60|2017
Sped. in a.p. - 70% - Filiale di Ancona
Rivista di divulgazione culturale e artistica del territorio marchigiano
ARTE | STORIA | ARCHEOLOGIA | LETTERATURA | SOCIETÀ | MUSICA | SCIENZE
Giorgio Rossi Franco Elisei Fabio Brisighelli Claudio Sargenti Paola Cimarelli Maurizio Cinelli Lella Mazzoli Giorgio Zanchini Luigi Benelli Giordano Pierlorenzi Alessandro Bettini Dante Trebbi Dino Zacchilli Alberto Pellegrino Franco De Marco Giorgio Girelli Giovanni Martinelli
“GOOD ECONOMY”
Il design salverà
NUMERO 60 | 2017
l’impresa
Il personaggio Menichelli: giovani cambiate la storia
Sociale Il mutuo soccorso nelle Marche
L’evento Sassoferrato celebra il suo Salvi
A PAGINA 7
A PAGINA 19
A PAGINA 27
Illustrazione di Sergio Giantomassi
NUMERO
60|2017
SETTEMBRE
2
CO. FER. M.
s.p.a. COMMERCIO ROTTAMI ACCIAIO INOSSIDABILE, FERROLEGHE, METALLI, FERRO
.
.
.
60035 JESI (AN) Interporto Marche Via Coppetella Tel. 071 946362 r.a. Fax 071 946365
info@coferm.it
www.coferm.it
Editoriale
3
Marche, la bellezza insospettabile proprio sotto casa
Q di Giorgio Rossi Presidente de Le Cento Città
uesto mio breve scritto apre il n.60 della nostra Rivista: è un compito che mi fa sentire il peso di una forte responsabilità perché il livello di gradimento del nostro “fiore all’occhiello”, per contenuti, veste grafica e diffusione, è veramente alto ed indiscutibilmente riconosciuto. Il merito va a coloro che per anni vi hanno lavorato con dedizione e grande generosità. Ad essi deve andare il nostro grazie più sentito e, per tutti, lasciatemi citare Mario Canti che, anno dopo anno, ha profuso il suo impegno con generosità e senza riserve. Nostro compito sarà mante-
nere e se possibile accrescere la qualità complessiva della Rivista; sono comunque certo che la Redazione, con gli amici Maurizio Cinelli e Franco Elisei al vertice, che fin d’ora ringrazio, sarà all’altezza delle migliori aspettative. Ho assunto la Presidenza de “Le Cento Città” nella consapevolezza di essere di fronte
ad un gravoso impegno morale e personale derivante dal grande prestigio che attribuisco a questa Associazione, per cui il mio intendimento sarà conservare quanto di prezioso ho trovato in termini di rispetto, cultura, amicizia. Sono marchigiano ma, me ne faccio grave colpa, ho nel tempo trascurato i tanti capolavori ed i luoghi incantevoli che Cento Città mi offre la possibilità di conoscere ed apprezzare. Proprio per questo ho pensato di scegliere per il mio anno un motto breve ma significativo: labellezzasottocasa, che vuole ricordare anche ai marchigiani più “d.o.c.” che, se guardano bene, dietro l’angolo o …..sotto casa, possono scoprire bellezze insospettate. Le Marche sono proprio questo: uno scrigno poco aperto, anche un po’ trascurato, ma pieno di storia, di tradizioni, di capolavori diffusi. La Giunta esecutiva ha elaborato il programma dell’anno cercando di rispondere adeguatamente alle molteplici istanze dei Soci, mantenendo peraltro inalterati gli appuntamenti tradizionali e ormai consolidati dell’Associazione nell’ambito di eventi che avranno di massima cadenza mensile. Tuttavia, non si poteva tralasciare l’impatto fortissimo derivante dal terremoto che ha devastato tanta parte del territorio della nostra Regione: tante località sono interdette alle visite, tante opere d’arte sono state salvate ma giacciono in depositi sparsi e quasi di fortuna. Uno di questi depositi, lodevolmente, è diventato una mostra allestita nelle sale del
Editoriale
Le Marche uno scrigno poco aperto anche un po’ trascurato ma pieno di storia e di capolavori
4
Palazzo Campana di Osimo ed ha dato lo spunto per il nostro primo evento dell’anno realizzato nel mese di settembre. Perciò, dopo la conclusione del Convegno “Emergenze ricorrenti: prevenire per sopravvivere”, nel quale sono stati approfonditi molteplici aspetti legati ai più vari tipi di emergenze, abbiamo visitato la mostra “Capolavori Sibillini”.
delle Marche. La chiusura dei lavori è stata affidata alla Vice Presidente della Giunta della Regione Marche Anna Casini che si è pubblicamente dichiarata amica de “Le Cento Città” ed ha saputo ben coniugare il suo apprezzamento per i temi trattati con l’esigenza di trarre logiche conclusioni da quanto esposto dai Relatori, dimostrandosi competente, preparata, disponibile. Ora la "Bellezza" a Sassoferrato
Il convegno di Osimo
Sopra, un momento del convegno su "Emergenze ricorrenti" a Osimo Nella pagina precedente un particolare dell'annunciazione di Giovan Battista Salvi esposta nella mostra "La devota bellezza " a Sassoferrato
Il Convegno, che ha visto un’ampia partecipazione di Soci ed ospiti, ha offerto un’estesa e dettagliata indagine sul tema proposto dando la possibilità di ascoltare la voce della Protezione Civile, le introspezioni nell’animo umano dal punto di vista filosofico, la toccante testimonianza di un diretto testimone del recente evento sismico, le riflessioni di un operatore dell’informazione, le precise indicazioni scientifiche di un docente dell’Università Politecnica
Ottobre ci vedrà a Sassoferrato e Cabernardi dove, dopo aver visitato la mostra “La devota bellezza” in cui troveremo le opere di Giovan Battista Salvi oltre che i disegni provenienti dalla Collezione Reale Britannica, andremo a vedere il parco minerario del più grande bacino di estrazione di zolfo d’Europa. Non voglio dilungarmi a parlare ancora di quanto sarà proposto nei programmi; a tempo debito verranno inviate tutte le necessarie notizie. Vi anticipo soltanto che, nell’ottica di una doverosa attenzione per i luoghi terremotati, a novembre andremo ad Arquata del Tronto entrando così nel vivo del cosiddetto “cratere”. Concludo confermando l’impegno di tutta la Giunta per rendere sempre più efficace e credibile l’Associazione, in coerenza con quanto da me affermato e ribadito nelle Assemblee: nessuna frenesia di rinnovamento ma rispetto per il passato e forte determinazione per migliorare ogni aspetto della nostra attività. ¤
Argomenti
5
Sommario 7
Il personaggio
Menichelli: «Ancona devi amarti di più» DI FRANCO ELISEI
11
Il ricordo
Pavarotti, il grande tenore legato a Pesaro DI FABIO BRISIGHELLI
13
Formazione per manager 1|2
Istao, progetti e visioni da Marche 4.0 DI CLAUDIO SARGENTI
17
Terremoto
Sisma, un anno dopo No a presepi disabitati DI PAOLA CIMARELLI
19
Sociale
Il mutuo soccorso nell'anima marchigiana DI MAURIZIO CINELLI
23
Comunicazione
Un festival a tre teste racconta la cultura DI LELLA MAZZOLI E GIORGIO ZANCHINI
27
L’evento
La “Devota Bellezza” Salvi incanta tre Papi DI LUIGI BENELLI
31
Good Economy
La bellezza del Design sedurrà anche la crisi DI GIORDANO PIERLORENZI
Argomenti
6
Sommario 35
Fatti di ceramica
La maiolica di Pesaro al tempo degli Sforza DI ALESSANDRO BETTINI
39
Storia|Guidobaldo II
Mistero sui resti mortali del duca della Rovere DI DANTE TREBBI
43
Le idee
Fano, sogni progettuali per svegliare la Fortuna DI DINO ZACCHILLI
47
Media
Il fenomeno Grand Hotel sogni e speranze di carta DI ALBERTO PELLEGRINO
53
Storia di un ragazzo di provincia
Massi sul red carpet stilista di dive e regine DI FRANCO DE MARCO
55
Musica
Brancati, tra creatività e tediosa burocrazia DI GIORGIO GIRELLI
57
Il personaggio controverso
Vannicola, tante “vite” tra estro ed eccessi DI GIOVANNI MARTINELLI
Il personaggio
7
Menichelli: «Ancona devi amarti di più» IL CARDINALE LASCIA LA DIOCESI DOPO TREDICI ANNI
S di Franco Elisei
Il cardinale Edoardo Menichelli
i è congedato da Ancona nel giorno in cui la Cattedrale è stata dedicata a San Ciriaco nel lontano 24 settembre del 1753. “Sono lieto – sottolinea il cardinale Edoardo Menichelli – che il mio congedo cada in questa ricorrenza. La cattedrale è sempre in simbiosi con il suo vescovo”. Ora Sua Eminenza, cardinale dal 2015 per volere di Papa Francesco che il 14 luglio scorso ha accolto la sua rinuncia al governo pastorale dell’Arcidiocesi di Ancona-Osimo per raggiunti limiti di età (78 anni appena compiuti), si trova nella sua San Severino in un ex convento in via dei Lumi dove è stato ricavato uno spazio decoroso. Ora, da cardinale, ha nuove responsabilità. Papa Francesco lo ha nominato membro del supremo tribunale della Segnatura. La Segnatura apostolica (in latino Supremum Tribunal Signaturae Apostolicae) è un dicastero della Curia romana ed è il supremo tribunale della Santa Sede. È composto attualmente da un numero non precisato di vescovi, e cardinali nominati dal Pontefice di cui uno funge da prefetto che si avvale della collaborazione di un segretario. E si articola in due sezioni. La prima sezione (giudiziaria) tratta le cause assegnatele secondo il Codice di diritto canonico proroga la competenza dei tribunali costituiti anche per le cause matrimoniali; cura la costituzione dei tribunali regionali o interregionali e gode dei diritti conferiti dai concordati con alcuni Stati. La seconda sezione (contenzioso-amministrativa) dirime le contese originate da atti della potestà
ecclesiastica amministrativa, a essa dirette, e giudica: sui conflitti di competenza tra i dicasteri della Curia romana sulle controversie amministrative inviatele dalle Congregazioni, sulle controversie commessele dal pontefice.”Il cardinale – afferma - è collaboratore diretto del Papa, ha bisogno di fedeltà e disponibilità al martirio. Se non c’è questo…”. Un pastore “fuori dal coro” Nella sede della diocesi metropolitana di Ancona, l’allora arcivescovo Menichelli è giunto nel 2004 e si è subito fatto conoscere per la sua intensa umanità e semplicità. Ama dire che “nella Chiesa l’onore sta nel servire, la grandezza sta nella semplicità”. i fedeli spessissimo lo hanno visto arrivare proprio in semplicità, con una Panda, che lui stesso è solito guidare. Pastore tra la gente, testimone del vivere in normalità, dal rapporto diretto e schietto. Tanto da sembrare “fuori dal coro”, diverso dall’aspetto vescovile tradizionale. “No – corregge – non mi sento un pastore fuori dal coro”. Poi spiega: “La pastorale non è un progetto statico, passa attraverso le persone che lo realizzano e ognuno di noi ha la propria umanità, come l’aveva Gesù. Il resto è dono di natura, educazione ricevuta”. Cresciuto nella povertà e nell’improvviso dramma, Menichelli a undici anni si è ritrovato solo, senza più genitori. “Potevo diventare un potenziale delinquente” confida nel suo studio, due giorni prima di lasciare. La stanza
Il personaggio
Papa Francesco lo ha nominato membro del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica
8
è praticamente vuota. Sulle scaffalature nessun volume. Pochi fogli, essenziali, bene ordinati sulla scrivania, abitualmente strabordante di carte, appunti e corrispondenza in ordine sparso. Un vuoto che trasuda già di nostalgia. “Secondo le categorie sociali di oggi – continua dopo un attimo di pausa - ero tra le persone più fragili. Quelle che non hanno l’appoggio familiare. Non posso dire che mi ero messo sulla strada della delinquenza, questo no, e comunque a quel tempo si confondevano le birichinate con le cose più gravi, ma lo dico da monito: laddove la famiglia è debole o non c’è più, è la comunità che deve essere accogliente”. E la famiglia è diventata poi un momento di sensibilità fondamentale del suo percorso religioso: “E’ il punto centrale della società – spiega – Checché ne se dica o se ne pensi. E forse oggi si fa poco a favore della famiglia e si slabbrano le maglie delle ferite”. Poi la vocazione e l’a-
bito talare a 26 anni. Mai un pentimento, un dubbio: “Un conto sono i dubbi e un conto l’impegno di fedeltà – confida – Noi siamo tutti dentro una congenita fragilità, ma mai un momento di pentimento. Ho sempre avuto la percezione di un accompagnamento genitoriale per un verso ed ecclesiale per l’altro”. Il quadro della Madonna che lacrima “Lascio il ministero, non l’episcopato”, sottolinea guardando la Cattedrale dove ha impresso tre segni particolari del suo mandato: l’arredo liturgico e il presbiterio, la cappella del Santissimo Sacramento e una particolare cura delle tombe dei vescovi nei sotterranei. “ In questi anni – racconta - ho cercato di far crescere la partecipazione. E di questo sono grato ai sacerdoti. Ho nominato due rettori: prima Ermanno Carnevali ora don Giuliano Nava, sacerdote di grande
Il personaggio
qualità e di grande impatto pastorale”. E nella cattedrale, oltre alle tombe dei vescovi, è custodita un’immagine della Madonna che si racconta sia stata donata da un navigatore veneziano dopo essersi salvato con il figlio da una tempesta sul mar Adriatico. “Si narra – spiega Menichelli –anche che la Madonna del dipinto abbia mosso gli occhi e lacrimato. Tanto da colpire lo stesso Napoleone che restituì il quadro subito dopo averlo preso per distruggerlo, perché richiamava troppa gente al Duomo per pregare e temeva sommosse. Da allora il 26 giugno tutte le parrocchie si recano in pellegrinaggio verso la Cattedrale”. L'appello accorato ai giovani Da arcivescovo prima e ora da cardinale ha cercato momenti di coesione: “Mai una porta chiusa - annuisce - anzi. C’è stato casomai un eccesso, di inviti, peraltro molto positivo per me. Io sono andato dovunque. Per conoscere. Ogni luogo è di evangelizzazione. Si creano così momenti di coesione. E questo l’ho sempre vissuto in nome di una mai soddisfacente laicità. La laicità è una qualità mentre il laicismo è un settarismo, come la fede è una qualità e il fondamentalismo una vergogna”. Frequente e pressante l’appello che Menichelli rivolge continuamente ai giovani: “Non fatevi derubare il futuro e non state sul balcone ad annotare le disgrazie della storia. Entrate dentro la storia e cambiatela. Le nuove generazioni patiscono non solo le tante difficoltà dell’esclusione occupazionale, ma anche una escludente solitudine che non fa amare la vita”. Poi un pensiero agli interessi economici che filtrano oggi ogni momento, ogni decisione della società: “Il
9 mercato è la grande malattia di questo tempo, anzi è la prigionia di questo tempo”. Partecipò ai funerali di Federico Fellini Tra i suoi ricordi anche la partecipazione ai funerali di Stato per la morte del regista Federico Fellini. Li celebrò il cardinale Achille Silvestrini. Menichelli era allora il suo segretario. “I funerali – racconta - furono come una riconsegna della comunità a Dio di un figlio sui generis. In lui c’era il combinato della debolezza umana, della fantasia geniale e dell’artista, sommo conoscitore delle persone. E checché se ne dica, della tenerezza verso la moglie”. Ancona città dove il sole nasce e tramonta, dove si può scorgere il mare davanti agli occhi e contemporaneamente dietro le spalle, città dei sei colli, dove il centro storico e il porto si abbracciano senza soluzione di continuità e dalle banchine si può leggere tutta la storia più importante del capoluogo, ma anche città difficile, problematica, ritenuta addirittura inospitale, poco valorizzata dagli stessi anconetani. “Ho imparato – spiega Menichelli – a conoscere questa città nella sua storia di grande impegno. E mi sono accorto che Ancona deve amare di più se stessa, perché lo merita. E’ questo l’auspicio che faccio”. “Come molte altre città –aggiunge – la tipologia sociale è mutata negli ultimi decenni. C’è un centro storico che ha una popolazione e una sua caratteristica e c’è quella che viene chiamata periferia, luogo in cui entrano anche persone di altri paesi e città. Forse, per mettere insieme queste due anime sociali è mancato lo strumento della conoscenza. Che fa amare”. “Ancona- continua – è una città molto educata, non dice
La famiglia da sempre è il punto centrale della società E forse oggi si fa poco in suo favore
Nella pagina a fianco, il cardinale Menichelli con Papa Francesco Sotto, il quadro della Madonna nella cattedrale di Ancona In questa pagina due immagini di Sua Eminenza durante il suo apostolato Nella pagina successiva il saluto ai suoi fedeli a San Ciriaco
Il personaggio
10
mai ‘non ti accolgo’, ma accanto a questa caratteristica non sempre si riesce a passare alla seconda fase. Ma questa è una fatica, una difficoltà di tutte le città”. Ha salutato i fedeli abbracciandoli tutti
Ora a settantotto anni appena compiuti si è ritirato a San Severino in un ex convento in stretto contatto con il Vaticano
Gli anconetani gli riconoscono grande personalità e profondo tratto umano. “Il mio rapporto con la città di Ancona – racconta – ha avuto tre fasi: la prima è stata quella della conoscenza della sua tradizione. Poi ho cercato di capire il modo di pensare dei suoi abitanti e ho tentato di coniugare la conoscenza con la sua storia culturale ed economica, il suo rapporto tra mare e città. La terza fase è quella che sto ancora vivendo e che mi ha fatto capire quanto una scorza spesso non riveli appieno ciò che custodisce. O, a volte, non dica neppure la verità”. Menichelli si riferisce al carattere degli anconetani descritto con grande passione
nella poesia in vernacolo sulla crocetta scritta da Eugenio Gioacchini detto Ceriago: “Io guardo ‘sta cruceta sbuzolosa cun ‘st’anima gentile; cià qualcosa del caratere nostro anconità: rozo de fora, duro, un po’ vilà ma dentro bono, un zuchero, ‘n’amore…. Ché nun conta la scorza, conta el core”. E il cuore degli anconetani ha bussato forte in Cattedrale quando hanno affollato le storiche navate di San Ciriaco per abbracciarlo prima del buen retiro sfidando anche il maltempo. Menichelli li ha voluti salutare tutti. Uno ad uno. Non si è sottratto al sorriso e alla commozione come quando si è appoggiato con il capo chino sul Pastorale o quando ha usato le stesse parole di Papa Francesco. “Pregate per me. Vi chiedo la misericordia per i miei difetti, che chiamerei deficit e la preghiera, perché trovi pace nei giorni ultimi del tempo umano”. “Con voi – ha aggiunto – sono stato vescovo e discepolo. Ho bisogno della vostra misericordia e sento il bisogno di ringraziarvi per la bontà e i segni di benevolenza che mi hanno accompagnato e che mi hanno dato coraggio e fedeltà a Dio. Come ha detto San Paolo ai Filippesi, l’amore del vescovo verso i suoi fedeli non è un bagaglio che si deposita ma che resta nel cuore”. Un saluto doloroso e colmo di emozioni. In lui albergano forza spirituale e fragilità umana. Ed è capace anche di ironizzare di fronte ai tanti ringraziamenti ricevuti: “Ricordatevi che siamo Santi dopo morti, mai prima”. ¤
Il ricordo
11
Pavarotti, il grande tenore legato a Pesaro A DIECI ANNI DALLA MORTE, LA CITTÀ GLI DEDICA UN LIDO
L di Fabio Brisighelli
uciano Pavarotti come personaggio del mito, del mito dell’opera: la nostra età, la nostra generazione, ne sono state portatrici. Ancor oggi, a distanza di dieci anni dalla sua morte (6 settembre 2007), il grande tenore sembra esprimere nel giudizio di una folla immensa di melomani quell’ “essenza” del canto che gli antichi identificavano col mitico cantore Orfeo, “universale fantastico” (per dirla con Vico) dell’eterna malia della musica e della voce. Se volessimo adattare alla circostanza la categoria belcantistica dell’ “edonismo” vocale, del puro piacere d’ascolto, ci verrebbe spontaneo dire che due cantanti a memoria del passato ne sono stati i più naturali rappresentanti: lui e il nostro Beniamino Gigli. Ma chi, come chi scrive, “critica” per mestiere le voci liriche, deve oggettivare i propri stati d’animo, giustificarli in qualche modo; non può accettare “per fede”, come un seguace di Lutero, quel che un commentatore musicale americano asserì a proposito di Luciano, che Dio facendolo nascere aveva baciato le sue corde vocali. Né prendere per buono, senza verifica, il complimento che quasi sempre ad ogni recita o concerto l’emiliano o modenese conterraneo di turno gli indirizzava a squarciagola: “Pavaròtt, a tsi al campion dal mond!”- e mi scusino i locali se ho trascritto male.In sala, nella parete a cui è appoggiato l’impianto stereo, ho una foto di Pavarotti che sorride dentro la piccola cornice che l’avvolge. Me l’ha
mandata lui tanti anni fa con una dedica:”A Fabio per caro ricordo”, e mi è più cara dei quadri che la sovrastano. Luciano non poteva immaginare che la sua breve, affettuosa frase avrebbe assunto, ora che non c’è più, un doloroso significato d’addio. La vita gli ha dato tanto, è vero, anche se il destino, insondabile e crudele come spesso sa essere, gliene ha presentato il conto troppo presto; la vita gli ha dato un successo e una fama planetari, in virtù di una voce incomparabilmente bella, che ha determinato in qualche misura l’unicità del suo essere tenore, negli anni della magica carriera: unico, il nostro cantante, perché “storico”, e come tale capace di ripristinare modalità di canto del passato, fascinose quanto desuete. Come Maria Callas (lei nella particolare confezione di un genere, il “drammatico d’agilità”), anche Luciano ha contribuito alla renaissance di una figura vocale dell’ultima stagione del belcanto, quella del tenore autenticamente “protoromantico”, dei tempi di Bellini e Donizetti, con un raccordo ideale al mitico Giambattista Rubini, nel particolare repertorio l’esponente di maggior spicco di quel registro in primo Ottocento. Pavarotti è stato insomma l’estremo custode di una tradizione nobile di canto, di stile cosiddetto “ideale” e romantico ante litteram (splendidi appunto i suoi Bellini e i suoi Donizetti); un’emozionante variazione moderna sul tema dell’antico virtuoso. Tanti i personaggi dell’opera illuminati dalla sua voce e dalla sua carica espressiva: il suo Rodolfo (della Bohème), che con una simbiosi rara tra
Il ricordo
Villa Giulia il “buen retiro” sulle pendici del San Bartolo “Un luogo speciale dove tutti gli anni sono felici”
In alto, Villa Giulia incastonata nel verde del colle San Bartolo luogo di ritiro per "Big Luciano"
12
interprete e personaggio egli ha incarnato con una credibilità che non ha eguali; quindi il suo Riccardo (del Ballo in maschera), mirabile per sfaccettata penetrazione interpretativa; e poi ancora il suo Edgardo (della Lucia di Lammermoor), un eroe veramente romantico per la fierezza dell’accento, la nobiltà della linea musicale, il portamento gagliardo e sempre comunque aristocratico. Ma come sarebbe possibile trascurare i “do di petto” profusi a piene mani dal suo Tonio donizettiano (della Figlia del reggimento), la “caratterialità” estatica e trasognata e insieme goffamente divertita del suo Nemorino (dell’Elisir d’amore), la disincantata spregiudicatezza e la disinvolta noncuranza, e al tempo stesso la trepidante soavità amorosa del Duca di Mantova (del Rigoletto); quindi l’intensità emotiva, l’uso raffinato delle mezze voci e le tonalità siderali dell’Arturo dei Puritani, o le gemme belcantistiche di Fernando (della Favorita)? E l’elenco dei personaggi potrebbe continuare, per questo rabdomante dell’opera sempre felice nella scoperta delle più pure sorgenti del canto, alle quali ha sempre saputo abbeverarsi. Ci piace pensare che in qualche insondabile recesso dell’Universo Luciano avrà unito la sua alle voci di Enrico, di Beniamino, di Jussi, di Franco. Che concerto ne verrebbe fuori! Da far impallidire anche le schiere, pur notoriamente attrezzate, dei cori degli angeli. Pavarotti aveva la sua dimora a Modena, ma Villa Giulia di Pesaro (il nome, in ricordo della nonna), la casa a cento
metri dal mare che dal Colle San Bartolo domina Baia Flaminia, il suo “buen retiro” nella “posizione più bella dell’Adriatico” (sono parole sue), è stata dal 1975, data dell’acquisto, fino in pratica all’anno della morte, la sua residenza d’adozione (lui cittadino onorario di Pesaro), specie nella bella stagione. “Un luogo speciale - diceva -, dove tutti gli anni sono felici”. Lì lo raggiunse José Carreras per organizzare con lui e Placido Domingo il celebre Concerto dei Tre tenori. Lì è nato il Pavarotti International di Modena, alla presenza di Bono e di Sting. La famiglia ha voluto mettere a disposizione la villa come residenza artistica per compagnie teatrali di musica e canto, workshop, laboratori, produzioni culturali. Dei concerti tenuti da Pavarotti a Pesaro, il primo è stato quello in occasione della riapertura del Teatro Rossini restaurato (6 aprile 1980). L’atteso ritorno del tenore è avvenuto sei anni dopo, il giorno di Ferragosto del 1986, in Piazza del Popolo, con tanto di comunicazione a lui da parte del Sindaco del conferimento della cittadinanza onoraria unitamente alla consegna delle Chiavi della Città. Giusto dieci anni dopo, il 18 dello stesso mese di agosto, è stato di nuovo protagonista ‘in voce’ all’interno del nuovo Palasport della città, nella festa d’apertura. Chi scrive era presente a tutti gli appuntamenti, e ne conserva un ricordo bellissimo. Da ultimo, di recente, su decisione della Giunta comunale di Pesaro è stata intitolata al ‘tenorissimo’la spiaggia di Baia Flaminia, con il prato attiguo. ¤
Formazione per manager | 1
13
Istao, progetti e visioni da Marche 4.0 ANCONA, L’ISTITUTO FONDATO 50 ANNI FA DA GIORGIO FUÀ
I di Claudio Sargenti
Il professor Giorgio Fuà fondatore dell'Istao
n cantiere c’è anche un progetto sul futuro delle Marche legato ai tragici avvenimenti sismici che colpirono la regione giusto un anno fa, nella convinzione che proprio l’emergenza legata al terremoto possa offrire nuove opportunità di vita e di sviluppo. Del resto è proprio nella filosofia dell’Istao, l’Istituto di studi aziendali “Adriano Olivetti” fondato mezzo secolo fa da Giorgio Fuà, economista, capofila di quella che venne poi chiamata la Scuola di Ancona, che ispirandosi proprio agli insegnamenti del grande imprenditore illuminato, sostiene con convinzione la necessità di guardare al futuro senza perdere di vista il passato. E “rinnovamento nella continuità” ama ripetere anche l’attuale presidente dell’Istituto, Pietro Marcolini, già allievo dell’Istao, un passato da politico, ma soprattutto, di economista e quindi di tecnico (a lui si deve, ad esempio, per gran parte, il risanamento 13 anni fa dei conti della Regione). Non ci pensa Marcolini di paragonarsi con l’illustre fondatore. Anzi. Le parole “oblio” come pure “rottamazione” da lui non saranno mai pronunciate. Per Marcolini, infatti, si tratta di aggiornare la missione “secondo il metodo – ci tiene a precisare – che Fuà ci ha insegnato e lasciato”. E così nella splendida cornice di Villa Favorita (un “polmone” verde alla periferia di Ancona, proprio al centro dell’area commerciale e industriale del capoluogo) accanto ad una mostra fotografica dedicata all’indimenticato Giorgio Fuà, si sta proseguendo con l’opera
di valorizzazione proprio del capitale umano, ovvero con il coinvolgimento nelle attività dell’Istituto degli ex allievi ed ex docenti. E poi i progetti e i lavori in corso ad iniziare da una doppia ricerca: l’impatto dell’innovazione nello sviluppo dell’economia e, appunto, la ricerca di nuovi sentieri e di nuovi percorsi per le aree colpite dal sisma, nella consapevolezza che da una tragedia come è stata quella del terremoto di un anno fa possano nascere nuove opportunità. Come è stato, ad esempio, per Ancona dopo il terremoto del 1972 (con il risanamento del centro storico e lo sviluppo di nuovi quartieri) o la stessa realizzazione della Quadrilatero, progetto concepito dopo il sisma del 1997 che colpì l’area a cavallo tra Marche e Umbria. Tra master e corsi di alta formazione, l’Istao ha in cantiere cinque filoni di studi: l’internazionalizzazione; la gestione delle imprese; un percorso formativo per manager dello sviluppo locale; un corso di alta specializzazione in diritto tributario. Un centinaio complessivamente gli studenti iscritti ai corsi, altrettanti i docenti che si alterneranno in cattedra; piccoli numeri ma con moltiplicatori molto elevati essendo tutti, studenti e docenti, di segmento medio alto. Progetti e corsi che l’Istao porta avanti coinvolgendo università, grandi aziende e istituti di credito, ma con un occhio rivolto anche alle associazioni di categoria e attento alle piccole e piccolissime imprese nella consapevolezza che i 9/10 della struttura manifatturiera marchigiana
Formazione per manager | 1
Le ricerche: impatto dell’innovazione nello sviluppo dell’economia e nuovi percorsi per le aree colpite dal sisma
In alto, la biblioteca del centro studi Qui sopra, la sede dell'Istituto di Studi Aziendali "Adriano Olivetti" ad Ancona A destra, l'attuale presidente dell'Istao Pietro Marcolini
conta meno di dieci addetti. E ancora. L’Istituto rivolge un’attenzione speciale ad una ventina di start-up innovative. Due i progetti ai quali il presidente Marcolini sembra tenere di più: lo studio, la valutazione dell’impatto dirompente delle nuove tecnologie sull’apparato manifatturiero non solo marchigiano. E poi la crisi e quel sisma che tanto lutto e devastazioni ha portato nelle aree dell’Appennino centrale perché “…accanto alla crisi economica perdurante da oltre otto anni – ci dice – si è abbattuto nelle Marche e sull’Italia centrale il dramma del sisma le cui ferite sembrano minacciare il futuro di una parte rilevante della regione, della sua economia e della società.” Le idee e i progetti più promettenti, secondo Marcolini, poggiano su cultura, turismo, agricoltura, artigianato e industria di qualità. La questione è dunque la riprogettazione innovativa di imprese e territorio inquadrata nel futuro dell’Appennino centrale che deve passare dall’emergenza sismica a nuove opportunità di vita e di sviluppo. Un progetto ambizioso con la consapevolezza che per realizzarsi non servono le tecnologie, ma le persone, il fattore umano, uomini che devono costituire reti di nuove professionalità, competenze manageriali e imprenditoriali accanto a nuove forme organizzative, in stretto raccordo con le comunità dei territori. In sostanza, le reti della conoscenza devono consentire di fare sistema con la partecipazione della scuola e delle università, delle istituzioni
14
pubbliche, delle imprese e dei cittadini. Dunque, le università in primo piano. Per i quattro atenei marchigiani, Marcolini pensa ad un ruolo centrale anche in un’altra missione, quella cioè di favorire nuovi lavori e quindi nuova occupazione. Accanto alle funzioni storiche (formazione e ricerca) negli ultimi anni le università hanno sviluppato una terza missione, quella del trasferimento di innovazione, di conoscenza a con la realizzazione di spin-off accademici a sostegno di start-up innovative nella realizzazione di fab-lab a stretto contatto con la realtà produttiva. Allora perché non pensare ad un loro futuro coordinamento che possa far svolgere ai quattro atenei un’altra missione, forse la più impegnativa ma certamente la più innovativa: quella dell’associazione dei luoghi deputati all’analisi, alla riflessione, alla conoscenza di governance territoriali insieme alle istituzioni? Un luogo d’incontro potrebbe essere individuato proprio nell’Istao che già vede presenti, al proprio interno le università marchigiane. Del resto, i quattro atenei che hanno storie e peculiarità diverse hanno, tuttavia, una consistenza complessiva (in termini di studenti iscritti) pari ad una media università italiana e operano in una regione, le Marche, con una popolazione che è meno della metà di quella di Roma. Insomma, progetti e visioni da Marche 4.0 che poggiano però sulle gambe e sulle teste degli uomini, aggiornando e valorizzando il metodo e il rigore impresso a suo tempo da Giorgio Fuà ¤
Formazione per manager | 2
15
L’Istituto celebra 50 anni di attività UN CONVEGNO PER VALORIZZARE IL MODELLO ISTAO
“T
Le idee e i progetti più promettenti secondo il presidente Marcolini poggiano su cultura turismo, agricoltura artigianato e industria
ornare a ragionare intorno alle strategie di sviluppo, a immaginare quali direzioni di progresso il nostro Paese possa prendere. Con tutto “il fascino e la scomodità” che per Fuà questo impegno comporta”. Con queste parole rivolte innanzitutto agli eredi della Scuola di Ancona, ha chiuso la Lezione Magistrale (“Crescita, benessere e compiti dell’economia politica”, il titolo della lezione) l’allora Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, oggi Presidente della BCE, la Banca Centrale Europea, intervenendo all’Istao, al convegno in ricordo di Giorgio Fuà, in occasione del decimo anniversario dalla scomparsa del grande economista. L’Istituto Adriano Olivetti per la gestione dell’economia e delle aziende (ISTAO) inizia a muovere i primi passi nel 1967, ad Ancona, per iniziativa della Fondazione Olivetti e l’americano Social Science Research Council; insieme al CNR decidono di promuovere un corso pilota per la formazione post universitaria di economisti. Nascono poi, negli anni, master e corsi di alta formazione che sviluppano temi che vanno dalle risorse umane, all’internazionalizzazione, dal marketing alle finanze, dall’innovazione tecnologica, all’etica. La guida (fino alla sua scomparsa) è dell’economista Giorgio Fuà; l’impronta è l’insegnamento olivettiano, ovvero quello di un uomo di impresa, Adriano Olivetti, grande imprenditore attento alla tecnologia e al design come pure ai mercati internazionali, sempre però nel
rispetto del lavoro e dei lavoratori. Dunque, la Scuola di Economia di Ancona ha proprio nell’Istituto Adriano Olivetti, uno dei momenti più alti e significativi; Istao che il 20 e il 21 ottobre celebrerà i 50 anni dalla sua Fondazione. Nutrito il programma messo a punto per l’occasione. Si tratta di un convegno articolato su tre sessioni distribuite nell’arco dei due giorni. Significativo il titolo: Lo sviluppo delle competenze per il futuro; 1967-2017: il modello Istao. Uno sguardo rivolto al futuro Il filo conduttore dell’evento è stato individuato nelle competenze necessarie allo sviluppo del sistema economico e del territorio, riflettendo, in particolare, sul ruolo che l’Istao ha giocato in passato e potrebbe esercitare per il futuro. I temi che verranno trattati sono strettamente connessi alle attuali vicende del territorio regionale (territorio di riferimento principale per l’Istituto) e al suo sviluppo socio-economico. Dicevamo delle tre sessioni del convegno. Si parlerà di “Innovazione e sviluppo digitale. Quali competenze per la competitività”. E ancora. “Economia e territorio. Le competenze per lo sviluppo”. E, infine: “Sviluppare competenze. L’approccio Istao”. Nei due giorni di incontri si affronteranno temi come la trasformazione dei processi produttivi e l’industria 4.0; lo sviluppo delle città e i territori urbani e rurali; la ricostruzione post sisma; e poi, i
Formazione per manager | 2
Tre sessioni su innovazione e sviluppo digitale su economia, territorio e sul modo di sviluppare le competenze
cinquanta anni di contributi dell’Istao per lo sviluppo del Paese; i caratteri fondativi da Adriano Olivetti a Giorgio Fuà; quali nuove figure professionali e quali funzione e il ruolo dell’Istituto per il futuro. Prevista la presenza di numerosi esperti e, ricercatori, docenti universitari ed economisti. Interverranno anche il presidente della Giunta regionale, Luca Ceriscioli e Pietro Marcolini, presidente Istao. Nelle aule di Ancona la migliore imprenditoria
In alto, uno dei numerosi convegni all'Istao Qui sopra, Fuà con Azeglio Ciampi
Ma sono centinaia gli allievi che hanno frequentato in questi anni i suoi corsi, almeno 2000 quelli contattati con una serie di incontri e coinvolti nell’AlumniClub attivo dal 2012, decine i docenti che sono passati nelle aule di Ancona; il fior fiore dell’imprenditorialità tra i più convinti sostenitori dell’Istituto (i Guzzini; Della Valle; Clementoni; la Famiglia Merlo-
16
ni nelle sue diverse articolazioni industriali). E ancora. Le quattro università marchiane. Poi i grandi istituti di credito nazionali. Ad iniziare dalla Banca d’Italia che non ha fatto mai mancare il suo supporto e poi IntesaSanPaolo e Ubi Banca. Dicevamo dei docenti. Impossibile ricordarli tutti. Ne citeremo solo alcuni tra i tanti. Oltre al già citato Mario Draghi, l’attuale Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. E poi. Carlo Azeglio Ciampi (era Presidente della Repubblica quando volle andare in visita privata a salutare l’amico Fuà che stava lentamente spegnendosi nel suo ritiro di Monte d’Ago, sulle colline di Ancona); Paolo Sylos Labini, Paolo Savona, Giacomo Vaciago, Pietro Alessandrini, Paolo Pettenati, Valeriano Balloni, Mario Crivellini. Ancora. L’ex presidente della Commissione Europea, Romano Prodi, Ignazio Cipolletta, il premio Nobel per l’economia Franco Modigliani; e, più recentemente, gli imprenditori Guido Barilla, Oscar Farinetti, Letizia Moratti, il Ministro degli Esteri, Angelino Alfano. Insomma, è grazie a loro e nel solco dell’insegnamento del suo fondatore che l’Istato ha contribuito a produrre fin dalle sue origini “figure imprenditoriali comunque di leadership” nello scenario economico e politico contemporaneo e non solo regionale. Un Istituto prestigioso, un’altra eccellenza, vanto della nostra Regione, con un grande passato alle spalle, ma un futuro affascinante e tutto da scrivere che lo attende. ¤ c.s.
Terremoto
17
Sisma, un anno dopo No a presepi disabitati LA SITUAZIONE DEL CRATERE DESCRITTA DA TRE SINDACI
Q di Paola Cimarelli
uel bianco in cima al monte Vettore è un chiaro messaggio: l'inverno sta arrivando. La prima nevicata di fine settembre sui Sibillini ha ricordato che ci saranno di nuovo mesi ancora più duri da affrontare per tutte le persone che vivono negli 87 Comuni del cratere o che, ogni giorno, affrontano il viaggio dalla costa per raggiungere i luoghi di origine dove c'è ancora il lavoro. A tre sindaci dei Comuni del cratere abbiamo chiesto qual è la situazione al momento e che cosa abbia funzionato e che cosa non dal 24 agosto 2016. "La fase dell'emergenza è quasi completata - dice Adolfo Marinangeli, sindaco di Amandola -, stiamo cercando di lavorare per la ricostruzione, almeno una ricostruzione parziale, anche se i grandi lavori non sono iniziati ed abbiamo paura che possano essere costruiti presepi non abitati, che ci faccia tornare, almeno un po’, a vivere. Ci stiamo muovendo con i fondi della Protezione civile, che ha sempre funzionato, sia a livello pratico sia psicologico, con la certezza dell'assistenza fisica o telefonica, e con le donazioni dei cittadini e delle imprese, diverse centinaia di migliaia di euro che ci sono arrivati da tutta Italia e che abbiamo utilizzato per mettere a posto il Museo del paesaggio, il chiostro di San Francesco, la chiesa del Beato Antonio. Stiamo anche risistemando, con il supporto del presidente della Regione Marche, Luca Ceriscioli, una ex scuola elementare per riaprire la Residenza sanitaria assistita inagibile. I 20 anziani adesso sono a Montegranaro. Ripor-
tarli qui darebbe sollievo sia a loro sia alle famiglie che potrebbero evitare di fare tanti chilometri per raggiungerli". La sanità "è stata un'emergenza nell'emergenza, un calvario, con l'ospedale inagibile dal 24 agosto, pochi servizi rimasti nei moduli al campo sportivo e la necessità di andare a Fermo, a 60 chilometri, per ricoveri e diagnostica". L'altra emergenza è ancora, afferma Marinangeli, "quella abitativa con il 40% degli edifici inagibili. Su 3.800 abitanti, 680 persone hanno la casa lesionata. La maggior parte sono rientrate dalla costa e hanno trovato soluzioni alternative. Finora sono arrivate due delle 25 Sae richieste ma stiamo puntando soprattutto sulla sistemazione degli edifici pubblici per trasformarli in abitazione". A questa possibilità è dedicato il bando della Regione per l'acquisto di unità immobiliari per l'emergenza abitativa. "Quello che non hanno funzionato racconta Marinangeli - sono state le leggi, che sono state cambiate solo dopo l'urlo dei sindaci, e la burocrazia. Per mesi e mesi la lentezza è stata devastante. I tempi di guerra non si possono gestire con leggi e con le procedure normali. Sono state cambiate attraverso la solidarietà, la cosa più bella che abbiamo ricevuto in questi mesi. Noi, oggi, stiamo cercando di resistere e di non piangerci addosso". Adesso, desiderando la rinascita, "servono anche turismo e cultura, luoghi di aggregazione per i nostri giovani. Altrimenti rischiamo di perderli per sempre". E non pensa certo ad arrendersi Aleandro Petrucci, sindaco di
Terremoto
Alte percentuali di edifici inagibili bene la solidarietà male la lentezza della burocrazia Così si rischia la desertificazione
Nella pagina precedente e qui sopra ulteriori interventi per la messa in sicurezza dei beni culturali (Per gentile concessione dei Vigili del Fuoco)
18
Arquata del Tronto, dove sono morte 51 persone. "La situazione è in chiaroscuro - dice -, dopo la visita di agosto del presidente del Consiglio, abbiamo visto un'accelerazione dei lavori. E’ arrivato il Genio militare che, con i Vigili del fuoco, sta aprendo una strada nel centro storico, chiuso da più di un anno. Non so se esistono responsabilità per le conseguenze di un sisma così catastrofico. Non voglio attribuire colpe a nessuno, forse la burocrazia troppo lenta, ma i ritardi ci sono stati. Anche per le macerie, che sono il nodo principale visto che se non vengono tolte non si può ricostruire, c'è stato un miglioramento. Però mi chiedo: se i privati possono costruire una scuola in sei mesi, quella che ci hanno donato i lettori del quotidiano La Stampa, allora vuol dire che le cose si possono fare anche in tempi rapidi. Credo che siamo rimasti tutti attanagliati dentro questo meccanismo, bandi, gare, opere di urbanizzazione per le aree dove costruire le casette". Ad Arquata, che ha avuto 1.172 persone sfollate, di cui 800 rientrate, sono arrivate 68 delle 100 Sae richieste. Di positivo, anche per Petrucci, "c'è stata la solidarietà, la vicinanza di piccoli paesi da tante regioni che hanno scelto proprio noi. Con le donazioni costruiremo delle strutture aggregative, che non sono previste dallo Stato, per fare stare insieme le persone". Il sindaco di Pieve Torina, Alessandro Gentilucci, chiede "un patto di solidarietà fra coloro che sono distrutti, e che rischiano la desertificazione, e quelli che hanno subito danni. Pieve Torina rientra nella pri-
ma fascia, con il 93% di edifici inagibili, e rappresenta uno dei centri simbolo dei diversi sismi che si sono succeduti. Abbiamo consegnato 22 casette, a breve saranno altrettante ma rappresentano solo un quarto del fabbisogno che ha la comunità, per un totale di 210. Facciamo tutti una gran fatica, siamo in cantiere, facciamo riunioni. La verità è che siamo in difficoltà: se non si decide di differenziare i crateri tra coloro che hanno subìto un danno irreparabile e quelli che possono riparare il danno subìto, credo che una parte di territorio lo perdiamo. Quale cittadino rimarrebbe su un territorio su cui lo Stato dilaziona la ricostruzione di scuole, municipio, casa di riposo in almeno sette anni? Stiamo costruendo una scuola con le donazioni. Ho percorso, in dieci mesi, 88 mila chilometri per raccogliere una somma complessiva di 1,5 milioni". Esiste ancora il timore di disparità Ci sono cose che hanno funzionato "come il finanziamento della seconda casa, alcune ordinanze del commissario Vasco Errani che era l'ultimo soggetto a cui ti raccomandavi se non riuscivi ad ottenere qualcosa. Ha cominciato a funzionare, in un secondo momento, il rapporto con la Regione quando hanno deciso di coinvolgerci e concertare alcune decisioni”. Non hanno funzionato "le Sae, tempi dilatati, procedure lunghissime" e non funziona la zona franca che rischia di creare una disparità fra imprese di territori vicini. ¤
Sociale
19
Il mutuo soccorso nell’anima marchigiana UNA REGIONE ALL’INSEGNA DEL FERVORE SOLIDARISTICO
N di Maurizio Cinelli
aturale, ancestrale vocazione dell’uomo, la solidarietà nei confronti dei propri simili è una delle espressioni salienti dell’esperienza civile e spirituale, individuale e collettiva del lungo percorso dell’umanità attraverso la storia. Il “mutualismo” moderno trova anch’esso le radici in quella risalente vocazione. Eppure esso si differenzia delle forme note di comunione e redistribuzione del rischio – oggi diremmo, appunto, di solidarietà – che hanno caratterizzato esperienze di civiltà anche lontane, nel tempo e nello spazio, dagli schemi culturali della nostra. La proliferazione di forme spontanee di autotutela di gruppi di soggetti, più o meno abbienti, costituite per fronteggiare, attraverso la coalizione delle forze, eventi dannosi della vita (la malattia, la morte, la vecchiaia, il rischio di perdere il lavoro), riassumibili nel concetto di “mutuo soccorso”, l’altra denominazione del mutualismo, è fenomeno che nasce e si sviluppa insieme alla “rivoluzione industriale”: cioè, in occasione di quell’eclatante processo che, avviato in Inghilterra, come è noto, già verso la metà del 1700, si è riflesso in Italia, con ritardo, circa un secolo dopo, e strettamente collegato, dunque, alla “questione sociale”. Ed è proprio agli effetti negativi di tale processo che il mutualismo tende in qualche modo a contrapporsi, costruendo possibili rimedi. Sotto il profilo del diritto, evidente è il parallelismo con quanto è alla base dello sviluppo di quell’eterogeneo complesso normativo – la “le-
gislazione sociale” –, che lo Stato ottocentesco ha progressivamente elaborato a partire dal momento stesso in cui si è trovato a dover affrontare le nuove, estese forme di povertà, indotte dall’inurbamento di grandi masse di lavoratori e dallo sfruttamento del lavoro umano, reso agevole dalla meccanizzazione delle attività produttive. Lo stato ottocentesco ha abbandonato così, a poco a poco, la sua tradizionale posizione di “neutralità” in materia, per disporsi a contenere, attraverso forme sempre più sofisticate di tutela del lavoro umano, le spinte prorompenti del capitalismo. In tale quadro, la vicenda del mutualismo è legata a doppio filo con la vicenda delle assicurazioni sociali. Uno strumento, quello dell’assicurazione obbligatoria da impiegare in ambito previdenziale, prescelto per la sua attitudine a farsi “mezzo” di pacificazione e coesione sociale. Ma anche strumento la cui adozione segna l’inizio di una fruttuosa collaborazione tra intervento pubblico e iniziative dei corpi intermedi: quelle iniziative, cioè, proprie della vivace e risalente esperienza di autoprotezione, che stava esprimendo in quel periodo non solo le società di mutuo soccorso, ma anche il movimento cooperativistico, la nascita e lo sviluppo delle casse di risparmio, delle casse rurali, delle banche popolari. Tutte forme di natura privatistica, quelle testé indicate, ma dotate di grandi potenzialità nel porsi come presidio ai problemi sociali e alle diseguaglianze, proprie della società del tempo; una società in gran parte ancora legata
Sociale
Alcune immagini di volumi d'epoca che testimoniano il fenomeno del mutualismo nelle Marche
20 all’agricoltura e alla produzione manifatturiera, ma che si stava facendo sempre più “industriale”. Sull’esperienza del mutualismo nella nostra Regione merita di essere segnalato un libro appena pubblicato, nella collana “Quaderni del Consiglio regionale delle Marche” (n. 225/2017): il libro di Giancarlo Marcelli, “Per una storia del mutualismo. L’esperienza della mutua assistenza fra marchigiani in Roma, tra XIX e XXI secolo”. Si tratta di studio documentatissimo e appassionato, nel quale l’Autore – marchigiano di origine e romano d’adozione – ripercorre, innanzitutto, partendo dalle origini, i passaggi salienti della vicenda storica del mutualismo in generale: dagli eventi normativi che ne hanno favorito l’emersione nel nostro paese – in primis, la soppressione, nel 1844, delle corporazioni di mestiere, ma, sopratutto, subito dopo, con l’emanazione nel 1848 dello Statuto albertino, l’introduzione di quel diritto alla libertà di riunione, che è l’imprescindibile humus, sul quale il mutualismo ha potuto trovare il proprio naturale alimento –, al tentativo, operato dalla legge n. 3818 del 1886 (tuttora in vigore), di “imbrigliare”, in qualche modo, quel fenomeno via via che si è reso manifesto come le società di mutuo soccorso, oltre a svolgere compiti prettamente previdenziali, assistenziali o di promozione culturale, potevano rendersi strumenti di efficace governo della c.d. “questione operaia”. Naturale, dunque, alla luce di tale complesso di fattori, che il mutualismo abbia attecchito, nel suo primo manifestarsi, quasi esclusivamente nel nord industriale del nostro paese, come osserva l’Autore. Al proposito, Giancarlo Marcelli giustamente sottolinea che “le Marche, che alla promulgazione dello Statuto albertino facevano parte dello
Stato pontificio, recepirono con qualche ritardo l’influsso del mutualismo, sia per la resistenza che ad esso oppose, almeno fino all’unità d’Italia, il governo papale, sia per il persistere di un’economia prevalentemente agricola, sia per il lento avvio del processo di industrializzazione, causa anche la carenza di collegamenti stradali e ferroviari”. Subito dopo l’unità d’Italia, però – egli ci tiene a puntualizzare subito –, il ritardo con il quale le Marche hanno recepito lo spirito del “mutualismo” e la sua carica etica è stato ben compensato dal particolare fervore con il quale, sia nelle città che nei paesi, compresi quelli più piccoli o di montagna, si è proceduto alla costituzione di un gran numero di società di mutuo soccorso: da Fermo a Camerino, da Porto San Giorgio a San Ginesio, a Civitanova Marche, a Mogliano. Un numero davvero cospicuo, se si considerano le condizioni di sostanziale arretratezza della Regione all’epoca e la sua posizione geograficamente defilata. Ma anche un fervore solidaristico – sia consentito aggiungere – che può considerarsi parte dell’anima più profonda delle popolazioni marchigiane; è quanto attestano (si passi la digressione) lo slancio, la quantità e la varietà delle iniziative dirette a lenire, in qualche modo, per venire all’oggi, i tanti, gravissimi danni, non solo materiali, che i recenti eventi sismici hanno provocato e stanno provocando (oltre che nella zona appenninica dell’Umbria e, in maniera ancor più dolorosa per il numero delle vittime nell’alto Lazio) alle popolazioni delle Marche meridionali. Nel libro l’attenzione dell’Autore è incentrata su un ben preciso, definito segmento di quella complessiva vicenda: precisamente, sulla “Società di mutuo soccorso dei marchigiani in Roma”, della quale egli,
Sociale
per lunga militanza, ha più diretta, personale esperienza. E quella specifica vicenda viene indagata e documentata fin nei più intimi dettagli, ma anche con un evidente afflato affettivo. Ne risulta, così, uno spaccato del fenomeno di grande presa e interesse, che ben si presta a far meglio comprendere e valutare, in generale, il fenomeno del mutualismo. L’Autore ci ricorda, innanzitutto, le vicende di “contesto”: in primis, quelle delle assicurazioni sociali, così strettamente apparentate al mutualismo da scambiare con esso ab origine (come già accennato) interferenze di percorso e di vicende, in una complessiva, seppur sottointesa, logica di reciproca complementarietà. E, in effetti, uno degli obiettivi storicamente più risalenti – e delicati – della legislazione sociale è stato proprio quello di provvedere a che il sistema che si andava progressivamente forgiando mantenesse nel tempo una sua “elasticità” di fondo, atta al governo della molteplicità e mutevolezza nel tempo delle situazioni da regolare. E, in questo, la scelta di strutturare l’edificio delle tutele sociali su di un sistema “binario”, risultante, cioè, dalla combinazione di “pubblico” e “privato”, si è rivelata scelta assai felice. Stante la particolare duttilità dello strumento “assicurazione sociale”, attraverso opportune (e tecnicamente agevoli) manovre nell’impiego dei relativi requisiti soggettivi e oggettivi di ammissione alla tutela (intrinseci, appunto, alla tecnica assicurativa), quel “modello” ha reso realizzabile, al variare delle politiche e delle forze di governo, le più diverse scelte selettive, sia in ordine alle prestazioni da erogare, sia in ordine alla platea dei soggetti da tutelare, sia, più in generale, alle politiche economiche sociali. Nel con-
21 tempo, quel sistema di fonte pubblicistica ha potuto “appoggiarsi”, alla bisogna, sul “complemento” rappresentato dal settore del mutualismo e, più in generale, della previdenza e dell’assistenza private. In epoca a noi più vicina, incrinatisi gli equilibri del comparto previdenziale pubblico, è proprio grazie a quella complementarietà che oggi assumono particolare rilievo le attese di interventi “compensatori” da parte del comparto privato. E, in effetti, il “modello” delle assicurazioni sociali, dopo una lunga e fortunata storia che lo ha visto passare sostanzialmente indenne attraverso l’ordinamento liberale, quello corporativo e quello repubblicano, è entrato in uno stato di crisi, che attualmente lo espone al rischio di perdere – sia per ragioni demografiche, sia per ragioni legate ai nuovi modelli e prassi di lavoro (e forse non soltanto per queste) – il suo tradizionale equilibrio e, sopratutto, il suo stesso ruolo di cardine del sistema nazionale di protezione sociale. E’ anche in conseguenza di tale realtà che, di fronte di un parziale, progressivo declino nel tempo, rispetto al fervore delle origini, delle iniziative di mutuo soccorso – in parte conseguenza di risalenti episodi di politiche autoritarie (quelle del “ventennio”), ma segnatamente dell’estensione nel tempo delle tutele di natura pubblica, come Giancarlo Marcelli giustamente osserva; e anche conseguenza (appare doveroso aggiungere) delle caratteristiche delle stesse associazioni mutualistiche, strutturalmente e irrimediabilmente esposte, esse per prime, agli effetti delle oscillazioni “demografiche” della base associativa –, attualmente stiamo assistendo ad una rinnovata attenzione delle istituzioni per quella risalente esperienza. Tale rinnovata considerazione
Il fenomeno sociale descritto nel libro di Marcelli sull’esperienza della mutua assistenza
Sociale
Le Marche sotto lo Stato Pontificio recepirono in ritardo l’influsso del mutualismo Dopo l’Unità d’Italia recuperarono il deficit
22
è stata tributata, dapprima, a partire dalla metà degli anni novanta del secolo scorso, dalle Regioni (le Marche, con la legge regionale n. 20 del 2004), e, più di recente, dallo stesso legislatore nazionale che, con il decreto legge n. 179 del 2012, ha inteso novellare parti importanti della storica, “gloriosa” legge n. 3818 del 1886. Palesi sono gli intendimenti di efficientamento e razionalizzazione dell’intera materia che hanno ispirato tale recente intervento normativo, sulla base di una ben precisa scelta. Precisamente, la scelta di fissare per le società di mutuo soccorso esistenti e per quelle che verranno, compiti ben precisi e tassativi: trattamenti e prestazioni socio sanitarie per i soci e relativi familiari; sussidi nel caso di trattamenti socio sanitari; servizi di assistenza familiare; contributi economici e servizi di assistenza a quelli tra i soci che vengano a trovarsi in condizioni di gravissimo disagio economico. In pratica, il recente intervento appare teso sopratutto a rafforzare il sistema sanitario nazionale nel suo insieme, attraverso la valorizzazione del ruolo dell’assistenza integrativa. Non per nulla le statistiche riportano che, allo stato, una parte molto alta dell’intera spesa sanitaria (circa un terzo) è affrontata direttamente dalle famiglie. Ma va anche dato atto che spazi ulteriori potranno essere coperti da quelle società di mutuo soccorso che, come consentito dal decreto (appena approvato) che ha dato attuazione alla legge delega n. 106 del 2016 di riforma del c.d. terzo settore, decideranno nei prossimi tre
anni di trasformarsi in associazioni del terzo settore o in associazioni di promozione sociale. Il “messaggio” del legislatore, comunque, appare chiaro: riconoscimento (o “riscoperta”, se preferiamo) delle potenzialità del canale mutualistico per la tutela dei diritti sociali; ma nel contempo, predisposizione di mirati criteri di indirizzo e funzionalizzazione di quel tipo di iniziative di protezione sociale. Si tratta di una indicazione indubbiamente di particolare pregnanza, alla quale guardare con particolare interesse. Specie in un periodo storico, come l’attuale, nel quale a fronte dei tanti, gravi problemi sul tappeto, animatamente si discute su che cosa meriti oggi di essere valorizzato o riproposto all’interno di quel welfare mix, verso il quale sempre più decisamente la legislazione sociale del nostro paese tende oggi a orientarsi. Il trend, anche se ancora dai contorni incerti, non è di certo visto con disfavore da Giancarlo Marcelli. Lo rende evidente il lusinghiero, partecipato giudizio che egli esprime sull’intera vicenda in chiusura di opera, ma che ben avrebbe potuto figurare in esergo: “L’affascinante mondo del mutualismo ha lasciato una profonda traccia nella storia del nostro paese, per essersi impegnato, con straordinario spirito di umanità e sensibilità, per offrire una migliore qualità della vita alle categorie più indifese, per avere contribuito alla loro elevazione morale, culturale e democratica, per essere stato il precursore del diffuso sistema pubblico di protezione sociale e sanitario”. ¤
Comunicazione
23
Un festival a tre teste racconta la cultura LA QUINTA EDIZIONE UNISCE URBINO PESARO E FANO
L’
di Lella Mazzoli e Giorgio Zanchini
Un momento della presentazione del Festival nel salone del Palazzo Ducale
Italia è il Paese dei festival. Negli ultimi quindici anni è stato tutto un fiorire di manifestazioni ed eventi, è un fenomeno così macroscopico che sono usciti libri per raccontarlo e provare a spiegarlo, e la sua eco è arrivata anche molto lontano da noi, sulla stampa di mezzo mondo. A essere precisi dovremmo anzi dire 17 anni, non 15, perché 17 anni fa nasceva il Festivaletteratura di Mantova, forse il capostipite del genere, una manifestazione di cui si è parlato moltissimo, che ha inaugurato quel circuito virtuoso tra territorio, comunità, identità culturale che ha poi spinto i luoghi più disparati del Paese a percorrere la stessa strada, con maggiore o minore successo. Accanto alle celebrazioni, alle lodi per la ricchezza e la ramificazione, per quello che appare come un segno di vitalità culturale del Paese, in questi anni sono cresciuti anche dubbi e critiche. Spesso si moltiplicavano i Festival e chiudevano le librerie,
i comuni venivano accusati di investire in giornate effimere invece che nel restauro dei monumenti o negli acquisti delle loro biblioteche, così come non sono mancate molte frecciate sui frequentatori dei festival: sempre gli stessi, sempre il solito giro di lettori di libri e giornali, di frequentatori di teatri e mostre, i Festival non hanno allargato la cerchia della partecipazione, e allora a che servono? Un dibattito che mancava Non è questa la sede per eventualmente circoscrivere gli entusiasmi e rispondere ai detrattori, in realtà questa premessa serve per far capire cosa ha mosso noi a varare, poco più di cinque anni fa, il Festival del giornalismo culturale, cosa c'è dietro, cosa speriamo di avere costruito e quali rischi siamo convinti di avere evitato. La prima risposta, forse banale, è che mancava. In Italia, come dicevamo, ci sono Festival su tutto, dalla filo-
Comunicazione
L’iniziativa fortemente legata al territorio marchigiano analizza come si fa informazione sulla cultura
Sopra, Corrado Augias durante la manifestazione tenutasi a Urbino; a fianco Piero Dorfles Nella pagina accanto un momento del Festival e la scrittrice Dacia Maraini
24 sofia all'uovo al tegamino, ci sono diversi festival sul giornalismo, più o meno buoni, ma non c'era un luogo in cui si ragionasse sul rapporto tra media e cultura. In cui giornalisti, studiosi, scrittori, appassionati e pubblico si incontrassero per fotografare e analizzare il modo in cui si fa informazione sulla cultura, si comunica la cultura, si racconta il nostro patrimonio culturale. Mancava soprattutto un luogo e un'occasione in cui si parlasse di tutti i media, con linguaggi trasversali e amichevoli. Abbiamo invitato le figure più diverse e abbiamo sempre cercato di coinvolgere il pubblico e le comunità locali. E questo è il secondo punto da sottolineare. Questo Festival è fortemente legato al territorio marchigiano, e non a caso da una sede unica, Urbino, -straordinaria città patrimonio dell'umani-
tà, Palazzo Ducale, gli Oratori, la Fortezza Albornoz, la casa natale di Raffaello, il Teatro Sanzio solo per citare i più conosciuti o visitati; la bellezza di Urbino è anche la sua Università, il patrimonio paesaggistico in cui è collocata-, si è passati a un'organizzazione bicefala, tra Urbino e Fano città anch'essa con una storia culturale importante per il territorio. Dal suo Arco di Augusto e le mura che se-
gnano l'importanza dell'epoca romana al Centro Studi Vitruviani. Da quest'anno, si è poi aggiunta Pesaro, un collegamento storico, sancito dai Montefeltro e dai Della Rovere. A Pesaro c'è infatti un Palazzo Ducale che oggi è sede del Governo, i Musei civici. Pesaro è anche musica. Ha dato i natali a Rossini cui è dedicato il Teatro e soprattutto un festival musicale (il Rossini Opera Festival) che richiama esperti e amanti della lirica da tutto il mondo. “Successo e impatto siamo sulla strada giusta” Dunque il nostro è un festival a tre teste. Significa che in questi anni si è creato un rapporto forte con le comunità locali, si è costruito capitale sociale. Una varietà e un'apertura che ha il suo specchio in chi organizza il Festival, in chi sta dietro al Festival, in chi fornisce gli strumenti di analisi e ricerca, in chi fa informazione sul Festival, in chi ospita gli eventi, gli incontri, gli spettacoli. Ci riferiamo agli enti locali - la Regione, e le Città citate - e poi l'Università di Urbino Carlo Bo, e la sua Scuola di giornalismo. Un impegno, una passione che si ritrova nei tanti volontari che lavorano al Festival, nei tanti giovani delle Scuole che partecipano ai nostri concorsi, negli ospiti che con entusiasmo aderiscono al progetto. Come si diceva non è facile misurare successo e impatto – anche economico - di un festival, ma se dobbiamo dare una prima valutazione alla luce dell'esperienza di questi anni, l'impressione è che si sia sulla strada giusta. Veniamo alla edizione 2017 (la quinta) dal titolo: Patrimonio culturale. Una storia, 1000 modi per raccontarla, che si occupa di quel patrimonio che rappresenta il dna di una Nazione, la sua
Comunicazione
carta d'identità. Il patrimonio che il nostro Paese possiede disegna bene la nostra storia e cultura. Tutta l'Italia ne è ricca. È noto che i siti protetti dall'Unesco in Italia siano un numero altissimo, proporzionalmente il più alto fra i tanti Paesi. Questa immensa e straordinaria ricchezza non sempre è conosciuta come dovrebbe o potrebbe. I territori che la possiedono a volte la raccontano, la comunicano; a volte la tengono per sè, chiusa in recinti protettivi. È proprio da questa riflessione che è partita l'edizione 2017 del Festival del giornalismo culturale. Pensare ai tanti modi che abbiamo per diffondere e al contempo proteggere il nostro Patrimonio. Il Festival è ormai entrato in una fase di maturità che significa aver risposto a una serie di interrogativi e aver iniziato a costruire un rapporto solido con il territorio e con il proprio pubblico, come abbiamo anticipato. L'esperienza di questi anni ci ha insegnato tanto, ci ha
25
fornito indicazioni sui temi, sul rapporto con i partecipanti, sugli ambiti di ricerca. Il Festival è l’occasione per esplorare queste nuove forme: con personalità di spicco nel settore culturale, professionisti, critici e giornalisti, direttori di musei e manager; per raccontare, attraverso le loro e nostre esperienze, le avanguardie di un settore multiforme e in forte evoluzione. Dopo la tradizionale lectio magistralis nel Salone del Trono di Palazzo Ducale di Urbino, ci si sposta a Pesaro negli spazi che connotano la città tra il suo passato e presente: il Teatro Rossini, la biblioteca San Giovanni e Arti Visive la Pescheria e a Fano nel Teatro della Fortuna, a Palazzo Bambini, nella Mediateca Montanari. Queste straordinarie città si trasformano in teatro di eventi, incontri e dibattiti proprio sulle nuove frontiere del giornalismo culturale e sulla comunicazione del patrimonio. ¤
Serie di incontri e dibattiti con personalità e studiosi sulle nuove frontiere del giornalismo culturale
Questa pubblicazione è realizzata anche grazie al contributo di
L’evento
27
La “Devota Bellezza” Salvi incanta tre Papi Sassoferrato celebra la spiritualità del suo artista
Q di Luigi Benelli
In alto, un disegno in grafite con lumeggiature in bianco dove un angelo appare ad Elia
uando si pensa al ‘600 vengono in mente le immagini del Barocco: metafore, simboli, stupore, meraviglia, illusioni, corpi che si contorcono, incarnati robusti che scaldano la tela. Una decorazione che attrae. Ma il XVII secolo è anche realismo, sul solco tracciato da Caravaggio. E allora gli sfondi sono neri e la tela ci sbatte in faccia la cruda verità. Ma c’è chi ha saputo trovare una terza via nel campo delle arti visive, una via più spirituale, eppure altamente leggibile e identificabile. Giovanni Battista Salvi, detto il Sassoferrato, ha indagato il divino e gli animi umani riportandoli sulla tela secondo uno stile molto personale, legato ancora ai principi della
controriforma in cui lo spettatore viene coinvolto emotivamente e indotto alla preghiera. Un artista che viene celebrato nella sua città natale attraverso la mostra “Devota Bellezza – Il Sassoferrato con i disegni della Collezione Reale Britannica”, a Palazzo degli Scalzi, fino al 5 novembre. Un’esposizione che indaga anche la parte più intima dell’artista attraverso una selezione di disegni, opere in cui emerge lo spirito creativo e il processo compositivo del Salvi. E non è un caso che il ministero dei Beni e delle Attività Culturali abbia riconosciuto questa mostra come una delle più rilevanti dell’anno 2017 in tutto il territorio nazionale.
L’evento
I disegni in mostra della collezione reale britannica mettono a confronto lo studio grafico con la realizzazione pittorica
28 Visitando la mostra si viene rapiti dai blu e dagli azzurri che sono unici, immediatamente riconoscibili e ascrivibili al lavoro di Sassoferrato. Un filo conduttore nella sua opera, protagonista dei panneggi e della sua perfezione formale. Ma incantano anche gli incarnati leggeri, le pose aggraziate e la forma strutturata nello spazio in maniera maniacale. E poi le repliche dello stesso soggetto, dove le differenze sono minime, ma tendono alla perfezione. E quando si hanno davanti i disegni, diventa chiaro il rigore. Che siano studi di mani o soggetti, non risultano mai appena accennati, schizzati o improvvisati. Sono dei lavori finiti, ricerche intime della
perfezione. Un tête à tête con il foglio bianco in cui a vincere è il rigore formale. Tornano quindi a risplendere le immagini del Sassoferrato nella sua città di origine. Una rara occasione per gli appassionati d’arte, dato che Giovanni Battista Salvi è un artista di fama che ha posto un’attenta riflessione specie sulle opere di Raffaello e di
Guido Reni. Riscoperto dai Nazareni, dai Puristi e dai Preraffaelliti, il Sassoferrato ha attraversato il XVII secolo appartandosi in un mondo ideale, pervaso dalla bellezza e dal rigore morale del Classicismo. Una strada alternativa, dunque, rispetto al fragore del Barocco ed al crudo realismo caravaggesco, ma più sofisticata e spirituale. Grazie all’impegno di François Macé de Lépinay, che da vari decenni indaga la produzione pittorica del Salvi, una sezione della mostra si propone di evidenziare l’importanza accordata dal pittore marchigiano all’esercizio grafico: i fogli conservati presso la Royal Library del Castello di Windsor sono affiancati da alcune delle tele realizzate dall’artista, permettendo al visitatore di cogliere il collegamento fra lo studio grafico e la realizzazione pittorica. Nella seconda sezione a cura di Vittorio Sgarbi sono invece esposte le opere del Salvi conservate nelle Marche, insieme ad alcune delle sue più impegnative realizzazioni romane, legate alla committenza di casa Aldobrandini, che rivelano la capacità dell’artista di ideare composizioni articolate e complesse, senza tuttavia mai deflettere da quella cifra che si riscontra ed apprezza nelle opere di formato ridotto. Grazie alla collaborazione con le maggiori istituzioni museali italiane, sono presenti in mostra anche due ritratti: quello di Monsignor Prati e quello di un Cardinale, oggi conservato nei Musei Civici di Padova, che rappresentano fedelmente l’aspetto fisico della persona senza però trascurare di gettare uno sguardo anche alla sua anima. Appartato rispetto alle correnti più conosciute dell’arte romana del Seicento, ma non sconosciuto fra gli intenditori d’arte dell’Urbe, Salvi cominciò ad avere un più diffuso successo
L’evento
alle soglie del Neoclassicismo. Tre pontefici, Clemente XIV, Pio VII e Pio IX, a cavallo fra XVIII e XIX secolo, vollero valorizzare la “Devota Bellezza” delle sue raffinate Vergini. Giovanni Battista Salvi detto appunto il Sassoferrato (Sassoferrato, 25 agosto 1609 – Roma, 8 agosto 1685) apprese la pratica artistica nella bottega del padre, Tarquinio Salvi. Il resto dell’educazione non è documentata, eccetto il suo lavoro presso la bottega del bolognese Domenichino, che a sua volta fu allievo di Annibale Carracci. Esistono più di trecento opere nei musei del mondo, inclusa la maggior parte dei rimanenti disegni, conservata appunto nella collezione Reale del Castello di Windsor, in Inghilterra. Ma non mancano i passaggi in asta, con risultati importanti. Una Santa Apollonia ha realizzato da Christies 125 mila dollari, una Madonna con bambino addirittura 233 mila sterline nel 2016. E ancora da Sotheby’s una Madonna è stata battuta a 326 mila dollari, una Sacra Famiglia a 305 mila, seguita da una Vergine e Bambino a 274 mila dollari. Segno di una produzione importante, ma anche di un interesse collezionistico per l’artista. Stefano Papetti, critico d'arte e curatore per l’Italia della mostra sintetizza l’evento espositivo sottolineando come “per la prima volta sono visibili 21 disegni usciti da Windsor e altri quadri. Un evento con il crisma della straordinarietà. Appare un viatico importante per capire come Sassoferrato ebbe una grande notorietà. Aveva una rete di committenti tra Roma, Venezia, Firenze e il Nord. Poi il declino e la rivalutazione attraverso i pittori del neoclassicimo e romanticismo. È l’antitesi di Caravaggio, non intende rappresentare la realtà, ma l’idealizzazione formale che avviene attraverso il
29 disegno e la rielaborizzazione dei temi con minime varianti. Sono questi dettagli che permettono di arrivare al livello di perfezione formale che si era prefissato di raggiungere. Questo lo pone in un ambito particolare, non è orientato alla teatralità dell’arte del barocco, né verso la verità di Caravaggio. Ma una strada che deriva dal classicismo bolognese, del resto è stato allievo a Roma di Domenichino, seguace di Carracci. Ed è proprio questo imprinting bolognese che lo porterà a ricer-
care una perfezione formale. Un evento che mostra i capolavori dell’artista, per far comprendere la qualità altissima raggiunta. Esposti i lavori di grande formato, come la pala di altare della Madonna del Rosario, dipinta per la chiesa di Santa Sabina a Roma e commissionata da Olimpia Aldobrandini sposata in prime nozze con il principe
Nella pagina precedente Madonna del Divino Amore In alto, l'annunciazione e subito sotto Madonna col bambino e san Giovannino
L’evento
30
In viaggio per mostre nelle Marche Borghese e in seconde nozze col principe Doria Pamphili. E questo la dice lunga sulla committenza. Insomma, un pittore di provincia non certo isolato nella Roma del Seicento. Ma capace di dialogare coi più grandi committenti”. La mostra sta riscontrando il favore del pubblico. “Abbiamo avuto tanti visitatori in estate, da tutta Italia e anche dall’estero, soprattutto dalla Francia per via del curatore – continua Papetti – e in autunno sono previste visite legate alle scuole”. Le testimonianze dei protagonisti
In alto, "Ritratto di cardinale" e sotto Santa Lucia
Marco Ottaviani, presidente della Fondazione Carifac ha sottolineato che l’evento va pensato “come una mostra della comunità, pertanto chiunque ha l’impegno di ampliare la rete di comunicazione. La fondazione ha messo a disposizione delle risorse economiche, limitate per la contingenza del momento, ma tutto il valore aggiunto delle competenze acquisite durante la mostra “Da Giotto a Gentile”. Tutti i professionisti provengono dal territorio e il grande lavoro è stato quello di sviluppare sinergie. Non è solo un evento, ma un modo di pensare insieme attraverso la rete di collaborazione”. Per il sindaco Ugo Pesciarelli “è stata una sfida quella di riportare i disegni della collezione reale a Sassoferrato. Un percorso lungo e non facile, ma la casa reale ha accettato e ha espresso soddisfazione perché le opere del Salvi acquisite dalla Corona possano essere fruite dalla città”. ¤
Ad Ancona ecco Tiziano e Tiziano, due capolavori a confronto alla Pinacoteca Comunale “F. Podesti” aperta fino al 30 novembre 2017. Una di fronte all’altra, due splendide pale d’altare di Tiziano, concepite per gli altari maggiori di due grandi chiese di Ancona. Ad Ancona "Enzo Cucchi, cinquant'anni di grafica d'artista". La mostra ospitata nella sala Vanvitelli della prestigiosa Mole (28 ottobre -15 dicembre), presenta 21 piccole grafiche inedite e l'opera dell'artista attraverso 180 libri d'artista, acqueforti, litografie, serigrafie e bozzetti. A Urbino nella casa natale di Raffaello esposizione di 28 dipinti, 9 disegni e 10 immagini omaggio all'artista Oscar Piattella. La mostra dal titolo "Piattella. Disvelarsi dal principio" (fino al 15 novembre) é curata da Alberto Mazzacchera e dedicata all'ultimissima quanto densa produzione dell'artista A Urbino La Galleria Nazionale delle Marche, nella Grande Cucina dei Sotterranei del Palazzo Ducale di Urbino, presenta SPAZIO K, lo spazio permanente dedicato ai giovani artisti emergenti. Fino al 5 novembre Elena Mazzi, dal 9 novembre al 6 gennaio 2018 Paola Angelini. A Fermo fino al 5 novembre “Rubens e altri capolavori nella chiesa di San Filippo”. In mostra l’adorazione dei pastori di Rubens, ma anche lavori di Pietro Da Cortona, Baciccio, Lanfranco. ¤
Good Economy
31
La bellezza del Design sedurrà anche la crisi LA CREATIVITÀ, FORZA DI MOLTE IMPRESE MARCHIGIANE
G di Giordano Pierlorenzi
li oggetti nella loro dignità a volte ricca, a volte povera di forma, a volte di funzionalità raccontano il costume, il contesto sociale ed economico dei nostri antenati come il nostro. Sono presenze del quotidiano che comunque e da sempre continuano a scrivere la nostra storia. Percorrendo da nord a sud la penisola si scopre una fitta rete di segni più o meno consapevoli dell’incedere della civiltà italiana primariamente artigiana e rurale, civiltà che ha trasfuso la manualità e la sensibilità per la materia e la ricerca della forma-funzione attraverso i millenni, dagli anonimi artisti artigiani spesso schiavi o liberti dell’antichità, ai sempre anonimi e
abilissimi esponenti di gilde e corporazioni in età comunale, fino a contaminarsi con l’arte, facendosi arte applicata altissima e “firmata” già per principi e Papi nel Rinascimento (un magnifico esempio per tutti, la saliera creata tra il 1540 e il 1543 per Francesco I da Benvenuto Cellini), e a diventare infine nell’era della riproducibilità tecnica, in particolare dal Bauhaus in poi, design. L'avvento di tecnologie aiuta a realizzare le idee Come sempre accade, l’avvento di tecnologie di produzione nuove e un’invenzione, quella delle prime materie plastiche, hanno reso possibile l’attualizzare l’idea di una
Good Economy
Tradizione e innovazione Nella regione più manifatturiera d’Italia si costruisce il futuro nella progettualità
32 progettualità di oggetti che volevano portare bellezza, modernità e funzionalità in tutte le case. Un’idea poi estesa a tutti i materiali e le funzioni del vivere quotidiano. Secondo Gillo Dorfles, artista, filosofo, esteta e profondo osservatore dei fenomeni legati alla creatività, rientrano nei prodotti di design solamente quegli oggetti “...che saranno stati, sin dalla fase di progettazione ideati con tale intento, mentre d’altra parte si avranno numerosi casi di oggetti ed elementi prodotti industrialmente provvisti di qualità espressive ed estetiche, senza che tali qualità siano state minimamente previste all’alto della loro progettazione”. Diverso era il punto di vista di un altro grande vecchio della cultura italiana, Ettore Sottsass, storico designer scomparso nel 2007, secondo il quale invece ogni opera umana concepita e realizzata per migliorare la qualità della vita appartiene al design: “ Quando un cacciatore si costruisce un arco (…), si può dire che se l’è ‘disegnato’, intendendo con ciò che il cacciatore ha seguito una serie di ragionamenti e ha fatto un certo numero di operazioni riunite nel concetto di costruzione per adattare in modo ottimale il suo strumento agli usi cui è destinato e a se stesso”. Arrivando a noi, il design dunque, come attitudine alla progettazione estetico-funzionale e seriale, rappresenta un tratto fondamentale del carattere marchigiano, in particolare del marchigiano imprenditore; un atteggiamento pratico nell’affrontare e risolvere i problemi contingenti che ha sostenuto da sempre la vita quotidiana dei territori, rispondendo nel corso del tempo alle esigenze di funzionalità, fruibilità, organizzazione, dando forma alle idee-progetto del paesaggio domestico, rurale e urbano, fino nostro
presente. Questo essere designer per vocazione affonda forti e ampie radici nel serbatoio immenso dell’arte italiana, dal Rinascimento alle avanguardie storiche come nelle nostre tradizioni artigiane locali, dove originalità e preziosità sono da sempre risultato del mestiere. Gli imprenditori marchigiani illuminati I progettisti - imprenditori marchigiani in qualche misura sono eredi di uomini come Enrico Guzzini, per citarne solo uno fra i molti pionieri della sua generazione, fondatore nel 1912 della F.lli Guzzini di Recanati, produttrice di oggetti di pregio in corno ma all’avanguardia sin dagli anni ‘30 nella sperimentazione dei materiali plastici e poi leader nella produzione di oggetti e complementi di punta per la cucina e la casa in plastica colorata. Dallo stesso capostipite ha originato IGuzzini Illuminazione, fra le aziende marchigiane leader nel mercato mondiale. Guidata nel business e nell’innovazione da
Massimiliano Guzzini, vanta 231,5 milioni di fatturato del 2016 con una crescita media del 6% negli ultimi tre anni. Un esempio, si può ben dire, illuminante del nostro spirito imprenditoriale migliore, con investimenti in ricerca e sviluppo per il 67% dei ricavi, 170 ingegneri su 1300 dipendenti, dei quali 800 a Reca-
Good Economy
nati. L’illuminazione del futuro qui è già nata con Laser Blade xs, una fonte luminosa invisibile di 28 mm, che ricorda i tagli di Lucio Fontana perché la sorgente scompare nel soffitto facendo emergere solo la luce. Poltrona Frau di Tolentino dal 1912 è al top nel mondo per la produzione di sedute in pelle di alta gamma, oggi è di fatto una multinazionale con 286,622 milioni di fatturato che continua a produrre unendo alto artigianato alle tecnologie più avanzate; il Gruppo Colombini di San Marino rimane azienda di famiglia che, con i suoi marchi Febal Casa (cucine , living , notte), Rossana (cucine top di gamma) e Colombini casa ha fatturato 184 milioni di euro rispetto ai 170 del 2015. La pesarese Scavolini, anche lei azienda familiare di cucine e living, ha superato la soglia dei 200 milioni nel 2015 e l’industria del giocattolo intelligente Clementoni, di Recanati, segue con 140,164 milioni e con previsioni di cre-
33
scita ulteriore o la Fiam che ha puntato tutto sul design e sulla cultura del vetro curvato, solido e fragile al tempo stesso, “plasmato, trasformato e assoggettato alla fantasia e allo sforzo creativo dell'artista”. Manifestodesign di Enrico e Viola Tonucci, marchio pesarese creato nel 2006 da Enrico, già fondatore nel 1970 della Tonucci design, è capofila di un trend in continua espansione: la progettazione e produzione di raffinati, essenziali complementi d’arredo di diffusione mondiale, realizzati solo con materali naturali e procedimenti produttivi rispettosi dell’ambiente e dell’uomo; fra gli oggetti dell’italianità più diffusi al mondo e più amati, le macchine da caffè, emerge la nostra storica Nuova Simonelli di Macerata. Aurelia, macchina da bar scelta da baristi di ogni dove per design, efficienza ed ergonomia è fra le punte di diamante della sua quasi secolare e ininterrotta produzione. Altro ruolo importante
In apertura dell'articolo la nota poltrona Ghost realizzata dalla Fiam Italia Nella pagina a fianco, due manifesti di Massimo Dolcini e la poltrona Vanity Fair della Frau In alto, la Laser Blade xs de iGuzzini Illuminazione e qui sopra la storica caffettiera Victoria Arduino
Good Economy
Il design rappresenta un tratto del carattere marchigiano pratico, funzionale capace di dare forma a idee-progetto
In alto a sinistra, la consolle Charlotte della Fiam con a fianco la cucina Carattere della Scavolini Qui sopra a sinistra, una realizzazione di Tonuccidesign e la saliera creata da Benvenuto Cellini tra il 1540 e il 1543
34
nel campo del Visual Design l'ha avuto Massimo Dolcini di Pesaro, protagonista della storia della grafica e della comunicazione italiana. Dolcini, si ricavò un ruolo da apripista per quella che sarebbe stata poi riconosciuta come "grafica di pubblica utilità" ovvero al servizio dei cittadini. Questa rosa di nomi vuole indicare alcune esempi d’eccellenza del vivissimo, dinamico panorama marchigiano del design per gli spazi abitativi ed è per sua natura parziale, ma a queste produzioni vincenti si affianca il miglior fashion design, la nautica, le produzioni cartarie, il food, l’oreficeria. Grandi realtà sul mercato e nell’immaginario del lusso globale, ma anche produzioni emergenti che hanno tutti i numeri per diventarlo. Il nostro è un humus culturale su cui fioriscono, da sempre, quella tenacia resistente a ogni difficoltà e quella curiosità da sperimentatori alla ricerca di nuovi materiali, e dei loro possibili, molteplici impieghi. Di qui si genera un’ alchimia potente che fonde creatività, artigianato e industria, sprigionando le energie necessarie alla ricerca innovativa trainata delle nostre aziende più celebri, i cui solidissimi brand sono da tempo internazionali. Sono queste le peculiarità che hanno permesso alle industrie grandi
e meno grandi delle Marche, la regione più manifatturiera d’Italia, di mantenere e di accrescere un ruolo primario nel design su tutti i mercati; i nostri imprenditori hanno saputo sfidare gli anni della crisi globale continuando a investire in immagine, tecnologia, design. E hanno lavorato sull’ergonomia, che dal design utile oltreché bello è riconosciuta sempre più come qualità imprescindibile, qella
qualità estetica e funzionale alla confortevolezza, e quindi all’efficienza dell’azione come alla salute del fruitore finale del prodotto, applicabile in ogni campo della progettazione. Con queste armi il nostro design ha vinto e vincerà sui mercati internazionali. Si, il design salverà l’impresa perché sa costruire il futuro nella progettualità, con un dialogo fruttuoso tra tradizione e innovazione, tra moderno e contemporaneo, esprimendo un legame indissolubile fra il “Made in Italy” e la creatività marchigiana. ¤
Fatti di ceramica
35
La maiolica di Pesaro al tempo degli Sforza STUDI E REPERTI NE TESTIMONIANO L’IMPORTANZA STORICA
S di Alessandro Bettini
L’azzurro insieme al verde al viola e al giallo sarà il colore dominante della produzione pesarese quattrocentesca
ono passati venti anni da quando nel 1997 grazie alla lungimiranza culturale del prof. Giancarlo Bojani, all’epoca direttore del Museo internazionale della ceramica di Faenza e alla disponibilità della Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata, a palazzo Ricci a Macerata fu organizzata la prima e, ancor oggi unica, grande mostra sulla maiolica marchigiana dal titolo emblematico “Fatti di ceramica nelle Marche”. La mostra che spaziava dal medioevo ai giorni nostri si proponeva di far conoscere le produzioni dei principali centri ceramici marchigiani e di stimolare nuovi e più approfonditi studi e ricerche, specie per la maiolica arcaica e rinascimentale. Per la prima volta venivano proposte in modo organico le produzioni arcaiche e del primo rinascimento di Fano, Recanati, Urbino e soprattutto di Pesaro con l’esposizione di numerose maioliche inedite e sconosciute al grande pubblico. Purtroppo la mostra è rimasta un fatto isolato, ricordata solo dal bel catalogo scientifico edito
dalla Federico Motta editori, ormai introvabile. Anche l’auspicio di stimolare nuovi studi e l’interessamento di nuovi studiosi che indagassero la maiolica di Fano, Recanati e soprattutto Urbino non ha prodotto grandi risultati. In particolare per la maiolica di Urbino, tanto celebrata quanto poco studiata, mancano studi organici e approfonditi sulla produzione quattrocentesca e sulle produzioni del secolo successivo al di fuori dell’istoriato. Un esempio emblematico è dato dall’editto protettivo pesarese del 27 aprile 1552 emanato dal duca Guidubaldo II° Della Rovere a favore dei ceramisti pesaresi, in cui si vieta l’importazione di maioliche da altri centri eccetto “gl’historiati d’Urbino, et li bianchi di Faenza, et d’Urbino.” Ora sappiamo molto degli istoriati urbinati e quasi tutto dei bianchi di Faenza ma non conosciamo una sola maiolica appartenente alla famiglia dei “bianchi” attribuita ad Urbino! Al contrario, gli studi sulla maiolica pesarese tra il trecento e il seicento, dopo
Fatti di ceramica
Nella pagina precedente, piatto da parata decorato alla zaffera (1430-1450) Dall'alto in basso boccale carenato decorato con uccello ad ali spiegate (1370-1390); boccale decorato con un gioco di penne di pavone (1470-1490); grande boccale decorato con penne di pavone e fiori (1460-1480) Nella pagina a fianco boccale sferico con decorazione geometrica a quartieri (prima metà XIV Sec.)
36 le fondamentali ricerche e intuizioni di Paride Berardi scientificamente esposte nel volume “L’antica maiolica di Pesaro” integrate con la pubblicazione di centinaia di frammenti ceramici provenienti dal sottosuolo di Pesaro, sono proseguiti con approfondimenti e saggi di numerosi studiosi che, sempre più, hanno permesso di delineare l’importanza e la centralità della maiolica rinascimentale pesarese nel panorama italiano ed europeo. In trent’anni di studi rigorosi, scevri da ogni campanilismo, grazie, anche alla pubblicazione di nuovi frammenti raccolti nelle discariche cittadine e provenienti da lavori edili nel centro storico, Pesaro ha recuperato buona parte della sua antica storia ceramica che per una inspiegabile damnatio memoriae era stata dimenticata. Se, infatti, volessimo conoscere la storia ceramica di Pesaro attingendo a testi scritti oltre quarant’anni fa, troveremmo solo fugaci accenni ad alcune mattonelle dipinte per Isabella d’Este sul finire del quattrocento, alcuni istoriati prodotti dopo il 1540 di non eccelsa qualità e null’altro. Ancora più critica era la memoria delle centinaia di maiolicari e artisti che avevano reso famosa la maiolica pesarese fino in Ungheria alla corte di Mattia Corvino. Si ricordavano un tal Pedrino Johannis a Bocalibus de Forlivio per il trecento, Antonio di Matteo Fedeli per una corrispondenza con la corte dei Gonzaga per il quattrocento e Girolamo Lanfranco e il figlio Giacomo per il cinquecento. Come si diceva gli studi di Berardi avevano squarciato il velo d’oblio sulla antica maiolica pesarese. Due anni dopo (1986) venivano pubblicate a cura di padre Paolo Erthler le ricerche di padre Albarelli, frate dell’ordine dei Servi di Maria,
sui ceramisti pesaresi tratte dall’archivio storico notarile di Pesaro. Migliaia di documenti inoppugnabili che mettevano in evidenza l’importanza della maiolica pesarese e facevano riemergere il nome di centinaia di bocalari dimenticati da secoli. La cornice che avrebbe delineato i nuovi studi sulla maiolica pesarese era completata: da un lato migliaia di frammenti ceramici e dall’altro migliaia di documenti con centinaia di nomi di ceramisti e pittori. Nel Trecento poche notizie di archivio Le notizie d’archivio sulla produzione ceramica del periodo sono pochissime non essendosi conservati che pochi atti notarili antecedenti il quattrocento. Al contrario, grazie ad una costante ricerca tra il materiale di risulta nelle discariche intorno alla città di sicura provenienza da lavori edili nel centro storico, sono stati recuperati molti frammenti che hanno permesso di ricostruire un quadro soddisfacente della produzione ceramica pesarese del periodo. La produzione pesarese non si discosta molto dagli altri centri adriatici che vanno da Ravenna a Rimini, Fano fino a Recanati, tanto che diventa difficile distinguere le produzioni se non si conosce il luogo di provenienza. La principale produzione è rappresentata dal boccale da cui il termine bocalario o a bocalibus con il quale erano identificati a Pesaro i ceramisti con funzione di contenere i liquidi. Ad una forma sferica del primo trecento si sostituisce il boccale rigido carenato dipinto in verde e bruno che sul finire del trecento acquista una sua valenza artistica con la rappresentazione di figure e stemmi prodomi di quella splendida stagione artistica della ceramica pesarese nel secolo successivo. ¤
Fatti di ceramica
Nel Quattrocento un rapido sviluppo Con il nuovo secolo anche a Pesaro inizia la produzione della zaffera a rilievo. La tecnica consiste nell’applicazione a rilievo del cobalto che donava alle maioliche un bel colore blu intenso. La tecnica della zaffera richiedeva particolare abilità da parte del ceramista perché era di difficile applicazione e tendeva a colare sul corpo ceramico durante la cottura. E’ in questo periodo che la ceramica pesarese conosce un rapido sviluppo testimoniato dai documenti e dagli esemplari giunti fino a noi. E’ possibile che il repentino sviluppo della maiolica pesarese sia stato favorito dal perfezionamento della tecnica di applicazione della zaffera fino a diluirla in un azzurro intenso e splendido. Infatti i ceramisti pesaresi ottengono a Fano la privativa per produrre il “boccale azzurro” e impiantano una bottega a Rimini. L’azzurro, insieme al verde, al viola e al giallo, sarà il colore dominante di tutta la produzione pesarese quattrocentesca. Nel 1445 Alessandro Sforza acquistava dall’ultimo dei fratelli Malatesti la signoria di Pesaro. Alessandro era uomo d’armi ma anche grande intenditore e appassionato d’arte cresciuto alla corte degli Estensi a Ferrara. Famosa sarà la sua biblioteca e la quadreria incrementata dal figlio Costanzo e dal nipote Giovanni fino al devastante incendio del 1514 o alla dispersione come sostenuto da Baffioni. Quando Alessandro giunge a Pesaro la produzione ceramica di qualità era diffusa in numerose botteghe con decine di artisti e lavoranti. Probabilmente Alessandro comprende la superiorità artistica e qualitativa della maiolica pesarese rispetto alla produzione padana, tanto che gli Sforza diventano i protet-
37 tori dell’arte della maiolica e ne fanno un vanto della loro signoria tanto da donarla abitualmente a principi e papi. Numerosi documenti e lettere di ringraziamento ci attestano che maioliche pesaresi giungevano ed erano ammirate e tenute in grande considerazione presso le principali corti italiane ed europee: a papa Sisto IV nel 1476, a Lorenzo de Medici nel 1478, a Napoli alla corte Aragonese nel 1483 e 1489, a Ferrara prima del 1494, a Mantova a Isabella d’Este nel 1494-1496, a Budapest presso la corte di Mattia Corvino intorno al 1476. Maioliche pesaresi della seconda metà del quattrocento sono state ritrovate a Damasco, al Cairo, a Londra, ad Anversa, a Budapest, quale testimonianza dell’apprezzamento e del raggio di esportazione dei prodotti pesaresi. I principali artefici di quest’arte sono tenuti in grande considerazione dagli Sforza e ammessi a corte. Tra tutti ricordiamo Antonio Fedeli (+1508) e Almerico di Ventura (+1506) che conducevano le principali botteghe ceramiche pesaresi. Nel 1486 Camilla Sforza d’Aragona vedova di Costanzo e il figlio Giovanni promulgarono un famoso editto protettivo a favore della maiolica pesarese in cui si affermava chiaramente che “…. l’arte de li vasi de terra antiquamente se habbia exercitata in la dicta cità et facto più bello lavoro….et è laudato dicto lavoro da ciaschuno intendente per tuto Italia et fora di Italia….”.
Le maioliche pesaresi ammirate e tenute in grande considerazione nelle principali corti italiane ed europee
Fatti di ceramica
38
Tutte le decorazioni in voga del periodo sono ampiamente documentate nella produzione pesarese ma su tutte domina la foglia gotica e la penna di pavone che una letteratura priva di ogni riferimento scientifico voleva accomunare a Faenza quale omaggio a Cassandra Pavona, amante del signore di Faenza! Al contrario la decorazione a penna di pavone che ha origini antichissime in oriente (Persia) è diffusissima a Pesaro e inserita in ogni contesto decorativo sia che si tratti di forme aperte o chiuse. I pavimenti maiolicati
Mancano studi approfonditi invece sulla produzione quattrocentesca e successiva della maiolica di Urbino
In alto, boccale decorato con elegente semibusto femminile di profilo entro cornice e fiori di brionia (1480-1490) Sotto, mattonella proveniente dal pavimento del monastero di San Paolo a Parma (1471-1482)
Altri manufatti ceramici che resero famosa Pesaro in quel periodo furono i pavimenti maiolicati. Di certo, grazie ad una nota corrispondenza con Giovanni Sforza, è pesarese il pavimento ordinato nel 1494 da Isabella d’Este per il camerino di Marmirolo eseguito da Antonio Fedeli su cartoni inviati da Mantova con le imprese estensi. Giambattista Passeri ci fornisce importanti notizie su pavimenti maiolicati che ai suoi tempi erano ancora allocati nell’antica residenza degli Sforza di cui era in corso la rimozione. Pesarese è lo splendido pavimento commissionato tra il 1471 e il 1482 dalla Badessa Maria de Benedetti per il convento San Paolo di Parma, con volti, figure umane, disegni floreali e tutta una vasta gamma di bestiario, ancora oggi uno dei più affascinanti esempi di maiolica rinascimentale. E ancora, il pavimento disperso in molti musei e collezioni private della chiesa di S. Ma-
ria del Riposo a Fano detta appunto “dei piattelletti” per il suo pavimento e, oggi, completamente demolita. Come tutte le grandi stagioni artistiche anche la maiolica pesarese volgeva al declino. Vicende militari e politiche determinarono una rapida crisi della maiolica pesarese. Nel 1500 Cesare Borgia occupava Pesaro dopo che Giovanni Sforza era fuggito precipitosamente e la città conobbe anni di divisioni e lotte intestine. Nel 1503 ritornato lo Sforza furono perpetrate molte vendette e la città uscì economicamente e socialmente prostrata da queste vicende. In pochi anni morivano i principali maestri boccalari che avevano dominato la scena cittadina senza lasciare valenti eredi che continuassero l’arte della maiolica. Rinasce una nuova stagione artistica Altri maestri si trasferirono in altre città: Vincenzo di Matteo Benedetti a Udine, Raniero di Matteo Fedeli a Venezia, Gianfrancesco di Ludovico a Camerino. Infine, nel 1510 moriva Giovanni Sforza e dopo una breve reggenza del fratello Galeazzo, con la morte del piccolo Costanzo II°, cessava definitivamente la signoria degli Sforza e la città veniva annessa al ducato di Urbino seguendone le contrastate vicende politico-militari con Francesco Maria I° della Rovere. Ma quel misterioso gene della maiolica che alberga a Pesaro da oltre duemila anni sarebbe da li a poco rinato per una nuova stagione artistica che si perpetua fino ai giorni nostri. ¤
Storia | Guidobaldo II
39
Mistero sui resti mortali del duca della Rovere LA SPARIZIONE DEI GIOIELLI E L’ODISSEA DELLA SALMA
I di Dante Trebbi
l 28 ottobre 1538 moriva a Pesaro Francesco Maria I della Rovere, Duca di Urbino e Signore di Pesaro. Si dice che ad ucciderlo, con un particolare e lento veleno, fu il suo barbiere personale su ordine di un “importante personaggio “geloso dei favori che il duca godeva presso la Repubblica di Venezia. La cronaca del tempo ci informa, inoltre, che trovandosi a Venezia e, sentendosi vicino alla morte, si fece condurre a Pesaro dove finì i suoi giorni. Gli successe il figlio, Guidubaldo II, un giovane ritenuto di natura rude e ambiziosa. Come primo atto che lo distinse subito dai suoi antenati, anziché Urbino, scelse come sua sede abituale la città di Pesaro, ritenendola più adeguata al suo governo in quanto, situata lungo la costa, aveva strade comode per il trasporto di merci ed un “discreto” porto che facilitava gli scambi commerciali con “l’amica” Venezia. Volendo passare alla storia come uno dei principi più illuminati del tempo, si circondò di una ricca corte, invitando a Pesaro i più importanti artisti dell’epoca. Per mantenere questa fastosità, dovette continuamente ricorrere a nuove tasse e ciò lo rese impopolare presso i sudditi dell’entroterra ed in particolare agli abitanti di Urbino che, fra l’altro, non avevano digerito la perdita della sovranità dello Stato. Nel 1572, rivolgendosi al Papa, gli urbinati tentarono anche una ribellione chiedendo l’autonomia. Il Papa intercedette presso il Duca che promise di risolvere la vertenza. Chiamò a Pesaro i capi della rivolta e, dopo averli costretti per giorni ad una lunga anticamera, li fece
uccidere e gettare i loro corpi nell’ossario del cimitero della Chiesa pesarese di San Decenzio. Il 12 settembre 1574 Guidubaldo fu improvvisamente colpito da una violenta febbre “quartana” (malaria) “a cui fece seguito un buon flusso di sangue”. Dieci giorni dopo, in punto di morte, chiamò il Gonfaloniere di Pesaro, Vincenzo Masciolini, chiese di essere sepolto nel Monastero del Corpus Domini di Pesaro e, come segno di riconoscenza per la fedeltà prestatagli dalla città, espresse la volontà che sopra lo stemma della comunità si ponesse il suo “ch’era la quercia con quattro mani che la imbracciavano in modo di due fedi” con il motto “perpetua et firma fedelitas” e che, attorno allo stemma, fossero scritte queste parole: “Guidi Ubaldi Feltrii a Rovere Pisauri D.ni et Pri… (Domini et Principi)”. Il 28 settembre Guidubaldo II morì. Il suo corpo , profumato e imbalsamato, venne vestito di raso e di una armatura indorata e fregiata in oro; in capo gli fu posta una berretta di braccato d’oro e la corona ducale adorna di infinite gioie, al collo la collana dell’Ordine del Toson d’Oro e, nelle dita, molti preziosi anelli; sulla sua destra furono collocati i bastoni dei suoi generalati e, sulla sinistra, oltre allo stocco (arma simile alla spada), “il cappello che sogliono donare li papi ai principi cristiani”, la spada ed il pugnale “che portar solea”. Dopo essere stata esposta per tre giorni nel Palazzo Ducale, la salma fu trasportata in Duomo dai Priori e dai consiglieri comunali che, per l’occasione, indossavano una veste lunga nera di cotone con
Storia | Guidobaldo II
Dal 1839 sulla tomba del duca e di Vittoria Farnese cadde il silenzio Alcuni storici chiedono ora che sia riaperta
Nella pagina precedente un ritratto del duca Guidobaldo II della Rovere Qui sopra, Vittoria Farnese Nella pagina a fianco la chiesa di Sant'Ubaldo e il gonfalone della città di Pesaro con le mani che imbracciano la Rovere
40 coda ai due bracci. Alla Messa funebre, celebrata da cinque vescovi, erano presenti oltre 500 persone. Il giorno dopo, la salma fu trasportata per le vie principali della città fino a raggiungere la chiesa del convento delle suore del Corpus Domini (situato nell’attuale Via Diaz e demolito per fare posto alla Sede della Provincia). La bara fu collocata su due sostegni infissi sulla parete della chiesa, coperta di una coltre ricca di broccato d’oro a larghe frange (sulla parete opposta verrà poi tumulata nel 1602 la salma della moglie Vittoria Farnese). Nel 1627 il figlio di Guidubaldo, Francesco Maria II, volle unire le due salme in un unico sepolcro posizionandolo nel coro della chiesa stessa. Fece scavare una gran buca quadrata circondata da un muretto alto due palmi da terra e, sulla pesante lastra di marmo che la serrava, fece scolpire: i profili, a grandezza naturale, dei genitori; un epitaffio a lettere dorate; gli stemmi della famiglia della Rovere e Farnese (questi ultimi verranno abrasi nel periodo della Repubblica Cisalpina). Nel 1812 con l’avvento del Regno d’Italia napoleonico, il convento fu chiuso, le suore ridotte allo stato laico e lo stabile posto all’asta. Le salme di Guidubaldo e della moglie furono destinate alla Chiesa di S. Ubaldo nell’attuale Piazza Mamiani, in quanto, essendo comunale, continuava a legare la comunità pesarese a colui che aveva voluto il suo casato impresso nello stemma della città. “Il 28 novembre 1812, narra la cronaca del tempo , il podestà Conte Odoardo Macchirelli, il delegato demaniale Conte Luigi Ondedei Baglioni, il presidente dell’accademia pesarese Conte Giulio Perticari, ed altri “savi” fra cui il bibliotecario della Oliveriana, Teofilo Betti, si recarono nel convento per
traslare i corpi dei due duchi. Cominciata la demolizione con lo scompaginare il coperchio dell’avello... apparve uno scavo di uguale misura tutto ripieno di calcinacci e di mattoni in disordine e confusione, indizio manifesto che la tomba era stata precedentemente violata”. Fu trovata soltanto una pietra quadrata bianca di circa “ due palmi per lato” con la iscrizione “Guidi Ubaldi Urbini ducis V et Victoriae uxoris ossa”. “Non sapendo a qual partito appigliarsi, i presenti pensarono che, forse, taluna delle monache della soppressa corporazione avrebbe potuto fornire notizie di qualche tradizione che fosse rimasta nel convento”. Fu la ex superiora, Mossa Bargi, ad ammettere che la notizia della violazione del sepolcro circolava già da molti anni e che i due cadaveri fossero stati riposti in un sotterraneo della camera mortuaria del convento e “nascosti” dietro un muro di mattoni a coltello. Recatisi nella stanza indicata, che si affacciava sull’orto del monastero a ridosso dell’ossario delle monache, i deputati fecero abbattere il muro e, subito, apparve loro “un cadavere poco meno che intero, di alta statura, giacente fra molti cenci sopra alcuni assi ineguali di cipresso e, vicino ad esso, gli scomposti residui di un altro cadavere consistenti in un mucchio di ossa confuse”. Estratto il primo cadavere, si prese atto che “lacero intieramente era il vestiario, ma si capiva aver consistito in un giubbotto di raso rosso con maniche larghe e strette, bavaro ben alto e allacciato sul petto con alamari e bottoni e, per di sopra , in una vasta zimarra (cappotto) di bellissimo tessuto operato di colore tabacco a maniche lunghe e una specie di mantello più corto di velluto rosso”. Le gambe erano rivestite di calze di filo rosso, i frammenti delle quali si vedevano incollate lungo lo stinco
Storia | Guidobaldo II
e sui piedi; le scarpe, con suole a più cuciture, erano collocate vicino al capo. In quanto all’altro cadavere, dai confusi resti, si capì subito che era una persona morta in età decrepita e, da alcuni pezzi di panno rozzo frammisti fra le ossa, si intuì che erano in resti della Duchessa Vittoria Farnese perché volle essere sepolta con abito monacale “per conservare anche nella tomba la modestia e gli ascetici costumi che la contraddistinsero in vita”. All’appello comunque mancavano gli oggetti di valore che si sapevano sepolti con il corpo di Guidubaldo II, primi fra tutti, il bellissimo brillante postogli al dito di una mano, la lunga spada con l’impugnatura d’oro ed il bastone che “parimenti d’oro era”. Dopo alcune ricerche, furono rintracciati un muratore ed un falegname i quali confessarono di essere stati gli artefici della profanazione della tomba, avvenuta trenta anni addietro su commissione dei frati zoccolanti (Cappuccini di via Passeri) e con il consenso delle suore. I frati, che erano anche i confessori ufficiali del convento, si affrettarono a mettere in un luogo sicuro tutti i preziosi in attesa di venderli al miglior offerente e consigliarono le suore di riporre altrove, senza tante cerimonie, i corpi dei due defunti. “Ma le monache sentirono poco dopo turbarsi la coscienza … ricorsero segretamente al Vescovo e con il consenso di esso, recuperato dalle mani dei frati il tesoro, lo impiegarono nella compra delle suppellettili della chiesa. A ciascun protagonista della vicenda fu imposto il più alto sigillo di segretezza e il giurato divieto di parlare del fatto”. Le indagini, rivolte a scoprire il compratore di questo tesoro, cozzarono contro un muro di gomma: nessuno voleva parlare prendendo come pretesto il giuramento di segretezza. Finalmente una vecchia
41 suora, dopo aver ottenuto il permesso dal suo confessore, decise di dire la verità sulla vicenda, ma la sua deposizione non venne resa nota. Tutto rimase avvolto nel mistero. Molto probabilmente il compratore era un personaggio noto e legato alle famiglie più influenti della città. Forse la verità si trova nel VII volume delle “Memorie di Storia Pesarese” di Teofilo Betti, (collana di sette tomi, acquistata dal Comune, attorno il 1820) in cui furono riscontrate notizie ritenute calunniose nei riguardi di alcuni personaggi della città ancora viventi, per cui fu deciso di non renderlo pubblico e, con il tempo, andò perduto. Redatto il verbale di quanto era stato fatto e scoperto dai delegati nel Convento del Corpus Domini, i resti dei due duchi furono ricomposti in una nuova cassa a due scompartimenti, trasportati nella Chiesa di S. Ubaldo e collocati in una semplice fossa scavata nel pavimento. Per rendere la tomba uguale “a quella di prima”, fu elevato un piccolo muretto sul quale fu adagiata la pietra funeraria che Francesco Maria II aveva commissionato nel 1627. Nel 1839 in occasione del restauro della cupola della Chiesa di S. Ubaldo, fu deciso di rimuovere questa pietra in quanto, posta al centro della chiesa, rappresentava un ingombro alla disposizione dei banchi degli studenti della scuola pubblica , “in certi giorni obbligati ad assistere agli uffici divini”. “Il 5 novembre 1839, si legge in un volume delle ‘Memorie di Pesaro’ giacente presso la Biblioteca Oliveriana, a firma del segretario comunale Bertuccioli, sotto la sorveglianza dei Signori Deputati Giuseppe Giglioni e Benedetto Mancinelli e del pubblico ingegnere Pietro Togni, il Gonfaloniere Antaldo Antaldi ordinò che detto monumento (la pietra) fosse rimosso e collocato nella parete della sacrestia e che
Una suora rivelò la violazione della tomba e il compratore dei preziosi ma la sua deposizione non venne resa nota
Storia | Guidobaldo II
Il duca amato dai pesaresi e odiato dagli urbinati pose sullo stemma della comunità la sua “Quercia con quattro mani”
42
le ossa dei duchi fossero nel miglior forma sepolte nello stesso sito dove esistevano”. Scoperta la fossa apparve la cassa di abete che conteneva i corpi, racchiusa da un coperchio su cui ancora si leggeva un epitaffio dettato da Teofilo Betti nel 1812 nel momento della loro sepoltura. “La fossa, continua lo scritto, da informe buca che era, fu ridotta a regolare sepoltura, cinta all’interno di un muro. Le ossa dei due cadaveri, con gli avanzi del vestiario... furono messi in una nuova cassa in legno di larice, a tale effetto costruita, con due divisioni per tenere separate, siccome erano, le ossa del marito e quelle della sua consorte. In tale circostanza si ripresero dall’Oliveriana le due teste dei principi, il braccio destro di Guidubaldo e la pietra sepolcrale” che Teofilo Betti aveva prelevato nel momento del traslazione dei corpi e riposto in una “decente bacheca” insieme ad altri teschi di personaggi “illustri”. Il braccio destro “che il duca paternamente aveva alzato poco prima dei morire in atto di benedire questa città a lui tanto cara” venne ricomposto nel fianco dello scheletro mentre il suo teschio e quello della moglie, essendo confusi con con altri, non poterono essere identificati per cui si ritenne opportuno (Teofilo Betti era già morto da tempo), riporre tutti i teschi nell’urna di Paola Orsini, moglie di Pandolfo II Malatesta, morta nel 1371, presente nella chiesa di S. Francesco (meglio conosciuta come la chiesa dei Servi di Maria) dove ancora oggi si trovano. La bara, chiusa “con l’apposito coperchio”, fu collocata nella
nuova sepoltura e nel pavimento fu inserita la piccola lapide che era stata trovata nel 1812 fra le macerie della tomba e conservata da Teofilo Betti nella Biblioteca Oliveriana. Da quell’anno su questa tomba cadde un silenzio assoluto nonostante i lavori straordinari che interessarono lo stabile della Chiesa negli anni successivi. Da luogo di culto agli inizi del 1800, la chiesa fu sconsacrata durante il Regno d’Italia e adibita ad altri usi. La sua sacrestia divenne sede delle Guardie municipali mentre il suo interno divenne un deposito di atti notarili e comunali. Nel 1926, su progetto del professore di Scuola d’Arte, Mario Urbani , fu convertita in Cappella Votiva dedicata ai Caduti Pesaresi (inaugurata come tale il 24 maggio 1927). Nel 1981 sopra il pavimento che racchiude ancora oggi la tomba, fu ricollocata la pesante pietra tombale, rinvenuta in un deposito della Biblioteca Oliveriana dove giaceva dimenticata da molti anni. Recentemente alcuni storici hanno cercato di sensibilizzare le autorità comunali sulla figura di Guidubaldo II della Rovere, il duca tanto amato dai pesaresi quanto odiato, ancora oggi, dagli urbinati. Vorrebbero che la tomba fosse riaperta, ispezionata allo scopo di controllare se i cadaveri dei duchi sono ancora presenti e, dopo un attento esame di dna, ricomporli con i loro teschi prelevati dal sarcofago di Paola Orsini. Fare questo sarebbe dare il giusto riconoscimento, a colui che ha voluto arricchire con la sua rovere il gonfalone di cui la città si vanta. ¤
Le idee
43
Fano, sogni progettuali per svegliare la Fortuna IPOTESI SU CANALE ALBANI, PORTO BORGHESE E PINCIO
I di Dino Zacchilli
Passeggiata verde per unire il porto e il centro storico di Fanum Fortunae al futuro parco urbano e al Metauro
l Canale Albani nasce nei primi anni del 1600, per portare acqua dal Metauro alla città di Fano e alimentare i mulini, indispensabili, allora, per molteplici attività produttive. La centrale idroelettrica della Liscia nasce circa un secolo fa, proprio dove sorgeva il Mulino della Liscia o del Tabacco. Oggi la centrale, gestita da Enel Green Power, è completamente automatizzata e produce energia da fonte rinnovabile. Secondo i dati riportati nel Peac (Piano Energetico Ambientale Comunale) di Fano la
centrale della Liscia, con una potenza installata di 1020 kw, produce ogni anno 4,5 milioni di kwh e consuma ben 3.500 litri di acqua al secondo. Sempre dal Peac leggo che il consumo annuo di energia elettrica nel territorio comunale di Fano è di 1627 milioni di kwh e quindi la centrale della Liscia, se i dati sono giusti, produce solo l’1,6% circa dell’energia necessaria alla
città. Mi chiedo: ma il canale Albani e la centrale della Liscia sono indispensabili per Fano? E quel po' di energia che ci dà non si può produrre diversamente? Le cronache degli ultimi mesi hanno riferito di una estate particolarmente secca, che ciascuno di noi ha vissuto sulla propria pelle. Enel Green Power ha dovuto sospendere il prelievo d’acqua dal fiume Metauro, fermare le turbine e bloccare la produzione di energia. Il canale rimasto senz’acqua ha causato una grande moria di pesci e di altri animali, con effetti nefasti sull’ambiente e sull’olfatto dei cittadini. A fine settembre appare ancora come uno stagno abbandonato e maleodorante al centro della città, anche per la presenza di alcuni collettori di acque piovane che scaricano nel canale e che in un programma di opportuno risanamento ambientale andrebbero eliminati. Ma al di là di fatti più o meno contingenti credo valga la pena riflettere sugli effetti permanenti che il canale Albani ha creato e continua a creare ogni giorno. Da una parte i danni evidenti a fiume Metauro che negli ultimi chilometri verso la foce molto spesso rischia di non avere più il flusso minimo vitale, con gravi ripercussioni negative sull’ecosistema del più importante fiume della regione, da cui preleviamo, peraltro, anche tanta acqua per gli acquedotti e per l’agricoltura. Dall’altra il contributo non secondario che il canale dà al continuo insabbiamento del porto e alla turbolenza delle
Le idee
44 acque di fronte alla spiaggia del Lido. Fiume a secco, porto insabbiato e poca energia. Ne vale davvero la pena? Chiudere la centrale e trasformare il canale in una lunga passeggiata verde, una “coulée verte”, come direbbero i francesi, per unire il porto e il centro storico della città al futuro parco urbano e al fiume Metauro, anche con piste ciclabili, cosa sarebbe? Sognare? E se i sogni indicassero la strada giusta? Alla riscoperta del porto borghese
La passeggiata va prolungata verso il mare riportando alla luce l’originaria struttura ottagonale dello scalo del 1600
Nella pagina precedente la pianta prospettica della città di Fano nel 1633 Qui sopra, una simulazione dalla terrazza del Pincio di come si vedrebbe l'arco di Augusto senza siepe Nella pagina a fianco la Darsena Borghese dopo il recente restauro Sotto, il Mulino della Liscia in un'incisione del 1783
L’idea di dismettere la centrale idroelettrica della Liscia, per le ragioni dette sopra, e trasformare il canale Albani in una straordinaria passeggiata verde, potrebbe essere completata, verso mare, dalla riscoperta del vero e proprio Porto Borghese, fatto costruire da Papa Paolo V (Camillo Borghese), tra il 1613 e il 1618, su progetto dell’arch. Girolamo Rainaldi. Il Porto era stato realizzato, anche per ragioni di sicurezza, sotto la Rocca Malatestiana e, come pochi anni dopo già lo rappresentava anche il Blaeu in una celebre pianta prospettica di Fano (1633), aveva una forma ottagonale ed era sormontato da una loggia che serviva per la dogana. La loggia, poi tamponata, è l’attuale Darsena Borghese, dove l’Amministrazione Comunale prima e, più recentemente, l’Associazione Marinai d’Italia, hanno eseguito interventi di restauro, restituendo al monumento nuovo splendore. Il Porto ottagonale originario ha avuto, da subito e nel corso dei decenni e dei secoli successivi, continui problemi di interramento, ha subito modifiche e oggi è praticamente scomparso. Problema antico, quindi, quello dell’insabbiamento del porto di Fano.
Ora però, nell’ipotesi di trasformazione del superiore canale Albani, non si potrebbe pensare di riportare alla luce l’originale struttura ottagonale del Porto Borghese? Esiste ancora? Ci vorrebbero certo studi e indagini preliminari per capire se le strutture sono ancora presenti sotto il prato e le attuali banchine ma, se lo fossero, portarle alla luce sarebbe un’operazione di straordinario valore storico e di grande interesse culturale e turistico. È tutto potrebbe integrarsi con la riqualificazione del canale e delle sue banchine fino al mare e di tutto il borgo marinaro. Il Pincio e il Bastione del Nuti Qualche tempo fa l’amico Jacky Simoncelli ha lavorato di fotoritocco e mi ha fatto la sorpresa, su un noto social, di far vedere (foto che qui ripubblico) come potrebbe essere la veduta del nostro straordinario Arco d’Augusto, la Porta della città, dall'alto del Bastione del Nuti, liberato dalla siepe che ne delimita la sommità. Avevo espresso questa idea nel giugno scorso conversando con gli amici che hanno partecipato alla “passeggiata esplorativa nel centro storico” per #OrizzonteFano, il piano strategico della città. Ritengo utile allora riportare brevemente una riflessione. Il Bastione è opera di uno dei grandi architetti del Rinascimento, il nostro Pincio è un luogo straordinario, eppure noi fanesi lo conosciamo poco e non lo viviamo affatto, lo sentiamo come un luogo “a parte”, quasi da evitare, pur essendo parte importante del cuore monumentale della città. La parte sommitale poi, chiusa da una siepe altissima (anche questa, come quella del poeta, una siepe che "da tanta parte... il guardo esclude"), finisce per essere un luogo che
Le idee
respinge la presenza e non invita a salire, tanto che, e ben lo sanno anche le forze dell’ordine, viene frequentato anche da balordi e spesso vi si svolgono attività socialmente poco commendevoli. Immagino invece che il Pincio possa diventare uno straordinario biglietto da visita della città, un piccolo museo all’aperto (romanità e rinascimento). Una veduta splendida sul patrimonio storico Immagino che possano essere trovate, ad esempio, idonee soluzioni per farne un luogo che racconti, anche al turista singolo, storia e caratteristiche della città, rendendone così più facile la visita. Immagino che il cittadino e il turista possano essere spinti a salire sul bastione e godere da lassù una delle vedute più belle in assoluto del patrimonio storico italiano. Immagino che possano prendere uno “scatto” unico dell’antica porta della
45
città o, anche, dell’ingresso della via Flaminia in città. Immagino quindi Pincio e Bastione del Nuti come un luogo centrale, insieme alla Porta, il salotto di ingresso della città. Certo, di fatto, lo è ma non è vissuto come tale. Strutturalmente il monumento è a posto. C’è bisogno solo di cambiare l’idea del luogo, la sua funzione e la sua percezione. Bastano pochi interventi di riqualificazione, dentro il monumento e intorno al monumento. Immagino, ad esempio, che liberare la sommità dall’attuale siepe che ne fa un luogo chiuso e scostante, e sostituirla da una leggerissima e trasparente ringhiera in ferro, ne cambierebbe già da sola la percezione e l’uso, renderebbe quello spazio aperto e permeabile alla vista, sia dall’alto che dal basso, più sicuro e controllabile e quindi socialmente più nostro e vissuto. E anche la siepe che ne delimita il vallato dalla nazionale, a scapito del marciapiede, andrebbe rimossa consentendo una mi-
Il Pincio deve diventare un salotto di ingresso: straordinario biglietto da visita della città insieme al Bastione
Le idee
Il 10 agosto giorno ideale per celebrare collettivamente Fanum Fortunae una festa unica sotto le stelle
46
glior vista e fruizione del monumento anche a chi passa a piedi o in auto e sottrarrebbe il vallato storico, che nessuno ora percepisce, al ruolo infelice di raccoglitore di rifiuti. Immagino… E poi c’è l’idea pazza del prof. Paolo Clini e mia, di collocare lassù una riproduzione in 3D, a scala naturale, eseguita solo da macchine, del disegno più celebre di Leonardo, l’Uomo Vitruviano, icona della bellezza universale, nella città di Vitruvio... Immagino… E con le stelle cadenti la festa della fortuna
In alto, il Bastione del Nuti e Porta Maggiore
10 agosto, notte di San Lorenzo, notte delle stelle cadenti. Chi non ha mai scrutato il cielo quella notte, pronto ad esprimere un desiderio positivo per il proprio futuro di fronte ad una improvvisa scia luminosa, pronto ad augurarsi e ad augurare buona fortuna? Stelle cadenti, fortuna, Fanum Fortunae: il legame è evidente e ricco di significati. Fortuna è destino, sorte, ventura, buona stella, salute, felicità, successo, ricchezza e tanto altro ancora. In antico la dea Fortuna era considerata la forza che guida il destino degli uomini e Dante la descrive come nostra “general ministra e duce”. Faccio allora una proposta alla
città: il 10 agosto facciamo la Festa della Fortuna. Non abbiamo bisogno d’inventarci o d’importare qualche candela. Per un evento suggestivo, di richiamo, unico ci basta celebrare il nome di Fano, con noi ci sono miliardi di stelle. Immagino un evento semplice e gioioso, una sorta di brindisi collettivo che la città offre a se stessa, ai cittadini e agli ospiti. In ogni luogo, alberghi, ristoranti, bar, concessioni balneari, negozi, uffici, ecc., con un piccolo gesto, facciamoci e facciamo gli auguri di buona fortuna. Se poi quel giorno volessimo anche offrire una riflessione culturale sul tema con un filosofo, un poeta, un matematico o altro ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta. L’amministrazione comunale potrebbe impegnarsi a coordinare l’evento, definendone insieme a cittadini, operatori e associazioni le modalità unitarie e gestendo la relativa comunicazione, con il messaggio, ovvio, che, venire a Fano, porta fortuna. 10 agosto, stelle cadenti, Fanum Fortunae, Festa della Fortuna. Sarebbe una festa unica, che solo Fano può proporre. Perché no? Sì, lo so, sono sogni d’una notte d’estate ma mai dire mai e, intanto, un caloroso saluto da Fanum Fortunae... buona fortuna! ¤
Media
47
Il fenomeno Grand Hotel sogni e speranze di carta DEL DUCA E IL FOTOROMANZO DA UN MILIONE DI COPIE
C di Alberto Pellegrino
ino Del Duca è stato un editore accusato di corrompere la gioventù, il pubblico femminile e la stessa classe operaia, mentre oggi è considerato un protagonista della cultura di massa del Novecento e le sue pubblicazioni sono studiate dagli storici della stampa e dai sociologi della comunicazione. Egli ha avuto, infatti, l’intuizione di creare nuovi media destinati a un ampio pubblico in un Paese dove l'alfabetizzazione delle masse non era ancora compiuta, riuscendo a superare le condanne che arrivavano da destra, da sinistra e dalla Chiesa, tutti uniti nel ritenere quelle letture corruttrici delle fasce più umili della popolazione. I difficili inizi di Cino del Duca
La copertina del primo numero della rivista Grand Hotel che fu un fenomeno dell'editoria
Cino Del Duca nasce a Montedinove (Ascoli Piceno) nel 1899, primo di quattro fratelli. Il padre è un piccolo imprenditore che nel 1912 subisce un rovescio finanziario, per cui deve trasferirsi in Ancona, dove Cino frequenta fino alla terza classe dell'Istituto commerciale. Per aiutare la famiglia abbandona la scuola e s’impiega come fattorino, svolgendo nello stesso tempo l’attività di piazzista porta a porta di romanzi popolari a dispense. Nel 1917 è richiamato sotto le armi e partecipa al primo conflitto mondiale, guadagnandosi una croce di guerra. Rientrato in Ancona, è assunto come frenatore in prova presso le Ferrovie dello Stato e riprende l'attività di piazzista di romanzi. Iscritto al partito socialista s'impegna nella vita politica ed è schedato come
un sospetto sovversivo. Nel settembre 1921 è inviato ad Agropoli (Salerno), nel 1923 è licenziato dalle Ferrovie e nel 1924 si trasferisce con tutta la famiglia prima a Pavia poi a Milano, dove riprende a fare il piazzista di libri. Nel 1929, con i fratelli Alceo e Domenico, apre la Moderna, una piccolissima casa editrice specializzata in romanzi popolari a dispense. Del Duca, impegnato nella ricerca di nuovi autori, entra in contatto con Luciana Peverelli che diventerà una celebre autrice di romanzi "rosa" e la sua più fedele collaboratrice. E’ per merito della Peverelli che nel 1932 egli ottiene il primo successo editoriale con il romanzo a dispense Cuore garibaldino, una serie sentimentale e patriottica basata sull’impresa dei Mille e intessuta di “cento storie d’amore, di morte, di vendetta, di sublimi sacrifici, di sforzi eroici, di sovrumane rinunce”. La nascita di un impero editoriale Nel 1931 Del Duca apre una tipografia e, accanto ai romanzi d'amore e d'avventura a dispense, pubblica nel 1933 Il Monello, un giornale per ragazzi diretto dalla Peverelli; nel 1935 manda nelle edicole il settimanale di avventure Intrepido. Del Duca è sempre seguito con sospetto dal regime fascista, per cui decide di trasferire le proprie attività in Francia, dove nel 1932 segue gli indirizzi editoriali già sperimentati in Italia: romanzi d'amore a dispense e periodici per ragazzi (Hurrah! e Aventurex). Nel 1937 Del Duca ottiene la cittadinanza francese
Media
48 e si stabilisce a Parigi, dove fonda Les éditions mondiales dopo aver chiuso la casa editrice milanese. Nel 1941 entra a far parte della Resistenza francese, è l’animatore di una nuova Legione garibaldina e dell'Associazione combattenti volontari italiani dell'esercito francese, nel 1943 aderisce alla Resistenza italiana e per la sua partecipazione alla lotta di liberazione, è insignito nel 1950 della croce di guerra francese e della "medaille de la reconnaissance". Storie d’amore, stampa quotidiana e cinema
Dal Monello all’Intrepido la nascita di un impero editoriale fino alla stampa de Il Giorno
Nel dopoguerra si sta verificando una “rivoluzione” nella stampa femminile, perché gli editori si stanno orientando verso nuovi mezzi di comunicazione, ritenendo ormai superato il romanzo d'appendice a dispense. Nel biennio 1946/1947 escono le prime riviste "disegnate a figure" e Cino Del Duca intuisce subito le grandi possibilità di questo nuovo genere, mandando nelle edicole due settimanali, Nous deux e Grand Hôtel, destinati soprattutto a un pubblico femminile. Egli affianca a queste testate altre due riviste Intimità e Confessioni con "storie vere", "confessioni" e fatti di cronaca riguardanti personaggi famosi e divi del cinema. Del Duca è ormai considerato l'imperatore dellapresse de coeur” e percorre altre strade che ritiene più gratificanti e culturalmente prestigiose. Nel 1952 istituisce la Fondazione Del Duca per assegnare borse di studio ad autori francesi e comincia a tradurre importanti scrittori stranieri in lingua francese (Pirandello, Leopardi, Caldwell, Steinbeck), per cui nel 1953 gli viene assegnata la Legion d'onore. Nello stesso anno decide di dedicarsi al cinema e fonda la Del Duca film che produce, oltre a titoli 4 popolari, anche opere che
sono entrate nella storia del cinema: Aria di Parigi (1954) di Marcel Carné; Margherita della notte(1955) di Claude Autant-Lara; Il vedovo(1959) di Dino Risi; L'avventura (1960) di Michelangelo Antonioni; Il bell'Antonio (1960) di Mauro Bolognini; Accattone (1961) di Pier Paolo Pasolini. L’editore vuole anche cimentarsi nel campo della stampa quotidiana e viene a sapere che in Italia il presidente dell'ENI Enrico Mattei vuole fondare un giornale che appoggi la linea politica ed economica dell’azienda. Del Duca entra come socio, essendo in grado di assicurare un'adeguata copertura finanziaria. Il 21 aprile 1956 esce il primo numero del Giorno concepito dal giornalista Gaetano Baldacci e da Cino Del Duca secondo un modulo inedito in Italia, con una prima pagina a colori, pagine a fumetti, un supplemento in rotocalco e l'abolizione della terza pagina. La presenza dell’editore si rivela ben presto difficile, perché si verifica uno scontro con Mattei che vuole il totale controllo del giornale. In questa contesa è Mattei ad avere la meglio, acquistando l’intera proprietà del giornale. Nel 1957 Del Duca compra allora Franc-Tireur, un quotidiano con un indirizzo laico-socialista e un notevole impegno culturale, ma in grave crisi economica. L’editore lo trasforma in un giornale "popolare" con titoli a effetto, concorsi a premi, feuilletons a puntate, fotografie e fumetti, cambiando il suo nome in Paris-jour che s’impone sul mercato editoriale come il primo tabloid francese. Del Duca continua tuttavia a basare la solidità finanziaria della sua impresa sulla presse de coeur e sui giornali per ragazzi, ma non si lascia sfuggire le notevoli possibilità che offre un nuovo medium come la televisione, così nel 1965 lancia Télé-poche, un settima-
Media
49
nale che nel giro di quattro numeri raggiunge la tiratura di un milione di copie. Negli anni Sessanta l’editore procede a una riorganizzazione delle sue imprese, sopprimendo alcune testate e riunendo le proprietà nella società per azioni Industrie grafiche Cino del Duca. Nel 1964 diventa amministratore delegato delle Editions Robert Laffont, nel 1967 assume il controllo della rivista Vie des métiers, diventa azionista di Femmes d'aujourd'hui e pubblica la rivista Historia. Il suo impero economico entra purtroppo in crisi, quando il 24 maggio 1967 l’editore muore improvvisamente a Milano. La sfida dell’Intrepido Cino Del Duca ha dimostrato di essere un innovatore anche nel campo del fumetto, avendo il coraggio di mettersi in concorrenza con testate già affermate come il leggendario Corriere dei Piccoli (1908), L’Avventuroso (1934), Topolino (1933- 1935) e Il Vittorioso (1937). Del Duca pubblica nel 1933 l'Intrepido che contiene racconti d’avventura legati alla tradizione del feuilleton. Nel 1935 ha la felice intuizione di trasformare la pubblicazione in una rivista a fumetti con l'impiego di autori italiani, che inventano il fumetto romantico d’avventura basato su temi come il Risorgimento, la prima guerra mondiale, le imprese di antichi cavalieri e le avventure di mare. Le storie hanno un taglio patriottico e sono realizzate con una tecnica che diventa sempre più efficace e raffinata. Fatta eccezione per le imprese del celebre Buffalo Bill, tutti cicli di successo sono ambientati in India secondo l’esoterismo di moda, avendo come modello di riferimento il salgariano ciclo malese di Sandokan. Il primo fumetto di Luigi Grecchi ed Erio
Nicolò s’intitola Il principe azzurro, un personaggio che piace ai giovani lettori per le sue spericolate avventure e che attrae le giovani lettrici che sognano d’incontrare il “loro” principe azzurro. Questa coppia di autori realizza poi Il principe del sogno, sempre ambientato in India e con un biondo protagonista chiamato Chiomadoro. Il terzo ciclo è Il cavaliere dell’ideale (1950) con complicatissime avventure ancora 4 ambientate in India e illustrate dal disegnatore Alvaro Mairani, il quale realizza tavole che hanno una loro pittorica bellezza, impiegando la tecnica della china acquarellata già usata con successo in Grand Hotel. Nel 1939 viene pubblicato a fumetti Cuore Garibaldino disegnato da Vittorio Cossio per sfruttare il successo dell’omonimo romanzo.
Cino Del Duca magnate delle storie d’amore della stampa quotidiana e anche del cinema
L’enorme successo di Grand Hotel Il primo numero di Grand Hotel appare in edicola il 29 giugno 1946 con una tiratura di 100 mila copie: sulla copertina
Nella pagina a fianco, le storiche pubblicazioni del Monello e dell'Intrepido. In alto, Cino del Duca che si è ritagliato un ruolo da protagonista nel mondo dei media
Media
Nelle pagine, altre copertine delle numerose produzioni del prolifico editore che spazia dal fumetto alle riviste rosa Qui a destra, la rivista concorrente Bolero Film della Mondadori A sinistra, Sogno, la pubblicazione dell'editrice La Novissima anche lei antagonista
50 disegnata da Walter Molino si vedono due giovani elegantissimi che stanno per entrare in una sala cinematografica dove si proietta il film Anime incatenate, che è poi il titolo della prima storia a fumetti disegnata con uno stile che allude alla fotografia. Il numero contiene due romanzi d’amore: Il diario di una sposa di Wanda Bontà e Tu, la mia follia di Luciana Peverelli. Per le storie a fumetti l’editore recluta disegnatori del calibro di Walter Molino, Rino Albertarelli, Giulio Bertoletti con l’obiettivo è di fare una rivista capace di toccare le corde emotive di larghe fasce della popolazione soprattutto femminile. Esemplare è la trama di Anime incatenate, ambientata parte in Italia e parte negli Stati Uniti, basata sulla storia di due giovani innamorati che si conoscono per caso a Venezia, lei bellissima in un audace bikini leopardato, lui un ingegnere italo-americano che la bacia senza nemmeno sapere il suo nome. Costretti a separarsi, sono perseguitati da odi, tranelli, menzogne e sventure che si susseguono a ritmo incalzante, tenendo avvinto il lettore fino all’ultima puntata, quando lui ottiene il divorzio dall’infedele moglie americana e potrà finalmente sposare la donna amata. Il fumetto Le lagrime d‘oro di Elisa Trapani e di Giulio Bertoletti è ambientato in India e narra le vicende di un giovane capitano inglese, diviso tra due donne che lo amano intensamente ma in modo diverso. Impegnato nella lotta contro un rajah che lo odia perché ha fatto fuggire una fanciulla dal suo harem, egli uscirà vincitore e potrà unirsi alla sua amata. La novità, rispetto alla “borghese” letteratura rosa, sta in una narrazione semplice, esplicita, ben delineata e con situazioni che anticipano i tempi, perché presentano una società economicamente sviluppata, caratterizzata
da un clima sociale aperto e intelligente, dove gli italiani sognano un futuro di pace, felicità, amore, viaggi e vacanze. S’introducono elementi “pericolosi” come il divorzio; si accentuano i sentimenti forti e la suspense con un sapiente dosaggio di situazioni reali e fantasiose, di luoghi conosciuti e luoghi lontani ed esotici. La rivista ha un successo inaspettato con centinaia di migliaia di copie vendute, con più famiglie che si mettono d’accordo per acquistare una copia a turno, con una notevole presenza di lettori maschi. Gli acquirenti appartengono per lo più ai ceti popolari a bassa scolarizzazione, perché la rivista soddisfa la voglia di comunicazione di milioni d’italiani che sanno appena leggere, grazie all’uso del fumetto capace di essere letto da tutti e “guardato” anche dagli analfabeti. Essa ha tuttavia una certa diffusione anche fra i componenti dell’emergente classe borghese, che apprezzano una pubblicazione capace
di garantire una comunicazione immediata e distensiva. Sulla rivista piovono giudizi pesanti: gli intellettuali la classificano come un sottoprodotto della cultura di massa; la sinistra la guarda con sospetto; i cattolici l’accusano di stravolgere i valori della morale e di essere un pericolo di corruzione per le donne e i giovani. Eppure il genere ha
Media
successo, confermando la validità dell’intuizione di Cino Del Duca: fare dei fotoromanzi per raccontare storie d’amore con sentimenti semplici e popolari, avendo come punto di riferimento il cinema del dopoguerra che sta attraversando una stagione straordinaria. Nella società italiana è ritornata la 4 democrazia, la donna ha conquistato il diritto di voto, si riaprono le sale da ballo, i teatri, la radio ha ripreso a diffondere trasmissio-
ni d’intrattenimento, anche se le scarse risorse economiche e la disoccupazione rendono la vita difficile per molti. Grand Hotel si assume il compito di offrire sogni e speranze di carta, ma anche di proporre nuovi modelli culturali e di comportamento, perché il fumetto popolare interpreta con contenuti diversi lo stesso desiderio di modernizzazione, di crescita e di libertà del cinema neorealista. Le testate della concorrenza L’enorme successo riportato da Cino del Duca stimola la concorrenza e l’8 marzo 1947 la casa editrice La Novissima pubblica Sogno con il sottotitolo “Settimanale di romanzi d’amore a fotogrammi” e con due racconti intitolati Nel fondo del cuore (cupa vicenda di amori e stupri, nobili e ragazze madri) e Menzogne d’amore (storia di una giovane poverissima che cambia identità, diviene una cantante di successo e sposa un principe). Si tratta di “storie fotografiche” che Stefano Reda crea per mezzo di fotografie poste
51 in sequenza, per cui nasce il fotoromanzo, un nuovo medium dove la donna rimane protagonista virtuosa, onesta, fedele, leale, capace di superare le avversità e gli antagonisti, ma con storie caratterizzate dal realismo del racconto fotografico che richiede una sceneggiatura, una regia e degli attori professionisti. Alcuni attribuiscono a Cesare Zavattini, che lavora nella Mondadori, la prima idea dei “romanzi fotografici”, che arrivano nelle edicole il 23 maggio 1947 con Bolero film, dove lavorano il soggettista-sceneggiatore Luciano Pedrocchi e il giovane Damiano Damiani, poi regista d’importanti film neorealistici come L’isola di Arturo, La noia e Il giorno della civetta. E’ lui a trasferire nella rivista lo stile del cinema neorealista a cominciare dal primo fotoromanzo Catene con un nobile e ricco vedovo che s’innamora della sua governante, che ha avuto un’intensa vita sessuale e che lui sposa ugualmente. E’ soprattutto Il fotoromanzo L’eterna canzone quello più vicino al neorealismo, perché la storia dei due protagonisti (Giovanni e Stella) è legata alle vicende dell’Italia fascista, della Resistenza e dell’arrivo degli Alleati. Del Duca reagisce a queste novità, sostituendo i fumetti con i fotoromanzi, per cui Grand Hotel raggiunge tirature di oltre un milione di copie, diventando un fenomeno di massa che non va sottovalutato, perché riesce a mobilitare circa cinque milioni di lettori che si riconoscono nelle situazioni raccontate e che rimangono fedeli alla rivista anche quando avviene un progressivo accostamento alla realtà per consentire una maggiore identificazione nei personaggi, che non sono più nobili e dame dell’alta società ma operai e impiegate che vivono le problematiche della vita quotidiana. ¤
Non solo editoria produce anche film di registi famosi: Antonioni Pasolini, Risi e Bolognini
Questa pubblicazione è realizzata anche grazie al contributo di:
Storia di un ragazzo di provincia
53
Massi sul red carpet stilista di dive e regine DA ASCOLI ALLA CONQUISTA DEL MONDO DELLA MODA IN USA
P di Franco De Marco
Luigi Massi con la star Angelina Jolie alla quale è legato anche da profonda amicizia
ochi forse lo conoscono, lui non ci tiene a mettersi in mostra, ma è sicuramente uno dei più importanti artisti - perché di vero artista si tratta - contemporanei made in Marche e uno dei più internazionali. Dalla sempre originale, elegante e mozzafiato creatività acquisita dopo anni di studio e di gavetta. Chi è? Luigi Massi da Ascoli Piceno, residente a Milano, 55 anni, punta di diamante dell'Atelier Versace, stilista, incaricato di vestire le dive del cinema e della musica o altre celebrità in occasione di eventi straordinari come la Notte degli Oscar di Hollywood, la Mostra del Cinema di Venezia o di Cannes, i Grammy Awards e via di questo passo. Le sue ultime creazioni sono apparse, suscitando ammirazione e stupore proprio alla recente Mostra internazionale d'arte cinematrografica di Venezia. Massi ha vestito Amal Alamuddin, la bella moglie libanese di George Clooney, con un abito lungo sino ai piedi di chiffon lilla semitrasparente. Sul red carpet ha attirato lo sguardo di tutti. Chiuso nell'Hotel Cipriani, dove alloggiava la coppia supervip, l'artista ascolano ha dato gli ultimi ritocchi alla sua creazione lavorando notte e giorno. Se George Clooney baciando giovanissime fan e sorridendo ai fotografi, è stato il protagonista di sempre, la moglie, grazie a quel vestito calamita di sguardi, è stata altrettanto protagonista. Inoltre ha portato la sua firma anche l'abito, fatto di piume e paillettes, indossato da Donatella Versace sempre a Venezia. Gentile nel tratto e nei modi,
sempre riservato ma disponibile con tutti, molto legato alla città delle cento torri dove si rifugia appena ha un momento libero ma anche per lavorare in tranquillità, particolarmente devoto al santuario di Gimigliano, Luigi Massi è un altro esempio delle Marche talentuose e laboriose che sfornano uomini che poi vanno alla conquista del mondo. Angelina Jolie? «Bellezza particolare. La più sexy. Dolcissima. Ho un debole per lei, lo confesso». Uma Thurman? «Simpatica». Sharon Stone? «Controllatissima». Madonna? «La più antipatica». «Nicole Kidman? «Perfetta. Composta». Lady Gaga? «Artista vera. Molto alla mano». Charlize Theron? «Tranquilla». Naomi Campbell? «Divertente. Volubile». Alessia Marcuzzi? «Una pazza». Michelle Obama (le ha fornito il vestito usato nell'incontro con Matteo Renzi)? «Il protocollo mi ha impedito di vederla. Ho lavorato da lontano». «Che fisico». Altri nomi che hanno brillato con le sue creazioni sono le attrici Jennifer Aniston, Jennifer Lopez e Catherine Zeta-Jones, la cantante Celine Dion, la supermodella russa Irina Shayk, l'altra top model Gigi Hadid o la Regina di Spagna Letizia Ortiz Rocasolano. Luigi Massi non è solo stilista. Lui i vestiti li pensa, li disegna, li taglia, li cuce e li fa indossare. «Non faccio tutto da solo naturalmente - confessa quasi per scusarsi - ma con i miei collaboratori. La grande moda oggi è un lavoro di gruppo. Non è più come un tempo». A proposito, è vero che la moda non esiste più? «Vero. In realtà si può affermare che la moda non esiste più perché
Storia di un ragazzo di provincia
Per Michelle Obama un vestito senza prove: Casa Bianca vietata per motivi di sicurezza
Dall'alto, l'abito realizzato per Michelle Obama e lo stilista con Jennifer Aniston
non esistono più i grandi stilisti che dettavano legge e tutti li seguivano. Oggi si lavora in team e ognuno dà il suo contributo. Ognuno ha il suo stile». Come è nata in lei la passione per la sartoria? «Devo tutto a mia madre (Agostina Marozzi, ndr). Lei aveva il laboratorio in Corso di Sotto ad Ascoli Piceno. Realizzava i vestiti per le famiglie bene della città. Io guardavo e imparavo». Aveva appena 10 anni quando cominciò a tagliare e cucire. «Ho frequentato - continua - il corso per figurinista e modellista all'Enalc. Marisa Tranquilli e Lucia Celani furono le mie bravissime insegnanti. Ho lavorato per due anni da Allieri (ditta di confezioni di Ascoli Piceno, ndr) come modellista». Poi come è finito alla corte di Versace? «Un giorno ho preso coraggio e ho telefonato a Milano: mi fate fare una prova? Andò bene. Sono rimasto 4 mesi. Poi fui assunto. Era il 1987». L'incontro con Gianni Versace gli ha cambiato la vita. «Ha subito creduto in me. dice - Mi ha sempre lasciato molta libertà. Anche con Donatella Versace il rapporto è molto buono ma diverso. Con Gianni c'è stata una grande sintonia. Rimanevamo sino a notte fonda a lavorare. Lui sapeva dare sempre il suggerimento giusto». Perché ha un debole per Angelina Jolie? Che tipo è nel privato? «Con Angelina ho un rapporto confidenziale. E' molto umana». Che cosa chiedono queste attrici famose? «Vogliono fare colpo. Devi interpretare la loro personalità. Si prova e si riprova. Spesso lasciano fare.
54
A volte invece impongono una loro idea. Fanno pure le capricciose e tu devi andare in giro in tutto il mondo per fare le prove. Vogliono valorizzare il loro corpo. La vita. Il seno. Le gambe. E io cerco la soluzione più adatta». Lo stilista ascolano ha realizzato anche il vestito di nozze di Angelina Jolie finito in tutte le riviste del mondo. Un vestito lungo bianco ricoperto da un velo e cesellato da ricami dei disegni dei figli dell'attrice. «Luigi - ha dichiarato l'attrice - è uno di famiglia non avrei potuto immaginare nessun altro a realizzare questo vestito». Una curiosità. Quei ricami sono stati realizzati nelle Marche, a Venarotta, nel laboratorio di Graziano Ricami. Angelina voleva un vestito classico ma con quei disegni. Io li ho dati ai tecnici di Graziano i quali, al computer, li hanno elaborati». Qual è stata la tua più grande soddisfazione nel realizzare un abito? «Tante. Ad esempio quello con gli spilloni di Liz Hurley ex fidanzata di Hugh Grant. Con quel vestito si presentò alla prima del film “Quattro matrimoni e un funerale”. Oppure quello di Lady Gaga tutto scollato o quello di Una Thurman a cavallo per il calendario Campari. O quello verde di Jennifer Lopez simbolo di Google Immagini ». Ti consideri un artista? «In parte artista, in parte artigiano. A 360 gradi. Cerco soprattutto, con le mie creazioni, di interpretare il carattere dei personaggi con cui ho a cre fare. Non è facile». Di sicuro sarà di nuovo a Los Angeles per gli Oscar 2018. ¤
Musica
55
Brancati, tra creatività e tediosa burocrazia PRESIDENTE DEL CONSERVATORIO NEGLI ANNI OTTANTA
A
di Giorgio Girelli
Antonio Brancati presidente del Conservatorio negli anni Ottanta
nche il conservatorio statale “Rossini” è rimasto scosso per la scomparsa di Antonio Brancati, che fu presidente dell’Istituto dal 1983 al 1987, ed avverte sentita vicinanza ai familiari dello studioso. Eppure il “Grande Appuntamento” è il più consueto e prevedibile che l’esistenza possa riservare. La vita è un’eventualità: può sorgere o meno. Ma la morte è il dato più certo che possa esistere. Eppure stupisce, addolora suscitando, come nel caso di Brancati, tanto generale e profondo cordoglio, a qualunque età intervenga. Perchè tra razionalità e sentimento, è il secondo che prevale, distinguendo l’uomo dalla macchina. Su questo personaggio, dalla esistenza tanto intensa, i molti che l’hanno “visto da vicino” hanno offerto il loro documentato ricordo. Mi accodo ad essi, apportando qualche frammento rievocativo . Per alcuni anni a Pesaro fummo vicini di casa e non era infrequente osservarlo dalla strada, anche quando rientravo a tarda ora, chinato sulle sue carte nell’ambiente seminterrato adibito a studio sottostante il suo appartamento. I suoi manuali di storia erano molto accurati ed apprezzati. Riferisce Giorgio Benelli, suo affezionato sodale di studi: “Per ogni pagina c'erano sempre cinque o sei stesure da fare o da rifare.” E nella ricostruzione degli eventi storici emergeva questa esigenza di completezza, avendo egli peraltro il pregio di avvicinarsi il più possibile al presente. Al riguardo, su sua richiesta, avevo il piacere di comunicargli dal Senato gli aggiornamenti sui titolari delle massime Istituzioni della nostra Repubblica.
Si occupò intensamente, come noto, di Terenzio Mamiani, il primo ministro della istruzione dello Stato italiano (a proposito: degnamente allocati in città, a parte i monumenti a Rossini e Garibaldi, i busti di Collenuccio e Cavallotti, nonché la statua di Perticari, non guasterebbe una più accurata evidenza del busto di Mamiani, ora immerso negli alberi che circondano Rocca Costanza). E nella sua acribia non volle privarsi della foto – che gli procurai con premura - di una scultura del personaggio esposta nella prestigiosa sala Koch di Palazzo Madama. La permanenza al Conservatorio “Rossini”, dove comunque il giudizio unanime di impiegati e docenti del tempo era quello di aver avuto a che fare con un “gran signore”, si concluse in maniera un po’ brusca per difficoltà incontrate con gli apparati amministrativi . Molti anni fa egli stesso mi accennò, rievocando le sue dimissioni, che gli erano stati sollevati ostacoli addirittura per spese postali. “Non ne ho voluto più sapere, e me ne sono andato”, specificò con energico movimento delle mani. Anche i rapporti con i Revisori ministeriali dei conti non furono brillanti. A tacere poi della direzione amministrativa dell’Istituto che fu protagonista di un curioso episodio. Brancati era uomo devoto e prima di andare in Conservatorio o nella sua preferita biblioteca “Oliveriana”, si fermava spesso nella chiesetta di San Giacomo, a fianco della sede del Conservatorio, dove un giorno dimenticò talune carte riguardanti i rapporti da lui intrapresi con una tipografia per la stampa del noto testo – sua pregevo-
Musica
Fu una vera e propria impresa la realizzazione di un elegante volume del Conservatorio
56
lissima creatura - sulla storia dell’Istituto. Una pia donna le rinvenne e le consegnò agli uffici che non mancarono di fargli pesare come le procedure relative ad un adempimento dell’Istituto dovevano seguire canali determinati e non rapporti diretti. Eterno conflitto tra intellettualità creativa ed operosa, e burocrazia ligia alle direttive del “superiore ministero”. Specie allora, mentre ora il Conservatorio è apparato certamente statale, ma non è più entità gerarchicamente subordinata a Roma e le nuove leve dei direttori amministrativi sono ottimi consiglieri che collaborano al superamento delle difficoltà, che anche oggi non mancano. Questa insofferente incompatibilità tra creatività e burocrazia, allora emersa, traspare anche nella rievocazione che Brancati svolge sui sette anni di direzione dell’allora liceo Rossini affidata a Mascagni sui quali lo scrittore, credo non a caso, nel suo volume si sofferma parecchio, con accenti solidali verso il “toscanaccio di Livorno”. A proposito del quale sostiene che “non venne da tutti ben capito per le sue audaci iniziative, per il suo rifiuto dei pudori provinciali e spesso tirannici, per le sue aperte ribellioni alle accademiche prudenze ed alle pedanterie protocollari”. Mentre ne esalta, giustamente, i meriti artistici rilevando che la scuola “con Mascagni venne a poco a poco trasformandosi in un grande centro artistico musicale anche grazie all’orchestra da lui voluta e guidata a mietere successi in Italia ed all’estero ma soprattutto in virtù della struttura assunta dal liceo che, elevato ad altissima fama, aveva il suo momento culminante
negli affollatissimi saggi e nei concerti di fine anno dallo stesso Mascagni organizzati e diretti”. Vera e propria impresa fu anche la redazione dell’elegante libro sul conservatorio, da lui curato senza chiedere alcun onorario. Il compimento dell’opera non ebbe vita facile. “Vennero a sovrapporsi – puntualizza Brancati nella prefazione - ostacoli di ogni genere frutto spesso di una visione ristretta dei problemi intrinseci all’atto creativo ed alla sua traduzione in realtà tipografica. Può anche verificarsi che i responsabili della edizione vivano momenti di scoraggiamento e di sconforto ai quali è possibile sfuggire solo se si ha la convinzione della piena validità del lavoro compiuto e del progetto ideati”. Più avanti lo storico aggiunge: “Quando l’attività redazionale era da poco iniziata lo scrivente si vide costretto per ragioni del tutto personali (le difficoltà incontrate con gli apparati amministrativi) a presentare al Ministero le proprie irrevocabili dimissioni. E a quel punto restavano ormai ben poche speranze di tradurre in realtà il piano operativo”. “Eppure conclude Brancati - l’idea di riprenderlo non tardò a rifarsi in me viva e pressante al punto da indurmi a stabilire nuovi contatti con alcuni docenti che sin dal tempo delle mie dimissioni non avevano fatto mistero di essere disposti a svolgere anche i lavori iniziati da colleghi dichiaratisi poi indisponibili ”. E così venne finalmente alla luce, dopo alterne vicende durate una decina d’anni, l’unico volume, al momento, che ripercorre in modo organico la storia, dal 1882 al 1992, del conservatorio pesarese. ¤
Il personaggio controverso
57
Vannicola, tante “vite” tra estro ed eccessi UN SECOLO FA MORIVA IL POLIEDRICO PERSONAGGIO
“B di Giovanni Martinelli
Ritratto di Olga de Lichniski la nobildonna russo-polacca grande amore di Giuseppe Vannicola
isogna vivere più di una vita! spingere fino alla passione la curiosità di tutte le emozioni, moltiplicare ed esagerare se stesso e il mondo. Non più essere o non essere, ma essere e non essere, cioè essere e parere, vivere la propria vita e la propria leggenda”. Sono le parole che Giuseppe Vannicola (con l’accento sulla “i” come lui teneva a precisare) musicista, poeta, critico, editore, traduttore, giornalista, ripeteva spesso. E la sua vita, brevissima, che a raccontarsi sembrerebbe un romanzo, fu all’insegna della sfrenata ricerca della esagerazione, dell’estetica sublime, del narcisismo eccentrico, che ne fecero uno degli intellettuali più vivaci del primo ‘900. Proprio per questo, forse, fu presto dannato. Quindi dimenticato. “Fu in Italia – scrisse nel suo ricordo Giovanni Papini – un po’ in ritardo, l’unico letterato che ricordasse il tipo francese – tra il dandy e il bohémien, tra l’incurabile e l’eccentrico – che s’incarna in Baudelaire e Verlaine. Uomini di caffè e d’ospedale – ma che hanno dato tanta di quella nuova poesia che ci vorranno cento milioni di normali a capirne soltanto la lettera”. Nato a Montegiorgio il 18 novembre 1876 da un ex ufficiale dell’esercito pontificio, a pochi anni si trasferì con la famiglia a Roma. Sin da piccolo era spinto verso tutto ciò che era arte e creatività. Ebbe particolare talento naturale per la musica, che fu la prima delle sue vite. Studiò violino prima al Santa Cecilia a Roma, fu poi ammesso all’ultimo anno senza esami, al prestigioso Conservatorio di
San Pietro a Maiella di Napoli. Nel 1896, a pochi mesi dal diploma, improvvisamente, decise di smettere di studiare e di andare a Parigi, seguendo il pittore Lionello Balestrieri, altro spirito bohémien, che ci lascerà l’unica testimonianza visiva di questa “prima vita”, una grande e famosa tela (“Beethoven”) conservata oggi al Museo Revoltella di Trieste, realizzata per l’esposizione mondiale di Parigi, che ritrae, anzi “fotografa” una delle tante sere in una soffitta di Montmartre mentre Vannicola esegue con la solita irruenza, fra sconcerto e disattenzione degli amici, la “Sonata a Kreutzer”. Nella capitale francese Vannicola iniziò, poco più che ventenne, la sua “seconda vita”, quella che lascerà maggiori tracce nella sua esistenza. Frequentò gli ambienti dell’avanguardia, con un arricchimento culturale (parlò di un suo incontro con Oscar Wilde, fu in relazione con André Gide con il quale avviò un felice sodalizio scandito da incontri e momenti culturali fino alla fine) ma anche con uno stile di vita dedito all’eccesso, all’alcol, al fumo. La musica è il grido terribile e supplicante che si leva dai luoghi profondi dell’abisso. La scala è il simbolo della sua ascensione, una scala infinibile che non ha inizio né fine scriveva, esaltando il suo virtuosismo esecutivo scarsamente compreso dagli amici parigini per i quali si esibiva ogni sera, fra fumo, alcol, assenzio. Le frequentazioni furono feconde per la sua crescita culturale. Non solo partecipò, ma divenne parte di quell’ambiente della trasgressione intellettuale parigina fin de siecle.
Il personaggio controverso
Musicista, poeta critico, editore e traduttore era spinto verso tutto ciò che era arte e creatività
Sopra, copertina del "De Profundis" scritta da Vannicola Nella pagina a fianco la tela "Sonata a Kreutzer" di L. Balestrieri
Non poteva non distinguersi per gli eccessi, gli entusiasmi oltre misura. Che non lo abbandonarono nemmeno nella prima storia con una donna, Claudia, che ben presto si trasformò in una torbida passione di sensi e non l’amore che lui cercava come rifugio quasi adolescenziale dalla crudezza della vita reale. Questa delusione lo portò a una crisi mistica che, nel 1899, gli fece lasciare Parigi per chiudersi nell’Abbazia di Montecassino, deciso a prendere i voti. Forse anche quella scelta improvvisa va letta come prova di un io straripante alla continua ricerca di esagerazione. Questa “terza vita” fu breve, brevissima. Dopo appena pochi mesi, prima ancora di concludere il postulandato, fuggì dal convento: la sua vita doveva essere un’altra, una vita lontano da silenzi e meditazione. Non era l’ascetismo conventuale ad attrarlo ma la liturgia benedettina così piena di “profumi, fiori, canti, armonie”. Seguì la sua passione, il violino: avrebbe voluto fare il concertista, bramoso com’era d’improvvisazione, un modo per anteporre il suo talento alla composizione, ma cercò anche una sistemazione che gli garantisse uno stipendio. Trasferitosi a Milano entrò nell’Orchestra del Teatro alla Scala, dove fu anche prima parte. Anche a Milano frequentò i salotti culturali: spesso deliziava le pause delle nostre notti consacrate allo spiritismo con delle inebrianti cavate del suo magistrale violino scrisse Filippo Tommaso Marinetti, che lo definì “artista troppo ispirato per poter fissare in qualche modo la sua ispirazione, ultimo boheme di ante guerra”. Qualche tempo prima aveva conosciuto sul lago di Como il grande amore della sua vita (eravate bella, bella, bella, spiritualizzata in una pallidez-
58
za profonda di malattia e di languore), la donna che in un certo senso stabilì lo spartiacque della sua esistenza, che lo convinse a lasciare definitivamente la musica (fra l’altro si manifestavano i primi seri sintomi di una poliartrite cronica deformante), Olga de Lichniski, ricca e colta nobildonna russo-polacca, in fuga da un marito vecchio e brutale, affetta da “mal sottile”, alla ricerca anche lei di una passione dopo la delusione del matrimonio. Si incontrarono spiritualmente più che fisicamente, ognuno attratto dalla fragilità dell’altro, dalle ricerca di emozioni, della sublimazione del vero sentimento. La coppia di innamorati aveva successo a Milano sia per lo charme di lei sia per il talento musicale di lui; erano nel giro dei letterati europei che ruotava attorno alla redazione della sontuosa rivista “Poesia” scrisse Giovanni Papini. Fu la de Lichiski, amante della poesia, scrittrice e critica, a spingerlo verso la letteratura
Il personaggio controverso
facendogli rifiutare le ultime interessanti proposte concertistiche. Nel 1904 la coppia si trasferì a Firenze, dove Vannicola fondò la Revue du Nord, raffinata rivista redatta in francese, che ebbe come collaboratori i giovani Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, Giovanni Amendola e per i tipi della quale uscirono veri capolavori d’eleganza. Anche a Firenze il salotto musicale-letterario di Vannicola fu al centro delle attenzioni. La coppia riceveva gli amici “in comunione di musica” in un salone che era “tutto una sinfonia di ori e biancori”. Grazie alle risorse garantite dalla sua musa, quello fiorentino fu il periodo più intenso e creativo della vita di Vannicola. Pubblicò Il Trittico della Vergine, Sonata Patetica, sorta di autobiografia che Papini definì specchio di un’anima, un’anima modernissima, ricca di sensibilità e di analisi. Collaborò a varie riviste, fondò Prose (uscirà nel 1907, proponendo la prima traduzione
della Ballad of Reading Gaol di Oscar Wilde) che ebbe vita breve come tante iniziative culturali del tempo. Scrisse ancora De profundis, l’opera teatrale Elsa l’abbandonata. Collaborò con riviste e periodici (L’Alba, Il Regno, Leonardo, La Voce, l’Acerba e altre ancora) curando soprattutto la critica musicale (si occupò di musica sacra, schierandosi a favore del motu proprio di Pio X del 1903 per la reintroduzione del gregoriano nella liturgia). Durò poco anche il periodo fiorentino. Nel maggio 1905 si trasferì a Roma. Affetto da sifilide e da artrosi deformante, smise definitivamente di suonare il violino. Entrò nel cenacolo del giovane poeta Sergio Corazzini, e per un certo periodo influenzò l’avanguardia romana. Ma la prima parte della tragedia finale stava per consumarsi. Non furono chiare le vicende che portarono alla espropriazione in Russia dei beni della de Lichniski e alla conseguente indigenza per la
59
A Parigi visse la sua “seconda vita” entrò nell'ambiente della trasgressione intellettuale fin de siecle
Il personaggio controverso
Sul lago di Como incontrò il grande amore della sua vita una nobildonna russo-polacca amante della poesia
Sopra, la locandina del convegno organizzato dall'Università di Macerata e dalla città natale di Montegiorgio per i cento anni della morte del poliedrico personaggio Nella pagina a fianco Vannicola ritratto da Oscar Ghiglia
coppia. Non fu chiaro nemmeno il perché la donna lo abbandonasse, anche se questo avvenne, nella sublimazione del sacrificio d’amore, per non essere d’intralcio al suo uomo, pesargli, viste le sue condizioni fisiche e l’ormai indigente stato finanziario, pesargli con il suo male e la sua povertà. Così ebbe fine una straordinaria storia d’amore: Olga si ritirò in un convento di clausura dove morì nel 1919. Negli anni che seguirono si scambiarono appena qualche lettera. Da quel momento la vita del Vannicola, l’ultima delle “tante vite” di questo dandy decadente, si divise fra alberghi non pagati, piccole collaborazioni giornalistiche e letterarie garantitegli dagli ultimi amici, ricoveri e uscite frequenti da ospedali e sanatori, costretto per lenire il dolore fisico a un utilizzo sfrenato di alcol e morfina. Del suo aspetto ha scritto Alberto Viviani: con la figura curva e incerta nel passo, con i capelli tutti bianchi, impossibilitato a stendersi sul letto, condannato a non poter dormire. Pareva un vecchio di settanta anni. E non ne aveva che poco più di trenta! Eppure – racconta il poeta Arturo Onofri ne In memoriam, 1923 – “in quell’uomo invecchiato anzi tempo, dalle gote scarnite e accuratamente rase, dalle mani ancor belle e memori d’altri tempi, quand’esse facevano parlare un violino che mi dicono meraviglioso sotto quelle dita; c’era in quell’uomo alcunchè di docile, e insieme di sconcertante, quasi un’affettuosa ironia”. Provò a risollevarsi con le cure termali. Visse ad Albano, forse cercando nel buon clima e nella tranquillità di quel paesaggio una rinascita sia fisica sia creativa. Andò a Parigi, quasi un addio al mondo che tanto aveva amato, per incontrare Gide, che lo ricevette più per cortesia e compassione che altro. Riprese a tradurre per tirar su da vivere. Viaggiò an-
60 cora tra Milano e Roma. Dopo un lungo ricovero al Policlinico romano nel 1911 “ricomparve a Firenze, più curvo e magro di prima” dove “gli amici fecero per lui tutto quel ch’era possibile”. Fondò e diresse dall’editore Baldoni Prose, raccolta monografica di traduzioni di scrittori la cui arte si rifiuta di disseccare nell’erbolario delle catalogazioni. Da Baldoni nel 1912 pubblicò Il Veleno. “Ma ormai più che un uomo era una rovina (…) beveva: come bevono molti che non hanno le ragioni per volersi scordare del tutto perduto”. Alle Giubbe Rosse lo vedevano tristemente a fianco della Nino, sinuosa e trasgressiva ballerina russa come lui dedita all’alcol. Eppure era sempre “signore e gentleman, anche nei vestiti e nel modo di fare, fino all’ultimo seppe dare uno stile anche alla sua degradazione”. Al riacutizzarsi della malattia, non avendo disponibilità finanziarie per il suo ricovero gli amici fiorentini, Papini in particolare, nell’autunno del 1913 riuscirono a farlo “assumere” come segretario dalla Colonia Arnaldi di Uscio. Costretto a regimi alimentari ferrei, senza sigarette, senza alcol, Vannicola fuggì anche da quella prigione verde per signore stitiche, grasse e antialcoliche per tornarsene a Firenze. Nel 1914, allo scoppio della guerra, è a Roma. Non si estraniò dalla querelle guerra sì-guerra no, assumendo posizioni interventiste. A inizio 1915 si trasferì a Napoli per iniziare una collaborazione con Il Mattino che gli avrebbe garantito di che vivere. I suoi articoli “abbastanza letti e ben retribuiti” venivano pagati a fine mese, ma a fine mese lui non arrivava mai, come si legge in una lettera scritta “marchigianamente” da Napoli il 14 aprile 1915 al pittore Adolfo De Carolis (a quel tempo impegnato nella deco-
Il personaggio controverso
razione del palazzo del Podestà a Bologna, che pochi mesi prima aveva illustrato per l’editore genovese Formiggini la tradizione vannicoliana de Il fantasma di Canterville e Il delitto di Lord Savile di O. Wilde) per aiutarlo “a sbarcare la fine del mese, e per ciò di una cosa modesta”. Vannicola a Napoli visse d’improvviso l’ultimo sogno. In quegli anni a Capri passava il mondo. Nella sua villa di Anacapri, il giovane intellettuale svizzero Gilbert Clavel, figlio di un ricco uomo d’affari, ospitava costantemente i maggiori esponenti del panorama culturale del tempo, anche personaggi vicini a Vannicola. Qualcuno di questi, forse, lo raccomandò per una collaborazione o per un progetto editoriale. Fiaccato nel fisico ma non nella volontà, Vannicola aspettò con ansia l’appuntamento con Clavel. Ma quel 9 agosto 1915, dopo una lunga attesa, l’incontro non ci fu. Con garbo un domestico lo accommiatò, sembra allungandogli una mancia che lui, con dignità, rifiutò. La mattina dopo i pescato-
ri rinvennero sugli scogli di Anacapri il suo cadavere. Vestiva elegantemente di bianco, da dandy decadente. Morì randagio di molte malattie e di povertà irrimediabile. Ci fu chi non credette alla tesi del suicidio. Del resto tempo prima aveva scritto ad un amico: “non sarò neppure io che abbandono la vita, la vita che adoro morbosamente freneticamente anche da questo letto di dolori, ma sarà la vita che mi abbandonerà, amante deliziosa e crudele, ai cui capricci non bisogna tenere il broncio”. Per questo, dissero, fu probabilmente vittima di un cocktail eccessivo di medicinali e alcol. Così la tesi del suicidio nel necrologio de Il Mattino: “suicidio? Forse. Ma proprio il dubbio che rimane e rimarrà sempre su quella morte è l’ultimo magistrale tocco dato dalla sorte al dramma della vita del Vannicola”. Il dramma esistenziale, le “tante vite” di questo tenero Pulcinella, nodoso come un ceppo, amoroso come un pàmpino come lo definì Gide, era finito. ¤
61
Simbolo dell'esagerazione Misteriosa anche la sua morte Trovato sugli scogli di Anacapri Suicidio o malore?
La storia
62
LE CENTO CITTA’ Associazione per le Marche Fondata nel 1995 “L’Associazione si pone lo scopo di promuovere e coordinare studi ed azioni finalizzati a rafforzare l’identità culturale della Regione Marche e a favorirne lo sviluppo economico e sociale attraverso la conoscenza e la valorizzazione delle realtà esistenti, il recupero e la tutela del passato, la collaborazione tra soggetti pubblici e privati, la partecipazione al dialogo culturale interregionale ed europeo, nonché con le comunità marchigiane all’estero.” (Art.3 dello Statuto)
Presidenti
Giovanni Danieli
(marzo 1995 – dicembre 1996)
Catervo Cangiotti
(gennaio 1996 – dicembre 1997)
Folco Di Santo
(gennaio 1998 – dicembre 1999)
Alberto Berardi
(gennaio 2000 – dicembre 2001)
Evio Hermas Ercoli
(gennaio 2002 – dicembre 2003)
Mario Canti
(gennaio 2004 – luglio 2005)
Enrico Paciaroni
(agosto 2005 – dicembre 2006)
Tullio Tonnini
(gennaio 2007 – dicembre 2007)
Bruno Brandoni
(gennaio 2008 – luglio 2008)
Alberto Pellegrino
(agosto 2008 – luglio 2009)
Walter Scotucci
(agosto 2009 – luglio 2010)
Maria Luisa Polichetti (agosto 2010 – luglio 2011)
Ettore Franca
(agosto 2011 – luglio 2012)
Natale Frega
(agosto 2012 – luglio 2013)
Maurizio Cinelli
(agosto 2013 – luglio 2014)
Giovanni Danieli
(agosto 2014 – luglio 2015)
Luciano Capodaglio
(agosto 2015 – luglio 2016)
Marco Belogi
(agosto 2016 – luglio 2017)
Le Cento Città Direttore responsabile Franco Elisei Direttore editoriale Maurizio Cinelli Comitato editoriale Fabio Brisighelli Mara Silvestrini Alberto Pellegrino Silvia Vespasiani Giordano Pierlorenzi Direzione, redazione amministrazione Associazione Le Cento Città redazionecentocitta@ gmail.com
Progetto grafico Poliarte Accademia di design Ancona Coordinamento progetto grafico e impaginazione Prof. Sergio Giantomassi Stampa Errebi Grafiche Ripesi Falconara M.ma Presidente Le Cento Città Giorgio Rossi
Sede Via Asiago 12 60124, Ancona Poste Italiane Spa spedizione in abbonamento postale 70% CN AN Reg. del Tribunale di Ancona n.20 del 10/7/1995
52
60|2017
Sped. in a.p. - 70% - Filiale di Ancona
Rivista di divulgazione culturale e artistica del territorio marchigiano
ARTE | STORIA | ARCHEOLOGIA | LETTERATURA | SOCIETÀ | MUSICA | SCIENZE
Giorgio Rossi Franco Elisei Fabio Brisighelli Claudio Sargenti Paola Cimarelli Maurizio Cinelli Lella Mazzoli Giorgio Zanchini Luigi Benelli Giordano Pierlorenzi Alessandro Bettini Dante Trebbi Dino Zacchilli Alberto Pellegrino Franco De Marco Giorgio Girelli Giovanni Martinelli
“GOOD ECONOMY”
Il design salverà
NUMERO 60 | 2017
l’impresa
Il personaggio Menichelli: giovani cambiate la storia
Sociale Il mutuo soccorso nelle Marche
L’evento Sassoferrato celebra il suo Salvi
A PAGINA 7
A PAGINA 19
A PAGINA 27
Illustrazione di Sergio Giantomassi
NUMERO
60|2017
SETTEMBRE