount Cardeto over by the city. As the various local health departments have been relocated, the different clinics have gradually been moved to a new facility and the complex has, therefore, been left empty (the owners have set up a study into how it might be used in future). The logistical support for the health care services – utilities, warehouses and store rooms, facilities for workers and maintenance, waste disposal etc – have progressively been relocated in the top part of the area – covering a total of about 35,000 square metres – not open to the public and not very visible. The functional layout of the hospital facility, that has survived the growth of the city down the years, has meant the building is still in a privileged isolated position, allowing certain unexpected places and views to be opened up. The old waste dump has been converted into a “pure” hub on the edge, where the “players” can meet. One of the old clinics holds the audience over the top two floors. It still has the same room arrangement and services. The layout locates the audience/actors on 120 hospital beds. The walkway leads straight up from the second floor of the building to the meeting space and an exit ramp over on the other side goes into the dressing room for the acting playing the part of Horace. All the technological fittings and materials used for building purposes come from the ship-building industry: the structure is made of glass-resin and polyester with opaque non-slip stucco surface finishing, the removable transparent surfaces are made of heat-moulded polycarbonate, the entrance is made of soft plastic, and the floor constructed out of drainage rubber for outdoors.

Rendering del Found Space Theatre per la cui costruzione è previsto l’uso di materiali derivati dalla tecnologia nautica: la struttura è in vetroresina e poliestere con rifinitura di superficie in stucco opaco antisdrucciolo, le superfici trasparenti rimovibili in polcarbonato termoformato, l’ingresso in plastica morbida e la pavimentazione in gomma drenante per esterni. Rendering of the Found Space Theatre whose construction involves the use of materials based on ship-building technology: a glass resin and polyester structure with non-slip opaque plaster surfaces, heatmoulded polycarbonate removable transparent surfaces, a soft plastic entrance, and drainable rubber surfaces for the outsides.

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Nella pagina a fianco, planimetria del teatro nella versione coperta e, in basso, l’interno della struttura. In alto, ricostruzione della morfologia del pendio e localizzazione del progetto e, a destra, viste dello spazio di

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rappresentazione e del collegamento sospeso ai padiglioni dell’ex ospedale. Sopra, pianta dei padiglioni e particolare della passerella di collegamento. Sotto, vista aerea di Ancona con evidenziata l’ubicazione del

progetto e, a destra, vista dello spazio di rappresentazione e del collegamento sospeso. Opposite page, site plan of the theatre when it is covered and, bottom, the interior of the new facility.

Top, reconstruction of the morphology of the slope and project location and, right, views of the stage and suspended connection to the old hospital wards. Above, plan of the wards and detail of the connecting corridor. Below, aerial

view of Ancona showing the project location and, right, view of the stage space and suspended connection.

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La forma della musica Instruments Design Il Silent Cello SVC200 e, nella pagina a fianco, il WX7 Wind Midi Controller, progettati da Yamaha Corporation Product Design Laboratory. The Silent Cello SVC200; opposite page, the WX7 Wind Midi Controller, designed by Yamaha Corporation Product Design Laboratory.

C’

è qualcosa che rappresenta nella spazio, agli altri sensi oltre che all’udito, la sostanza stessa della musica: si tratta degli strumenti musicali, ovvero di quegli oggetti la cui materia, la cui forma, il cui corpo tecnico sanno incorporare i valori più intimi e segreti della melodia, che in essi – e solo in essi – trova modo di trasmettersi, di dichiararsi, di comunicarsi. Ciò pone problemi che accostano la musica, a onta della sua dimensione elevatamente astratta e concettuale, al mondo del progetto, della funzione, del design; e, proprio per questo, pone il problema della trasformazione degli strumenti a seconda della sensibilità estetica di ogni epoca, o anche al mutamento dei criteri musicali, anch’essi in divenire. Certo, nulla, è più legato alla tradizione di uno strumento musicale. Ciò nonostante, la modernità ha assistito a un progressivo perfezionamento di questi preziosi oggetti tecnici e addirittura alla loro reinvenzione (basta pensare alle chitarre elettriche d’oggi). Ora però le cose stanno andando ancora più oltre, e si profila un design degli strumenti musicali ancora più avanzato, e capace di coniugare inedite prestazioni con forme e materiali quanto mai sofisticati. Ecco dunque nuove chitarre, violini, violoncelli, strumenti a fiato nei quali tradizione e tecnologia convergono in forme e funzioni che tendono a combaciare con le esigenze della nostra ipermodernità, o comunque a dialogare con esse, fino a creare una dialettica progettuale nella quale si esprime la natura eclettica e mutevole del nostro tempo. Forse in essi il design non troverà un rinnovamento radicale; ma è certo che nelle loro nuove forme esso indicherà novelli percorsi, da sperimentare, almeno, fino in fondo. Maurizio Vitta

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here is something that can represent the very substance of music in space, to the other senses as well as hearing: we are, of course, talking about musical instruments or, in other words, those objects whose substance, form and technical make-up can incorporate the deepest and most intimate values of melody, which in these instruments (and them alone) finds a way of conveying itself, expressing itself and communicating. This sets problems which bring music (despite its highly abstract and conceptual nature) close to the world of functional design; and, for this very reason, it poses the question of how instruments have changed according to the aesthetic sensibility of different ages or changes in musical canons, which also progress. Of course, nothing is more closely tied to tradition than a musical instrument. Nevertheless, modernity has witnessed a gradual perfecting of these valuable technical objects and even their re-invention (just take today’s electric guitars). But things are now being taken even further and instrument design is progressing even further, as it combines new performance capabilities with increasingly cutting-edge forms and materials. So we now have new kinds of guitars, violins, cellos and instruments in whose design tradition and technology come together in forms and functions tending to fit the needs of hyper-modernity or at least of dialoguing with them, even managing to create a dialectics of design expressing the eclectic, changing times in which we live. Perhaps this will not lead to a radical renewal of design, but the new forms of these instruments will point towards new lines of experimentation to be taken to their extreme.

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Frank Stella Francis Design-RFR

Frank Stella Francis Design-RFR

Tensosculture

Nella pagina a fianco, da sinistra, particoari della Scultura Sospesa installata nell’atrio del Ritz-Carlton Millenium Hotel a Singapore e della scultura Prince Friedrich von Homburg a Washington. Sopra, viste della scultura Broken Jug (costruttore: CMN). Queste sculture, concepite da Frank

Art and Engineering

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Credits Project: Frank Stella with Earl Childress & Francis Design Engineering: RFR Builder of Broken Jug: CMN

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pparentemente scultura e struttura non hanno nulla da spartire, la prima si occupa della forma, della ricerca estetica e dell’espressione dei valori della società, la seconda invece rappresenta l’arte del costruire, incarna una conoscenza tecnica sedimentata in lunghi secoli d’apprendimento, costituisce oggetto di una scienza applicata e necessaria per soddisfare l’innato bisogno del riparo. Vero ma non troppo poiché, non appena le sculture superano la piccola scala, il raggiungimento della composizione complessiva trova un limite nella statica dell’oggetto: nei grandi bronzi equestri compaiono artifici per offrire un ulteriore punto di appoggio, così come la statica dell’emblematico David di Michelangelo è aiutata da un tronco che affianca il polpaccio dell’eroe, elemento, questo, estraneo ma sapientemente integrato da diventare parte indissolubile della scultura. Forse che la tecnica costruttiva rappresenta la “stampella” della scultura o forse che la relazione fra le due è più complessa e dà origine a un’eterna danza che si protrae da oltre duemila anni? Le colonne dei templi dorici sono diventate, nell’Eretteo, cariatidi ovvero corpi umani e quindi scultura, esprimendo una chiara volontà figurativa per qualcosa che non è nient’altro che struttura. Inversamente la Statua della Libertà, simbolo del nuovo continente, trova la sua maestosa figuratività nell’arte di costruire di Gustaf Eiffel. Nel primo caso la struttura si fa scultura e nel secondo la scultura trova il suo fondamento nella struttura e nei successi della tecnica moderna. Nella seconda metà di questo secolo la relazione fra scultura e struttura diviene ancora più stretta e ambigua. Con Kenneth Snelson si va oltre quanto fatto da Eiffel e, per le prima volta, la ricerca strutturale diventa inequivocabilmente arte avendo egli attribuito alle Tensegrity un deliberato valore estetico. Questa categoria di strutture non nasce dall’osservazione del mondo naturale, non ha paralleli nel mondo della natura, è invece una pura concettualizzazione, proprio come l’arte astratta è frutto esclusivo dell’intelletto. Inversamente l’atto dell’impacchettare, così ben espresso da Cristo in un fuori scala talmente emblematico da diventare land-arte, trova la sua semplicità esteriore in una complessità nascosta come nel caso del Reichstad, opera in cui importanti macro elementi strutturali sono occultati sotto i teli, al fine di assicurare il loro ancoraggio, proteggere le parti delicate dell’edificio e così via.

Lo stringersi dell’abbraccio fra la scultura e la struttura è un fenomeno di questi ultimi anni ed è ben incarnato dal fiorire di grandi opere di dieci, venti, trenta metri, la cui dimensione e il fatto di librarsi al di sopra del suolo, pone in maniera ancora più pressante il problema statico. Queste sculture, in virtù della loro grandezza e del fatto di non esser né figurative né massive, non sono più il punto focale nell’attenzione dell’osservatore; è bensì quest’ultimo che diventa oggetto in rapporto alle sculture: esse si estendono nello spazio, per appropriarsene, torcerlo, permearlo e forse ridefinirlo, e al cui interno ora il fruitore espleta la sua esperienza tridimensionale. Questo anelito di convergenza fra scultura e struttura ha creato stupore nelle monumentali “tensosculture” di Anish Kapoor culminate con l’“installazione” della Tate Gallery la cui complessità dimensionale e strutturale ha richiesto l’intervento nientemeno che di Cecil Balmond di Ove Arup & Partners divenuto il tramite per cristallizzare una forma arbitraria che non è nient’altro che sola struttura. In questa logica si colloca parte dell’odierno lavoro di Frank Stella in una sperimentazione puntuale e sistematica delle possibilità espressive della nuova dimensione. Egli, all’inverso di Kapoor, non ha ricercato un nuovo linguaggio sincrono al fenomeno strutturale bensì ha continuato a sviluppare il suo pensiero estetico con riferimento alla sua iconografia per adattarla alla differente scala facendo leva sulle modalità costruttive e sulla riflessione strutturale, coadiuvato in questo da RFR e in particolare dal suo socio fondatore Martin Francis. E’ un po’ una novità che un “bureau d’etude technique” quale RFR, specializzato nella sofisticazione strutturale, si trovi a co-operare con uno scultore il cui interesse è invece centrato nella sua creazione artistica e secondo cui l’istanza strutturale è solo un tramite per trasformare in realtà l’anelito scultoreo. L’intesa fra l’artista americano ed RFR nasce dal fatto che Stella ha trovato in RFR una flessibile cultura tecnica e quindi adattabile a differenti “environment” e processi creativi. In primo luogo strumenti matematici concepiti per strutture altamente complesse si sono rivelati ideali anche per strutture tipologicamente più semplici ma, al tempo stesso, geometricamente articolate e non ancora codificate; in secondo luogo l’abitudine a innovare i processi di produzione si è rilevata idonea per ripensare il progetto integrando anche l’istanza costruttiva fra le variabili di riferimento. Stella ha così incominciato a

comprendere il know-how di RFR, così come questa ha appreso ad abbracciare il processo progettuale dello scultore. Un processo questo molto lontano dalla pratica dell’architettura e dall’ingegneria, ma a queste prossimo in termini di riflessione intellettuale, di metodologia e di ricerca analitica. La scultura installata nell’atrio del Ritz Carlton Millenium Hotel di Singapore rappresenta il primo esperimento di Stella per aumentare la scala dimensionale, soprattutto con riferimento alla ricerca formale generata dalla distorsione e manipolazione di una forma circolare intagliata radialmente. Questa scultura ha quindi, come tema tecnico, l’eterno problema della realizzazione di geometrie altamente complesse: la forma finale non è prodotta per mezzo di complessi stampi tridimensionali bensì è frutto di un processo produttivo artigianale, inusuale e sviluppato da un cantiere specializzato nella costruzione di barche da regata. La scultura non è ottenuta a partire da un unico disco in composito, bensì dall’unione delle sue due superfici, inferiore e superiore, rese solidali in opera solo quando la geometria avesse corrisposto completamente alle indicazioni dell’artista. Ne è così scaturita una scultura di circa 7x5 metri la cui sostenibilità risiede nel cambiamento dell’ambito produttivo e nella considerazione strutturale che il momento flettente è intimamente legato allo sforzo di taglio e che la solidarizzazione di due superfici flessibili in fibra di vetro, separate da un’anima di mousse espansa, può generare un oggetto incredibilmente solido. La scultura di Singapore è risultata essere la prova generale per la più grande scultura Prince Friedrich von Homburg esposta a Washington. Questa, non essendo sospesa, trova il suo sostentamento in una struttura ausiliaria figurativamente incompiuta, apparentemente vacillante, come se fosse in atto di collassare su se stessa perdendo la sua integrità, proprio come i dischi da essa sostenuti si sono contorti nello spazio. L’emulazione del collasso ha trovato la sua concretizzazione nella tipologia strutturale delle Tensegrity, ovvero nella libera associazione d’elementi tesi e compressi che disgregano visivamente il fluire reale delle forze. Proprio come tale figuratività è lontana dal mondo delle strutture anche l’iter progettuale ha poco in comune con l’ingegneria canonica: la scultura è stata sviluppata a partire dall’esperienza fisica, prima una piccola maquette, quale fase iniziale di sperimentazione e messa a punto, seguita poi da una maquette-scultura in scala 1/3, quale

Stella, sono state realizzate con la collaborazione di Earl Childress & Francis Design e, per l’ingegnerizzazione, di RFR. Opposite page, from left, details of the Hanging Sculpture in the lobby of the RitzCarlton Millennium Hotel in Singapore and

the Prince Friedrich von Homburg sculpture in Washington. Above, views of the Broken Jug sculpture (built by: CMN). These sculptures, designed by Frank Stella, were made in conjunction with Earl Childress & Francis Design and RFR for the engineering.

momento di verifica intermedia, e infine si è passati alla costruzione della scultura in scala reale che è divenuta un laboratorio su cui testare e deliberare configuarzioni estetiche e strutturali che non avrebbero potuto essere rappresentate altrimenti. Dal punto di vista tecnico la struttura esigeva di calcolare l’“inconoscibile”, poiché, data la forma altamente aleatoria, era impossibile definire molti dei parametri canonici quali il centro di gravità, la distribuzione della neve, il centro di pressione dell’azione del vento. L’insieme delle possibili combinazioni di carico è stato, poco a poco, eroso escludendo tutto ciò che non ha staticamente senso mentre quello dell’impossibile è stato esteso con riferimento a ciò che è incompatibile con le caratteristiche interne del progetto. Questa scelta ha generato un sostenibile insieme di combinazioni e sulla base di tutte le possibili permutazioni la scultura è stata analizzata, verificata e calcolata. La scultura Broken Jug ripropone, in scala ancor più grande, il tema di Singapore, inoltre, questa volta, essa non è né sospesa, né sostenuta a mezz’aria bensì è posata sul suolo. Il cambio di scala e i pochi punti di supporto, ben distanziati fra loro, pongono nuovi problemi che esigono nuove risposte fra cui la rivisitazione del principio struttural-costruttivo: al posto dei materiali compositi è stato preferito l’utilizzo dell’alluminio, un materiale altamente efficiente che può essere plasmato su forme libere come ci ha insegnato l’industria aerospaziale e nautica a cui è stata affidata la realizzazione di quest’opera. Struttura e scultura sono state fatte convergere in parallelo fino a ottenere una opera che è solo e integralmente costruzione e dove l’efficienza assoluta è stata subordinata alla ricerca della migliore sintesi fra forma scultorea e dimensionamento strutturale. Tale sapiente bilanciamento è divenuto possibile grazie ai sofisticati strumenti matematici che hanno permesso una modellizzazione esaustiva tesa a rimuovere tutte le incognite derivanti dallo studio di geometrie strutturali non ancora sperimentate. Il principio scultoreo del disco intagliato si è materializzato in tre differenti sculture, grazie a tre differenti modi di garantirne la costruibilità, ciò in relazione alla dimensione, all’interfaccia con il sito e alla volontà d’espressione ricercata dall’artista. L’ingegneria si è consacrata alla scultura così come la scultura si consacra all’arte e ai critici di questa disciplina di emettere un giudizio storico. Niccolò Baldassini 190 l’ARCA 77


S

culpture and structure apparently have nothing in common; the former is concerned with form, aesthetic experimentation and expressing society’s values, while the latter, in contrast, represents the art of building, embodying technical expertise developed down the ages and the subject of an applied science required for satisfying an innate need to take shelter. This is true but not the whole truth, since, as soon as sculptures move onto larger scales, the object’s static qualities set certain constraints on the overall composition: large bronze statues of horses incorporate special devises to provide extra support, just as the static forces in the emblematic case of Michelangelo’s David are helped along by a trunk place alongside the hero’s calf; a foreign body cleverly inserted to become an inseparable part of the sculpture. Perhaps technology and engineering provide a “crutch” for sculpture to lean on or perhaps the two interact in more complex ways to set an endless dance in motion that has been going on for over two thousand years? The columns of Doric temples turn - in the case of the Erechtheion - into caryatids or human bodies and hence sculptures, showing a clear figurative will for something which is actually nothing more than structure. In contrast, the Statue of Liberty, a landmark for the new world, draws its majestic figuration from Gustav Eiffel’s building craft. In the first case structure turns into sculpture, and in the second sculpture is grounded in structure and the achievements of modern technology. Sculpture and structure moved into even closer and more ambiguous relations together during the latter half of the 20th century. Kenneth Snelson has even managed to move beyond Eiffel’s achievements and, for the first time, structural experimentation has taken on the status of genuine art, as he deliberately injects aesthetic value into a Tensegrity. This type of structure does not derive from observing the natural world and has no parallels in nature. It is purely conceptual, just as abstract art is purely a product of the intellect. In contrast, the act of wrapping, so well interpreted by Cristo in an out-of-scale design emblematic enough to become a work of land art, manages to combine external simplicity and hidden complexity, as in the case of the Reichstad, a work in which key macro structural elements are hidden away beneath canvases to

ensure they are anchored properly and to protect delicate parts of the building etc. As sculpture and structure have drawn closer together in a tighter embrace over the recent years, a vast number of major works over ten, twenty or thirty metres tall have suddenly appeared. Their sheer size and the fact they hover above the ground mean that static issues are even more to the fore. The scale and non-figurative/non-massive nature of these sculptures mean they are no longer the focal point of the observer’s viewpoint; and the observer actually turns into an object in relation to the sculptures, as they extend through space, taking hold of it, permeating it and, perhaps, even redefining it. Users now complete their three-dimensional experience actually inside the space. The way sculpture and structure have come together has actually caused consternation in Anish Kapoor’s monumental “tensile structures”, culminating in the Tate Gallery “installation”, whose dimensional/structural complexity called for the help of Cecil Balmond no less, from Ove Arup & Partners, to crystallise a random form that is nothing more than mere structure. Frank Stella’s latest designs work along similar lines, as he systematically experiments with the expressive potential of a new dimension. Unlike Kapoor, he was interested in looking for a new idiom in synch with structure, preferring instead to develop his own aesthetic line of thought adapting his own iconographic features to a different scale by exploiting production technique and structural engineering, helped along by RFR and its founding father, Martin Francis, in particular. There is something novel about a “bureau d’etude technique” like RFR, which specialises in structural sophistication, co-operating on a sculptural design whose main focus of interest is artistic creation and in which structural expertise merely serves to turn sculptural pretension into reality. This American artist and RFR decided to work together because Stella discovered that RFR was a culturally flexible engineering firm capable of adapting to different environments and creative processes. In the first instance, mathematical tools designed for highly intricate structures turned out to be ideal even for stylistically more simple (but at the same time geometrically intricate and not-yet-coded) structures; secondly, the tendency to innovate production processes

Particolare e, nella pagina a fianco, vista generale della scultura del Ritz-Carlton Millenium Hotel a Singapore, primo esperimento di Stella per aumentare la scala dimensionale, soprattutto con riferimento alla ricerca formale generata dalla distorsione e manipolazione di una forma circolare intagliata radialmente. Detail and, opposite page, general view of the sculpture in the Ritz-Carlton Millennium Hotel in Singapore, first experimented with by Stella to increase the dimensional scale, notably in relation to the stylistic experimentation generated by the distortion and manipulation of a radially-cut circular form.

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proved to be an ideal way of re-thinking the project, thereby introducing construction factors into the variables in play. This allowed Stella to come to terms with RFR know-how, just as RFR came to adopt the sculptor’s own process of design. A process that is poles apart from architecture and engineering, but similar as regards the intellectual thinking, method and analytical research involved. The sculpture installed in the hall of the Ritz Carlton Millennium Hotel in Singapore is Stella’s first experiment on a large scale, particularly in terms of stylistic experimentation deriving from distorting and manipulating a radially-cut circular form. This sculpture is technically focused on the eternal problem of designing highly complex geometric patterns: the final form is not produced by means of intricate three-dimensional moulds but is actually the result of an unusual craft process developed by a shipbuilding yard specialising in racing yachts. The sculpture does not derive from one single composite disk but a combination of its upper and lower surfaces, only actually given solid form when its geometry fully complied to the artist’s guidelines. This resulted in an approximately 7x5-metre sculpture, whose sustainability lies in the change in production realm and the structural consideration that the bending moment is closely linked to the shear force and that the bonding of two flexible fibreglass surfaces, separated by an expanded form core, can create an incredibly solid object. The Singapore sculpture turned out to be a dress rehearsal for the much bigger Prince Friedrich von Homburg sculpture on display in Washington. Since this sculpture is not suspended, it is supported by a figuratively incomplete auxiliary structure that appears to shake as if it were about to collapse in on itself and lose its integrity, just like the disks it supports are twisted in space. The emulating of a collapse is physically embodied in the structural design of Tensegrities or, in other words, the free association of tensile, compressed elements visually disrupting the real flow of forces. Just as this kind of figurative design is poles apart from the world of structures, the design process has little in common with standard engineering: the sculpture was created along the lines of physical experience, first a small scale model, a sort of initial experimental/development phase, followed by a 1/3-scale modelsculpture as an intermediate test and then, finally, the construction

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of the full-scale sculpture, which also has been used as a sort of bench mark for testing out and assessing, at full scale, aesthetic/structural configurations that could not have been represented in any other way. Technically speaking, the structure called for the “incalculable” to be worked out, since, given its distinctly random nature, it was impossible to define many relevant parameters, such as the centre of gravity, distribution of snow, centre of pressure exerted by the wind. The combination of combinations of load cases was gradually whittled down to exclude everything not of static relevance, while the impossible was extended to include what is incompatible with the intrinsic features of the design. This generated a sustainable set of load cases and, last of all, the sculpture was analysed, tested and calculated based on every possible permutation of them. The Broken Jug sculpture is an even bigger version of the Singapore theme, only this time it is neither suspended, nor supported in mid-air but just placed on the ground. The change in scale and small number of support points, all carefully spread out, pose new problems calling for new solutions, including a re-working of the basic structural-construction principle: it was decided to use aluminium instead of composite materials, a highly efficient material that can be shaped over free forms as the aerospace and ship-building industries have shown, which were in fact given the job of building this work. Structure and sculpture were brought together along parallel lines in order to create a work which is pure construction; absolute efficiency was subordinated to experimentation into the best possible synthesis of sculptural form and structural size. This clever balancing act was made possible by sophisticated mathematical tools allowing exhaustive modelling to remove all the unknowns deriving from a study of structural geometrics never previously experimented with. The sculptural principle of a cut disk took the physical shape of three different sculptures, thanks to three different ways of ensuring it is actually buildable: i.e. in relation to size, interface with the site and the artist’s will to express himself. Engineering lends itself to sculpture, just as sculpture lends itself to art, leaving it up to the critics in this field to express their historical judgement. Niccolò Baldassini

Studi per la scultura Broken Jug. Nella pagina a fianco, alcune fasi della sua costruzione nei cantieri navali CMN.

Studies for the Broken Jug sculpture. Opposite page, stages in its construction at the CMN ship-building yards.

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Viste della scultura Prince Friedrich von Homburg a Washington. Questa scultura utilizza la tipologia strutturale delle Tensegrity, ovvero nella libera associazione d’elementi tesi e compressi che disgregano visivamente il fluire reale delle forze. Views of the Prince Friedrich von Homburg in Washington. This sculpture uses the Tensegrity structural method or, in other words, the free association of tensile and compressed elements that visually break down the real flow of forces.

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Italia/Italy – Crotone

1° Premio/1st Prize Sergio Dinale (capogruppo/team leader), Paola Rigonat Hugues, Coll.: Emanuele Bianchin, Alessia Bolognin, Gaetano Giuliano, Chiara Riccato, Diego Riccato, Enrico Robazza, Alessia Semenzato 2° Premio/2nd Prize Studio Valle 3° Premio/3rd Prize (ex-aequo) - Pica Ciamarra Associati - ATP Sorrentino - Salvatore Morelli (capogruppo/team leader) Lucio Carbonara, Paolo Micalizzi, Elio Trusiani, Simonetta Pascucci, Laura Macchitella, Nicoletta Mairo Consulenti: Leopoldo Franco, Francesco Bianchi, Beatrice Zimei, Salvatore Gualtieri Coll.: Silvia Bonanni, Carola Cagnazzo, Salvatorluca Tallaro, Stefano Tesoni - ATP Pisani

Prolungamento Lungomare del tratto compreso tra piazzale Cimitero e località Irto. Progettazione preliminare dell’intervento di prolungamento Lungomare di Crotone via per Capocolonna tratto compreso tra piazzale Cimitero e località Irto. Extension of the sea-side promenade stretch between the Cemetery square and Irto district Preliminary project forthe extension of Crotone’s sea-side promenade: stretch between the Cemetery square and Irto district

Committente/Client: Comune di Crotone

Committente/Client: Ville de Strasbourg

COMPETITIONS

Bibliothèque Austerlitz Progetto per la realizzazione della "Bibliothèque Austerlitz" di Strasburgo. Il programma prevede la riqualificazione e l'ampliamento del palazzo Austerlitz, ubicato presso l'omonimo molo, per un totale di 11.600 mq, di cui 8.000 mq di spazi pubblici e 3.600 mq di spazi interni The "Bibliothèque Austerlitz" project for the construction of the "Bibliothèque Austerlitz" in Strasbourg. the brief calls for the requalification and the extension of Austerlitz palace, by the omonimous pier, for a total of 11,600 sq.m, with 8,000 sq.m of public spaces and 3,600 sq.m of interior spaces

1° Premio/1st Prize Jean-Marc Ibos - Myrto Vitart

+ europaconcorsi

COMPETITIONS + europaconcorsi

Francia/France – Strasbourg

Germania/Germany – Munchen Hauptbahnhof München. Sistemazione dell'atrio e della piazza della Stazione Centrale di Monaco (1a fase) L’ente banditore intende dare una nuova definizione architettonica all'atrio e alla piazza della Stazione Centrale di Monaco. Per la piazza antistante la stazione i partecipanti saranno chiamati a configurare uno spazio pubblico che, in vista del nuovo collegamento con l’aeroporto, assumerà sempre di più il ruolo di “Porta urbana”. Per quanto riguarda invece l’atrio, si richiede di affrontare progettualmente l'elaborazione di nuove funzioni pubbliche, quali market h24 e Tourist-info center Hauptbahnhof München. Rearrangement of the entrance hall and the square of the Central Station of München (1st phase) The awarding authority wants to give an architectural definition to the entrance and the square of the Central Station of München. For the square, participants will be called to design a public space which, in view of the connection with the airport, will assume the role of "Urban Gate". For the entrance hall the project should elaborate new public functions like a 24hour market and tourist-info center

Giuria/Jury: Christiane Thalgott, Ewald Breuer, Carl Fingerhuth, Hartmut H. Topp, Hille von Seggern, Arnold Klotz, Hannelore Deubzer, Susanne Burger, Klaus J. Beckmann, Committente/Client: DB Station & Service AG A

B

Progettisti ammessi alla 2a fase/Projects shortlisted for the 2nd phase A. Auer - Weber B. Gewers Kühn + Kühn C. Benthem Crouwel Altri progettisti invitati/Other invited architects - Florian Nagler Architekten - 03 München GbR - ARGE Berktold-Hildman-Wicher - BSS Bär Stadelmann Stöcker - MSP Meier-Scupin & Petzet - Wandel Hoefer Lorch - Wingårdh Arkitektkontor AB - RKW - Rhode Kellermann Wawrowsky - AS&P Speer und Partner

Italia/Italy – Forlì Neri Award 2003 Concorso per manufatti per l’illuminazione e l’arredo urbano che rispondano alle esigenze della sicurezza, della durata e dell’ecosostenibilità, ma che siano anche eleganti nello stile e razionali nell’industrial design Competition for lighting products and for urban furnishing responding to the needs of security, durability and ecosustainability, being of either elegant and rational industrial design style Giuria/Jury: Pierluigi Cervellati, Orazio Dogliotti, Pierlugi Molinari, Franco Zagari, Giugliano Gresleri, Peter Rowe, Domenico Neri, Antonio Neri, Paolo Targhetti Committente/Client: Neri spa

C

Germania/Germany – Neuss

Giuria/Jury: Gerd Aufmkolk, Hannelore Deubzer, Eckhard Gerber, Ulrike Lauber Committente/Client: Stadt Neuss 1°

2° 1° Premio/1st Prize Thomas van den Valentyn, gernot schulz: architektur 2° Premio/2nd Prize Raderschall Architekten, Lüderwaldt Architekten 3° Premio/3rd Prize Jauss + Gaupp 4° Premio/4th Prize Schweger

Ampliamento del Clemens-Sels-Museum Progetto per l’ampliamento del “Clemens-Sels-Museum” a Neuss Il programma prevede un ampliamento nell’ordine di 3.450 mq di superficie netta Extension of the Clemens-Sels-Museum Project for the extension of the “Clemens-Sels-Museum” in Neuss. The brief calls for an extension of 3,450 sq.m of net surface

1° Premio/1st Prize Studio Lepreti 2° Premio/2nd Prize Studioata 3° Premio/3rd Prize Studio Dac

Italia/Italy Montalto di Castro (VT) Nuova struttura teatrale polivalente Ai partecipanti si richiedono idee progettuali per la riqualificazione dell’area denominata “Ex Esso” e delle aree limitrofe per destinarle alla realizzazione di una struttura teatrale polivalente con utilizzo per attività di spettacolo, congressuali, ricreative, di svago e di gioco New multifunction theatrical structure Participants are requested to provide ideas for the refurbishment of the area called “Ex Esso” and surrounding areas to be devoted to a multifunction theatrical structure

Giuria/Jury: Pio Baldi, Giovanni Brambilla, Silvia de Paolis, Massimo Fordini Sonni, Gianfranco Pizzolato, Pino Quartullo, Luca Ruzza Committente/Client: Comune di Montalto di Castro

84 l’ARCA 190

1° Classificato/1st Place MDU architetti: Alessandro Corradini (capogruppo/team leader), Valerio Barberis, Marcello Marchesini, Coll.: Cristiano Cosi, Roberto Cosi, Federico Boragine, Gianluca Zoppi, Fabrizio Pedditzi, Antonio Silvestri 2° Classificato/2nd Place Stefano Cordeschi (capogruppo/team leader), Anne Claire Beuchat, Hippolyta D'Ayala Valva, Daniele Dell’Aguzzo, Francesco Marinelli, Paolo Mezzalama, 3TI Progetti Italia 3° Classificato/3rd Place Tito Toso (capogruppo/team leader), Andrea Quaggiotto, Marco Toso, Pio Toso 4° Classificato/4th Place Studio IaN+: Carmelo Baglivo (capogruppo/team leader), Stefania Manna, Luca Galofaro, Coll.: Philip Buenger, Jessica Lange, Antonio Pio Saracino 5° Classificato/5th Place Markus Berger, Carles Gascò 6° Classificato/6th Place Carlel Lange (capogruppo/team leader) Rolf Alme, Ragnwald Winjum, Maurizio Malena 7° Classificato/7th Place Gianluca Ficorilli

190 l’ARCA 85


Spagna/Spain – Girona

1° Premio/1st Prize Josep Fuses & Joan Maria Viader Progettisti ammessi alla 2a fase/Projects shortlisted for the 2nd phase - MBM Arquitectes, Oriol Capdevila, Francesc Gual - Jordi Bosch, Joan Tarrús, Manel Bosch - Josep Benedito, Santi Orteu - Carles Bosch, Joan Lluís Frigola, Carlos Ferrater - Oscar Tusquets, Carlos Díaz - Jaume Bach

Hospital Santa Caterina de Girona Progetto per la realizzazione di nuovi uffici amministrativi presso lo storico edificio dell’ospedale Hospital Santa Caterina de Girona Project for the construction of new administration offices by the historical building of the Hospital Santa Caterina de Girona Committente/Client: Institut d’Assistència Sanitària Parc Hospitalari “Martí i Julià” 1°

Committente/Client: Presidenza del Consiglio dei Ministri

Italia/Italy – Solofra (AV) Sistemazione della piazza S. Michele Gli obiettivi del concorso, sono quelli di ridare alla Piazza S. Michele i contenuti architettonici, di utilizzo di un tempo, valutando anche in alternativa la possibilità di potere trasportare la antica fontana prima esistente e attualmente posta di fronte alla Collegiata di S. Michele Arcangelo Rearrangement of S. Michele square The competition objectives are: to render to the square its architectural contents evaluating the possibility of transporting the ancient fountain now placed infront of the Collegiata di S. Michele Arcangelo

1° Premio/1st Prize Pasquale Culotta (capogruppo/team leader), Federico Verderosa, Gustavo Matassa, Rocco Lettieri, Fabio Di Giorgio, Cons.: Giampiero Monti, Coll.: Antonio Galasso

Svizzera/Switzerland – Basel

Committente/Client: APVHolding Srl Società dell’Autorità Portuale di Venezia 1°

1° 1° Premio/1st Prize Ugo Camerino, Giorgio Croci, SINT ing. S.r.l., Areatecnica Vigne Associati, Benedetto Tedeschi, studio.eu

Nuovo complesso edilizio Progettazione Preliminare per la realizzazione di un complesso edilizio come previsto dal Piano di Recupero dell’area di via delle Macchine a Porto Marghera New building complex Preliminary project for the construction of a building complex as foreseen by the Recovery Plan of the via delle Macchine area in Porto Marghera

Vincitore/Winner Herzog - de Meuron Progettisti ammessi alla 2a fase/Projects shortlisted for the 2nd phase - Betrix - Consolascio Architekten - Burckhardt Partner AG - Antonio Cruz - Antonio Ortiz/ Giraudi Wettstein - Silvia Gmur-Livio Vacchini - Ingenhoven Overdiek und Partner - Miller - Maranta - Morger - Degelo

SüdPark Basel Progetto per la realizzazione del complesso edilizio denominato SüdPark Basel. Si tratta di un comprensorio situato a ridosso della stazione centrale destinato ad abitazioni uffici e servizi SüdPark Basel Project for the construction of a building complex called SüdPark Basel, it is a complexnear tghe centralstation dedicated to offices and services Giuria/Jury: Heiko Achilles, Marc Angélil, Jürg Conzett, Dorothee Huber, Flora Ruchat, Johannes Schaub, Fritz Schumacher, Felicitas Siebert, Thomas Wetzel Committente/Client: Buchhofer Barbe AG

Giuria/Jury: Presidente: Matteo Spinelli Membri: Ennio Tarantino, Aniello Osvaldo De Stefano, Achille Pascucci, Michele Famiglietti, Samantha Petrone, Giuseppe Visone, Michele Alfano Committente/Client: Comune di Solofra

Italia/Italy – Venezia

COMPETITIONS

Nuova sede della biblioteca Chigiana Acquisizione di una proposta ideativa per la realizzazione della nuova sede della biblioteca Chigiana - Sezione bioetica e biotecnologia e dell’Archivio storico della Presidenza del Consiglio dei Ministri presso l’immobile in piazza San Silvestro nuova sede degli uffici della amministrazione New premises for the Chigiana library Acquisition of a project idea for the construction of the new premises for the Chigiana library -bioetical and biotechnological sections and for the construction of the historical Archives of the presidency of the Ministry Council in San Silvestro new premises of the administration offices

1° Premio/1st Prize Enrico Realacci, Coll.: Gianluca Botti Menzione speciale/Special Mention Giuseppe Vallifuoco (capogruppo/team leader), Gaetano Lixi, Gianni Massa, Olindo Merone, Cons.: Luigi Berti, Alessandro Fadda, Andrea Forges Davanzati, Paolo Lamieri, Fabio Lilliu, Mirco Eugenio Pani, Coll.: Antonio Nurchi, Damiano Moi, Valeria Saiu Menzione/Mentions - Stefano Michelato (capogruppo/team leader) - Carlo Tralongo (capogruppo/team leader)

+ europaconcorsi

COMPETITIONS + europaconcorsi

Italia/Italy – Roma

USA - Kapolei Malama Learning Center L’ente banditore intende raccogliere proposte progettuali per la realizzazione di un polo culturale. La struttura di circa 2.000 mq deve essere concepita per promuovere la conservazione e celebrare il patrimonio naturale e culturale della Hawaii, attraverso le arti figurative e performing arts Competition for design proposals for the realization of a Cultural Center, The structure having about 2,000 sq.m must be designed to promote the conservation and to celebrate tha natural and cultural patrimony of Hawaii through figurative and perfoming arts Giuria/Jury: Billie Tsien, Patricia Patkau, Robert Mangurian, Stephen Meder, W.H. Raymond Yeh Committente/Client: City of Kapolei

1° Premio/1st Prize Eight Inc 2° Premio/2nd Prize Jeff Williams, Khaled Mansy 3° Premio/3rd Prize Andrew Tang, Kersten Nabielek Menzione speciale/Special Mention ADW (Architectural Design Workshop) Katherine Leat, Pierluigi Chinellato 1°

86 l’ARCA 190

190 l’ARCA 87


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