Zoom Giappone 07

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Rivista

gratuita gratuito - numero 7 - settembre - dicembre 2017

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La terra santa degli otaku


ZOOM EDITORIALE L O SGUARDO DI ERIC RECHSTEINER

Santo Graal È risaputo: una delle principali ragioni che spingono numerosi stranieri a recarsi in Giappone é successo della sua cultura pop. I manga, gli anime, la JPop, tanto per citare alcuni emblemi della pop culture, hanno suscitato una grande curiosità per il Paese che li ha visti nascere. Non sorprende quindi, che i turisti del mondo intero scelgano l’arcipelago e visitino soprattutto i quartieri-simbolo della cultura pop: Akihabara, Harajuku o ancora Shibuya. Ma ci sono anche quelli che hanno deciso di trasferirvisi per vivere appieno la loro passione, o per farne addirittura il proprio mestiere. Abbiamo incontrato alcune di queste persone per farci raccontare il loro percorso attraverso la Terra Santa dell’otakismo.

© Eric Rechsteiner

Quartiere di Shinjuku, Tokyo

La stazione degli autobus di Shinjuku, Shinjuku basuta, situata nell’immenso complesso della stazione ferroviaria di Shinjuku, vede gli utenti crescere di giorno in giorno. La stazione permette i collegamenti con la maggior parte delle destinazioni nell’arcipelago, a prezzi davvero competitivi. L’elevato costo dei biglietti ferroviari incita sempre più persone - giovani, pensionati, turisti backpackers - a prediligere gli autobus per muoversi nel Paese.

LA REDAZIONE redazione@zoomgiappone.info

Ancora una legge controversa

NATURA Nuova

Il Parlamento ha adottato, il 15 giugno, una nuova legge che rivoluziona profondamente la filosofia del Codice penale giapponese. Quest’ultimo si concentrava fino ad ora sulle pene per i crimini già commessi, mentre la nuova legge introduce dei procedimenti giudiziari contro la semplice premeditazione di atti reprensibili. Una nota al testo di legge definisce così 277 “attività a rischio” che potrebbero dar luogo a procedimenti in quanto mirate a “cospirazione”.

Una nuova campagna di caccia alla balena approvata dal Giappone è cominciata mercoledì 14 giugno. Malgrado le numerose critiche internazionali, i Giapponesi hanno ben l’intenzione di uccidere numerosi cetacei nel nord-ovest del Pacifico. Tre imbarcazioni hanno preso il largo per una missione prevista fino a settembre 2017. L’obiettivo è uccidere 43 balene di Minke e 134 balene boreali.

POLITICA

36%

È il tasso percentuale di popolarità del Primo Ministro secondo il Mainichi Shimbun. Se questo sondaggio è il meno favorevole a Shinzo Abe, tutte le inchieste di opinione mostrano che i Giapponesi lo amano sempre meno. In effetti, oltre alla sua politica contestata, l’implicazione in un affare di corruzione sta nuocendo gravemente alla sua reputazione.

caccia

alle balene

SUCCESSIONE

Un nuovo imperatore nel 2019

NUCLEARE Un

reattore rientra in funzione

POLITICA

La prima abdicazione di un imperatore in 200 anni dovrebbe aver luogo verso la fine del 2018. Il governo ha approvato uno speciale progetto di legge valido soltanto per l’attuale sovrano Akihito. Quest’ultimo potrebbe così rinunciare alle sue funzioni dalla fine del 2018 e lasciare nel nuovo anno il trono al primogenito Naruhito. Il testo deve essere presentato in Commissione Parlamentare rapidamente e l’esecutivo spera in un voto definitivo della Dieta Nazionale (organo legislativo) nel corso dell’attuale sessione.

Kansai Electric Power (Kepco) ha rimesso in funzione a metà maggio il reattore 4 della centrale di Takahama, nel sud-ovest dell’arcipelago. Quest’unità possiede la caratteristica di funzionare in parte grazie al combustibile riciclato Mox. È l’Alta Corte di Osaka che ha permesso la ripresa dopo aver cassato la decisione di un giudice di Fukui che riteneva le condizioni di sicurezza non sufficienti per la ripresa dell’attività.

Approfittando delle tensioni con la Corea del Nord, Shinzo Abe ha annunciato di voler pervenire a una revisione della Costituzione prima del 2020. Il punto essenziale consiste nella riformulazione dell’Articolo 9, che implica che il Giappone rinunci definitivamente alla guerra. Il Primo Ministro vorrebbe menzionare esplicitamente le Forze di Autodifesa perché non siano più considerate come anti-costituzionali.

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Una nuova Costituzione nel 2020



Laura Liverani per Zoom Giappone

Diventare un protagonista della cultura pop giapponese, non è sempre facile quando si è stranieri.

La terra santa degli otaku Per molti è un sogno, ma poter vivere in Giappone grazie ai manga o alla passione cosplay, è un privilegio per pochi.

L

a La cultura otaku non è mai stata così popolare nel mondo: è celebrata in innumerevoli fiere e convegni mentre manga e anime sono disponibili in molte lingue grazie al continuo lavoro di traduttori sia professonisti che dilettanti. Dappertutto sono nate comunità di rete e non si contano nemmeno più gli eventi dedicati ai dojinshi (fanzine) e al cosplay. Addirittura ci sono appassionati che arrivano a studiare il giapponese in modo da potersi godere film e fumetti in lingua originale. In altre parole oggi è molto più facile ottenere la dose quotidiana del proprio genere otaku preferito. Tuttavia per un numero sempre più grande di persone l’unico modo di vivere appieno la cultura pop giapponese è di andare in pellegrinaggio nella terra santa degli otaku. Molte delle persone che presentiamo in questo numero hanno fatto proprio

questo, realizzando il loro sogno quando erano ancora giovanissimi. Anzi, hanno fatto ancora di più: si sono trasferiti in Giappone o hanno comunque tentato di trasformare la loro passione in un progetto di lavoro. Nel loro complesso queste storie sono la testimonianza del loro grande entusiasmo ma allo stesso tempo sottolineano le difficoltà che queste persone hanno dovuto affrontare nell’adattarsi a vivere in un paese con valori culturali e abitudini sociali ben diversi dai propri. Coloro che aspirano a lavorare nel campo dell’animazione sembrano avere davanti a sè i problemi più grossi. Un tipico esempio è l’americano Henry Thurlow. Come si può leggere sul sito BuzzFeed, qulache anno fa, Thurlow è riuscito a trovare lavoro presso uno studio di animazione di Tokyo, salvo poi scoprire cosa si intende veramente per “lavoro infernale”: dieci ore al giorno per sei giorni alla settimana, che diventano maratone non-stop di sei settimane (senza un solo giorno di riposo) quando si avvicina una scadenza. Tutto ciò per uno stipendio che – esclusi gli artisti più affermati

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– è sempre al di sotto del minimo sindacale. Alla fine, per poter continuare a fare quello che amava senza perdere nè il senno nè la salute, Thurlow ha creato un proprio studio di animazione, D'Art Shtajio, la cui missione è di fare da tramite tra l’industria nipponica e i mercati stranieri e di assistere tutti coloro che vogliono produrre video in stile anime usufruendo del grande talento giapponese. All’estremo opposto abbiamo i creatori indipendenti di video-game la cui “legione straniera” sembra essere riuscita a prosperare in Giappone creando allo stesso tempo una forte comunità di creativi basata principalmente a Osaka e Kyoto. Il loro lavoro consiste sia nel realizzare giochi originali sia nel fare da tramite tra le aziende indie giapponesi e l’occidente, in qualità di organizzatori o di localizzatori. Nel loro caso la parola d’ordine è evitare come la peste le grandi compagnie di video giochi perchè la loro rigidità risulta troppo spesso in prodotti poco originali. Come ha scritto Dale Thomas (un veterano fra i programmatori stranieri in Giappone) su Quora Digest, “per uno straniero è molto frustrante quando si hanno delle idee nuove per creare giochi migliori, ma nessuno ti ascolta”. L’industria dei manga sembra essere un altro bastione inespugnabile, anche se ogni tanto qualche artista straniero riesce a farsi pubblicare in Giappone. È il caso, ad esempio, di Åsa Ekström che nel 2011 si è trasferita a Tokyo dalla natia Svezia per studiare grafica e ha cominciato a mostrare le proprie strisce a fumetti (Nordic Girl Åsa discovers the Mysteries of Japan) sul suo blog fino a quando è stata scoperta dal gigante editoriale Kadokawa che ha pubblicato una sua raccolta di fumetti. Nel nostro special leggerete anche la storia a lieto fine della mangaka italiana Caterina Rocchi. Ma allora è proprio così difficile lavorare nell’industria otaku giapponese? Effettivamente sì. Ma non è neanche impossibile. L’importante è avere una grande passione, certe qualià e soprattutto non scoraggiarsi facilmente. Come dice Francesco Prandoni, il PR dello studio di animazione Production I.G (Ghost in the Shell, Patlabor the Movie, Jin-Roh: uomini e lupi), “in Italia avevo già lavorato nell’industria dell’animazione per dieci anni. Ho fatto un colloquio e mi hanno preso. In realtà io non sono assolutamente un’eccezione: da molti anni I.G assume impiegati stranieri. Attualmente nella nostra azienda ci sono cinesi, coreani, francesi e italiani anche se nessuno di noi lavora nel reparto animazione”. Non bisogna però dimenticare una cosa molto importante: la cultura giapponese sarà anche popolare all’estero ma ciò non vuol dire che i giapponesi sappiano parlare altre lingue. Come sottolinea Prandoni, “la maggior parte delle persone non si rende conto che saper parlare e scrivere in giapponese è una condizione sine qua non per lavorare con noi. Questa è l’unica lingua che usiamo nei nostri uffici”. JEAN DEROME


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C’era una volta Federico Il Grande

Pioniere nella scoperta e nella diffusione della cultura pop, Frederik Schodt ripercorre la sua bella carriera.

Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone

A

utore e traduttore, l’americano Frederik Schodt è celebre per aver lavorato durante numerosi anni con Tezuka Osamu, il dio dei manga. Ma per molti fan di fumetto come me, anche Fred è un dio, poiché ha contribuito a diffondere il termine “manga” attraverso il mondo, a partire proprio dal suo libro Manga! Manga! pubblicato nel 1983, quando gli occidentali non sapevano nemmeno cosa la parola volesse dire. Schodt ha tradotto recentemente l’importante biografia che Ban Toshio ha consacrato a Tezuka: l’Osamu Tezuka Story (pubblicato in Francia in 4 volumi presso Casterman con il titolo di Osamu Tezuka biographie. Nel nostro Paese, per saperne di più sull’autore di Astro Boy, è disponibile Osamu Tezuka, una biografia manga della Coconino Press, ndt). Pubblicato in Giappone nel 1992, il libro di più di 900 pagine è, secondo Schodt, un manga informativo e biografico che spiega al contempo il lavoro e la personalità di Tezuka. Nel corso degli oltre tre decenni che separano i due libri, i manga hanno conquistato il mondo, un fenomeno che non finisce di stupire Schodt. “Quando si trattò di scegliere il titolo per il mio primo libro, ebbi una discussione con il futuro fondatore di Stone Bridge Press, Peter Goodman, all’epoca mio editore presso Kodansha International. Propose che utilizzassimo il termine «manga». Io mi opposi perché avevo paura che la gente lo prendesse per un termine italiano legato al mangiare. All’epoca, nessuno negli Stati Uniti aveva ancora assaggiato il sushi. Alla fine Goodman impose la sua scelta, ma l’episodio dimostra come le cose fossero diverse all’epoca”, racconta. “All’inizio si credeva che per pubblicare dei manga tradotti fosse necessario renderli il più possibile simili ai fumetti americani. Tutte le illustrazioni dovevano così essere adattate al senso di lettura occidentale. Al tempo stesso, dovevamo aggiungere un’infinità di note per spiegare ai lettori i concetti culturali giapponesi. Oggi, invece, i lettori non sono soddisfatti se non si rispetta il senso di lettura giapponese. Vogliono qualcosa che sia il più vicino possibile alla versione originale”. Schodt arriva in Giappone con la sua famiglia nel 1965, all’età di 15 anni, ma non familiarizza immediatamente con la cultura manga. “Trascorsi due anni e mezzo a Tokyo presso la Scuola Americana, non parlavo giapponese”, spiega. “Forse per questa ragione non mi ricordo di aver visto dei manga durante quel periodo. È anche vero

Frederik Schodt in compagnia di Osamu Tezuka di cui era grande ammiratore

che all’epoca se ne producevano molti meno di oggi. Sono ritornato in Giappone nel 1970. È allora che ho cominciato a studiare intensamente il giapponese all’International Christian University. In quel momento, tutte le persone che mi circondavano leggevano manga, in particolare storie sofisticate destinate a un pubblico adulto: queste storie cominciavano a diventare popolari proprio in quel momento. Agli inizi, leggevo i manga umoristici di Akatsuka Fujio. Pubblicò Tensai Bakabon (L’idiota geniale), che adorai. Mi faceva pensare alle gag americane. Lessi anche Koya no shonen Isamu (Isamu il

ragazzo selvaggio) di Kawasaki Noboru. Un po’ più tardi, mi lanciai nella lettura di Hi no tori (Phenix, l’uccello di fuoco) di Osamu Tezuka, di cui sono diventato un grande fan. Fu una vera rivelazione perché non avevo mai immaginato prima che dei manga potessero affrontare temi seri e impegnati. Avevo vent’anni e c’erano delle cose in quel manga che mi fecero riflettere, spingendomi a capire la mia vita e il mondo che mi circondava”. Schodt incontra finalmente Tezuka sette anni più tardi, quando lavora già in Giappone come traduttore professionista.

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“Con alcuni amici, avevo cominciato a tradurre manga per farli conoscere al resto del mondo”, ricorda. “Cercavamo gli artisti per chiedere il permesso di tradurre le loro opere. Fra questi c’era Tezuka. Era molto gentile, voleva sapere perché fossimo interessati ai manga. Consegnammo a Tezuka Productions i primi cinque volumi di Phenix, l’uccello d fuoco, che avevamo tradotto. Li conservarono per venticinque anni fino a che Vix Media li pubblicò, finalmente, nel 2002. Fu la mia prima traduzione di manga. Lavorammo anche sulla serie Senjo di Leiji Matsumoto, ma, sfortunatamente, non fu mai pubblicata, fatta eccezione per un estratto su Manga! Manga!”. Il manga era diventato dunque un autentico fenomeno. In Giappone, l’apice venne raggiunto nel1996, quando circa il 40%di tutte le pubblicazioni nazionali erano manga. Per fare un paragone, negli Stati Uniti i fumetti non hanno mai rappresentato più del 5% del mercato. “Oggi la situazione è diversa”, constata Schodt. “Si vedono poche persone leggere manga in treno. Il mercato si riduce, soprattutto per quanto riguarda le riviste di pre-pubblicazione. Questo non vuol dire che spariranno, ma si può osservare il fenomeno prendendone le distanze e comparare, ad esempio, il manga con le stampe: dopo l’apice del successo, il prodotto si trasforma in qualcosa di differente.” Secondo Schodt, il lavoro di traduttore di manga è drasticamente cambiato dal 1977, quando si è lanciato nella professione. “In maniera generale, posso dire che il lavoro di traduttore si è progressivamente degradato. I livelli di retribuzione sono scesi, così come la qualità del lavoro. Ormai, su internet si trovano persone che traducono manga gratis. È un fenomeno controverso, sono combattuto al riguardo. Può essere una buona cosa perché contribuisce a rendere popolari i manga all’estero, ma al contempo è un problema per le imprese. Abbiamo a che fare con qualcosa di non autorizzato, illegale, e gli artisti non ne ricevono alcun beneficio. Suppongo che un fattore importante risieda nel fatto che il pubblico è composto prevalentemente da giovani senza troppi mezzi. Sono pronti ad accettare una qualità inferiore se questo permette loro di leggere o guardare ciò che desiderano. Nello stesso tempo, questa vasta diffusione permette di fare studi di mercato. Verificando quante volte un fumetto è stato visto e scaricato, un editore può avere un’idea concreta della sua popolarità, prima di investire nella pubblicazione dell’edizione ufficiale, modulando così i mezzi di conseguenza”. Quando evoca le 900 pagine della biografia di Tezuka, Schodt spiega che gli ci è voluto circa un anno per tradurre il libro. “Ovviamente facevo altre cose contemporaneamente, per guadagnarmi da vivere. Malgrado la popolarità di manga e

© Tezuka Productions, used courtesy of Stone Bridge Press

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Fra le numerose traduzioni di Frederik Schodt figura l’impressionante biografia di Osamu Tezuka.

anime, conosco davvero poche persone che vivono grazie alla traduzione. La maggior parte è obbligata a lavorare anche in altri settori. È stato comunque un lavoro davvero divertente, sebbene le informazioni complementari mi avessero quasi ucciso! Nella versione originale, ci sono circa quaranta pagine il cui scopo è repertoriare tutto quello che Tezuka non ha mai pubblicato (manga, anime, manifesti, calendari, ecc.). È stato tremendamente difficile. Non c’è niente di più complicato della traduzione dei titoli perché bisogna verificare e contro-verificare: è stato tradotto o no? È stato tradotto correttamente? Bisogna vagliare caso per caso ed è estenuante”, spiega. La gente gli chiede come mai non ha scritto lui stesso una biografia di Tezuka. “Il problema è che fu così prolifico che tentare di descrivere la sua vita in un solo volume si sarebbe rivelato un compito troppo arduo”, confida. “Ban ha realizzato effettivamente un lavoro favoloso. Lui era il “vice-capo assistente” di Tezuka, come si dice in Giappone. Di conse-

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guenza non solo l’ha conosciuto, ma sa anche disegnare con lo stile di Tezuka. Ha avuto accesso a tutti gli archivi, incontrato persone che frequentavano il maestro, ecc.”. Schodt ha tradotto altri autori, compreso Shirow Masamune e il suo Ghost in a shell, di cui evoca la recente versione cinematografica con Scarlett Johansson. “Ho trascorso molto tempo a lavorare sulle opere di Shirow Masamune. Ho passato, per così dire, qualche anno nel suo cervello, quindi ero davvero curioso di vedere il film. L’ho visto due volte e trovo che abbia numerosi difetti. In primo luogo, il cast. La mia critica principale tuttavia è che il meraviglioso senso dello humor di Shirow, così presente nei suoi manga, è completamente assente nel film, così come era assente nell’anime estratto dal manga. Detto questo, la pellicola è piacevole. In ogni caso è sempre complicato azzeccare un film ispirato a un manga”, conclude. GIOVANNI SIMONE


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Caterina non conosce la crisi

Fan di manga, l’italiana Caterina Rocchi è riuscita a trasformare la sua passione in lavoro, nella sua città natale: Lucca.

© Caterina Rocchi

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ucca è una delle più belle città della Toscana. Le sue mura rinascimentali ancora intatte circondano uno dei centri storici meglio conservati d’Italia, dove il tempo sembra essersi fermato. Se però ci si sposta sulle colline a circa dieci minuti dal centro si scopre un tipo di attrazione ben diversa: CasaManga. È qui che la fumettista Caterina Rocchi dirige la Lucca Manga School (www.luccamangaschool.com). Con il prezioso aiuto della sua famiglia, Caterina sta progressivamente trasformando questo grande edificio in cui abitano da qualche anno, in uno dei centri principali della cultura pop giapponese in Italia. “Attualmente ci stiamo preparando per il nuovo anno scolastico con l’allestimento di tre nuove aule e altre strutture per quegli studenti che scelgono di vivere a CasaManga mentre frequentano le nostre lezioni”, dice Caterina. “L’anno scorso abbiamo avuto più di 250 studenti ma quest’anno dovrebbero salire a 350 o 400, quindi abbiamo assolutamente bisogno di più spazio”. Caterina ha ribattezzato l’edificio CasaManga perchè all’interno della scuola si respira l’atmosfera di una grande famiglia. “Abbiamo un giardino in cui gli studenti possono mangiare e rilassarsi in estate e camere a due, tre e cinque letti per coloro che optano per fare Homestay”. Caterina appartiene alla generazione italiana (o per meglio dire europea) cresciuta consumando quotidianamente fumetti e cartoni animati giapponesi. “Ho letto il mio primo manga all’età di 11 anni, dopo aver visto un programma televisivo in cui i fumetti giapponesi venivano ferocemente criticati perchè pieni di sesso, violenza e pedofilia”, ricorda l’artista. “Ho sempre amato disegnare fin da quando ero piccola, perciò a 12 anni ho detto a mia madre che volevo diventare una mangaka. All’inizio ha fatto fatica a capire, visto che non aveva mai sentito quella parola, ma dopo avermi ascoltato con attenzione mi ha sorpreso dicendomi: va bene, ma allora devi andare a studiare in Giappone. Quindi tanto per cominciare impariamo il giapponese! In questo modo abbiamo cominciato a prendere lezioni private a Lucca per poi volare in Giappone quando avevo 14 anni. Da allora e fino a quando non ho compiuto 20 anni ho passato le mie vacanze estive con mia madre in Giappone mentre in Italia frequentavo il liceo artistico”. Nel 2015 Caterina ha passato nove mesi da sola in Giappone imparando la tecnica dei manga e lavorando come assistente di Mochizuki Mikiya, l’autore, recentemente scomparso, del manga poliziesco Wild 7 [inedito in Italia] e di Machine Hayabusa,

Ai comandi della Lucca Manga School, Caterina Rocchi forma i futuri talenti.

conosciuto in Italia come Ken Falco. “Ho conosciuto Mochizuki grazie al mio insegnante di manga”, ricorda Caterina. “All’inizio frequentavo la Yoyogi Animation Gakuin di Tokyo. Lì ho conosciuto il mio sensei, Matsuda Ikuo, e quando lui più tardi ha aperto la Yokohama Manga Kyoshitsu io l’ho seguito. Lo stesso Matsuda aveva lavorato per Mochizuki. Un giorno ha sentito che questi cercava nuovi assistenti e così mi ha presentata a lui. Siamo andati subito d’accordo e Mochizuki mi ha chiesto se volevo aiutarlo a produrre una rubrica di cucina alla quale stava lavorando da qualche tempo. Il progetto consisteva nel visitare diversi tipi di ristorante e descrivere il posto sotto forma di manga. Il mio contributo consisteva nel disegnare una pagina in cui esprimevo le mie impressioni di straniera sul cibo, la mia vita in Giappone, ecc. Ogni fine settimana io gli mostravo i miei disegni. In questo modo abbiamo passato due o tre mesi alla ricerca del giusto approccio. A parte il lavoro, quello che più amavo era stare con lui. Era una persona brillante e molto umana. Quando l’ho conosciuto non stava già bene ma la notizia della sua morte, l’anno scorso, mi ha turbata molto”. La Lucca Manga School è nata dal desiderio di Caterina di migliorare la propria tecnica anche quando non era in Giappone. “All’epoca avevo 17 anni e frequentavo il liceo, quindi non potevo andare a Firenze due volte alla settimana per segiire le lezioni alla Scuola Internazionale di Comics – che fra l’altro non è specializzata in manga. Così mi è venuta l’idea di organizzare dei corsi brevi nei fine settimana invitando a Lucca degli insegnanti dal Giappone. Questa formula si è dimostrata azzeccata perchè permette di frequentare sia chi studia ancora sia chi ha già un lavoro. Ancora oggi la scuola conta fra i suoi docenti alcuni insegnanti

giapponesi a cominciare da Matsuda sensei, visto che i due istituti hanno instaurato un rapporto di collaborazione. ”Ogni anno cerchiamo di invitare almeno un insegnante o un mangaka professionista dal Giappone”, dice Caterina. “Quest’anno, ad esempio, Matsuba Hiro sarà nostra ospite. Ho avuto la fortuna di assistere ad una sua lezione a Yokohama e l’ho convinta a venire a Lucca. Poichè i giapponesi non parlano nè italiano nè inglese abbiamo a disposizione un interprete oppure sono io stessa a tradurre ciò che dicono perchè gli insegnanti usano spesso dei termini tecnici che solo chi è del ramo capisce”. Uno degli aspetti più interessanti della Lucca Manga School sono i suoi corsi “modulari”. Si tratta di corsi brevi di 2-3 giorni ciascuno che si tengono nel fine settimana”, spiega Caterina. “Naturalmente abbiamo anche corsi di base per i principianti ma la maggior parte di essi sono corsi tematici e ognuno può scegliere quelli che preferisce a seconda delle proprie esigenze e dei suoi interessi. Recentemente abbiamo anche organizzato un corso biennale per chi vuole fare veramente sul serio e aspira a diventare un fumettista professionista”. Fin dalla sua nascita la scuola ha avuto un grande successo. Il rovescio della medaglia è che portare avanti la scuola richiede un impegno costante che lascia poco tempo ai fumetti di Caterina. “Comunque nonostante gli impegni sto lavorando a un progetto autobiografico per un editore giapponese. Sebbene mi piacciano tutti i tipi di fumetti, i manga rimangono i miei preferiti. Mi piace anche il modo in cui lavorano in Giappone, identificando una certa tipologia di lettori e creando una storia adatta a loro. È una vera e propria industria e prendono i fumentti seriamente. Proprio come me”. J. D.

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Frédéric, campione europeo

Il proprietario di Euromanga ha utilizzato la sua passione per i manga al fine di diffondere i fumetti europei in Giappone.

storie originali: tutti questi fumetti sono già stati pubblicati in Francia. Scelgo ciò che credo essere più adatto al pubblico giapponese, acquisto i diritti e mi occupo della traduzione.

I

Blacksad è il suo best-seller in Giappone. In media, quante copie vendete? F. T.: Tra le 4000 e le 7000 copie, è un discreto record per un titolo straniero.

l mercato dei fumetti giapponesi appare come un contesto chiuso, ma i disegnatori stranieri hanno trovato il loro cavallo di Troia in Euromanga, un editore basato a Tokyo che promuove i fumetti europei nell'arcipelago. Abbiamo incontrato il fondatore, Frédéric Toutlemonde. Abbiamo sentito dire che Lei stesso è autore... Frédéric Toutlemonde: Non esattamente. Un tempo realizzavo fumetti, ma ora non più. È un peccato. In Francia, molti fra i miei amici lavoravano nel settore dei videogiochi o dei giochi di ruolo e spesso disegnavo per i loro progetti. Ho anche realizzato un fumetto di una cinquantina di pagine che ho provato a vendere a un editore francese. Mi ha risposto che sarebbe stato necessario rielaborarlo e probabilmente non ero pronto. Poi mi sono trasferito in Giappone, i legami coi miei amici si sono fatti più radi e non valeva la pena disegnare solo per passione. Si è specializzato in lingua e cultura giapponese all'università. A quando risale il momento in cui ha cominciato a interessarsi al Giappone? F. T.: Agli inizi degli anni Ottanta ho scoperto i cartoni animati giapponesi alla televisione francese: Capitan Harlock, Goldrake, Dragon Ball, ecc. Li guardavo tutti i giorni. Al tempo stesso, adoravo i fumetti americani e francesi. All'inizio degli anni Novanta, le produzioni giapponesi sono scomparse dagli schermi delle nostre tv a causa del loro contenuto diventato via via sempre più violento e ricco di riferimenti sessuali. Nello stesso momento però, i manga si diffondevano in Francia. Ero un gran fan di Akira che rimane più che mai il mio fumetto preferito. Dopo aver lavorato per una decina d'anni presso l'ambasciata di Francia a Tokyo, oggi è direttore della collana giapponese delle edizioni Les Humanoïdes, ma soprattutto, da nove anni, dirige la propria impresa, Euromanga. F. T.: Sfortunatamente, l'attività di Humanoïdes in Giappone è piuttosto debole, oggi. Speriamo che le cose migliorino in futuro. Quanto a Euromanga, si tratta di una piccola impresa che ho creato nel 2008 per promuovere il fumetto europeo in Giappone. Durante i primi quattro anni, ho pubblicato il magazine Euromanga: due numeri l'anno. Oggi pubblico soltanto album, dai quattro ai sei volumi l'anno.

Radiant di Tony Valente. Il manga made in France.

Suppongo non sia stato semplice creare una casa editrice qui... F. T.: Il mondo dell'edizione in Giappone non è molto diverso da quello europeo. La principale differenza sta nel fatto che se si vogliono vendere libri attraverso l'intermediazione di un distributore, bisogna aprire un conto presso di lui, il che non è facile poiché occorre dimostrargli di essere sufficientemente forti per farlo. Quando ho cominciato, non conoscevo nulla dell'edizione e mi sono avvalso dell'appoggio di un altro editore. Asuka Shinsa ha accettato di distribuire i miei libri. Egli non interviene sulle decisioni editoriali ma mi aiuta a vendere i volumi in cambio di una percentuale. Concludendo, lanciarsi sul mercato giapponese, in particolare in qualità di editore indipendente, è piuttosto costoso, ma rimane un ambiente sicuro. In un certo senso, la mia ignoranza nel settore si è rivelata un vantaggio. Se avessi saputo degli ostacoli che avrei incontrato, probabilmente avrei rinunciato. Ma l'ho fatto, e ha funzionato. E in Europa come funziona? F. T.: Come suggerisce il nome dell'impresa, tutti i miei autori sono europei. Attualmente pubblico specialmente autori francesi, ma all'inizio ho lavorato con numerosi autori di origine italiana, spagnola, belga ecc., pubblicati o residenti in Francia. Oggi, il titolo che realizza le migliori vendite è Blacksad, l'opera di due autori spagnoli, Juan Díaz Canales et Juanjo Guarnido. Per ora non pubblico

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Su più fronti, il Giappone appare come un mercato chiuso. Gli appassionati di musica e di film, ad esempio, non sembrano molto interessati alle produzioni estere… F. T.: È vero. Ma esiste una grande differenza tra l’industria della musica o del cinema, e quella del fumetto. La musica e i film giapponesi non hanno molti sbocchi al di fuori dei confini nazionali. Dal momento che la loro qualità non è sempre eccelsa, l’attitudine è quella di creare delle condizioni di tipo protezionista. Non c’è apertura verso l’esterno e ci si rivolge volentieri verso il mercato interno. Per quanto riguarda i fumetti, invece, l’industria giapponese domina letteralmente il mondo e la qualità media dei manga è talmente alta che possono venire esportati ovunque. Il loro impegno verso la perfezione è ineguagliato in Europa o in America. Gli editori sono profondamente implicati nei processi di creazione e di produzione. L’industria dei manga, quindi, non è affatto chiusa: è forte e solida al punto di non temere la concorrenza che viene dall’estero. D’altra parte, le produzioni giapponesi sono molto diverse da quelle francesi o europee. In che senso? F. T.: L’oggetto stesso è diverso. I fumetti francesi sono a colori, il che è possibile dal momento che un fumetto conta in media 50 pagine. I manga giapponesi contano da 100 a 200 pagine, sono in bianco e nero e hanno soltanto qualche pagina a colori all’inizio. I fumetti occidentali, poi, si concentrano sullo sviluppo della storia, spesso trascurando lo sviluppo dei personaggi. Il nostro ritmo di lettura è più lento, il lettore si concede il tempo di ammirare ogni disegno, ma al tempo stesso c’è un certo grado di distacco dalla storia. I manga, al contrario, coinvolgono incredibilmente il lettore, che viene trascinato dalla vicenda narrata. C’è molta più implicazione emotiva. È come essere portati via dalla corrente. Sono curioso di sapere ciò che i lettori giapponesi apprezzano nei fumetti europei! F. T.: Penso che siano principalmente attratti dalle caratteristiche del disegno: lo stile e i colori.

Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone

ESPORTAZIONE


Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone

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Frédéric Toutlemonde con le versioni giapponesi di Blacksad, il fumetto realizzato da Juan Díaz Canales e da Juanjo Guarnido.

Un altro elemento importante è l’assenza di regole. Il manga è regolato da una serie di norme di produzione molto precise che è necessario seguire in funzione del genere, dell’età dei lettori, del fatto che siano rivolti a uomini o donne, ecc. In fin dei conti, si tratta di un’autentica industria al servizio di un mercato immenso. I fumetti europei dipendono più dalla creatività dell’autore e esprimono una maggiore libertà artistica. Un editore francese non dirà mai a un autore che il suo target di lettori sono adolescenti dai 14 ai 16 anni. Suppongo quindi che i Giapponesi che leggono i nostri titoli siano attirati dalla loro imprevedibilità. Ne Le Bibendum Céleste di Nicolas de Crecy [Edizioni Les Humanoïdes Associés, in italiano Il celestiale Bibendum, Eris edizioni], ad esempio, quasi tutte le pagine sembrano essere disegnate in uno stile diverso. Si tratta di una storia molto poetica e si è rivelata una delle più apprezzate del mio magazine. Al tempo stesso, due anni fa ho cominciato a pubblicare manga francesi, ovvero fumetti francesi disegnati nello stile manga, come Radiant di Tony Valente. Egli ha davvero saputo cogliere l’essenza del manga. Uno sviluppo recente e interessante

nel fumetto europeo è proprio la comparsa di questa nuova generazione di autori che disegnano naturalmente nello stile manga. Non si limitano a copiare un’arte straniera, sono cresciuti leggendo manga e guardando anime. La cultura giapponese fa perciò parte integrante della loro identità. Spero di poterne introdurre sempre di più in Giappone, prossimamente. Numerosi autori stranieri di fumetti cominciano a lavorare in Giappone. F. T.: Sì, ne conosco qualcuno. Fra questi c’è la svedese Asa Ekström, il cui lavoro è stato ripreso dall’editore Kadokawa in seguito alla pubblicazione sul blog dell’artista. Ma non è un cammino facile. Prima di tutto è necessario essere davvero forti per distinguersi dalla massa, ed è necessario conoscere bene il giapponese, visto che gli editori locali non traducono le opere già pubblicate all’estero. Occorre quindi creare storie originali, in giapponese! Lavorare con un tradut-tore è una possibilità, ma può rivelarsi complicata e cara per l’editore. Può parlarci del Tokyo International Comic Festival, di cui è fondatore e presidente?

F. T.: Si tratta di un evento annuo che ho lanciato nel 2012. Quando ho cominciato con Euromanga, avevo l’intenzione di creare un appuntamento che aiutasse a far parlare dei fumetti stranieri in Giappone. Uno dei miei partner aveva lavorato per il Festival Comitia, consacrato ai dojinshi (fanzine), e abbiamo avuto l’idea di partecipare. Visto che numerosi fan di manga, fra i più appassionati accorrono all’evento, compresi gli stessi disegnatori di fanzine, in media il pubblico è curioso e aperto alle proposte nuove. È così che è nato il festival. L’anno scorso abbiamo accolto 80 artisti provenienti da 19 Paesi (una ventina originari del Giappone) e 25.000 visitatori. Al di fuori del “viale degli artisti”, dove gli autori vendono le loro opere, abbiamo occasione di discutere con ospiti giapponesi e stranieri. All’inizio volevo dare al festival un’impronta più europea, con esposizioni e altri eventi paralleli. Ho cercato persino di coinvolgere istituzioni come le ambasciate, ma non è stato facile. Addirittura gli editori giapponesi non sembrano interessati a partecipare a questo tipo di eventi. Non partecipano nemmeno al salone del Libro di Tokyo! Malgrado ciò, sono felice dei risultati. INTERVISTA A CURA DI J. D.

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ZOOM INCHIESTA TRADUZIONE

Simona non ne sbaglia una

Senza il lavoro di Simona Stanzani, i manga in italia non avrebbero lo stesso appeal.

O

ra che manga e anime hanno conquistato il mondo, sempre più persone sono impegnate a tradurli dal giapponese. Per ogni traduttore professionista ci sono un sacco di appassionati che fanno “scanlation” ovvero scandiscono, traducono e postano le loro traduzioni su Internet. Ma quali sono le difficoltà che manga e anime pongono ai traduttori? Ed è facile vivere di questo lavoro? Zoom ha chiesto queste e altre cose a Simona Stanzani, una veterana del ramo che ha appena festeggiato i suoi primi 25 anni come traduttrice.

Insomma, sei stata una sorta di pioniera otaku. S. S. : Beh, una specie. Facevo anche cosplay prima ancora che il termine diventasse popolare in Italia. All’epoca portavo una divisa scolastica come Lamù. Probabilmente la gente pensava che fossi un po’ matta (ride). Sfortunatamente per i miei sogni di gloria fumettistica, a quel tempo non c’era ancora un mercato per i manga, così nel 1992 ho cominciato a tradurre i lavori degli altri. Un amico mi ha presentata a Andrea Baricordi dei Kappa boys [il gruppo che per primo ha introdotto i manga in Italia]. Lui stava proprio cercando un traduttore e così ho fatto il mio debutto nel primo numero di Kappa Magazine. Come mai ti sei trasferita a Tokyo nel 2007?

Laura Liverani per Zoom Giappone

Quando ti sei innamorata del Giappone? Simona Stanzani : Quando avevo circa quattro anni mio padre ha regalato a mia madre una bambola decorativa giapponese simile a una geisha. L’hanno messa in corridoio e io ne sono rimasta così affascinata che passavo delle ore ad ammirarla. Forse nella mia vita precedente sono stata giapponese (ride). I fumetti poi mi sono sempre piaciuti anche prima che i manga arrivassero in Italia negli anni ’80. Sono cresciuta in una casa piena di fumetti perchè i miei ne erano appassionati. Così quando i primi anime sono arrivati nel 1978 me ne sono innamorata e ho pure cominciato a disegnare manga. Mi piaceva mettere insieme personaggi di storie diverse. Diciamo che facevo dojinshi senza sapere che cosa fossero le fanzine auto-prodotte. Più tardi ho anche studiato la tecnica del fumetto con alcuni grandi artisti come Igort, Mattotti, Andrea Pazienza, ecc. In realtà avrei voluto diventare un’autrice di manga, tant’è vero che ho anche cominciato a studiare il giapponese all’università.

Simona Stanzani ha cominciato a tradurre manga nel 1992. Oggi, la sua passione è sempre intatta.

S. S. : Innanzi tutto perchè amo i manga e gli anime e Tokyo è ovviamente la capitale mondiale degli otaku; è una città molto eccitante che offre un sacco di opportunità anche di lavoro. Basta partecipare a fiere ed eventi simili per incontrare gente nuova che condivide i tuoi interessi. Nel mercato delle traduzioni, in particolare, i legami

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che crei in questo modo possono sfociare in importanti opportunità professionali. C’è poi il semplice fatto che in Giappone è più facile guadagnarsi da vivere con le traduzioni. In Italia puoi anche essere il migliore ma tutta la tua esperienza e competenza non si traducono in maggiori guadagni. I giapponesi pagano sicuramente


ZOOM INCHIESTA

Che differenze ci sono nel tradurre manga e anime? S. S. : Sono due cose molto diverse. Quando traduci per lo schermo devi trasmettere il significato in modo chiaro e soprattutto conciso perchè non hai molto spazio per i sottotitoli (in genere sono 40 caratteri a riga). Questo crea molti problemi perchè l’italiano è una lingua molto prolissa. Con i manga hai relativamente più spazio e se necessario puoi anche aggiungere una nota per spiegare meglio certe cose. Inoltre lavori con un editor con cui puoi sempre confrontarti e trovare la giusta soluzione. Diciamo che hai una sorta di rete di sicurezza. Con gli anime invece tu sei l’editor di te stesso. Personalmente sono una purista e anche quando lavoro su un anime o un film cerco di essere il più fedele possible all’originale. Altre persone a volte preferiscono cambiare completamente la frase per renderla più comprensibile. Presumo che tradurre dal giapponese in una lingua occidentale sia tutt’altro che semplice. S. S. : È vero, specialmente quando traduce in italiano, che è una lingua molto specifica, mentre il giapponese può essere vaguo e ambiguo. L’inglese da questo punto di vista è un po’ una via di mezzo ed è anche più vicino al linguaggio dei manga. Non è un caso che tutte le nostre onomatopee derivano dai fumetti americani. Dall’altra parte ci sono frasi ed espressioni che i giapponesi usano in continuazione (ad esempio, yoroshiku onegai shimasu) ma che in Italia non diciamo mai. Fortunatamente gli amanti dei manga conoscono bene la cultura e le usanze giapponesi e imparano sempre volentieri nuove parole e idee, il che rende il mio lavoro un po’ più facile. C’è un fumetto che hai trovato particolarmente difficile da tradurre? S. S. : Ghost in the Shell mi ha fatta diventare matta. Tra l’altro è stata una sorta di battesimo del fuoco visto che è stata una delle prime cose che ho fatto per Kappa Magazine. L’autore, Shirow Masamune, fa molti riferimenti a Internet. Il problema è che all’epoca la maggior parte delle persone non sapeva nemmeno cosa fosse Internet. In simili condizioni come fai a tradurre una frase come “la Rete e vasta e infinita”?! Ho pas-

Laura Liverani pour Zoom Japon

meglio anche se ultimamente la traduzipne dei manga non rende più come prima. Questo comunque è vero dappertutto. In ogni caso io continuo a lavorare anche per gli editori italiani, a cominciare da Planet Manga Panini, per cui di solito traduco 3-4 manga al mese. In questo senso è importante mantenere contatti multipli perchè specialmente con gli anime e i film non so mai se e quando avrò una nuova richiesta.

“Tradurre un manga significa tradurre una cultura” spiega Simona Stanzani.

sato ore al telefono con un amico esperto di informatica a cercare di capire di che diavolo stesse parlando Shirow (ride). Poi ho dovuto inventare tutta una serie di neologismi sperando che fossero abbastanza simili ai termini originali. In generale, però, il genere che trovo forse più difficile da tradurre è lo shojo manga perchè dopo poche pagine provo un desiderio irrefrenabile di strangolare la protagonista (ride). È possible che queste ragazzine debbano sempre tormentarsi per questo o quel problema?! Ma datevi una mossa! Hachi (una delle due protagoniste di Nana), ad esempio, mi ha fatto impazzire all’inizio. Fortunatamente il personaggio cresce nel corso della storia e alla fine ho imparato ad amarla. In genere sei in contatto con l’autore che stai traducendo?

Alcuni fra i manga tradotti da Simona.

S. S. : No perchè l’editore è contrario a queste cose. È anche comprensibile perchè se un autore – soprattutto uno famoso tradotto in molte lingue – dovesse rispondere a tutte le domande dei traduttori finirebbe con il fare solo quello. In realtà è possibile, quando si tratta di una cosa veramente importante. Il problema è che la trafila è lunghissima: io sottopongo il problema al mio editor che a sua volta scrive alle persone che si occupano dei diritti d’autore. Poi loro contattano lo staff editoriale del manga. Ovviamente questi sono sempre occupati. Per farla breve, quando finalmente ricevo la risposta alla mia domanda, il libro tradotto è già sugli scaffali dei negozi. Meno male che alcuni editori pubblicano una guida dove si trovano un sacco di informazioni utili sulla storia e i personaggi. Secondo te che qualità deve avere un buon traduttore? S. S. : È inutile dire che deve avere un’ottima conoscenza sia della lingua che traduce che della propria. Deve anche essere in grado di identificarsi nei vari personaggi e adattare lo stile al loro carattere. Ovviamente, tanto per fare un esempio, una principessa parla in modo diverso da un teppista. Poi bisogna essere estremamente curiosi, sempre pronti ad affrontare ogni tipo di argomento, anche quelli che potrebbero non interessarti. Infine è molto importante che il traduttore rimanga fedele alle intenzioni dell’autore, che è diverso dall’essere fedele al testo. Tradurre manga vuol dire tradurre la cultura di quel particolare paese. Non è facile ma è una cosa che quando è fatta bene ti dà molte soddisfazioni. INTERVISTA A CURA DI J. D.

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ZOOM INCHIESTA IDOLI

Eterni Yuriko e Amina

Non si può evocare la cultura pop senza abbordare il fenomeno degli idoli (aidoru). Yuriko e Amina sono riuscite a sfondare.

Yuriko Tiger

Che cosa ti ha portata a Tokyo? Y. T. : Il mio desiderio di diventare un’icona pop in Giappone. Sapevo che essendo straniera sarebbe stato quasi impossibile ma ho voluto provarci lo stesso anche perchè è un sogno che ho da quando ho scoperto i manga e gli anime all’età di dieci anni. All’epoca mio padre mi comprava un sacco di fumetti e video giochi. Credo di avere cominciato a giocare a Tekken quando avevo tre anni. Poi mi sono innamorata di Sailor Moon ma sono diventata una vera otaku all’età di otto o nove anni, quando ho scoperto Inuyasha e le altre opere di Takahashi Rumiko. Alle medie ho cominciato ad interessarmi di musica e moda giapponesi attraverso You Tube, Internet e l’ormai defunto mensile Benkyo, la prima rivista italiana che ha dedicato articoli approfonditi alla cultura pop giapponese. Ero particolarmente affascinata dal cosplay ma pensavo che lo facessero solo in Giappone. Quindi puoi immaginare la mia sorpresa quando a 13 anni sono andata a Lucca Comics e ho visto dei cosplayer italiani. Non avevo mai visto niente di più bello. Per me era come recitare, avendo la possibilità di scegliere ogni volta un personaggio diverso. Così ho cominciato a realizzare i miei primi costumi e a partecipare ai concorsi nazionali. Come hanno reagito i tuoi genitori a questa tua passione? Y. T. : All’inizio non mi hanno preso sul serio. Poi però hanno cambiato idea quando al liceo ho cominciato a lavorare part time per pagarmi il viaggio in Giappone. Da allora mi hanno sempre sostenuto. Mi pare di capire che in Giappone hai trovato quel paese delle meraviglie di cui avevi sempre

© Yuriko Tiger

Da dove viene il tuo nome? Yuriko Tiger : Yuriko è ispirato a un personaggio del video gioco Bloody Roar. È un nome che mi è sempre piaciuto perchè letteralmente vuol dire “ragazza del giglio” e mostra il mio lato sensibile. Tiger invece è una sorta di gioco di parole perchè da una parte ricorda Taiga (uno dei personaggi della saga di Toradora!) mentre dall’altra è un riferimento alla tigre che c’è in me – il mio lato ribelle – e mostra la mia determinazione ad avere successo in Giappone.

Yuriko Tiger ha saputo imporsi in un settore dominato dai Giapponesi

sognato. Y. T. : Sì, all’inizio è stato in effetti un paradiso. Le cose però sono cambiate al momento di firmare il contratto. Allora ho scoperto un lato diverso della cultura giapponese di cui non sapevo niente. Ad esempio, poichè l’agenzia aveva sponsorizzato il mio visto di lavoro si è sentita in diritto di dirmi cosa potevo e non potevo fare. Quindi niente più scuola di giapponese perchè secondo loro interferiva con i miei impegni lavorativi. Poi ho dovuto

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lasciare la casa che condividevo con altra gente e andare a vivere da sola. Dovevo chiedere il permesso ogni volta che volevo uscire con gli amici. Dulcis in fundo, mi è stato assolutamente proibito di avere un ragazzo. Come se non bastasse, la mia agenzia ha cercato di farmi diventare un’idol gurabia e farmi posare in bikini. Infatti il mio primo lavoro è stato per Playboy Japan. Questi produttori erano estremamente ricchi, maleducati e maschilisti e hanno cercato di intimidirmi affinchè posassi


ZOOM INCHIESTA nuda. Una sera non ne ho potuto più: eravamo in un club e in risposta alle loro minacce ho letteralmente fatto volare un tavolino. Dopo quell’episodio hanno cercato di rendermi la vita difficile e così alla fine ho lasciato quell’agenzia e ho cominciato a lavorare con il mio attuale manager che ha lasciato il suo precedente lavoro per dedicarsi completamente a me. Quando c’è stata la svolta nella tua carriera? Y. T. : È avvenuto tutto per caso. Ero andata in Italia per un lavoro e al mio ritorno in Giappone sono stata intervistata all’aeroporto da un programma televisivo molto popolare che si chiama Perchè sei venuto in Giappone?. Alla fine mi hanno dedicato un’intera puntata di 25 minuti: hanno mostrato il mio minuscolo appartamento pieno di costumi per il cosplay; poi siamo andati insieme a un maid cafè; e alla fine mi hanno seguita fino a Nagoya dove sono stata assistente conduttrice al World Cosplay Summit. All’epoca avevo circa 1.000 follower su Twitter ma la sera in cui quella puntata è andata in onda sono improvvisamente schizzati a 10.000 [attualmente sono 36.000]. L’anno seguente, il 2015, è stato straordinario perchè ho lavorato in TV, ho registrato il mio primo CD singolo, ho lavorato come idol su e giù per il Giappone e alla fine ho cominciato

anche a lavorare come cosplayer professionista – una cosa più unica che rara per uno straniero in Giappone.

di matrimoni misti e hanno la doppia nazionalità. Io penso di essere l’unica talento straniera ad aver raggiunto un certo livello di popolarità in Giappone.

Come sono attualmente i tuoi contatti con la scena otaku italiana? Y. T. : Ho ancora dei legami molto forti. L’anno scorso, per esempio, ho dovuto prendermi un periodo di riposo in Giappone per una questione di visto e così ho passato qualche mese in Italia partecipando a circa 15 eventi otaku in giro per la penisola. La cosa interessante è che mentre in Giappone la mia immagine pubblica è diventata più sofisticata e adesso lavoro molto come modella e recito anche un po’ in televisione, in Italia vogliono ancora la Yuriko tutta colorata che balla sul palco al ritmo di qualche anime song. musique pop.

Com’è una tua tipica settimana di lavoro? Y. T. : Come puoi immaginare ogni giorno è un po’ diverso dagli altri ma i meeting sono una costante. I giapponesi amano le riunioni di lavoro, quindi ne facciamo 3-4 la settimana per discutere i progetti imminenti. I fine settimana, invece, sono dedicati a servizi video e fotografici che durano dalle quattro alle dieci ore, oppure eventi cosplay e cose simili. Poi 3-4 volte al mese vado a Sendai, nel nord-est del Giappone, dove lavoro a un nuovo progetto musicale con i Samurai Apartment, un gruppo che mischia suoni tradizionali e musica pop.

A proposito di visti di lavoro, è stato difficile ottenerne uno? Y. T. : Prendere un visto da intrattenitrice non è stato un problema perchè come ho detto sono stata sponsorizzata dalla mia vecchia agenzia. Il problema è piuttosto che ci sono molte restrizioni sul tipo di lavoro che puoi fare. È per questo che molti stranieri che lavorano in questo campo o sono sposati con un giapponese oppure sono figli

Non ti piacerebbe avere un po’ più di tempo libero? Y. T. : Per niente! Mi piace essere impegnata. Ad aprile, per esempio, ho avuto un’intera settimana libera ma sono riuscita comunque a riempirla di appuntamenti. Il problema è che se ho troppo tempo libero mi annoio. Quindi più lavoro meglio è. INTERVISTA A CURA DI G. S.

Amina du Jean

Come è arrivata in Giappone? A. du J.: Avevo 17 anni. Vivevo nel Michigan quando ho ottenuto un contratto con un’agenzia per lavorare in Giappone come “idol”. Mi avevano scoperta su Niconico, un sito giapponese simile a YouTube (prima si chiamava Nico Nico Doga), dove avevo pubblicato dei video di canzoni e di danza. All’epoca non ero affatto interessata ai manga o alla cultura pop giapponese, ma ero già attirata dal Giappone e avevo persino cominciato a prendere corsi di giapponese da quando avevo 11 anni. Avevo sempre voluto viaggiare all’estero e magari studiare in un’università straniera. Quando il mio contratto è terminato, ho ottenuto una borsa per studiare in Giappone. Cosa ha pensato la sua famiglia di questa partenza? A. du J.: All’inizio mia madre era preoccupata nel vedermi fare trasmissioni in diretta su Internet, ma si è resa conto che si trattava di qualcosa a cui tenevo davvero. La maggior parte degli Ame-

Benjamin Parks per Zoom Giappone

Suppongo che du Jean non sia il vostro vero nome, giusto? Amina du Jean: No, in effetti no (ride). Sono una falsa francese!

Originaria del Michigan, Amina du Jean è stata scoperta su Internet.

ricani non viaggia, soprattutto all’estero. Suppongo che abbiano paura di ciò che non conoscono. Ecco perché la mia famiglia, di riflesso, metteva costantemente in dubbio la mia motivazione a partire per il Giappone, un Paese per me sconosciuto. Alla fine hanno capito quanto fossi determinata e mi hanno sostenuta. Mia madre è persino venuta con me per aiutarmi col trasloco.

Come è stato il suo arrivo in Giappone ? A. du J.: L’agenzia che mi aveva reclutata era, in realtà, un editore di magazine specializzato nel visual-kei (movimento musicale, gli artisti che ne fanno parte si caratterizzano per il loro abbigliamento e il trucco elaborato) che voleva firmare contratti con nuovi talenti. L’editore non aveva molta esperienza nel campo, sono stata

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ZOOM INCHIESTA quindi una sorta di cavia. All’inizio non è stato facile. A Detroit vivevo con la mia famiglia, e vivere soli all’estero può condurre alla solitudine. Il mio giapponese era lontano dall’essere perfetto e non mi ero ancora cimentata in nessuna formazione di canto o di danza. Ho avuto poi qualche problema col mio agente. Ho cominciato a ricevere offerte lavorative che non potevo onorare a causa dell’impegno preso con l’agenzia, e ho finito col lasciarla. In seguito ho partecipato a un concorso importante chiamato Miss ID. Non ho vinto, ma ho ricevuto un premio speciale che mi ha aperto diverse porte: ho collaborato a un progetto per un libro fotografico, sono apparsa in un video clip e ho lavorato parecchio anche come modella. Infine ho raggiunto il gruppo di idol Chick Girls e ho firmato con la loro agenzia.

Cosa fa adesso? È ancora con le Chick Girls? A. du J.: No. Ho deciso di fare una pausa nel dicembre scorso. Andava tutto bene ma dovevo spesso saltare la scuola a causa degli spettacoli e delle apparizioni in tv, e in più lavoravo parttime. I miei risultati scolastici ne hanno risentito e ho deciso di tornare a casa. Ne ho discusso coi miei genitori e alla fine ho lasciato definitivamente il gruppo a febbraio. È stata una buona decisione: due altri membri hanno lasciato le Chick dopo di me e il gruppo ha finito col separarsi. È triste, ma succede spesso, soprattutto con le formazioni nuove. Ora, durante la settimana mi concentro soprattutto sui miei studi di sociologia, che voglio portare a termine presto. Studio anche giornalismo e vorrei realizzare dei documentari in futuro, oltre, ovviamente, a occuparmi di musica. È rimasta con l’agenzia? A. du J.: No, volevo essere completamente libera. Quando mi occuperò nuovamente di musica, voglio poter controllare la mia immagine e il modo in cui fare le cose. Attualmente lavoro su progetti di musica indipendente. C’è un autore che scrive parole giapponesi per le mie canzoni. La mia prima canzone, Cotton Candy Magical First Day, era in inglese, ma l’ho rifatta in giapponese. Lavoro anche con diversi DJ. Questo significa che sta cercando di allontanarsi dalla sua immagine di “idol”? A. du J.: Non necessariamente. Anche in Giappone, esistono artisti come Omori Seiko che amano giocare con la loro immagine di idol

Benjamin Parks per Zoom Giappone

Immagino sia complicato, per una giovane straniera, trovarsi in questo ambiente… A. du J.: In effetti. C’è il problema della barriera linguistica e della differenza a livello dei valori culturali e delle abitudini sociali.

Amina ha scelto di privilegiare gli studi, pur lavorando su dei progtti musicali.

esplorando però dei temi tetri nelle loro canzoni. Oggi si moltiplicano le collaborazioni tra club DJ e artisti di anison (le sigle degli anime). La mia prima performance in diretta in Giappone, nel gennaio 2015, si è svolta proprio durante un avvenimento del genere, AniCrush!!!, a Akihabara. In un certo senso, ritorno alle origini. Si esibiva al Sixteen, a Akihabara. Il locale è chiuso adesso. A. du J.: Sì, non era particolarmente famoso, solo un trampolino di lancio per idol in divenire, di fronte al teatro d’AKB48. Mi avevano presentata al proprietario, Ronri Fukusuke, che mi propose di partecipare a un appuntamento mensile nel corso del quale potevo danzare e cantare.

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Ha qualche consiglio da dare alle ragazze che vorrebbero seguire il suo esempio? A. du J.: Innanzitutto, imparate il giapponese, sennò non andrete da nessuna parte. Entrare a far parte di un gruppo di idol non è particolarmente difficile. Ce ne sono più di mille in Giappone e non sono la sola straniera ad esserci riuscita. Ma bisogna essere seri e pronti a lavorare duro. L’inconveniente è che nella maggior parte dei casi non si guadagna molto. Di solito dopo uno spettacolo i fan possono pagare per scattare foto con voi o comprare gadget legati alla vostra immagine. Avete il diritto al 50% dei ricavi. Ma se non siete celebri, guadagnerete tanto quanto un cameriere da Mac Donald’s. INTERVISTA A CURA DI J. D.



ZOOM INCHIESTA SUCCESSI

Donna ha la voce giusta

L’artista australiana si è imposta nel mondo della canzone e in quello del doppiaggio, grazie a un percorso senza passi falsi.

Da quando vive in Giappone, l’Australiana è letteralmente riuscita a far sentire la sua voce

tutto il mondo!”, racconta. Non soddisfatta di essere semplicemente un’interprete, nel 2004 Donna ha creato, col marito, il musicista Bill Benfeld, l’agenzia Dagmusic, che gestisce altri numerosi artisti. “Uno dei miei clienti più fedeli si lamentava delle altre agenzie di Tokyo: gli fornivano sempre gli stessi cantanti e doveva recarsi a Los Angeles o a Londra di persona per trovare volti nuovi. Gli ho chiesto di lasciarmi fare e mi sono impegnata a cercare tutti i talenti nascosti della capitale. Abbiamo attualmente sotto contratto 400 cantanti, attori e musicisti. Forniamo attori nipponici a società di giochi stranieri che vogliono voci giapponesi, ma siamo specializzati nelle voci e nei cantanti inglesi”. Donna riconosce che oggi le cose sono profondamente diverse da quando è arrivata in Giappone. “Da una parte, Internet ha radicalmente cambiato il nostro modo di lavorare. Quando ho cominciato, avevo l’abitudine di inviare le cassette per corriere. In seguito sono passata ai CD e adesso, inviamo semplicemente una email. Numerosi clienti li troviamo grazie a Google. Ogni giorno riceviamo messaggi da parte di persone che non conosciamo”. Rimane il fatto che stabilirsi in un Paese straniero non è sempre facile. Il suo periodo più difficile in Giappone fu quello della crisi finanziaria del 2008. “Improvvisamente, non c’era più lavoro. Naturalmente, lo tsunami dell’11 marzo 2011 non ha semplificato le cose. I cinque anni successivi

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sono stati particolarmente duri per tutti i lavoratori del settore”. Ecco perché Donna fa parte di coloro che hanno accolto con sollievo e gioia l’annuncio dei Giochi Olimpici del 2020. “Da quando Tokyo si è aggiudicata i Giochi, gli affari sono ripresi. Certo, i budget sono inferiori e la natura della nostra impresa è cambiata. Prima avevamo pochi clienti, ma questi pochi potevano contare su budget importanti. Oggi abbiamo molti più clienti, ma arrivano con progetti più modesti”. Malgrado il fatto che le sue doti polivalenti le abbiano permesso di cimentarsi con successo in diversi ambiti, Donna riconosce che ciò che la soddisfa di più è il canto. “Cantare è come recitare un ruolo. Permette di connettersi con le persone. Anche se la gente non capisce la vostra lingua, può emozionarsi immediatamente. Ecco perché il canto rimane il mio primo e grande amore”, assicura. Visto che ha cantato numerose canzoni di anime e di video-giochi, spesso le viene chiesto di scrivere le parole dei testi. L’ha fatto per Morning Sky e per Moonless Starry Night di Final Fantasy Crystal Chronicles. “Ascolto la melodia più volte facendo altre cose, in modo che rimanga impressa nel mio inconscio. Lascio che le cose si modulino da sole. Così è più facile trovare metafore e aggiungere profondità. Amo anche interpretare la canzone: talvolta correggo le parole durante la registrazione, in modo da rendere più facile l’interpretazione. Spesso, i testi che vengono scritti evolvono proprio nel momento dell’interpretazione”. G. S.

Irwin Wong per Zoom Giappone

C

osa amo di più, è ascoltare la mia voce”: Donna Burke, un sorriso malizioso appena accennato, ama provocare con questa frase. Ha tutte le ragioni di amare la propria voce poiché è proprio grazie alle sue corde vocali d’oro che la cantante australiana ha riscosso un grande successo in Giappone. Donna vi accompagna persino mentre viaggiate nell’arcipelago, poiché è la sua voce ad essere utilizzata per gli annunci ferroviari sui treni ad alta velocità tra Tokyo e Osaka, nelle sale dell’aeroporto di Narita e all’interno del National Showa Memorial Museum. Il canto e la recitazione sono per Donna Burke, nata e cresciuta a Perth, le passioni di tutta una vita. “In passato ero un’insegnante; si tratta pur sempre di un ruolo d’attrice in fondo. All’epoca avevo già aspirazioni artistiche e seguivo lezioni private di canto dall'età di 18 anni”, spiega. A 31, decide di tentare fortuna in Giappone. “Nel 1996 la bolla speculativa era già esplosa, ma questo Paese restava ancora un ottimo luogo di lavoro per uno straniero ambizioso. Ho cominciato a cantare ai matrimoni, poi nelle sigle di pubblicità televisive. In sei mesi, mi ero ben ambientata e guadagnavo piuttosto bene. Ho avuto poi la possibilità di lavorare per la NHK (tv nazionale, ndt) come voce narrante per un documentario. Sono fortunata perché di norma, o si è doppiatori, o si è cantanti, mentre io posso essere entrambi”, aggiunge. Dal 1999, al suo curriculum ha aggiunto gli anime e i videogiochi. “Il primo lavoro importante nel mondo dei videogiochi risale al 2000, quando sono stata scelta per essere la voce di Angela in Silent Hill 2”, dice. Prestare la propria voce a un gioco può far sì che il doppiatore si trovi in situazioni bizzarre e destabilizzanti. “Affrontare il ruolo di Claudia in Silent Hill 3 è stato incredibile. Non dimenticherò mai il giorno in cui mi chiesero di divorare un feto abortito e di diventare completamente pazza! Ma devo dire che lavorare con Kojima Hideo e con tutta la squadra di Kojima Productions su Heaven's Divide, essere la voce del personaggio di IDroid in Ground Zeroes e ritrovarmi interprete di The Phantom Pain in Metal Gear Solid sono state esperienze formidabili. Finire sotto i riflettori per cantare canzoni incredibili e rappresentare la voce dei personaggi di una serie così emblematica, e infine ricevere la richiesta di cantare ben cinque canzoni del catalogo 2015, se questa non è fortuna! Questo concatenarsi di eventi mi ha portata a formare un gruppo nel 2016 - Gamine - e ora ricevo inviti per esibirmi in



ZOOM CULTURA L’arte della carta di Akiyama

MOSTRA

Fino al 15 ottobre, il Museo della Carta di Toscolano Maderno presenta Il paese della carta. Tradizione e contemporaneità della carta giapponese attraverso le opere di Nobushige Akiyama. Akiyama è un artista specializzato in washi (carta

giapponese) con la quale produce sculture leggerissime che, fra geometrismo e antropomorfismo, mescolano passato e presente dell’arte giapponese (vedi articolo di approfondimento in questo stesso numero). Museo della Carta, via Valle delle Cartiere 57/59, Toscolano Maderno (Brescia) Orari: tutti i giorni 10:00-18:00 (ottobre 10:00-17:00) info@valledellecartiere.it

MOSTRA Il

Giappone alla Biennale d’Arte di Venezia

In occasione della 57^ Biennale d’Arte che si svolge fino al 26 novembre, il Padiglione Giapponese ospita una mostra di Iwasaki Takahiro dal titolo Turned upside down, it’s a forest. La personale di Iwasaki presenta una selezione di lavori tridimensionali realizzati con oggetti di uso quotidiano come asciugamani, libri e rifiuti plastici. La cifra stilistica di Iwasaki è la fine manualità con la quale trasforma i materiali, come nel caso di torri metalliche ottenute sfilando asciugamani. I motivi scelti provengono da edifici vecchi e nuovi delle coste del Giappone, incluso un santuario tradizionale costruito sul mare, o impianti chimici lungo la costa di Hiroshima, e piattaforme petrolifere. Le opere di Iwasaki gettano luce sulle varie sfide e situazioni con cui si confronta il Giappone rurale. Istituto Giapponese di Cultura, via Gramsci 74, Roma Orari: lun-ven 9:00-12:30 / 13:30-18:30, mer fino alle 17:30, sab 9:30-13:00

I vetri di Oki Izumi a Genova

MOSTRA

Lucca Comics and Games

FESTIVAL

Anche quest’anno la famosa rassegna dedicata a fumetti, animazione e giochi del capoluogo toscano si presenta con una grande varietà di appuntamenti da non perdere. Da segnalare, per quanto riguarda il Giappone, la presenza di due grandi autori di fumetti: Matsumoto Taiyo e Tite Kubo. Matsumoto è conosciuto sopratutto per Tekkon Kinkreet e Sunny (già premiato durante la cinquantesima edizione) mentre Kubo è l’autore del mega-hit Bleach che nel solo Giappone ha venduto più di 90 milioni di copie. Il festival si tiene dall’1 al 5 novembre. www.luccacomicsandgames.com/it/2017/home

Fino al 1 ottobre, il Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone di Genova ospiterà la mostra personale Ponte di Luce dell’artista Oki Izumi. Residente da molti anni in Italia, Oki lavora esclusivamente vetro industriale, materiale che esprime l’orientamento dell’artista verso l’attrazione. Questo tipo di vetro, ben diverso dal pregiato e limpido cristallo, è un materiale di colore verde-azzurro che ben si presta a richiamare gli elementi naturali dell’aria e dell’acqua cari alla cultura giapponese. La mostra è patrocinata dall’Istituto Giapponese di Cultura ed é inserita nelle celebrazioni ufficiali del 150° Anniversario delle relazioni tra Giappone e Italia. Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone, piazzale Giuseppe Mazzini 4, Genova mar-ven 09:00 – 19:00; sab-dom 10:00 – 19:30

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Italia e Giappone a Torino

MOSTRA

Fino al 1 ottobre, il MAO – Museo d’Arte Orientale di Torino – ospiterà la mostra Per un filo di seta. 1867, l’Italia arriva in Giappone. L’esposizione, dedicata agli avventurosi viaggi dei primi italiani in Giappone nella seconda metà dell’800, presenta le figure di militari, diplomatici, studiosi e commercianti che affrontarono le difficoltà del viaggio e di quei luoghi, lasciando non solo un patrimonio immenso di conoscenze scientificonaturalistiche ma siglando un patto d’amicizia con il Giappone i cui risultati durevoli perdurano sino ai giorni nostri.

MAO – Museo d’Arte Orientale, via San Domenico 11, Torino 10:00-18:00 (sabato e domenica 11:00-19:00. mao@fondazionetorinomusei.it


ZOOM CULTURA SCOPERTA

Fabre, una passione giapponese

Sconosciuto in Francia, l’entomologo è uno dei francesi più illustri dell’arcipelago.

Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone

C

hi è il francese più conosciuto in Giappone? Se lo chiedete ai giapponesi, riceverete probabilmente una risposta inattesa, un nome oggi in Francia pressoché sconosciuto: Jean-Henri Fabre. Tradotta in giapponese per la prima volta nel 1922, l’opera principale di Fabre, Ricordi entomologici, è un autentico oggetto di culto nel Paese. Nell’arcipelago questa serie di libri dedicati all’analisi minuziosa della vita e delle abitudini degli insetti è ritenuta come un grande classico della letteratura straniera - qualcuno fra i volumi è addirittura utilizzato come manuale scolastico - e il nome di Fabre è con ogni probabilità più conosciuto di quelli di Stendhal o di Zola. I Ricordi entomologici sono d’altra parte spesso il primo contatto dei giapponesi con la cultura francese. Una fama sorprendente per questo entomologo francese del XIX secolo, che non conobbe mai da vivo questo Paese dell’estremo Oriente. Ma chi è Fabre? E perché i giapponesi dimostrano un tale rispetto verso questa figura? Nato nel 1823 a Saint Léons, nell’Aveyron, questo figlio di poveri contadini ha trascorso tutta la vita nel sud della Francia, regione che sarà al tempo stesso oggetto degli studi e fonte di ispirazione per il naturalista. Diventato professore di fisica al liceo di Ajaccio e nominato in seguito in quello di Avignone nel 1853 - vi rimarrà fino al 1871 - ottiene la laurea in scienze naturali nel 1854. È durante quest’epoca che la sua carriera di entomologo ha inizio e che il suo progetto di scrivere libri sugli insetti si definisce. Partecipando a un progetto di apertura all’insegnamento per le donne, Fabre incontra verso il 1860 Stéphane Mallarmé, allora professore d’inglese presso il liceo di Avignone, e soprattutto il filosofo britannico John Stuart Mill, con cui nascerà una profonda amicizia. Il suo impegno in favore della parità tra uomini e donne scatenò tuttavia la collera del clero e finì per rivoltarsi contro il naturalista. Costretto a lasciare il suo ruolo d’insegnante al liceo di Avignone nel 1871, Fabre si trasferisce a Orange, poi a Sérignan-du-Comtat, nel Vaucluse, dove redige i suoi Ricordi entomologici, imponente opera di 4000 pagine, e numerosi libri destinati all’insegnamento. In quest’epoca estremamente feconda per la sua carriera, comincia un rapporto epistolare con Charles Darwin, autore de L’origine delle specie e lettore del naturalista francese.

Il Museo di Sendagi propone ai visitatori di scoprire il percorso dell’entomologo.

Okumoto Daizaburo, traduttore dell’opera dell’entomolgo, davanti al Museo Fabre a Sendagi, Tokyo.

Ecco perché si ritrova il nome di Fabre, qualificato come “osservatore inimitabile”, nel libro del padre della teoria dell’evoluzione. Nel 1915, Fabre si spegne all’età di 91 anni, nella sua proprietà nel Vaucluse, che aveva chiamato Harmas (“terreno arido” in provenzale). Questa dimora rosa, classificata come monumento storico, ospita oggi il museo dedicato al naturalista. Soltanto sette anni dopo la scomparsa dell’entomologo, Osugi Sakae, militante anarchico e traduttore di Darwin, pubblica la prima traduzione giapponese dei Ricordi entomologici. Il

libro conosce un discreto successo. “Durante l’epoca Taisho (1912 - 1926), i giornali parlavano già di lui come di un personaggio molto famoso”, spiega Okumoto Daizaburo, traduttore e autore di diverse opere - saggi e biografie - su Fabre. Perché i giapponesi amano così tanto l’entomologo? “Perché ci sono moltissimi insetti in Giappone e perché i giapponesi li amano molto”, afferma semplicemente. “Bisogna ricordarsi che i giapponesi scrivevano già poemi sui canti dei grilli nel X secolo. Nella pittura, gli europei non li disegnavano mai! Se invece si osserva da vicino, ad esempio, Fusokazu, quadro di Sakai Hoitsu (1761-1829), si può notare una cavalletta che lecca una goccia d’acqua”, prosegue Okumoto. Questo amore dei giapponesi per gli insetti è tuttora molto forte. Soprattutto in estate i supermercati vendono una specie di scarabeo-rinoceronte chiamato kabutomushi. I bambini se li contendono e li vogliono come animali da compagnia, alcuni tentano persino di farli riprodurre. Nell’arcipelago non è raro vedere, su un sentiero di montagna, dei bambini o degli adulti con lo sguardo rivolto agli alberi e un retino tra le mani, intenti a inseguire una farfalla o una libellula. Per Emile Laguna, professore di scienze naturali e presidente dell’associazione dei Compagnons de l’Harmas, in continuo contatto e scambio coi fabrinisti nipponici, è stata anche la filosofia dell’entomologo a sedurre i giapponesi. “Contrariamente alla gran parte dei suoi contemporanei, Fabre non considerava l’uomo al di sopra di tutte le specie. Riteneva che facesse

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Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone

ZOOM CULTURA

Il Museo Fabre degli insetti permette, nello stesso tempo, di conoscere la vita del naturalista francese e di contemplare magnifici esemplari.

Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone

semplicemente parte integrante della natura”. Questo spirito così singolare e così insolito per un francese di quell’epoca, piace molto ai giapponesi poiché “ritrovano un’attitudine verso la natura molto simile a quella adottata nella

Ricordi entomologici tradotti da M. Okumoto.

loro cultura e nella loro religione”, assicura Emile Laguna. Apprezzate per la loro qualità scientifica e letteraria, le opere di Fabre si sono dunque costruite una reputazione molto solida nel Paese del Sol Levante. “Per noi, è un grande classico”, giudica Tanaka Isao, responsabile presso una casa editrice che ha appena pubblicato una nuova edizione dei Ricordi entomologici adattata per il giovane pubblico. “Sono libri scientifici, ma si leggono come un romanzo. Sono quindi in grado di piacere a persone che normalmente non si interessano agli insetti”, continua. Un contrasto sorprendente con la Francia, dove la notorietà del naturalista, soprannominato da Victor Hugo “l’Omero degli insetti”, si è affievolita fino a sparire nel corso degli anni. “Fabre non proveniva dal ciclo di studi classico universitario e ha sempre sofferto della mancanza di riconoscimenti ufficiali da parte della comunità scientifica francese”, si rammarica Emile Laguna. Questo autodidatta ha quasi sempre lavorato solo e non ha in effetti ottenuto l’abilitazione negli studi di entomologia. “Non voleva impegnarsi negli studi solo per ottenere diplomi. Giudicava l’iter troppo burocratico”, spiega

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Okumoto Daizaburo. “Era conosciuto come una persona schiva. Sapete come veniva chiamato dai colleghi al liceo? Lo avevano soprannominato «la mosca»!”, aggiunge. Okumoto ha ancora mille cose da dire su Fabre. “Credeva solo alle cose che aveva constatato coi propri occhi. Questo spirito mi è stato molto utile nella vita”, racconta. Il traduttore è anche il presidente dell’Associazione JeanHenri Fabre Japon. Ogni week-end, l’organizzazione porta i bambini in campagna. Lo scopo è quello di permetter loro di catturare degli insetti e di insegnar loro come preparare degli esemplari. “Bisogna inseguire gli insetti! È il miglior modo per capire la natura!”, assicura Okumoto, lui stesso grande collezionista. A volte accompagna in prima persona i bambini, sperando che lo spirito del grande entomologo francese sia perpetuato dai piccoli giapponesi. YAGISHITA YUTA

IN PRATICA MUSEO FABRE DEGLI INSETTI 5-46-6 Sendagi, Bunkyo-ku, Tokyo 113-0022. Tel. 03-5815-6464 www.fabre.jp


ZOOM CULTURA RICORDO

Nel 1967, 007 invade il Giappone

Cinquant’anni dopo la sua uscita, Si vive solo due volte offre interessanti istantanee d’epoca del Paese.

I

l giugno del 1967 fu un periodo particolarmente caldo e agitato. La gente scoprì con stupore che Israele era uscita vittoriosa dal confronto bellico con l’Egitto, la Siria e la Giordania durante la guerra dei Sei Giorni. Intanto, la Cina aveva testato la sua prima bomba a idrogeno e le manifestazioni in strada a Berlino Ovest contro la visita dello Shah d’Iran avevano attirato folle gigantesche e causato la morte di uno studente ucciso dalla polizia. I Beatles tentavano di rassicurare il mondo, ricordando via satellite, grazie alla televisione, che tutti avevano bisogno d’amore. La canzone All you need is love invadeva gli schermi. Ma se davvero si voleva sfuggire al clima torrido internazionale, la cosa più semplice era rifugiarsi in un cinema per godersi l’ultimo film di James Bond, Si vive solo due volte. A quel tempo, l’esotismo giapponese era in voga: così come i film di 007, il Paese delle arti marziali e delle geisha attirava l’attenzione del pubblico. I Giochi Olimpici di Tokyo nel1964 avevano riposizionato il Giappone sulla carta mondiale, rimettendo sotto i riflettori il suo mix di tradizioni antiche e raffinate e la sua tecnologia all’avanguardia. Il Paese nipponico aveva molto da offrire (lo stesso Fleming, creatore del personaggio di 007, nel suo romanzo consacrò molte pagine alla cultura giapponese) al punto che, contrariamente ad altri lungometraggi della serie che si svolgono in diversi punti del globo, i produttori di Si vive solo due volte decisero di girare praticamente tutto il film nell’arcipelago. Il film stesso riflette il coacervo giapponese di modernità sofisticata, tradizioni culturali e bellezze naturali. La storia comincia a Tokyo con una rapida panoramica sul quartiere di Ginza di notte, con il globo Morinaga oggi scomparso e una donna in kimono che sale su un tuk-tuk. Il raffinato quartiere commerciale è dipinto nel modo più glamour possibile. James Bond entra in un edificio in una via laterale e si ritrova improvvisamente negli spogliatoi del Kokugikan (la sala nazionale di sumo che, all’epoca, si trovava a Kuramae, a otto chilometri a nord-est di Ginza) dove fa la conoscenza dello yokozuna (grande campione) Sadanoyama, che interpreta se stesso. Dopo aver ottenuto un biglietto gratuito da parte di Sadanoyama, Bond rimane ad assistere per un po’ al combattimento, facendo così scoprire al mondo intero come due giganteschi individui si muovano all’interno di un cerchio. L’agente segreto fa conoscenza con Aki (Wakabayashi Akiko), il suo omologo giapponese. Aki comunica a Bond di doverlo condurre presso

l’agente locale dell’MI6, Dick Henderson. Nella scena successiva, gli spettatori sono trasportati come per magia a Ginza, dove la Toyota 2000 GT guidata da Aki accelera lungo la Nishi Goban-gai, una delle arterie più eleganti del quartiere. Bond incontra finalmente Henderson, ma quest’ultimo viene ucciso poco tempo dopo. 007 decide quindi di fare una visita a Osato Chemicals, che funge da attività di copertura per alcuni malfattori locali. La sede di Osato è in realtà il famoso hotel Otani di Tokyo, considerato con l’Imperial e con l’Okura come uno dei tre grandi complessi alberghieri della capitale. Nel romanzo di Fleming, l’agente britannico soggiorna all’hotel Okura, ma gli sceneggiatori non hanno mantenuto quest’opzione. Costruito da una piccola società siderurgica con a capo Otani Yonetaro, un ex lottatore di sumo nonché collezionista di stampe, il New Otani ha aperto nel 1964, giusto in tempo per i Giochi Olimpici, ed è stato, fino al ’68, il più grande edificio della città. L’hotel era inoltre conosciuto per i suoi giardini, anch’essi ripresi nel film: è qui che viene ambientato il campo di addestramento ninja.

Non fu facile trasformare Sean Connery alias 007 in un giapponese.

Le scene più rappresentative sono state girate a Tokyo, ma anche diversi luoghi dell’ovest del Paese figurano nella storia, a cominciare dal porto di Kobe, dove, sul molo, Bond e Aki lottano contro i cattivi di Osato (anche se viene fatto credere al pubblico che la scena si svolga a Tokyo). Nella seconda metà del film, troviamo poi il castello di Himeji e due luoghi della prefettura di Kagoshima, sull’isola di Kyushu: Akime e Shinmoedake. Il primo è un piccolo villaggio pittoresco dove il tempo pare essersi fermato e ancora oggi tutto sembra esattamente come cinquant’anni fa. I visitatori vi troveranno persino una stele commemorativa per ricordare il film. Sulla stele figurano le firme di Sean Connery, Albert Broccoli e Tanba Tetsuro, che interpreta il ruolo del capo dei servizi

segreti giapponesi. Shinmoedake è invece un vulcano che, nel film, è utilizzato dai cattivi come base di lancio per missili. Dopo una grande eruzione nel 1959, il lago del cratere è rimasto relativamente calmo fino al 2011, quando il vulcano si è risvegliato, nel mese di gennaio, frantumando i vetri fino a 8 chilometri di distanza e innescando l’evacuazione forzata di una gran parte della popolazione nei dintorni. Da allora la zona è stata messa in sicurezza e il trekking sui bordi del lago dal santuario di Kirishima è nuovamente possibile. La camminata è piuttosto facile, dal momento che il sentiero è in piano. A cinquant’anni di distanza si può dire che Si vive solo due volte è invecchiato bene. La sola scena stonata è quella in cui Bond tenta di spacciarsi per un pescatore di Kyushu. È truccato e camuffato in modo orribile. I truccatori sono riusciti a nascondere i due piccoli tatuaggi che l’attore porta sul suo braccio destro (“Scozia per sempre” e “Mamma e papà”), ma non hanno potuto fare niente per il suo aspetto generale. Immaginate un individuo alto e robusto che dice “ohayo gozaimasu” - buongiorno - con un impressionante accento scozzese. Le due Bond Girls non sono esattamente stupefacenti, in un certo senso sono fra le più “deboli” della serie - in particolare Kissy Tiger, interpretata da Hama Cie. Quest’ultima avrebbe dovuto interpretare Aki nel film, ma ha dovuto rivestire i panni dell’altra Bond Girl a causa del suo inglese limitato. Hama e Wakabayashi non possono rivaleggiare con le precedenti bombe sexy sul genere Ursula Andress o Claudine Auger, ma hanno avuto un gran numero di fan internazionali e soprattutto locali, grazie alle lunghe gambe non giapponesi! Hama è stata addirittura presentata da Playboy come “la Brigitte Bardot del Giappone”. Gli uomini occidentali sono stati colpiti probabilmente dalla scena in cui Bond è coccolato da un gruppo di ragazze in bikini, mentre Tanba afferma che “le donne sono nate per servire gli uomini”. È il genere di frase che si poteva sentire al cinema negli anni Sessanta. 007 è tornato in Giappone soltanto una volta dopo Si vive solo due volte. È stato quando Daniel Craig ha incontrato Javier Bardem, capelli platinati, nel bel mezzo delle rovine dell’isola abbandonata di Hashima (più conosciuta sotto il nome di Gunkanjima), al largo di Nagasaki, nel film Skyfall. Adesso, i fan giapponesi sperano che i produttori adattino al cinema The Man with the Red Tattoo, un romanzo di Bond scritto nel 2002 da Raymond Benson, che si svolge in diversi luoghi dell’arcipelago, fra cui Naoshima, un’isoletta nella prefettura di Kagawa, celebre per i suoi musei d’arte. Le autorità locali hanno aperto, nel 2004, un piccolo museo dedicato a 007, in previsione del gran giorno. GIOVANNI SIMONE

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ZOOM CULTURA WASHI

Un artigiano di nome Akiyama

Ospitato da anni in Italia, l'artista ci mostra un universo originale con il suo lavoro di carta.

L

a carta giapponese (washi, come viene chiamata in Giappone) è da sempre un importante materiale al servizio della creatività di scrittori, calligrafi e pittori. Ma questa carta è così duttile che può essere usata anche per creare oggetti tridimensionali. Tutti noi, ad esempio, conosciamo l’origami ovvero l’arte di piegare la carta. Ci sono però degli artisti che vanno ben al di là di queste miniature cartacee e creano vere o proprie sculture che combinano la sperimentazione dell’arte contemporanea alla tradizionale sensibilità giapponese. Uno di questi artisti, Akiyama Nobushige, vive da molti anni in Italia dove lavora all’Istituto Giapponese di Cultura di Roma. “Mi sono laureato in scultura all'Universita' d'Arte e Design di Tokyo”, dice Akiyama, “nel 1985 mi sono trasferito in Italia per studiare scultura all'Accademia di Belle Arti di Roma. All’inizio praticavo la scultura comunemente intesa, ma quando ho incontrato la carta giapponese sono rimasto subito affascinato dalle possibilità che offriva di realizzare sculture. Ovviamente essendo giapponese avevo già una certa conoscenza ed esperienza in fatto di washi, ma in quel momento ho sentito che la rilettura della tradizione artigiana del mio paese mi apriva una nuova via. Così sono tornato in Giappone per imparare la tecnica di produzione”. Mentre la nostra carta viene fatta con pasta o cellulosa di legno, l’ingrediente principale della carta giapponese è la corteccia di kozo, un albero che appartiene alla famiglia dei gelsi ma è diverso da quello le cui foglie vengono usate nell’allevamento dei bachi da seta. I rami di kozo vengono raccolti verso dicembre-gennaio. Se ne strappa la corteccia che viene poi messa ad essiccare e ridotta in poltiglia attraverso una faticosa operazione di battitura e sfibratura. Quando la poltiglia è pronta viene messa in una vasca con l’acqua e la mucillagine (colla vegetale) ricavata dalla radice di una pianta. Il liquido così composto viene infine raccolto in un telaio e lavorato in modo da produrre la carta. “Ormai non passa giorno senza che noi entriamo in contatto con la carta”, dice Akiyama. “Basta pensare ai libri, alla carta igienica o ai fazzoletti di carta. È un po’ come l’aria: è così presente intorno a noi che non ce ne accorgiamo nemmeno. Tuttavia in Giappone questo rapporto quotidiano è ancora più profondo. La carta giapponese è sottile ma allo stesso tempo molto

forte – molto più forte di quella prodotta in occidente – ed è grazie a questa sua resistenza che da tempo immemorabile viene utilizzata nella produzione di vari oggetti, dagli ombrelli e le bambole alle porte scorrevoli”. L’importanza

Una delle opere di Akiyama Nobushige.

di questa carta è stata perfino riconosciuta dall’UNESCO che nel 2014 l’ha inserata fra i Patrimoni orali e immateriali dell'umanità. “Ogni qual volta produco la carta”, dice Akiyama, “assaporo il senso di armonia con cui il mio corpo assorbe questo materiale”. La sua poetica si presenta come un ponte fra antico e moderno, utilizzando e declinando il materiale attraverso quelle che sono le direttive principali della scultura – dimensione, volume, resistenza – ma aggiungendovi l’elemento spiazzante della leggerezza tipico della carta. “A volta I risultati sono del tutto inaspettati. Una volta, ad esempio, ho preparato un foglio di carta di due metri per tre. Era una bella giornata estiva e così l’ho messo ad asciugare fuori, sotto il sole. Improvvisamente si è messo a piovere però io non me ne sono accorto subito. Quando finalmente sono corso fuori a prendere la carta era tutta bucherellata dalle gocce di pioggia. Il risultato è stato tanto bello quanto inatteso. Mi piace il ruolo che il caso a volte gioca nella mia produzione”. Le mostre di Akiyama spesso spiazzano i visitatori che non si aspettano il tipo di ambiente che l’artista giapponese ama creare. I suoi progetti prendono infatti la forma di installazioni sitespecific: Akiyama analizza lo spazio che ha a disposizione e adatta di conseguenza all’ambiente la presentazione delle sue opere. L’attuale mostra al Museo della Carta di Toscolano Maderno in provincia di Brescia (fino al 15 ottobre) ne è un tipico esempio. Essa rappresenta infatti un proficuo scambio culturale tra il luogo ospitante – una antica cartiera in cui è ancora possibile produrre carta a mano

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secondo la tradizione occidentale – e le opere d’arte ospitate. Il fantastico mondo di carta di Akiyama è popolato da opere particolari di varie dimensioni. Sono oggetti inusuali, affascinanti, che variano dal geometrismo all’antropomorfismo e possono essere anche sospesi al soffitto vista la loro leggerezza. I suoi grandi pannelli sono in grado di modificare l’ambiente in cui vengono posizionati mentre i suoi rilievi presentano forme che invitano alla meditazione. Il materiale stesso, allo stesso tempo morbido e robusto, si presenta nei colori naturali o con lievissime colorazioni vegetali. “Mi interessa sempre vedere la reazione del pubblico. Sicuramente non si aspettano queste cose a cominciare dalle dimensioni di certe mie sculture. A volte tutto l’ambiente espositivo è coperto di carta. E poi c’è appunto l’elemento tridimensionale su cui io insisto spesso ma che molta gente non si aspetta quando pensa alla carta. Spero che per loro costituisca un’occasione per fare una pausa di riflessione”. Le sue opere più recenti sono invece forme geometriche in resina trasparente che includono variamente della carta giapponese resa visibile dalla luce a led che è parte integrante dell’opera stessa. “Quando la forma nata dall’immaginazione dell’artista si fonde con le qualita di ciascun materiale”, dice Akiyama “prende vita qualcosa che trascende l’impressione che si imprime nella nostra mente; che trascende l’opera artistica stessa”. Recentemente Akiyama si è anche cimentato con il teatro, creando scenografie e costumi di carta per Aoi, di Kawamura Takeshi. Il lavoro di Akiyama recupera la gestualità antica, fatto di pazienza e silenzio. “Per me è molto importante la manualità come modo di produrre le cose. A volte mi chiedo: se un giorno rimanessimo senza elettricità sapremmo cavarcela? Ora, al di là di questa visione un po’ apocalittica, credo che sia ancora importante sapere come si fanno le cose a mano. Io da parte mia mi sono posto il compito di tramandare la tecnica tradizionale della produzione di carta. “L’espressione giapponese onko chishin significa ‘indagare il vecchio per conoscere il nuovo’: insegna che nuove conoscenze e nuovi modi di vedere nascono dallo studio delle cose del passato; che non dobbiamo svalutare considerandole “cose vecchie”. Lungo le strade tracciate dai nostri antenati ci sono ancora elementi che aspettano di essere raccolti, elementi che aspettano di diventare materiale per costruire il futuro”. G. S.



ZOOM CUCINA

C’era una volta il funazushi

Antenato del sushi che tanto apprezziamo oggi, questo piatto suscita da qualche tempo un rinnovato interesse.

N

el corso della storia il lago Biwa, a nordest di Kyoto, ha fornito alla capitale medievale diversi prodotti d’acqua dolce, contribuendo così largamente ad arricchire la gastronomia kyotoita. Fra le specialità locali vi è un piatto leggendario: il funazushi, ossia l’antenato del sushi. Il sushi così come lo conosciamo, a base di riso acetato e pesce, è una specialità relativamente recente: è nato all’epoca di Edo agli inizi del XIX secolo, si chiamava al tempo hayazushi, “sushi rapido”, per differenziarlo dal sushi già esistente, un sushi “a fermentazione”, che necessitava di una preparazione di diversi mesi. Fino ad allora, infatti, il sushi era prima di tutto un metodo di conservazione per le proteine animali, tecnica comune a certe regioni del sud-est asiatico e del sud della Cina. I pesci, talvolta persino la carne, venivano salati e uniti a riso cotto, il che innescava il processo di fermentazione lattica. L’ingrediente impiegato e il tempo di fermentazione differiva a seconda delle regioni, ma la specialità esisteva già nell’VIII secolo, e ha continuato a esistere parallelamente al “nuovo sushi”. Sulle rive del lago Biwa, ancora oggi, qualche laboratorio prepara il funazushi. Il pesce funa (pesce d’acqua dolce del genere carassius) e in particolare la specie nigorobuna, endemica del lago Biwa, è l’ingrediente base per questa ricetta. I pesci vengono pescati in primavera, poi svuotati delle interiora e puliti dalle squame. Li si riempie di sale e li si lascia marinare fino all’inizio dell’estate.

INFORMAZIONI PRATICHE TOKUYAMA ZUSHI 1408 Kawanami, Yogo-cho, Nagahama, Shiga 529-0523. Tel. 0749-86-4045 www.zb.ztv.ne.jp/tokuyamazushi/

La fermentazione del pesce dura mesi interi.

Vengono poi estratti dal sale, farciti e ricoperti di riso cotto, quindi si lascia agire la fermentazione lattica. Saranno pronti per la consumazione a fine novembre-inizio dicembre. Per la fermentazione sono così necessari otto o nove mesi. Il funazushi si degusta a fette sottili (ideale accompagnato col saké!)e si mangia anche la testa, che può essere servita a pezzettini, sul riso appena cotto sul quale viene versata dell’acqua calda. Questa tecnica produce un consommé istantaneo e naturale, che può poi essere aromatizzato col wasabi. Ideale per concludere il pasto su una nota dolce e serena. Il funazushi si conserva per un anno o due… e il suo gusto evolve in continuazione. Se da qualche anno a questa parte l’immagine del funazushi è decisamente migliorata e la specialità figura persino fra le delizie gastronomiche del lago Biwa, non sempre è stato così. Il piatto era consumato esclusivamente a livello locale e il resto della

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popolazione non ne era particolarmente attirata… Qualcuno lo trovava disgustoso: perché forzarsi a mangiare del pesce fermentato, dal gusto acido e dall’odore pungente? Per fortuna, la moda dei prodotti fermentati ha contribuito a ridare nuovo slancio al funazushi e gli sforzi effettuati in questo senso dagli stessi produttori non sono trascurabili. Uno dei precursori della rivalorizzazione di questo piatto tradizionale è Tokuyama Hiroaki: gestisce l’albergo-ristorante Tokuyama-zushi, sulle rive del lago Yogo, un laghetto collegato al Biwa, ed è considerato un esperto in materia. È famoso per il suo funazushi prelibato, grazie alla perfetta conoscenza del processo di fermentazione, e anche per aver osato associare il piatto a nuovi ingredienti, aprendolo a nuovi universi del gusto. Sebbene sia cresciuto nella regione e, bambino, abbia visto suo padre confezionare il funazushi, non è questa la strada che scelse inizialmente. Cominciò col cimentarsi, come tutti, nella cucina giapponese tradizionale. Lavorando come cuoco, si accorse che il piatto tipico della regione era via via sempre più dimenticato. Incoraggiato da un ricercatore specializzato nella fermentazione lattica a preservare e sviluppare il savoir-faire legato al funazushi, decise, quattordici anni fa, di aprire un ristorante dedicato proprio a questo piatto. Agli inizi non è stato facile attirare la clientela. Malgrado le difficoltà dei primi tempi, ha saputo tuttavia sviluppare gradualmente il suo universo culinario combinando diversi metodi e variando gli ingredienti fermentati nelle diverse portate. Ad esempio, nel suo ristorante serve il funazushi tagliato finemente, accompagnato da un filo di miele raccolto in montagna. Lo si degusta anche in versione “sandwich”: una fetta sottile di funazushi tra due fette di pane in stile pita. Il momento del dessert riserva una sorpresa: il sorbetto di ii, il riso nel quale è stato fatto fermentare il pesce, la cui acidità crea un sapore prossimo a

© felipe ribon

TRADIZIONE


© felipe ribon

ZOOM CUCINA

Tokuyama Hiroaki propone un’autentica composizione artistica coi suoi funazushi.

quello dello yogurt. Il risultato è piacevolmente fresco e al tempo stesso sorprendente ma assolutamente convincente grazie alla coerenza che orchestra tutto il pasto. I suoi piatti all’inizio possono apparire come una vera sfida, una serie di invenzioni azzardate, una fra tutte lo sgombro fermentato tagliato finemente e associato a salsa di pomodoro e caciocavallo grattugiato. Ma una solida logica sostiene le sue idee: nel piatto appena citato, ad esempio, la combinazione dei tre ingredienti ricchi in aminoacidi non può che generare un gusto profondo e intenso. Se Tokuyama ha saputo sviluppare il potenziale

gastronomico della fermentazione lattica, è anche grazie al fatto che è uno dei pochi ad avere due ruoli nello stesso tempo: quello di cuoco e quello di produttore. Sia la sua conoscenza dei processi di fermentazione, sia la conoscenza dei prodotti hanno reso possibile per lui quest’apertura della palette gustativa. A suo dire, non pretende di realizzare della “cucina giapponese mainstream”, ma semplicemente “alla maniera di Tokuyama”. Esiste tuttavia un piatto più tradizionale del funazushi? Rari sono i piatti dell’epoca del Genji Monogatari (capolavoro letterario dell’era Heian) preparati ancora oggi. Non

bisogna infatti dimenticare che le specialità considerate come emblemi della cucina giapponese quali soba, tempura o sushi “moderno” esistono sì e no da appena duecento anni… Il funazushi è il piatto che più ci ricorda che ogni prodotto culinario porta con sé una storia. Ogni storia rappresenta un patrimonio da custodire. La produzione non è enorme e, a detta del cuoco, non ha bisogno di esserlo poiché l’essenziale è vivere in armonia con l’ecosistema del lago, senza il quale l’esistenza della cultura culinaria locale non sarebbe concepibile. SEKIGUCHI RYOKO

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ZOOM CUCINA EVENTO Roma si

L A RICETTA DI HARUYO

sintonizza col Giappone Per molti stranieri, la gastronomia giapponese si gusta per forza in un ristorante dagli interni zen curati nei minimi dettagli, locali ovattati dove piatti raffinati vengono serviti in stoviglie di preziosa porcellana. Naturalmente posti del genere esistono in Giappone e in altri paesi, ma la cucina nipponica non si riassume soltanto a questo, anzi. Ecco perché Roma ospita una grande manifestazione per mostrare che numerose specialità giapponesi vengono servite e gustate in luoghi pieni di gioviale calore, dove il piacere della convivialità è tanto importante quanto la qualità dei piatti preparati. In numerose città dell’arcipelago, si incontrano gli yatai, piccoli stand all’aperto dove si ritrovano gli amanti della buona cucina. Alcune città come Fukuoka sono particolarmente famose per gli yatai, e la clientela arriva da tutto il paese per condividere momenti di puro piacere. La proposta di Via Japan, il festival di Street Food Giapponese, è proprio quella di far conoscere meglio questa cucina semplice ma gustosa, tanto apprezzata dai Giapponesi. Le protagoniste saranno quattro specialità: sushi, ramen, takoyaki e yakitori. L’evento, in programma per il 4 e 5 novembre prossimi, permetterà di ricreare quest’atmosfera coinvolgente e unica, che trasforma l’atto del mangiare in un’autentica festa. Inutile ricordare che i diversi piatti preparati saranno opera di cuochi di alto livello, in modo che ogni boccone sia un piacevole passo nel mondo del gusto giapponese. È vero infatti che ognuna di queste specialità, malgrado la preparazione possa sembrare semplice, esige un savoir-faire particolare, frutto di anni di dedizione da parte di chef esperti. Non esitate dunque a partecipare a Via Japan: oltre all’atmosfera impareggiabile, vivrete un autentico viaggio nella Gastronomia giapponese, quella con la G maiuscola. Odaira Namihei

Gyôza (Ravioli grigliati)

PREPARAZIONE 1 - Tritare il nira, la cipolla e lo shiitake. 2 - Ben mescolare con i condimenti. 3 - Disporre un cucchiaio da minestra di farcitura su un foglio di gyôza. 4 - Bagnare i bordi del foglio di gyôza. Piegarlo e fare aderire i due fogli.

INGREDIENTI (per 40 gyôza) 300 g di carne di maiale tritata 1 grappolo di nira (cipollline cinesi) 1/2 cipolla tritata 3 shiitakes tritati (funghi giapponesi) 1 cucchiaino da caffè di zenzero grattugiato 1 cucchiaio da minestra di salsa di soja 1 cucchiaio da minestra di sake 1 cucchiaio d’olio di sesamo 40 fogli di gyôza (disponibili in commercio già pronti) Per la cottura 1 cucchiaio da minestra d’olio (10 ml)

5 - Scaldare la padella con un po’ d’olio. 6 - Disporre i gyoza. Aggiungere acqua (20 ml), coprire e cuocere per 6 - 8 minuti a fuoco medio. 7 - Quando l’acqua sarà evaporata, togliere il coperchio e lasciar dorare a fuoco medio. 8 - I gyoza sono pronti per essere degustati.

SALSA PER DEGUSTARLI 4 cucchiai da minestra di aceto di riso 4 cucchiai da minestra di salsa di soja 1 cucchiaino da caffè d’olio di sesamo Qualche goccia di rayû (olio piccante)

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Un angolo di Giappone in pieno centro a Milano

A due passi dal Duomo, il nostro ristorante su due piani replica nell'arredamento le tipiche trattorie giapponesi, ne raccoglie le tradizioni estetiche e culinarie e le arricchisce di contaminazioni italiane. Dai decori alle porcellane, ogni dettaglio è scelto con cura per far vivere al pubblico un'esperienza autentica, mentre la cucina è affidata alle mani esperte dello chef Shinichiro Kasashima.

IZAKAYA SAMPEI

Immergersi in un'atmosfera unica

Tel. +39 02 4953 0600 Indirizzo : Largo Corsia dei Servi 20122 Milano, Italie LunedĂŹ - Sabato : 12.00 - 15.00, 19.00 - 24.00 (Domenica : Chiuso)






Stefano De Luigi per Zoom Giappone

Situato a più di 1000 km da Tokyo, l’arcipelago di Ogasawara resta in gran parte un territorio selvaggio.

Ogasawara, l’arcipelago del tesoro Tokyo significa Shibuya, Harajuku o ancora Shinjuku. Ma non bisogna dimenticare questa manciata di isolette a 1000 km di distanza dalla città.

S

ul ponte dell’Ogasawara Maru, i passeggeri scattano le foto dei primi scorci dell’arcipelago di Ogasawara. Avvolte nella nebbia e coperte di densa vegetazione, le isole offrono l’immagine subtropicale di un Giappone distante anni luce dai kimono e dai giardini zen. Distante più di mille chilometri da Tokyo, questo arcipelago di una trentina d’isole perse nel Pacifico fu

nel passato un territorio vergine percorso soltanto dai balenieri in rotta qui dalla Nuova Inghilterra. Uno di questi, Nathaniel Savory, decise di creare una colonia nel 1830. Nel 1880, quelle che ancora venivano chiamate le “isole Bonin” (“isole abitate da nessuno”) integrarono la prefettura di Tokyo e mutarono nome in Ogasawara. I primi abitanti dell’arcipelago si mescolarono ai pescatori e agli agricoltori giapponesi. Ai giorni nostri, Ogasawara rimane ancora, per la maggior parte della popolazione nipponica, un angolo di mondo estremo, inaccessibile e misterioso. La traversata dura 25 ore dalla capitale. Il tempo

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impiegato per il tragitto non è cambiato da 35 anni a questa parte, da quando l’Ogasawara Maru opera il collegamento con l’arcipelago. Immensa, l’imbarcazione propone sei classi di cabine, fra le quali la più economica, uno spazio occupato soltanto da un tatami in fondo alla stiva, è anche la più sconsigliata agli stomaci fragili. Malgrado la sua stazza, infatti, la nave dondola avanti e indietro, impedendo qualsiasi movimento. Solo gli isolani, testimoni di condizioni ben peggiori in altre traversate, continuano serenamente a sorseggiare il loro shochu, alcol di patate dolci. “Non è la stagione dei tifoni, ma il mare è capric-


In certi momenti, la nebbia invade il paesaggio e conferisce un’atmosfera inquietante.

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cioso. Speriamo di non entrare in collisione con una balena sulla rotta”, commenta, dalla sua cabina, il capitano Takahashi. Un secolo e mezzo fa, gli uomini affrontavano questo tratto di oceano a bordo di canoe, per arpionare i cetacei ottenere così il combustibile che all’epoca valeva oro: l’olio di balena, utilizzato per le lanterne. Finalmente appare il porto di Chichijima, in una splendida baia dalle acque turchesi. Centinaia di mani si agitano verso di noi. L’arrivo, una volta a settimana, dell’Ogasawara Maru è un autentico avvenimento per Chichijima e Hahajima, le due sole isole abitate dell’arcipelago. Se si esclude qualche prodotto coltivato per i turisti, Ogasawara dipende interamente da Tokyo per l’alimentazione. “Sono tornato dagli Stati Uniti quindici anni fa per gestire il supermercato. È una grossa responsabilità, bisogna congelare tutto: nell’eventualità che un tifone si abbatta sull’isola, siamo tagliati fuori dal mondo”, racconta Rocky Savory nel suo inglese impeccabile. L’uomo dirige la B.I.T.C. (Bonin Islands Trading Company), nata sessant’anni fa. Pro-pro-pronipote di Nathaniel Savory, Rocky è nato nel 1960. Di sua madre ha ereditato gli occhi a mandorla, ma il fisico imponente rivela le origini americane. “Qui ci chiamano gli Obeikei (di origine occidentale). Nelle nostre vene scorre sangue hawaiano, polinesiano, africano. Ma ci sentiamo prima di tutto nativi di Ogasawara”, precisa. I discendenti degli autoctoni, circa 200 individui su una popolazione di 2000 abitanti, coabitano in armonia con la popolazione giapponese. Lungo l’arteria principale che contorna il porto di Chichijima, le insegne bilingue ricordano fieramente il passato internazionale dell’isola, un vantaggio sicuro per lo sviluppo del turismo. Classificata nella lista del Patrimonio mondiale Unesco dal 2011, Ogasawara trabocca di specie endemiche, fra cui diverse minacciate d’estinzione, e attira i turisti appassionati di flora e fauna. “Abbiamo un pipistrello dalla pelliccia rossa che chiamiamo “volpe volante”, può misurare fino a 1,50 metri!”, esclama la guida, originaria della lon-

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John Washington è uno degli Obeikei che vivono a Ogasawara.

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ANA, per conoscere l’ospitalita’ e la cultura giapponese fin dall’inizio del viaggio. Per informazioni e prenotazioni contattate la vostra agenzia di viaggi di fiducia oppure visitate il sito : anaskyweb.com/it/e

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Immagine della prima nave inviata dalle autorità sule isole per comunicare l’appartenenza alla prefettura di Tokyo.

Nel porto di Chichijima, il monumento dedicato alle balene ricorda la loro importanza per gli abitanti.

tana prefettura di Ehime, sull’isola di Shikoku. Ci muoviamo nella giungla, fra grovigli di radici e grotte misteriose. Ogasawara nasconde numerose vestigia storiche. In mezzo agli alberi taco a forma di polipo e a ficus “strangolatori”, si trovano alcune rovine della Seconda Guerra Mondiale: camion, bunker e stoviglie, silenziosi testimoni della vita dei soldati. A 300 metri di altitudine la scogliera di Heart Rock, a forma di cuore, è unica nel suo genere. Offre al visitatore una vista incomparabile sull’oceano, che appare come una striscia di cobalto orlata di verde. Al largo, il soffio di una balena si rivela come una fontana candida. Una volta cacciate e oggi protette, le balene offrono all’isola un importante flusso turistico e conseguenti incassi.

“Grazie all’accesso difficile, non vi è tuttavia turismo di massa, e l’ecosistema è preservato”, assicura Shibuya Masaaki, vicepresidente dell’associazione turistica del villaggio di Ogasawara. Nessun aeroporto è previsto per l’arcipelago. “Sono le condizioni poste dall’Unesco per mantenerci nella lista del Patrimonio mondiale”, spiega. Lontani dai macro-complessi turistici, gli alberghi e i piccoli hotel famigliari offrono charme e confort per rilassarsi dopo una giornata tra giungla e oceano. George Minami Gilley ammira l’orizzonte. Discendente del celebre capitano baleniere William Gilley, uno dei primi coloni a popolare l’isola, George ha ripreso il lavoro dell’antenato ma in

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maniera più pacifica. A bordo del suo peschereccio, colui che oggi viene soprannominato “Little George” scruta i flutti per individuare il getto inconfondibile che segnala la presenza delle megattere. “Ne vedremo se avete fortuna!”, spiega placidamente. Vicino alla spiaggia di Sakaiura, l’imbarcazione si ferma per lasciarci visitare il relitto di un cargo giapponese, l’Hinko Maru, colpito durante la guerra del Pacifico, nel 1944. Da quando giace nelle acque cristalline a qualche metro dalla spiaggia dell’isola di Chichijima, il relitto è diventato il rifugio per migliaia di pesci variopinti e squali. “Si tratta di squali inoffensivi, non vi preoccupate!”, assicura George che ci spinge verso il largo. In questo mattino primaverile, la bruma ricopre ancora gli isolotti rocciosi offrendo un’atmosfera incantata, mentre dai flutti fanno capolino pesci volanti e delfini, indifferenti all’imbarcazione. “Se mettiamo capo a sud per 240 chilometri, si arriva a Iwojima. Ma nessuno ha diritto di sbarcare sull’isola, a parte le forze di autodifesa giapponesi”, racconta. Cappellino americano calato sulla fronte e capelli scoloriti dal sole, Little George porta una tee-shirt sulla quale sono raffigurati i soldati americani intenti a issare la bandiera USA su Iwojima, l’isola più celebre della guerra del Pacifico, dove morirono 20.000 combattenti giapponesi. Le balene sono assenti, ma navighiamo su fondi marini trasparenti, popolati da migliaia di pesci tropicali. Si alza la nebbia. Facciamo uno stop a Minamijima, un’isola deserta con una spiaggia che regala paesaggi di quarzo e rocce straordinarie. Finalmente, dopo più di quattro ore, la nostra pazienza è ricompensata. Scorgiamo le prime balene: una famiglia con due maschi, una femmina e un piccolo. Li seguiamo per un bel po’ di tempo, osservando i loro corpi enormi, pieni di grazia e quasi irreali, elevarsi in salti arditi e poi scomparire nuovamente nel mare. L’indomani partiamo per l’isola di Hahajima, 50 km a sud di Chichijima. Popolata da 450 abitanti, offre gli stessi paesaggi dell’isola principale ma è ancora più selvaggia. È qui che arrivarono i primi coloni giapponesi all’inizio del XIX secolo per lanciarsi nella coltura della canna da zucchero. Komatsu Hiroko, discendente di questi coloni, è nata nel ’44 e ha vissuto in esilio sull’isola di Honshu coi suoi genitori. “Sono stati cacciati da Hahajima a causa della guerra e sono potuti ritornare soltanto nel 1968. Questo perché quando l’isola, nel ’45, è passata sotto controllo americano, nessun giapponese fu autorizzato a ritornarvi”, confida la donna, mentre raccoglie alcune primizie nel suo frutteto. Fujitani Akinori fa invece parte dei nuovi abitanti dell’isola. Ha lasciato la sua prefettura natale, Aichi, a ovest di Tokyo, vent’anni fa. Pelle scura e mani robuste, questo agricoltore ha ereditato un campo con una vista superba sull’oceano. “Sento persino il soffio delle balene!”, esclama.



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A ogni partenza della nave, gli abitanti di Chichijima vengono a salutare i passeggeri.

Un solo inconveniente: due cannoni, retaggio della guerra, sono piantati nel bel mezzo del suo campo di margherite. “I miei amici vengono a scattare foto, ma avere queste rovine belliche sulla mia proprietà, mi perturba!”, dice, ridendo sottovoce. Con l’aiuto della moglie, coltiva succulenti frutti della passione e i famosi pomodori-ciliegia di Hahajima, prelibatezza per i turisti. A qualche minuto di distanza dal porto, si può visitare la distilleria di rhum di Hahajima, che produce circa 4000 bottiglie l’anno. Oggi il “Bonin rhum” che faceva la gioia di pirati e marinai nel passato, ha qualche difficoltà a fare concorrenza allo shochu, l’alcol di patata dolce o grano, adorato dai giapponesi. Il rhum continua tuttavia a far parte della storia di Ogasawara. “Assaggiate questo rhum, ha 25 anni!”, esclama il Sig. Orita. Profumi intensi invadono l’aria del crepuscolo. Sotto il ficus strangolatore che si erge davanti al porto, gli isolani si riuniscono dopo il lavoro: pescatori, agricoltori o funzionari come Kadowaki Osamu, che lavora

presso la cooperativa agricola di Hahajima. Quest’uomo, originario di Tokyo, un giorno ne ha avuto abbastanza di fare il pendolare e delle sue tre ore di treno giornaliere e ha dato le dimissioni, per trasferirsi sull’isola. “Qui, la convivialità e la qualità di vita valgono più di tutto il confort del mondo”, assicura, con un gran sorriso. Durante la nostra ultima giornata a Ogasawara, partiamo in crociera a 130 chilometri a ovest di Chichijima per osservare una nuova isola nata dal fondo dei mari. Nel 2013, Nishinoshima, o “isola dell’ovest”, ha attirato l’attenzione dei media del mondo intero e continua tuttora ad affascinare grazie alla sua evoluzione. “L’eruzione del vulcano sottomarino nel 2013 ha creato un’isolotto a est dell’isola originale di Nishinoshima, essa stessa nata da un’eruzione nel 1973. Quest’isolotto si è sviluppato e oggi forma un unico territorio con Nishinoshima”, racconta Kawakami Kazuto, un ornitologo dell’Istituto di Ricerca Forestale. Alcuni turisti e alcune famiglie si sono riuniti sul ponte. Il cielo

e il mare si confondono. Finalmente appare la forma conica e fumante di Nishinoshima, mentre tutto intorno volteggiano gli unici abitanti dell’isola, degli uccelli katsuodori (Sula Bassana) bianchi e neri. Di ritorno a Chichijima, passiamo l’ultima serata al bancone del bar Yankee Town, nel vecchio quartiere degli Obeikei. Il proprietario Rance Ohira Washington è una fucina di storie sull’isola: vicende di pirati, di vecchie mappe, di tesori. “Sono certo che ci sia un tesoro nascosto da qualche parte a casa di mia nonna! Hanno trovato delle monete d’oro nel 1831”, dice. Vestito con pantaloni militari, occhi pungenti a mandorla, è tornato qui dagli Stati Uniti, in cerca d’identità. “Il Giappone non insegna la nostra storia, noi però abbiamo il dovere di trasmetterla ai nostri figli”, dice. Isola ai confini del mondo, Ogasawara dà tuttavia l’impressione di essere un porto aperto su tutti i continenti, a metà cammino tra Asia, Oceania e America. L’indomani, l’Ogasawara Maru lascia il porto di Chichijima al suono del tamburo giapponese wadaiko, e in omaggio alla nave che salpa vengono organizzate danze hawaiane. È presente tutto il villaggio, tutti fanno grandi gesti con le mani per salutare i passeggeri stretti sul ponte, commossi. Decine di imbarcazioni vengono a completare questo addio degno di un film, scortandoci, mentre, agitando i fazzoletti, gli equipaggi gridano “A presto!”. I petali dei nostri fiori d’ibisco rossi, offertici dagli isolani, volano via e galleggiano sulle onde come a ricordarci di ritrovare rapidamente la via per tornare verso le meravigliose isole di Ogasawara. ALISSA DESCOTES-TOYOSAKI

PER ARRIVARE IL SOLO MODO PER RAGGIUNGERE OGASAWARA È LA NAVE. L’Ogasawara Maru assicura il collegamento regolare tra il terminal di Takeshiba, a Tokyo, e il porto di Chichijima. Per saperne di più sulle prenotazioni e sulle tariffe, vogliate consultare il sito della compagnia marittima Ogasawara Kaiun che gestisce la tratta : ww.ogasawarakaiun.co.jp/ english/reserve/howto.html

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Special e

anime


Obama

La cittadina sul mare non è solo l’omonima dell’ex presidente americano, rappresenta soprattutto un’area culturalmente ricchissima e ancora sconosciuta.

SCOPERTE

Alla fine della Via della Seta

Nel cuore della provincia di Wakasa, Obama incarna il Giappone ancestrale grazie a una cultura e a tradizioni perfettamente preservate.

I

l mio rimpianto sarà quello di non aver avuto il tempo di visitare la città che porta il mio nome!”, dichiarava Barack Obama, l’ex presidente americano, durante il suo viaggio a Hiroshima, l’estate scorsa. Il mondo intero sentiva così parlare per la prima volta della modesta cittadina della prefettura di Fukui. Nonostante l’anonimato in cui è stata relegata, Obama è una

di quelle città giapponesi autentiche, profondamente sincere, dove il legame con la natura è evidente e forgia il quotidiano dei 30.000 abitanti. La città inoltre è depositaria di un ricco passato storico capace di illustrare a meraviglia la vita ai tempi in cui Tokyo (Edo) non era ancora la capitale del Giappone. Situata a nord di Kyoto, è effettivamente in questa cittadina che si è scritta una parte essenziale della storia giapponese. Obama era allora soprannominata la “Nara dei mari”, poiché presentava tutte le ricchezze e le bellezze dell’antica capitale, e in più era adagiata sulle belle rive del mare del Giap-

pone. Isolata, protetta tra le montagne e il litorale, Obama è diventata una vera città solo a partire dal 1951, dopo essere stata disabitata per decenni. Nei secoli passati, rappresentava soprattutto un eccezionale porto naturale che permetteva di intensificare gli scambi con la Cina prima e la Corea poi. Un’autentica porta d’ingresso per il Giappone, e il capolinea estremo della Via della Seta. All’epoca, questo importante luogo strategico per gli scambi commerciali era anche il porto più vicino geograficamente alle antiche capitali Nara e Kyoto. La baia su cui si affaccia permetteva di

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approvvigionare in abbondanza le ricche città di pesce squisito. Obama era anche il punto di partenza di quello che viene chiamato in Giappone il Saba Kaido, la “via dello sgombro”, un percorso di circa 75 chilometri che raggiungeva la capitale imperiale e che è stato riconosciuto come patrimonio nazionale nell’aprile 2015. Bisogna ammettere che la sua storia è unica. Durante l’epoca Heian (7941185), lo sgombro di Wakasa veniva salato e poi trasportato giorno e notte, a spalle o grazie all’ausilio di cavalli, verso i grandi centri. Si praticava una sorta di staffetta lungo tutto il difficile cammino, perché il pesce raggiungesse rapidamente il mercato di Kyoto all’alba. Poco importavano le stagioni e il clima spesso rude nella regione in inverno. Il percorso toccava la costa ovest del lago Biwa, poi i villaggi di Kutsuki, Ohara, Yase, per infine arrivare a Kyoto. I più avventurosi fra i viaggiatori possono tuttora percorrere l’itinerario come nel passato: lungo tutto il sentiero è ancora possibile vedere le indicazioni e altre testimonianze dell’epoca. Questa strada storica ha senza dubbio contribuito all’ascesa della reputazione gastronomica della regione di Wakasa, rinomata a livello nazionale. Le specialità di Obama hanno addirittura ricevuto la distinzione suprema di capitale del Miketsukuni, ovvero sono considerate degne di essere servite alla tavola della famiglia imperiale. Ancora oggi, i giapponesi accorrono volentieri nella regione per gustare le specialità della cittadina. Lo sgombro, crudo o alla griglia, il fugu (pesce palla), ogni genere di prodotto ittico come le ostriche, i frutti di mare, i namako (cetrioli marini), il karei (pesce locale dalla forma piatta, salato e fatto seccare) sono particolarmente conosciuti e ricercati. La città è famosa anche per la qualità del suo riso, delle sue prugne salate umeboshi e della sua selvaggina (capriolo e cinghiale). Lo sgombro di Obama resta un piatto emblematico della festa di Gion, a Kyoto, al punto che un altro matsuri (festa), più modesto, è organizzato a Obama nello stesso periodo, a metà settembre, in memoria del periodo fastoso del Saba Kaido. Il karei di Wakasa è ancora oggi offerto alla famiglia imperiale ogni anno. Dopo l’isola di Kyushu, Obama è poi senza dub-

COME ARRIVARE PARTENDO DA KYOTO, bisogna prendere la linea Hokuriku, e in particolare il Limited Express Thunderbird. Sono necessarie circa 2 ore per raggiungere la città sul mare, con un cambio a Tsuruga, dove bisogna dirigersi sulla linea Obama. PARTENDO DA TOKYO, bisogna prendere il Tôkaidô shinkansen fino a Maibara. Qui si cambia sul Limited express Shirasagi fino a Tsuruga. Ultimo cambio sulla linea Obama. In totale, il tragitto dura circa 5 ore.

Obama

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Ogni anno, a inizio agosto, il cielo di Obama si incendia.

bio il miglior posto dove gustare il fugu. Nulla va sprecato in questo pesce prezioso, tutte le parti sono commestibili e ogni pezzo viene preparato diversamente: in sashimi, stufato, grigliato, in insalata, e così via… L’albergo del Sig. Kawahara propone un succulento pasto completo interamente consacrato al fugu. Per accompagnare il tutto, non bisogna esitare a chiedere un bicchiere di hirezake, un saké servito caldo con una pinna di fugu all’interno. Una delizia dal gusto delicato, leggermente affumicato, che reclama un bis. Per chi vuole saperne di più sui dettagli della gastronomia locale, tutto è spiegato con dovizia di particolari presso lo Shokubunkakan della città,

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il museo interamente dedicato ai piatti della regione. La storia della città di Obama è appassionante quanto i suoi paesaggi. Quando il clima si fa mite e le imbarcazioni prendono il largo, è possibile raggiungere le superbe scogliere di Sotomo, accessibili da aprile a dicembre. Numerosi alberghi tradizionali propongono escursioni sulle barche dei pescatori per scoprire le numerose specie di pesci che popolano le acque di Obama, nel loro habitat naturale. Al Blue Park è poi possibile imparare a preparare i pesci pescati. Degli specialisti locali assistono il visitatore per aiutarlo nel taglio in sashimi del pesce. Segue quindi una degustazione


Obama

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Gli appassionati di attività sportive potranno partire alla scoperta dei dintorni in kayak.

in buona compagnia. Sebbene di taglia modesta, Obama possiede un patrimonio culturale davvero importante. La città e i suoi dintorni contano circa 130 templi, per la maggior parte degli autentici gioielli prodigiosamente conservati e arrivati pressoché intatti dalle epoche Heian e Kamakura. Il Myotsuji, giunto a noi dall’epoca Kamakura e registrato come tesoro nazionale, è un tempio di una bellezza rara ed essenziale che si impone sulle alture della città. La pagoda adiacente risale all’ 806. Qui e là sulla struttura di legno si scorgono delle macchie di muschio, testimonianze del tempo trascorso, così care all’estetica giapponese del wabi-sabi, il termine nipponico che definisce la contemplazione dei segni del tempo. Le statue di Buddha dei templi di Obama sono anch’esse delle meraviglie. È raro osservarne di così antiche e ben conservate nell’arcipelago… Obama è ugualmente una città rinomata per la qualità del suo artigianato. È qui che viene realizzato l’80% della produzione giapponese di bacchette laccate, le Wakasa nuri-bashi. Se la capitale della lacca rimane Wajima, a nord di Kanazawa, quella di Wakasa è altrettanto notevole e vanta una storia di più di quattro secoli. La tecnica consiste nello smerigliare la lacca con l’aiuto di una pietra o di carbone, per mettere in rilievo i

motivi di conchiglie e di gusci d’uovo. A volte vengono utilizzate foglie d’oro, trasformando così le bacchette in autentici capolavori di oreficeria. “Per realizzare certi oggetti di lacca possono essere necessari da otto mesi a un anno”, spiega il maestro Aoto Hideo. “La base degli oggetti è sempre il legno grezzo. La lacca si applica in forma liquida. Per i motivi si utilizzano svariate cose: oro, gusci d’uovo, aghi di pino, ecc. In tutto, ci sono 24 fasi da rispettare”. Diversi atelier propongono ai turisti di realizzare le proprie bacchette laccate sotto l’occhio vigile di un maestro. Un’esperienza unica che rivela subito la difficoltà dell’opera. La città è un’affascinante oasi di pace. D’estate, molti giapponesi vengono a fare il bagno, attirati dalle piccole e numerose insenature lontano dalla folla. Improvvisare un barbecue qui è la cosa più facile e spontanea del mondo: il paesaggio spinge i visitatori ad assaporare l’attimo presente. Il mare del Giappone ha il vantaggio di avere correnti marine più calde e meno forti rispetto alla parte oceanica dell’arcipelago, il che rende i bagni più piacevoli e rilassanti. Anche i turisti sono meno numerosi su questa costa ancora selvaggia: insomma non mancano le buone ragioni per venire. Bisogna però, a partire da metà agosto, fare attenzione alle meduse: le acque calde le atti-

rano in massa! Per dormire, la città dispone di una pletora di pensioni (minshuku), come il Murakami Tosen, un affascinante albergo tradizionale tenuto da una coppia e dai loro figli. Si dorme coricati su futon e tatami tradizionali, e i bagni sono condivisi con le altre camere. Lasciatevi guidare senza reticenze nell’incomparabile dolcezza dell’ospitalità giapponese. Al mattino, la famiglia serve una colazione saporita composta da brodo di miso, pesce grigliato e riso. Se il desiderio di fondersi ancor più nella popolazione di Obama vi stuzzica, basta andare a pranzo da Kitchen Boo. Per meno di 10 euro, si ha accesso a un buffet squisito composto da una profusione di piatti giapponesi realizzati a partire da verdure e pesci locali e di stagione. Ai tavoli tutto attorno si trovano famiglie, bimbi e anziani. È domenica e tutti sfoggiano un gran sorriso, felici di condividere questo momento. Attualmente i trasporti per recarsi a Obama sono un po’ complicati, ma a partire dal 2022, la città sarà raggiunta dal treno ad alta velocità, come la sua vicina Kanazawa, che beneficia dello shinkansen dal 2015. Di che rendere celebre e accessibile la cittadina che per ora rimane a due ore da Kyoto e a quasi cinque ore da Tokyo. JOHANN FLEURI

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