Rivista di divulgazione culturale e artistica del territorio marchigiano | Sped. in a.p. - 70% - Filiale di Ancona
ISSN 1127-5871
ARTE | STORIA | ARCHEOLOGIA | LETTERATURA | SOCIETÀ | MUSICA | SCIENZE
Sotto il segno
dell’albero
NUMERO
76|2022 APRILE
Preludio
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“Vengo dal mare e i miei alberi non hanno radici e non sono mai verdi ma trasmettono libertà e luce”
La pittura ha inventato molte forme per rappresentare l’albero ma anche l’albero è servito alla pittura alla poesia e alla fotografia
Il legame tra gli alberi e l’umanità si perde nella notte dei tempi L’albero è il principe della terra per popolarità, solidità e fertilità
Non vi è cultura che non l’abbia esaltato e nelle tre grandi religioni monoteiste l’albero occupa sempre una posizione di rilievo e anche un significato sacro
Editoriale
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L’editoriale
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Dalla disperazione può nascere la risalita
G di Fernando Piazzolla Presidente de Le Cento Città
Quando sembra di aver toccato il fondo arrivano la speranza e la capacità di rifare progetti bloccati dall’insorgere della pandemia
iunto ad un punto piuttosto avanzato della mia presidenza di “Le Centocittà” -a cui mi sono dedicato con passione, data l’alta qualità dell’associazione e il forte vincolo di solidarietà che unisce i suoi membri, tutti permeati dall’amore per il nostro territorio e la sua civiltà – mi sento in dovere di esprimere alcune riflessioni, da condividere con i lettori di questa nostra preziosa rivista. La mia presidenza è stata attraversata dalle terribili e nefaste vicende dell’emergenza Covid. Il nostro piccolo territorio, portatore di una civilissima medietà e di una mirabile corrispondenza tra paesaggi e stato d’animo, è stato travolto da una sciagura planetaria, che ha devastato la nostra popolazione non solo nel corpo, ma nello spirito. Una delle più importanti caratteristiche dell’essere umano è la capacità di fare progetti, di programmare, proponendosi di volta in volta piccoli o grandi obiettivi. La capacità di fare progetti è allo stesso tempo sorgente e misura di vita. Orbene l’avvento del Covid ha inciso profondamente su tale capacità, impedendoci di proiettarci nel tempo. E’ vero che la precarietà, a seguito delle mutazioni antropologiche dovute ad una società “liquida”, dove tutto si consuma all’istante, era già pressochè una condizione di vita prima dell’avvento del Covid, ma è anche vero che quest’ultimo l’ha accresciuta a dismisura. Un oscuro senso di incertezza e di fragilità si è impadronito di noi e presiede ai nostri
giorni. Nella nostra associazione, il programma che era stato presentato con tanta voglia di rivedersi e stare insieme nella dimensione della gita, che evoca ricordi di una tenerissima fanciullezza, è stato stravolto dall’impatto con il mostro Covid, mai realmente debellato e distrutto. Così di quelle iniziative, che avevamo programmato in presenza dopo l’assemblea di dicembre 2021 e la festosa riunione conviviale che ne è seguita, una la conferenza del dott. Michele Polverari sul celebre quadro del Podesti del 1825, il ritratto dei marchesi Brusca, acquistato recentemente dal Comune di Ancona, si è realizzata solo nei giorni scorsi, le altre sono state trasformate finora in videoconferenza, con l’aggiunta di quella sulle Marche misteriose e romantiche, tenuta in modo impareggiabile dalla giornalista e scrittrice Chiara Giacobelli. E’ chiaro che con la video conferenza si perde molto in termini di comunicazione, interazione con il pubblico, suggestione, effetti rispetto alla conferenza in presenza, e anche la platea dei partecipanti è più ristretta, ma questa era l’unica possibilità che ci era rimasta. Sembra adesso che la situazione stia in qualche modo e per quanto possibile migliorando, e si è accesa la fiaccola della speranza di poter effettuare in presenza le iniziative già programmate. Certo è una speranza, ma è proprio dalla disperazione, quando sembra di aver toccato il fondo, che nasce la speranza, l’impulso, lo stimolo, la voglia di risalire. ¤
Il punto
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Ci vuole un albero… e nuovi segni di pace
C di Franco Elisei Direttore de Le Cento Città
i vuole un albero…Sì ci vogliono tutte le simbologie legate alla sua natura, ai suoi valori di vita, di rinascita continua, di forza, resilienza, di elasticità e di saggezza. Simboli usati a piene mani dall’arte, dalla letteratura e anche dalla religione. E proprio all’albero, al suo segno e ai suoi significati abbiamo voluto offrire il “cuore” di questo numero della rivista, partendo dal tratto di Guido Armeni, artista falconarese d’adozione, che ha scelto l’albero come sua firma, suo simbolo identificativo. Sono alberi, i suoi, mai verdi, esili e con una fronda vaporosa, ma a differenza di ogni altra interpre-
Messaggi di speranza e contro la guerra scritti e disegnati da un bambino su tre in tante letterine consegnate all’Unicef di Pesaro tazione, emergono dal mare, pescano con le radici in acque sfumate ma mantengono gli stessi valori di sempre: sono simboli di vita, trasmettono serenità, sicurezza e resistenza, allungati tra la terra e il cielo. Angoli di ristoro e rifugio che dispensano fresco nell’ombra e caldo nel fuoco. Da sempre. Utilizzati anche nelle rappresentazioni genealogiche delle famiglie. Ogni varietà possiede un proprio significato, dalla quercia al mandorlo, dal melograno fino all’ulivo, da sempre segno di pace. Un segno
che abbiamo visto sfuggire tra le mani proprio in questi ultimi tempi per lasciare spazio a una guerra disumana per sua stessa essenza. Pace e democrazia, vorremmo usare queste parole dal valore positivo per descrivere la lotta alla guerra e alla morte, perché non c’è giustificazione alla distruzione di vite umane. Non è retorica invocare la pace in ogni luogo, non è retorica parlare di democrazia intesa come tolleranza, dialogo e sovranità popolare basata su regole condivise. L’indifferenza causerebbe un’altra morte, quella civile. Del desiderio di pace scrivono anche i bambini. Nel corso di una lodevole iniziativa del Comitato di Pesaro dell’Unicef sono emersi i loro desideri, i loro sogni. Ebbene, un bimbo su tre anela alla pace. “Vorrei che finisse la guerra in tutto il mondo – scrive nella letterina Giovanni – così che ritorni la pace”. Lo stesso augurio lo lanciano Elisa, Anna, Martina, Carolina e tantissimi altri bimbi. “Da grande – azzarda un altro – vorrei diventare un architetto e il mio sogno è di far finire la guerra e la povertà”. Un futuro architetto di pace. Tutti hanno avuto un pensiero anche contro la disuguaglianza nel mondo. E’ un forte messaggio di speranza quello lanciato da Pesaro, da piccole pigotte viventi di fronte a una realtà terrificante da accettare. Una realtà che ha spezzato sogni e giochi di troppi bambini in Ucraina. Immagini terribili a cui si contrappone la frase piena di energia e speranza scritta da Filippo nella sua letterina. Tre semplici ma fortissime parole: “Ragazzi, non scoraggiatevi”. ¤
Argomenti
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Sommario 10
A settecento anni dalla nascita
Il genio di Sisto V “er Papa tosto” Riformò l’Urbe e migliorò la Chiesa DI FABIO MARIANO
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Mezzo secolo e 40 anni fa
Sisma e frana, tragedie che scuotono Ancona DI CLAUDIO SARGENTI
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La lirica
Tebaldi, ineguagliabile voce del Paradiso DI FABIO BRISIGHELLI
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Marchigiani nel mondo
Nuova vita in Canada una scelta di famiglia DI PAOLA CIMARELLI
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Il riconoscimento
La natura della cultura Una sfida verso il futuro DI ELISABETTA MARSIGLI
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Il dono
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La mostra | 1
Un’opera di Piattella a Pesaro capitale 2024
Rembrandt, l’incisore archetipo dei selfie DI LUIGI BENELLI
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La mostra | 2
I temi raffaelleschi animano le incisioni DI LUIGI BENELLI
Argomenti
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Sommario 36
Il segno
Io artista per un tubetto a olio color bianco DI WALTER VALENTINI
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L’artista | 1
Gli alberi mai verdi di Armeni quasi sospesi nel mare indefinito DI FEDERICA FACCHINI
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L’artista | 2
L’albero è la sua firma Il mare la sua passione DI FRANCO ELISEI
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La pubblicazione
Da Giotto a Steinberg l’albero nell’arte DI FRANCO DE MARCO
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L’esegesi
Ecco, l'albero sono io mio essere e non essere DI GIORDANO PIERLORENZI
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La psicologia
Il disegno dell’albero svela la personalità DI CATIA MENGUCCI
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I testi sacri
L’albero nelle religioni simbolo di spiritualità DI CLAUDIO DESIDERI
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La fotografia
L’albero per immagini affascinante presenza DI ALBERTO PELLEGRINO
Argomenti
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Sommario 61
Il paesaggio in rima
Le verdi cattedrali ispirano anche i poeti DI ALBERTO PELLEGRINO
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Miti e leggende
Lauro, simbolo di gloria e immortalità poetica DI MARCO BELOGI
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La collezione
Bucci col notes di rame per le strade di Parigi DI GRAZIA CALLEGARI
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Scrutando in biblioteca
Omaggio d’amore in un codice a cuore DI ELISABETTA MARSIGLI
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L’analisi
Il “Palio” delle pensioni nonni contro nipoti DI MAURIZIO CINELLI
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Punti di vista
Il Covid ci ha incrinato il delirio d’onnipotenza DI LEONARDO SCORCELLETTI
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Racconti della memoria | 1
I rituali e le invocazioni contro guerra e calamità DI MARCO BELOGI
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Racconti della memoria | 2
Io bimbo vidi l’aereo sopra di me mitragliare DI SALVATORE TOMEI
A settecento anni dalla nascita
F di Fabio Mariano
elice Peretti vedeva la luce il 13 dicembre 1521 a Grottammare in quel tempo facente parte della diocesi e dello Stato di Fermo) da una famiglia originaria di Montalto Marche, proprio nel luogo dove fu poi eretta dalla sorella Camilla Peretti la chiesetta dedicata a S. Lucia (die natalis di Felice), visibile dall’autostrada A14 prima della sottostante galleria, che sembra salutare i viaggiatori diretti a sud. È vero che Felice fosse di umilissime origini e che da fanciullo badasse a pecore e maiali, e neanche disdegna-
va parlarne. Compiuti i dieci anni fu mandato a Montalto dove lo zio, fra Salvatore Ricci, gli insegnò i primi rudimenti di scrittura, lettura e del far di conto. Acceso da precoce vocazione a dodici anni vestì l’abito francescano e, dopo aver superato brillantemente la prima fase di studi, si trasferì a Fermo per frequentare l’università e laurearsi in Teologia. Ottenne quindi il ruolo di superiore di diversi conventi, fu membro della Commissione della Riforma tridentina, inflessibile inquisitore a Venezia, fu nominato prima Vescovo poi Cardinale nel 1570
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Il genio di Sisto V “er Papa tosto” Riformò l’Urbe e migliorò la Chiesa FELICE PERETTI NACQUE NEL 1521 A GROTTAMMARE DA FAMIGLIA UMILE E A SOLI DODICI ANNI VESTÌ L’ABITO FRANCESCANO FU NOMINATO PONTEFICE NEL 1585 E FECE DELLA CONCRETEZZA LA SUA VITA
Sintetizzare in poche pagine la frenetica ma efficace operatività di questo monumento vivente alla concretezza picena è davvero compito arduo e scoraggiante. Erudito, severo, scaltro, determinato, concreto, irruento, geniale e, infine: moderno: questi gli epiteti fra i più calzanti che emergono dalle cronache e dai giudizi dei suoi contemporanei. Da Pio V fu eletto cardinale col titolo di S. Simone Profeta (poi subito mutato in S. Girolamo degli Schiavoni, protettore suo e della comunità dalmata romana, per la quale fece edificare da Martino
Longhi sr. un nuovo tempio eponimo a Ripetta) papa Pio dovette concedergli il “piatto” di 1200 scudi riservato ai cardinali poveri, poi revocatogli da Gregorio XIII. Da questa dura condizione di partenza, forse elaborò con abilità ogni possibile strumento per ottenere le forze finanziarie utili a perseguire i suoi grandiosi progetti, da cardinale e poi da pontefice. Sin dal 1575 era riuscito ad acquistare dei terreni rurali disabitati sull’Esquilino, presso l’amata Basilica di S. Maria Maggiore, dove si fece edificare dal suo architetto Domenico Fontana (Melide
1543-Roma 1607) il primo nucleo della sua Villa Montalto, col Casino Felice e l’ampio parco all’italiana su schemi stellari disegnati da cipressi, adornato di peschiere e fontane. Con successivi 17 acquisti (1575-1590) ne fece la più grande villa romana infra moenia (circa 215 ha.), e fece quindi del quartiere e soprattutto della basilica mariana - l’epicentro “reale e simbolico”, propulsore del suo grande progetto urbanistico di ampliamento e rinnovamento della “Roma Felix” che, mai come allora – per modernità urbanistica - risorse in
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Erudito, severo scaltro, determinato irruento e moderno In cinque anni mise in atto innumerevoli progetti
Nella pagina precedente incoronazione di Sisto V in Piazza S.Pietro. Sopra, Roma in syderis formam,G.F. Bordino, le opere romane di Sisto V, G.Pinadello 1589 In alto a destra, ritratto di Sisto V Sotto, Fontana dell'Acqua Felice, 1587
concreto come Caput Mundi: prima configurazione funzionale di città capitale della cristianità intesa come autorevole centro di calamitazione sia religioso che politico. Forse proprio nell’isolamento sereno della sua amena dimora esquilina, dove non disdegnava i lavori agricoli, nei quattro anni appartati nel pontificato di Gregorio XIII, a lui sfavorevole, prefigurò in dettaglio il suo grande piano di riforma dell’Urbe e di riorganizzazione della Chiesa, che altrimenti non avrebbe potuto partire con tanta lucida speditezza, come in effetti fece, sin dai primi giorni del suo pontificato. Eloquenti appaiono le implicazioni simboliche del piano urbano sistino per Roma: dove s’individua la matrice stellare degli assi viari, irraggianti dalla basilica mariana (tempio della Maris Stella), posta al centro dei tre colli (Esquilino, Quirinale e Viminale: il “trimonzio”) verso i poli basilicali, le costellazioni, del pellegrinaggio delle Sette Chiese (allora rinvigorito da S. Filippo Neri). Si dirigevano verso S. Giovanni in Laterano, S. Lorenzo fuori le Mura, S. Croce in Gerusalemme, S. Maria del Popolo (elevata a basilica al posto della troppo periferica S. Sebastiano) e la Colonna Traiana al Foro, poli ben evidenziati nell’incisione del Bordino (Roma ad syderis formam). Al valore simbolico si affiancava quello pratico della notevole riduzione, di almeno un quarto, dei tempi di pellegrinaggio. All’interno del suo smisurato progetto di sviluppo policentrico dell’Urbe, il primo essenziale provvedimento del papa dopo l’elezione fu l’adduzione di un nuovo acquedotto a servizio dei vasti terreni alti e disabitati dei tre colli prescelti, per loro posizione allora non forniti dall’acqua del Tevere o dai vecchi acquedotti romani, pensato sia per il comodo dei pellegrini sia per calami-
12 tarvi lo sviluppo residenziale ed alberghiero. L’Aqua Felix, che pescava nei terreni dei Colonna di Palestrina dai quali Sisto acquistò il vecchio acquedotto di Alessandro Severo, si concludeva in città con la Mostra del Fontanone di Mosè, sull’Esquilino a Termini (1587), che fu opera architettonica del Fontana ed idraulica di Matteo Bertolini di Castello e del fratello Giovanni Fontana; non mancando di servire d’acqua pura anche i condotti della papale Villa Montalto. Sotto papa Sisto e per le sue migliorie urbanistiche, l’Urbe incrementò la sua popolazione da 45.000 a 100.000 abitanti: le strade brulicavano allora di forestieri e pellegrini che col naso all’insù, ed in mano la nuova edizione dei ‘’Mirabilia Urbis Romae’’ edita dal Francino, consumavano le nuove strade appena pavimentate di mattoni ammirando le opere di papa Sisto. Alla luce rosata del tramonto del 10 settembre 1586 venne compiuta, tra l’ammirazione incredula di tutta Roma e degli ambasciatori d’Europa, l’eccezionale impresa tecnica del Fontana - non ripetuta da oltre mille anni - dell’elevazione del granitico obelisco del circo di Caligola al centro di Piazza S. Pietro: titanico successo tecnico che gli fruttò l’epiteto di “Cavaliere della guglia”, oltre che remunerative prebende papali. Ne seguirono subito altri tre: quello di S. Maria Maggiore (agosto 1587), quello altissimo di S. Giovanni in Laterano (agosto 1588), ed infine quello di Piazza del Popolo (primavera 1589), che concludeva l’asse del tridente del Corso sull’”atrio” urbano principale, all’ingresso della Via Flaminia. Il loro ruolo urbanistico li evidenziava non tanto siccome meta prospettica finale ai nodi focali prescelti, bensì come veri misuratori di spazio sui lunghissimi rettifili
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sistini, interposti tra i fondali scenici e l’osservatore. Come sulle quattro guglie egizie furono imposti – con complesse cerimonie di esorcismo ai limiti dell’esoterismo (Ecce Crux Domini, fugite partes adversae) - i simboli della cristianizzazione, nella fattispecie dei simboli dell’arme papale (il trimonzio sormontato dalla stella, legato a Roma quanto alla sua Montalto) più la croce, così anche le enormi colonne coclidi romane istoriate, quella Traiana al Foro e quella di Marco Aurelio Antonino in Piazza Colonna, vennero “restaurate” con l’imposizione dei simboli del trionfo della fede sul paganesimo nelle figure delle statue bronzee dei due maggiori santi: rispettivamente S. Pietro e S. Paolo, modellate da Tommaso della Porta. Nel Vaticano venne costruita dal Fontana la nuova sede della Biblioteca Vaticana col Salone Sistino e la Tipogra-
fia (1587-89), dimezzando il cortile bramantesco del Belvedere; fu completato il Palazzo Vaticano Nuovo; fu ricostruito il Palazzo Apostolico Laterano, ma demolendo purtroppo il sommo monumento medievale del Patriarchio, venne posta l’addossata nuova Loggia delle Benedizioni (1585-89) a facciata non più secondaria della basilica che veniva così traguardata dal prospiciente obelisco; inglobando il duecentesco Sancta Sanctorum lateranense si edificò la Scala Santa (158688). Assieme a svariati restauri di preesistenti edifici, si assistette talvolta alla distruzione d’importanti reperti archeologici (il Septizonium severiano al Circo Massimo e la parte anteriore delle Terme di Diocleziano, ad esempio), com’era tuttavia nel disinvolto spirito del tempo ed in particolare per il completo disinteresse ideologico di Sisto per le antichità “pagane”
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Sotto Papa Sisto grazie agli interventi urbanistici la popolazione di Roma passò da 45 mila a centomila abitanti
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che, a suo giudizio, andavano “cristianizzate”: si arrivò persino a sostituire la lancia della Minerva capitolina con una croce! Sin dai suoi primi mesi di pontificato, Sisto concepì il grande e lungimirante progetto della bonifica delle Paludi Pontine col preciso intento di redimerle all’ordine e quindi alla produzione agricola, convinto di “trovar modo ché le povere genti possino vivere delle loro fatighe”. Dalla primavera del 1586, dopo la costituzione di un’apposita società appaltatrice per i lavori di prosciugamento e canalizzazione, cui tra gli altri partecipavano due cardinali
A Loreto dedicò la maggiori attenzioni separandola dalla giurisdizione diocesana recanatese conferendogli la dignità vescovile
marchigiani: il nipote Montalto ed il Pallotta da Caldarola, partirono i lavori, che terminarono in tre anni e che avrebbero dovuto poi dovuto proseguire con la costruzione di un nuovo porto per Terracina. Ma, durante l’inverno e la primavera del 1590, gli ininterrotti nubifragi, le piene e le forti mareggiate che ostacolarono i deflussi dei nuovi canali nel Tirreno, vanificarono gran parte del titanico sforzo profuso, anche a causa della successiva incuria manutentiva dei baroni locali dopo la morte del papa. Nel quadro del riordino della
14 viabilità territoriale, la già citata nuova Congregazione pro viis, pontibus et acquis curandis, la XIII, venne affidata nel 1587 a Giovanbattista Ricci da Loreto col ruolo di Commissario Generale. Fra tutte le consolari, Sisto previlegiò la Flaminia che, da Porta del Popolo (termine della nuova Via Sistina), partiva per l’Umbria verso le sue Marche, da dove si caricavano le merci nel porto d’Ancona, e si conducevano i pellegrini verso la Basilica di Loreto. Appunto a Loreto, papa Sisto dedicò le sue maggiori attenzioni, pur nel quadro di un vivace ed esteso impegno verso la sua regione d’origine che non ebbe certo eguali fra i papi marchigiani, in particolare per quella che possiamo modernamente definire: la politica urbanistica. A pochi mesi dalla sua elezione, gli oratori prontamente spediti a Roma dal Comune di Recanati per ottenere la riconferma dei propri privilegi - oltre a quelli della famosa Fiera, in specie quelli verso il castello di Loreto - mai avrebbero immaginato le conseguenze delle vere intenzioni di Sisto. Nel progetto del papa c’era non solo l’idea di elevare da castello a città il piccolo borgo, nobilitato dall’indiscussa universalità della devozione verso il santuario mariano, ma anche quella di separarlo dalla giurisdizione diocesana recanatese conferendogli la dignità vescovile, col toglierla a Recanati ridotta invece a semplice collegiata. Il Comune recanatese – nonostante il tentativo di ottenere le proprie ragioni tramite il buon ufficio del fermano Decio Azzolini sr., allora segretario privato del papa e di lì a poco cardinale - dovette ben presto prendere dolorosamente atto della fermissima volontà del papa di favorire Loreto, mossa da motivazioni certo eticamente più lungimiranti di quelle dei particolari in-
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teressi finanziari, legati alla gestione delle gabelle, espressi dalla comunità recanatese. Protettore di Loreto fu nominato il cardinale osimano Anton Maria Gallo (breve del 22 agosto 1587), col compito di gestire la creazione delle nuove magistrature e disegnarne i nuovi confini fissandone materialmente i termina con pietre miliari. Accomunati nella fortuna di Loreto, ebbero l’onore della Diocesi: Montalto (la patria di Sisto), Tolentino e S. Severino, mentre per certi versi seguirono la cattiva sorte di Recanati sia Camerino che Macerata le cui diocesi divennero suffraganee. Al cardinal Gallo – “il più sistino dei cardinali creati da Sisto V” - affidò il compito, i finanziamenti ed i poteri ampi di procedere alle necessarie opere infrastrutturali, dotandolo del moderno strumento urbanistico dell’esproprio per pubblica utilità. Il coordinamento delle opere venne assegnato al fidato Domenico Fontana mentre il disegno esecutivo e la loro realizzazione all’architetto militare maceratese Pompeo Floriani, in un abbinamento professionale che si era ripetuto anche a Montalto. Nell’era sistina venne completata anche la facciata della Basilica lauretana: iniziata da Giovanni Boccalini nel 1571 e condotta dal Ghioldi sino alla cornice del primo ordine nel 1583, venne compìta col disegno di Lattanzio Ventura – Architetto della Canta Casa – nel 1587, come inscritto nel fregio sotto il timpano. Ad Ancona si macerava da decenni il problema della ristrutturazione e del rilancio commerciale del porto, cui le favorevoli condizioni naturali non potevano compensare l’assenza miope di una qualsivoglia lungimirante politica commerciale. Le attrezzature portuali erano lasciate deperire e “per negligenza del Populo e trascuraggine de’ Go-
vernatori”, come si esprime Giacomo Fontana nella sua Relazione a Sisto V; i fondali erano lasciati interrare impedendo l’ingresso alle navi di maggior stazza e la città languiva nella recessione economica. Sisto V conosceva bene Ancona per avervi soggiornato e predicato nel convento di S. Francesco delle Scale come Vicario dei Frati Minori e per esservi stato accolto trionfalmente nel 1576 come cardinale marchigiano. Nonostante le attese e gli ambasciatori supplicanti prontamente inviati al soglio romano, il papa colpì duramente Ancona con l’abolizione del privilegio dell’antica zecca e preferendole Fermo per la concessione dell’Arcivescovato. In questo clima d’incertezza politica e d’infausta congiuntura economica, si colloca la Relazione manoscritta dell’architetto militare ed urbanista anconitano Giacomo Fontana, che venne a denunciare con sorprendente competenza e lungimiranza tecnico-urbanistica lo stato di penoso abbandono ed incuria del porto e delle attrezzature militari della città dorica. Il suo manoscritto - presso la Biblioteca Vaticana ed intitolato: “A Sisto V, P.M., la restaurazione del Porto de Ancona Capo di Marca nel Mare Adriatico” – è stato trascritto e pubblicato integralmente nel 1990 dallo scrivente e costituisce uno dei documenti più interessanti dell’urbanistica del XVI secolo. Il tema del sacello della devozione mariana, esemplificato dalla Santa Casa di Loreto – chiesa nella chiesa - viene in questi anni di fine secolo esaltato dalla predilezione sistina per il culto della Madonna. Alcuni esempi di riproposizione dello schema lauretano, in quegli anni, si possono identificare nelle Marche nel tempietto centrale nel Santuario di S. Maria a Macereto ed in quello nella chiesa del Santissimo Crocifisso d’Ete a
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Dall'alto a sinistra, G.Francino, Le cose Maravigliose..., Venezia 1588; Sotto, la macchina di Domenico Fontana per l'erezione dell'Obelisco Vaticano. Qui sopra dall'alto, scultura del Papa di Accursio Baldi, Fermo1590; G. Fontana, Pianta Ancona; infine il monumento funebre di Sisto V a S.Maria Maggiore, Roma
A settecento anni dalla nascita
Sisto V colpì duramente Ancona criticata per la “negligenza del populo e trascuraggine de’ governatori”
Dall'alto, Loreto, addizione sistina; G.Fontana, Relazione a Sisto V
Mogliano. L’immagine bronzea di papa Sisto campeggia ancora, a memoria della sua generosa attenzione, in molte piazze della sua regione. A Loreto, la Congregazione Provinciale dei comuni delle Marche deliberò (giugno 1585) di esaltare il novello pontefice marchigiano con l’erigergli, davanti la Basilica della Santa Casa, un monumento, scolpito e fuso dal recanatese Antonio Calcagni. A Camerino, città
natale della madre del papa, Marianna Ricucci, la comunità affidò a Tiburzio Vergelli la fusione di una statua dedicata a Sisto V, il 30 settembre 1585, da porsi in piazza davanti al Duomo. Anche Fermo, dove Felice Peretti aveva conseguito la sua laurea in “Divinitas” nel 1548, ebbe la sua statua pontificale nel Palazzo dei Priori, su di un baldacchino avanzato in inconsueta ed eminente positura, domina la piazza principale la statua bronzea di Sisto assiso, opera del veneto Accursio Baldi, eseguita a spese dei Fermani e dei comuni loro
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soggetti. Dopo Sisto V (1585-1590), nessun pontefice ebbe più l’ardire di continuare a scegliere il nome di quel settimo papa del II secolo; non solo – come ironizzava il Belli – per l’indubbia cacofonia della dizione di “Sisto Sesto” (specie nelle epigrafi in latino), ma piuttosto perché l’eclatanza dell’operato del breve ma intensissimo pontificato di quello che, nella fantasia del popolino romano, rimase sempre bellianamente scolpito come “er Papa tosto”, non avrebbe consentito paragoni facilmente sostenibili. Il pontefice morì il 27 d’agosto del 1590, anno di pestilenza, a causa della malaria contratta nei suoi sopralluoghi ai cantieri delle Paludi Pontine, che cercò di sanare invano in quel Palazzo del Quirinale -che il Fontana andava ancora completando - divenuto con lui per la prima volta, per la sua salubre posizione, la stabile residenza estiva dei pontefici. Da quanto è solo dato vedere e conoscere delle opere e dei progetti sistini per le Marche – non sul piano esclusivamente materiale ma anche su quello politico e religioso - non è difficile immaginare che altri cinque anni del suo pontificato avrebbero probabilmente cambiato il destino della regione Ancora i versi del Tasso, che a qualcuno parranno forse troppo encomiastici, per concludere l’irripetibile pontificato di Sisto, papa piceno: “Quante le stelle in ciel, in mar l’arene/ tanti sono del gran Sisto i meriti e i pregi”. ¤
Mezzo secolo e 40 anni fa
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Sisma e frana, tragedie che scuotono Ancona CANCELLATI QUARTIERI E NESSUN MORTO SOTTO LE MACERIE
N di Claudio Sargenti
Le due calamità affrontate con dignità e compostezza sono diventate una straordinaria opportunità per ripensare la città In alto, l'Arcivescovo Carlo Maccari visita il "dormitorio" realizzato nella nave-traghetto "Tiziano" che ospita gli sfollati
on sappiamo ancora se il 2022 sarà ricordato come l’anno della fine di una pandemia che ha portato lutti, nuove povertà e preoccupazioni. Non lo sappiamo anche se tutti se lo augurano. Alcuni segnali ci sono, altri sono contradditori. Gli esperti pertanto invitano ancora alla cautela. Sappiamo però con certezza che nel 2022 si ricordano due avvenimenti, due tragedie che hanno stravolto la città di Ancona e, sia pure in maniera minore, alcuni comuni limitrofi. Ci riferiamo al terremoto che sembrava non avere mai fine, il più lungo nella storia del capoluogo di regione, che nel 1972, quindi giusto cinquanta anni fa, colpì Ancona devastando il centro storico e poi la grande frana che esattamente dieci anni dopo, cancellò di fatto un quartiere, investendo strade, ferrovia, ospedali e attività industriali. Due tragedie di vastissime proporzioni, dicevamo. Per fortuna non ci sono stati morti sotto le macerie (ci furono in realtà vittime, per così dire, “collaterali”) ma i danni e non solo al patrimonio edilizio, come si diceva, furono certamente ingenti. Due colpi, due avvenimenti, davvero micidiali diventati però due straordinarie opportunità per ripensare e ridisegnare Ancona, guardando al suo sviluppo e al suo futuro. Due disgrazie che la città ha sopportato e affrontato con grande dignità e compostezza, dando risposte importanti in silenzio e con rigore. “La gente di qui – scriveva, ad esempio, il “Corriere della Sera” dopo la frana del 1982 – ha reagito subito senza fare
inutili tragedie”. Dignità, rigore e lo sguardo rivolto al futuro: sono state le caratteristiche degli anconetani che hanno permesso alla città (era stato così anche dopo il terremoto del 1930 o i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale) di rialzarsi, di mettere mano ad opere strategiche importanti per il suo sviluppo, diventare addirittura di esempio per altre situazioni simili. E’ risaputo, infatti, che la moderna protezione civile come l’abbiamo, cioè, imparata a conoscere ed apprezzare, sia nata proprio dopo l’esperienza di Ancona. Il commissario Zamberletti, considerato il “padre” dell’attuale protezione civile, quando nel 1976 si verificò il terremoto in Friuli d’accordo con le autorità di quella regione, decise di avvalersi concretamente proprio del “modello Ancona”, tanto che negli anni successivi le norme sulla ricostruzione furono definite come “legge Marche – Friuli”. Non solo. Vennero stabiliti principi comportamentali e giuridici forse rivoluzionari per quell’epoca. Ovvero, tanto per fare degli esempi, furono rifiutate le baracche per ospitare gli sfollati, consapevoli, già allora, che in Italia non c’è niente di più definitivo del provvisorio. Oppure, all’epoca della ricostruzione post terremoto fu introdotto l’istituto dell’esproprio temporaneo, uno strumento di natura giuridica che si rivelò indispensabile per la ricostruzione degli edifici soprattutto del centro storico, molti dei quali risultavano divisi, frazionati, addirittura parcellizzati, tra numerosi proprietari. Senza
Mezzo secolo e 40 anni fa
La moderna Protezione civile è nata proprio dall’esperienza di Ancona che ha visto il sindaco Trifogli tra i protagonisti
l’esproprio temporaneo, in capo all’amministrazione comunale, sarebbe stato molto difficile ricostruire, soprattutto si sarebbero dilatati e di molto i tempi del risanamento di interi quartieri. E ancora. La ricostruzione sia dopo il terremoto che dopo la frana fu rapida, ma soprattutto “pulita”, nel senso che i lavori, gli appalti non furono mai interessati da inchieste della magistratura. Infine, sui grandi temi, ad iniziare da quelli dell’assistenza si verificò una grande unità di intenti tra le forze politiche che amministravano la città. Non si può non ricordare, poi, la figura di Alfredo Trifogli, primo cittadino di Ancona, il sindaco del terremoto, come entrerà nella memoria di tutti. La sua straordinaria presenza accanto alla sua comunità, rappresentata anche visivamente da quella luce accesa tutte le notti nel suo ufficio a Palazzo del Popolo, è molto di più di una testimonianza di solidarietà. E’ stato un punto fermo in quelle lunghe e interminabili nottate, la dimostrazione tangibile che non aveva lasciato la città al suo destino diventando presto un punto di riferimento per tutti. Il programma di “Codice Rosso” Per ricordare questi due avvenimenti il Comune di Ancona e l’Anci Marche hanno deciso di dare vita ad una serie di iniziative che si snoderanno durante tutto l’anno a partire dalla tarda primavera per poi concludersi il 12 dicembre con una manifestazione che coinvolgerà tutta la città. Si tratta di iniziative e manifestazioni che si terranno nella cornice del programma denominato “Codice Rosso”, colore che in protezione civile, come è noto, rappresenta il massimo dell’allerta. A questi appuntamenti è prevista la collaborazione e
18 la compartecipazione di numerosi soggetti istituzionali ad iniziare dal Dipartimento nazionale della Protezione Civile, appunto, la Prefettura, l’Università Politecnica delle Marche, i Vigili del Fuoco, con il contributo di numerosi testimoni che hanno vissuto, in prima linea i due avvenimenti. Il programma prevede una serie di attività seminariali tecnico-scientifiche, tavole rotonde sulla tutela e il recupero del patrimonio storico-artistico, esercitazioni con il coinvolgimento delle scuole e due momenti clou aperti a tutta la cittadinanza: la sera del 14 giugno, per ricordare la più violenta delle scosse di terremoto che investì la città cinquanta anni fa e il 12 dicembre per ricordare la frana del 1982. Il piú lungo terremoto della storia di Ancona Il primo comunicato stampa del Comune di Ancona emesso dopo il terremoto della sera del 25 gennaio 1972, venne firmato direttamente dal sindaco Alfredo Trifogli. Veniva informata la cittadinanza che erano stati messi a disposizione degli sfollati, autobus dell’allora Azienda Municipalizzata dei Trasporti (la vecchia ATMA) e carrozze allestite dalle Ferrovie dello Stato, mentre si avvertiva che il Provveditorato agli studi aveva sospeso le lezioni nelle scuole di ogni ordine e grado. La prima, forte, scossa investì la città attorno alle 21 di quel martedì sera di mezzo secolo fa. Lo sciame sismico andò, poi, avanti per quasi 11 mesi (ed è diventato il più lungo terremoto nella storia di Ancona) ed ebbe il suo culmine ancora di sera, il 14 giugno quando raggiunse il decimo grado della scala Mercalli (allora i terremoti si calcolavano così; l’equivalente oggi di una magnitudo 5.9) mettendo definitivamente in ginocchio la
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città. Perché i danni al patrimonio abitativo insieme alla paura, all’angoscia, al terrore provocati dalle scosse che capitavano per di più di notte ed erano accompagnate da un rombo cupo e sordido, erano già iniziate la sera stessa del 25 gennaio. Secondo le stime ufficiali dei Vigili del Fuoco fatte dopo il 14 giugno, almeno 30 mila anconetani finirono per vivere sotto le tende; 1453 furono le tende montate in 56 punti del centro urbano e della periferia; la più grande tendopoli venne allestita all’interno dello stadio Dorico; 600 persone, invece, trovarono alloggio negli autobus parcheggiati nelle piazze; altre 1500 nei vagoni ferroviari fermi nel piazzale della stazione; 1000 nelle palestre delle scuole agibili; altre ancora nella nave-traghetto “Tiziano” ancorata in porto. Chi poteva, infine, trovò ospitalità dai parenti che non avevano avuto l’abitazione lesionata. Dal 15 al 30 giugno, sempre secondo la stessa relazione dei Vigili del Fuoco, furono distribuiti almeno 200 mila pasti caldi e 15 mila pacchi con cibi freddi. Per i soccorsi e l’assistenza si mobilitarono, oltre ai Vigili del Fuoco, l’Esercito, la Marina Militare con il Battaglione “San Marco”, le pubbliche assistenze di Croce Rossa e Croce Gialla, la Caritas diocesana, i boy scout, tanti volontari. I danni al patrimonio edilizio furono ingenti. Almeno 7 mila gli stabili risultati inagibili. Furono colpite le scuole (una su tutte, il ginnasio “Rinaldini”), edifici pubblici (le Poste Centrali, ad esempio, di Piazza 24 Maggio) storici (ad iniziare dal Museo Nazionale e il Palazzo degli Anziani) e chiese, compresa la Cattedrale di San Ciriaco. Danni, tuttavia meno rilevanti si registrarono anche nei comuni limitrofi, a Falconara, Camerano, Camerata
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Picena, Montemarciano. Solo per citarne alcuni. Il terremoto, che alla fine gli anconetani finirono per chiamare familiarmente “Terry”, non provocò morti in maniera diretta. Ovvero nessuno rimase sotto le macerie. Due persone, comunque, persero la vita per lo spavento, mentre un vigile del fuoco, dipendente dal comando di Bologna, morì a seguito di un incidente stradale mentre aiutava ad evacuare l’ospedale psichiatrico, in Viale Cristoforo Colombo, all’epoca ancora attivo. La grande frana del dicembre del 1982 Nella notte tra il 12 e il 13 dicembre di dieci anni dopo il terremoto, la collina del Montagnolo iniziò a franare. Le case, però, non tremavano, ma scricchiolavano, si gonfiavano e si spaccavano. La collina, per fortuna, scivolò molto lentamente verso il mare, muovendo, almeno secondo le stime ufficiali, 1.800.000 metri cubi di terra per complessivi 220 ettari di terreno coinvolgendo i quartieri di Posatora, Borghetto e Palombella. Almeno 1071 famiglie dopo quella notte dovettero lasciare le proprie abitazioni; 300 gli edifici danneggiati; l’85% di questi, a seguito dei controlli, fu ritenuto irrecuperabile; 15 palazzi crollarono subito, gli altri furono abbattuti in seguito. Molte anche le imprese artigiane devastate, comprese 3 industrie, tra le quali una grande azienda farmaceutica. Si ritrovarono senza lavoro almeno 500 persone. La città rimase per qualche tempo praticamente isolata nei suoi collegamenti verso nord, perché la ferrovia venne letteralmente divelta dal terreno; la vecchia Statale 16 divenne impraticabile perché un tratto di strada si alzò di alcuni metri. Ci furono danni irreparabili alla nuova sede della facoltà
Comune di Ancona e Anci Marche daranno vita al “Codice rosso” una serie di iniziative dal colore della massima allerta
Dall'alto a sinistra, la messa per gli sfollati officiata dall'Arcivescovo nel garage della nave-traghetto "Tiziano"; il "pronto soccorso cardiologico" nelle tende nell'area del porto; la tendopoli e l'Ufficio Postale in piazza Cavour; la sede centrale delle Poste fu tra gli edifici maggiormente lesionati
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Dieci anni dopo il sisma Ecco la grande frana che isolò la città dai collegamenti ferroviari e stradali Inagibili due ospedali
Dall'alto le macerie in strada nel centro storico hanno colpito alcuni mezzi parcheggiati in Corso Amendola Qui sopra, le cucine da campo in azione per gli sfollati
di Medicina; furono dichiarati, da subito, inagibili due ospedali regionali con oltre 500 pazienti ricoverati, ovvero l’Oncologico e il Geriatrico, devastate anche alcune chiese, un cimitero, una scuola, il centro operativo della Polizia Stradale, il pensionato “Tambroni”. Interrotta persino la condotta di approvvigionamento da nord del gas metano. Non si registrarono vittime dirette. Solo un paziente ricoverato in uno dei due ospedali morì ma per arresto cardiaco. Infinite, all’epoca le polemiche sulla prevedibilità della frana e sulla possibilità che l’edificazione della collina potesse aver agevolato, se non addirittura provocato il fenomeno, visto che la frana Barducci, nell’area compresa tra la stazione ferroviaria e il quartiere di Torrette, era un fenomeno storicamente conosciuto. In realtà gli accertamenti e le perizie disposte dalla magistratura esclusero qualunque responsabilità diretta dell’opera dell’uomo, scagionando tutti gli amministratori e i tecnici a vario titolo coinvolti. La grande frana si verificò al culmine di una stagione particolarmente piovosa; l’acqua caduta in grande quantità aveva messo in movimento la massa di argilla di cui è composto il terreno in quella zona e la collina del Montagnolo aveva iniziato lentamente a scivolare a valle, verso il mare. La frana, in realtà, non si è mai del tutto fermata. Si muove in maniera impercettibile di pochissimi millimetri all’anno. Ma grazie ad un sofisticato sistema di monitoraggio di cui si è dotata la città di Ancona (un sistema talmente
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all’avanguardia che è portato da esempio dalla comunità scientifica) permette ormai da quarant’anni di conviverci. A seguito della frana nacquero i nuovi quartieri a sud del capoluogo. Dapprima poco più che quartieri satelliti (o come si diceva all’epoca, dormitorio), ma che una volta collegati grazie ad una grande viabilità sono diventati parte integrante della città. Furono poste le basi e le premesse per realizzare la nuova facoltà di Medicina; per il completamento dell’ospedale regionale, a Torrette. Su come fermare il lento ma inesorabile movimento della collina il dibattito invece è ancora aperto. L’opinione prevalente è che un leggero interramento in mare del piede della frana sia necessario. In questa prospettiva si sta pensando di rimodulare il tratto costiero dalla stazione fino a Torrette, tanto da consentire di rettificare il tracciato della stessa strada ferrata, ampliare la vecchia statale e dotare la città di un vero lungomare. Resta forse un solo rammarico. Alcuni esponenti di Comune e Regione posero il problema dell’arretramento di tutta la dorsale adriatica della ferrovia per liberare l’intera costiera marchigiana da un pesante vincolo. Ma i costi dell’operazione (si parlava, all’epoca, di almeno mille miliardi di vecchie lire) furono giudicati troppo elevati e il progetto venne lasciato cadere. Se ne torna a parlare oggi con costi da affrontare decisamente più impegnativi. Non conosciamo quale sarà l’esito di questo dibattito. Sappiamo però che forse si sono persi 40 anni. ¤
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Tebaldi, ineguagliabile voce del Paradiso NASCEVA CENT’ANNI FA A PESARO, UGULA LEGGENDARIA
R di Fabio Brisighelli
enata Tebaldi, voce mitica di soprano, eminente tra le voci eminenti del secolo passato e della quale ricorre quest’anno il centenario della nascita (nata a Pesaro l’1 febbraio 1922, è morta a San Marino il 19 dicembre 2004), ha contrassegnato da par suo la “marchigianità” di alcuni dei più celebri artisti del canto d’opera che hanno posto da sempre la nostra regione al centro dell’attenzione dei palcoscenici internazionali. Beniamino Gigli, Renata Tebaldi, appunto, Franco Corelli, Anita Cerquetti (anche lei soprano) e Sesto Bruscantini ne sono gli esponenti di spicco. Insieme, al loro tempo, hanno prodotto in carriera un’ “internazionalizzazione” della cultura lirico-musicale sviluppatasi dalle Marche che per il peso specifico congiunto non teme confronti con altri consimili ambiti territoriali. Con la Tebaldi i melomani di tutte le età e di tutte le latitudini si sono potuti abbeverare alle fonti più pure del canto legato al melodramma. Della grande cantante ho due personali ricordi, distanti tra loro nel tempo: vago e lontano l’uno, più vivo e presente l’altro.
Nell’estate del 1957 ad Ancona, al teatro all’aperto della Fiera della Pesca, assistetti giovanissimo con mio padre a un’esibizione del celebre soprano e al bello e toccante episodio che la accompagnò: quando chiese a Beniamino Gigli , presente come ospite quella sera in platea, da tempo malato e prossimo ormai alla fine (sarebbe morto il 30 di novembre di quello stesso anno) di potergli dedicare un brano. Su richiesta del tenore la cantante intonò “La mamma morta” dall’Andrea Chénier, l’opera con la quale nel gennaio precedente aveva suscitato un buon quarto d’ora di applausi al Regio di Parma, in uno dei suoi isolati rientri in Italia dall’America in quegli anni 1955-1959 in cui il Metropolitan di New York la ebbe come “primadonna” indiscussa dei suoi spettacoli (lontana per sua stessa decisione dai fastidiosi dualismi divistici con la Callas più o meno artatamente montati alla Scala). Fu, per così dire, scelta tristemente profetica per l’artista, che la mamma vera avrebbe perduto in dicembre a ridosso della dipartita del tenore, la Giuseppina Barbieri appassionata di pianoforte (come il papà Teobaldo Tebaldi lo era stato del violoncello) che le fu sino alla fine assistente e rassicurante compagna dietro le quinte. Ma ben più presente è la memoria del mio incontro “dal vivo” con lei nel foyer del nostro (certo più modesto!) Metropolitan di Ancona - correva, credo di ricordare bene , il 1980 -,
La lirica
Nel 1957 ad Ancona dedicò un brano a Beniamino Gigli presente quella sera come ospite in platea al teatro della Fiera della Pesca
Al centro pagina, Renata Tebaldi con il maestro Giannandrea Gavazzeni alla Scala. Qui sopra, il soprano con Franco Corelli e in alto a destra con Mario del Monaco Sotto, un celebre abbraccio con Maria Callas dietro le quinte
22 allorché già fuori dall’arengo operistico attivo (dal concerto scaligero per il Friuli nel maggio 1976) fu a sua volta l’ospite d’onore di una serata musicale organizzata dal Sindacato locale dei giornalisti. Per una fortuita circostanza ebbi il piacere di accompagnarla insieme con mio padre al suo posto riservato sfilando nel mezzo di una sala gremita di pubblico plaudente. Ma prima, all’ingresso del cinema-teatro, parlammo per un po’ della sua splendida carriera e dei tanti ricordi di quel mondo straordinario che è il melodramma. La trovai sorridente, semplice nei modi, disponibile e cordiale, com’era nel suo carattere, ma anche leggermente emozionata e contratta, nemmeno fosse lei a dover di lì a poco cantare. Mi disse tra l’altro che suo padre le aveva parlato spesso del Teatro delle Muse, degli artisti e della bella gente che lo frequentavano. Mentre parlava, mi sembrava quasi di sentire alitare, in una specie di transfert vocale riflesso, le tante perle della sua voce: la varietà dell’ampio fraseggio, caldo e sfumato, la bellezza sontuosa del timbro, l’intensità misurata dei contrasti dinamici, la leggerezza dell’emissione e la precisa intonazione, la luminosa morbidezza di un canto pronto a sprigionarsi solare e perfettamente legato, fluido ed emozionante, epperò sempre controllatissimo, come di chi è padrone appieno della tecnica vocale. Alcune insomma delle caratteristiche che in modo più fascinosamente scoperto fissano di fremiti d’ascolto pressoché impareggiabili le sue eroine più celebri, da Desdemona a Leonora (della Forza del destino), da Tosca ad Aida, da Margherita (del Mefistofele) a Mimì, da Maddalena di Coigny ad Adriana Lecouvreur.
E tante altre se ne potrebbero aggiungere, di protagoniste, disseminate lungo un arco di vitalità teatrale durato più di trent’anni, dal lontano debutto al Teatro Sociale di Rovigo (il 23 maggio 1944) al ricordato congedo scaligero di addio del 1976 (sempre il 23 di maggio, curiosa coincidenza!), aperte a illuminare un repertorio vasto e articolato di parti liriche e lirico-spinte, con punte di diamante soprattutto nel tardo Verdi (nei ruoli citati), in Puccini (oltre a Mimì, Manon, Butterfly e Fanciulla del West), nel verismo e comunque in taluni titoli della scuola operistica del secondo Ottocento (per cui alle esemplificazioni di prima vanno aggiunte Fedora e Gioconda, oltre a Wally); ma senza dimenticare le significative prestazioni in opere wagneriane (Lohengrin, Tannhäuser, I Maestri cantori) e finanche in Mozart (Nozze di Figaro, Don Giovanni) e nel Rossini serio
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(Assedio di Corinto, Guglielmo Tell). Un repertorio via via acquisito nel tempo che ha accompagnato lei cresciuta alla scuola preziosa del soprano Carmen Melis, di cui è stata allieva (dal ’42 al ’44), attraverso le tappe di un “cursus honorum” prestigioso, cominciato con la convocazione alla Scala da parte del maestro Toscanini nel ’46 per la riapertura del teatro, sviluppatosi con i primi successi lì colti e arricchito con gli straordinari, celebrati debutti all’estero, al Covent Garden di Londra nel 1950 con i complessi della Scala e la direzione del maestro De Sabata nell’Otello e nel Requiem verdiani, e soprattutto al Metropolitan di New York, nel gennaio del 1955, ancora nei panni di Desdemona, avendo come partner quel Mario Del Monaco (come già tempo addietro nella prima esibizione americana a San Francisco, in Aida) destinato a com-
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porre con lei un sodalizio artistico dai frutti rigogliosi. Nell’Otello hanno costituito una coppia di protagonisti insuperata. Senza peraltro trascurare l’ altrettanto salda partnership con il nostro Franco Corelli, in recite memorabili in territorio americano, in opere come Tosca, Andrea Chénier, Adriana Lecouvreur, La bohème, La Gioconda; e in una fitta serie di concerti segnatamente negli Stati Uniti, ma anche in Europa e nel lontano Oriente. Per le principali istituzioni lirico-musicali e per il pubblico in Italia e all’estero Renata Tebaldi divenne ben presto, e lo sarà per sempre, l’ineguagliabile “Voce d’angelo”. L’arrivo di Maria Callas nel teatro milanese all’inizio degli anni Cinquanta - con l’esordio in Aida proprio in sostituzione della Tebaldi e con la messa in posa della sua prima pietra trionfale, con I Vespri siciliani del ’51 -
Dal 1955 al 1959 il Metropolitan di New York la vide in scena come primadonna indiscussa dei suoi spettacoli
La lirica
Il dualismo con la Callas celava una reale diversità di disposizione vocale e artistica In realtà potevano benissimo convivere
Nella foto, l'artista attorniata dai suoi ammiratori Dietro di lei di intravvede Paolo Grassi sovrintendente del Teatro alla Scala
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creò ben presto un dualismo protagonistico, una “rivalità” (più di convenienza che reale) amplificata dalla stampa che poteva felicemente giocare sul “contrasto” tra primedonne. La Tebaldi a un certo punto non si sentì più di accettare il nuovo stato di cose, anche perché per una sorta di impalpabile percezione le sembrò che l’ambiente scaligero - come lei stessa ebbe a raccontare in un’intervi-
sta - fosse più disposto ad assecondare il sorgente “mito-Callas”. Con la tranquilla coscienza di sempre, lasciò la Scala, restandone volutamente lontana per quattro anni (tra il 1955 e il 1959, appunto). Aldilà per il vero di una competitività che è sempre esistita tra cantanti e che entro limiti fisiologici si può anche accettare, il dissidio, fin troppo montato, appare soprattutto oggi come l’espressione esteriore errata
di una reale diversità di disposizione vocale e artistica tra l’una e l’altra: da un lato, dunque, per la Callas, la forza dello stile drammatico d’agilità riportato a nuovo splendore, con tutto ciò che ne seguiva in termini di versatilità di registro e di conseguente dominio di un canto ora analitico ora veemente, ora largo ed espanso, ora fiorito e di bravura, con il ritorno al virtuosismo autentico, quello che dà espressione alla coloratura e ne rivela, secondo l’espressione di Rossini, “gli accenti nascosti”; dall’altro, per la Tebaldi, il fascino di una voce intensamente bella e ricca di sonorità ispirate e paradisiache, ampie e rotonde, un’esemplificazione rara della legge belcantistica del piacere edonistico d’ascolto. Avrebbero insomma potuto benissimo convivere nel tempio milanese dell’opera come due realizzazioni differenti ma al pari indispensabili di un unico, alto magistero interpretativo. Nel riepilogo d’ascolto nei giorni scorsi dei passi operistici più emozionanti illuminati dall’ugola tebaldiana, giunto alla “Canzone del salice” e alla Preghiera dell’Otello e poi alla “Vergine degli angeli” della Forza del destino, così ricchi, tra tanta dovizia di canto, di un fluido abbandono della mezza voce preziosa e della carica emotiva di filature nitide e compatte, mi è tornato alla mente un giudizio espresso su di lei, su alcuni suoi personaggi, da Joan Sutherland, grande sua collega del palcoscenico lirico: “la loro anima risplende attraverso la voce”. ¤
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Nuova vita in Canada una scelta di famiglia MIMMO NEL 1959 LASCIÒ L’ITALIA DEL BOOM ECONOMICO
È di Paola Cimarelli
Sopra, Domenico D'Alesio con la moglie Gilda
un uomo che non si vergogna di dire “ti voglio bene” alla sua famiglia e agli amici, di metterlo nero su bianco in un libro in cui racconta la sua esistenza, di narrarla in poesie. Mai fermo, parla di se stesso come di uno che spesso ha alzato un gran “polverone” nel fare le cose. È un uomo che nel 1959 ha scelto di cambiare vita, di abbandonare il suo lavoro di carpentiere e muratore in un’Italia appena salita sulla rampa di lancio della ricostruzione post-bellica, di lasciare la sua Quintodecimo, in provincia di Ascoli Piceno, per seguire la sua “regina”, Gilda, che si era trasferita in Canada con i fratelli alla ricerca di una vita migliore. Domenico D’Alesio, o me-
glio Mimmo, ha 86 anni. Si definisce “un uomo di famiglia”, quella d’origine con cinque fratelli, Graziano, Bettina, Angela, Fausta, Pina, i genitori Giovanna e Vincenzo, e quella formata con Gilda, sposata il 25 aprile 1959, dopo 17 giorni dall’arrivo in Canada, con i tre figli Pier Luigi, Giovanna, Norma e cinque nipoti. Una scelta d’emigrazione che ha trasformato anche le vite di buona parte della sua famiglia, con genitori, fratelli e sorelle che l’hanno seguito oltre oceano. Mimmo è anche un uomo di comunità, “faro” di un’altra grande famiglia, quella dei marchigiani québécois di Montreal, fra i fondatori, dopo aver acquisito esperienza in altri sodalizi
Marchigiani nel mondo
Domenico D’Alesio 86 anni, originario di Quintodecimo è tra i fondatori di Alma Canada l’associazione marchigiana
Dall'alto, la famiglia di Domenico nel 1954, la coppia nel giorno del matrimonio e nella pagina a fianco un momento spensierato e varie ricorrenze con i parenti e del lavoro
italiani, di Alma Canada, associazione regionale dei marchigiani. “La mia ragazza era venuta in Canada – racconta Mimmo D’Alesio con un meraviglioso accento misto che contraddistingue l’emigrazione di ‘little Italy’ -, io l’ho seguita. All’amore ci abbiamo abbinato il resto, il lavoro e la vita. Nei primi anni della nostra storia canadese, fra il 1959 e il 1969, forse si stava meglio in Italia dove c’era il boom economico ma per noi è andata bene così. Siamo soddisfatti di quello che abbiamo realizzato. Avevamo già parenti ed amici che erano arrivati in precedenza e questo ci ha aiutato molto. Siamo stati certamente più fortunati rispetto ai primi marchigiani che sono venuti qui, più di cento anni fa. Immagino quanto abbiano sofferto per affrontare questa scelta, in un Paese ancora da sviluppare”. Dopo qualche esperienza sotto padrone, Domenico nel febbraio 1960 “corteggia” per un po’ di tempo un camioncino messo in vendita. Attraverso la rete di conoscenza, specie dei giardinieri, riesce a prendere dei lavori
26 di muratura, anche per il Comune di Westmount, e per rimuovere la neve da alcuni edifici federali. Dopo l’arrivo in Canada, nel 1961, del fratello e del padre, il grande salto verso la nascita della propria impresa, la D’Alesio Contracting, che vede i due fratelli soci e pronti ad allargare il campo d’azione della ditta a cui si aggiunge poi anche un negozio con i materiali per le costruzioni. Un cammino cresciuto negli anni con successo fino alla vendita delle imprese D’Alesio. Quotidiana spalla nelle attività imprenditoriali e in quelle associative è sempre stata sua sorella Fausta, arrivata a Montreal nel 1967. “Sono stata l’ultima della famiglia a venire in Canada – racconta -. Avevo 23 anni e già un bambino di due. L’unica che si era sposata nelle Marche, gli altri tutti qui. Lavoravo, all’ufficio contabilità, in una ditta di travertini e marmi. Mio marito è venuto in Canada per vedere come si trovava e allora l’ho raggiunto l’anno dopo anch’io. Tutta la famiglia era già qui, nella stessa città, nella stessa zona, nella stessa chiesa, fratelli e cugini tutti molto attaccati gli uni agli altri. Ci siamo protetti reciprocamente. Forse, se fossimo restati in Italia, non sarebbe stato così. Mi sono trovata subito bene. Era l’anno dell’Expo a Montreal: eravamo come bambini anche noi, andavamo in giro a vedere i padiglioni”. Quando è arrivata, ricorda Mimmo, “avevo una station wagon. L’ho riempita di tutti i bambini della nostra famiglia, non so in quanti eravamo, in 12-14 dentro la macchina e siamo andati all’Expo. Quando ci siamo fermati, uscivano questi piccolini e non finivano mai. Quanto ci siamo divertiti”. Per Fausta, è stato abbastanza facile inserirsi nella comunità “anche se nei pri-
Marchigiani nel mondo
mi mesi mi sono dovuta ambientare alla città, studiare le lingue più a fondo la sera, quello fatto a scuola non bastava. Qualche anno dopo ho cominciato io, fra le prime, ad insegnare l’italiano alle scuole del sabato mattina, che esistono ancora, ai bambini figli di italiani in un patronato che si chiama Picai”. Mimmo e Fausta, insieme, hanno condiviso la storia dell’associazione Alma Canada, 45 anni nel 2021, con i festeggiamenti rinviati alla prossima estate per la pandemia. Nel 1976, per volontà della direzione generale dell’Associazione lauretana tra i marchigiani residenti a Roma, nata nel 1956, Monsignor Igino Ragni viene inviato a Montreal per fondare l'Alma canadese, con lo scopo di dare assistenza spirituale e morale agli immigrati di origine marchigiana, di organizzare attività di carattere sociale e culturale per mantenere i legami con la terra d'origine, di facilitare la loro integrazione nella vita del Paese oltre a dare assistenza ai meno fortunati. Il primo presidente dell’associazione fu Giulio Polidori, tenore, cognato di Fausta, alla cui guida è poi seguito Domenico. Alma Canada è il punto d’incontro della comunità marchigiana di Montreal, oggi circa 25-30 mila persone su 250-300 mila italiani che vivono in città. Associa 300 famiglie e organizza attività ricreative e formative per tutte le età, dalla Festa della Befana al Carnevale, pic-nic ed escursioni sui laghi, dal torneo di golf con 140 giocatori, già previsto per la prossima estate alla celebrazione della Giornata delle Marche organizzata dalla Regione Marche. Nel 2007, quella di Montreal fu uno degli avvenimenti di rilievo per tutta la comunità marchigiana nel mondo. “La più grande che sia stata mai fatta – raccon-
tano con orgoglio i fratelli D’Alesio -, con un programma di iniziative durato un anno, con l’arrivo dei Bronzi dorati di Cartoceto, la Fanfara dei Bersaglieri di Ascoli Piceno, convegni e ospiti musicali come Bobby Solo, Jimmy Fontana, Giovanni Allevi”. Alma Canada è anche un ponte culturale con andata e ritorno sull’Atlantico. Mantiene i rapporti con le comunità di origine dei suoi iscritti, organizza educational tour nelle Marche per i giovani insieme al Consiglio dei Marchigiani nel mondo, presieduto da Franco Nicoletti e di cui Fausta Polidori è componente, offre borse di studio per studiare l’italiano.
“Come comunità, siamo rappresentati dal Congresso degli italo-canadesi di Montreal – spiegano Mimmo e Fausta -. Abbiamo due grandi luoghi associativi, il Centro Leonardo da Vinci, costruito 25 anni fa, con Domenico nel gruppo dei fondatori, e la Casa d’Italia che è la più vecchia di cento anni, rinnovata e ampliata negli ultimi anni. In Quebec, gli italiani sono molto più visibili, si parla ancora la lingua italiana rispetto ad altre città, come a Toronto e nell’Ontario, più anglicizzate. “Fra il francese e l’inglese qui abbiamo scelto di parlare ancora l’italiano – dice Domenico D’Alesio -, sia-
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Marchigiani nel mondo
Tutta la famiglia era a Montreal con la sorella Fausta spalla preziosa nelle varie attività imprenditoriali e associative
In alto, un'immagine di Quintodecimo in provincia di Ascoli Di seguito, Domenico e Gilda con i nipoti e nell'anniversario di matrimonio nel 2019
mo riusciti a salvaguardare la nostra lingua grazie alla rivoluzione pacifica dei quebecchesi degli anni ‘70. Hanno provato a metterci dentro il francese con l’imbuto. La reazione della nostra comunità è stata proprio quella di salvare l’italiano, perché siamo vivi e veri. Anche i giovani, che sembravano non interessati, hanno cominciato a parlarlo con volontà e determinazione. Ad oggi, dei miei cinque nipoti, il primo lo ha studiato, il secondo l’ho portato con me in Italia per farglielo imparare. Sul terzo ci sto lavorando. Quando vedono la mia faccia, sanno che devono cambiare linguaggio. Gli altri due sono a Chicago, un po’ lontani e più americani”. Nella comunità marchigiana, aggiunge Fausta, “parliamo tutti le due lingue ufficiali, inglese e francese, anche se non siamo nati qui. I nostri figli ovviamente le parlano correttamente e anche l’italiano. Fra i nostri nipoti solo qualcuno. Il bilinguismo è la base per poterne parlare anche altre”. Gli italiani, aggiunge “per anni hanno avuto una brutta nomea, in particolare in politica. Adesso ci sono dei bravissimi rappresentanti come Davide Lametti, ministro della Giustizia, marchigiano per eccellenza nelle istituzioni canadesi e come lui molti altri che hanno un forte spirito di pubblico servizio e di comunità. Credo che, come italiani e marchigiani, abbiamo quel qualcosa in più, una prospettiva più aperta dei canadesi”. A Mimmo, quello che piace “di più del Canada è la diversità, l’apertura al mondo.
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Poter capire e apprezzare persone che arrivano da tanti Paesi e tante lingue possibili. Anche per questo ho voluto studiare lo spagnolo frequentando dei corsi serali dopo il lavoro. Ho provato a studiare anche il tedesco ma non ho trovato qualcuno per parlarlo”. Una curiosità e una voglia di apprendere che non si è mai sopita. “Non sono andato a scuola – dice Mimmo -, dovevo lavorare per aiutare la mia famiglia, prima quella dei miei genitori poi la mia. Appena ho potuto mi sono detto vado a vedere il mondo con i miei occhi. Con Gilda, abbiamo fatto crociere anche di 80 giorni e più”. Anche il libro autobiografico “La mia vita” è stato scritto in buona parte in cabina attraversando mari e oceani. “Però siamo irrequieti – dice -, l’Italia ci manca sempre. Questo è il primo inverno che passiamo a Montreal. Altrimenti, da 50 anni, siamo sempre andati nella nostra casa a Tucson, in Arizona”. Fausta, invece, nei mesi freddi va in Florida, a Daytona Beach, lontana dalla neve. “Si vive meglio in Italia – aggiunge Fausta -, specialmente nella nostra regione, il profumo delle Marche, del cibo, del mare, della montagna. Nei Laurenziani ho una bellissima casa, sul bordo del lago, vicino ad una delle mie sorelle dove andiamo nei periodi più caldi. Abbiamo dei luoghi bellissimi in Canada ma l’Italia e le Marche sono posti unici al mondo”. Per questo, entrambi già pensano ai mesi estivi e al ritorno nella loro Quintodecimo, in quella casa costruita con l’aiuto di tutti nel 1952. ¤
Il riconoscimento
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La natura della cultura Una sfida verso il futuro PESARO CAPITALE ITALIANA 2024, SPAZIO AL TERRITORIO
C di Elisabetta Marsigli
on il riconoscimento di Capitale Italiana della cultura 2024, Pesaro vince per aver gettato lo sguardo sul futuro, sulla “rigenerazione" della cultura. Pesaro non è la prima città marchigiana a candidarsi per l’ambito riconoscimento di Capitale della Cultura: si deve andare al 2018 per ritrovare la candidatura di Recanati, giunta anche nelle 10 finaliste, ma che fu “battuta” da Palermo. Sfumò anche il sogno di Macerata sul 2020, realizzato da Parma. La scelta di Procida ha visto la sconfitta di Ancona, anch’essa giunta nelle prime 10 in lizza per il 2022, mentre Fano aveva già abbandonato da tempo il percorso di candidatura per lo stesso anno. Urbino, nel 2013, lanciò la sua candidatura a capitale Europea della Cultura 2019, riconoscimento che fu assegnato a Matera. E fu proprio in occasione della fine dell’anno di Matera che partì l’idea di candidare una intera provincia, Pesaro e Urbino a capitale della cultura 2033, sulla cui onda è nata
la corsa per capitale italiana di Pesaro 2024. Una candidatura che basa il suo progetto sulla sinergia di tutti i comuni della provincia, tra cui proprio Fano e Urbino di cui saranno recuperati i rispettivi progetti. L’obiettivo è quindi quello di sviluppare un programma di totale coinvolgimento di un intero territorio, in una visione plurale e condivisa. Il dossier presentato non ha infatti guardato solo al glorioso passato della città, ma ha saputo cogliere la sfida sul futuro, condividendola con il territorio provinciale, come ha sottolineato il vicesindaco e assessore alla bellezza Daniele Vimini, che è disponibile a «rendere questa vittoria una festa per tutta la regione Marche. Un intero territorio sarà protagonista, a partire dai 50 comuni». Tutto lo staff è pronto a ritornare subito al lavoro e c’è un anno di tempo per definire con gli amministratori, ma anche con i creativi e gli artisti del territorio, un programma che sia veramente partecipato e vissuto, sia dal punto vista organizzativo che comunicativo. «Potremo sfruttare anche tutte le occasioni di partnership a partire da Procida fino a Bergamo e Brescia (capitali 2023) e soprattutto inanellare questo percorso nella sfida europea 2033 con Urbino, per rafforzare un territorio e riconoscerne i meriti che si erano sfilacciati per i diminuiti compiti dell’ente provinciale». Il progetto Il dossier dal titolo “La natura della cultura” contiene
Il riconoscimento
Tanti progetti in cantiere in una contaminazione tra musica, teatro spettacolo e ambiente in un legame tra arte natura e tecnologia
Nella pagina precedente l'esultanza dello staff organizzatore dopo la proclamazione di Pesaro Città della Cultura Sopra, la sede del municipio
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l’idea di una città a misura d’uomo: non solo il concetto di città dei 15 minuti, ma quello di andare alle radici del senso della elaborazione e della produzione culturale della nostra città e della nostra provincia, partendo sicuramente da quelle che sono le radici e gli archetipi, ma anche immaginando la cultura come strumento per sognare una città nuova, una provincia nuova e una società nuova a partire dal-
la cultura stessa. Indagare la natura della cultura ha significato immaginare con i suoi cittadini la città che non c’è, dai quartieri ai borghi del territorio circostante, ponendo i legami tra arte, natura e tecnologia alle radici di un nuovo concetto di cultura diffusa, inclusiva, in dialogo con l’ambiente che l’umanità condivide con il resto del vivente. Come spiegano i progettisti di PanSpeech, il gruppo di esperti e studiosi impegnato sui temi del patrimonio culturale, con cui Pesaro aveva già collaborato per il riconoscimento Unesco di Città della Musica, «la natura della cultura è un mistero “a portata di mano”, è qualcosa che si può scoprire solo con l’ascolto
attento e disponibile, perché è radicata nel saper fare quotidiano della comunità in cui viviamo. La natura della cultura ha a che fare con il rapporto che abbiamo col mondo circostante, mediato da arte e tecnologia che mostrano sempre più la necessità di un metodo comune di fronte alle sfide imposte dall’attualità». Nel concreto sono davvero tanti i progetti messi in campo da Pesaro 2024, in una contaminazione tra musica, arte, teatro, spettacolo e ambiente, attraverso le reti costruite nel tempo. Da quella dell’arte che fa leva sul Parco Urbano di Scultura a quella della musica in una trama di relazioni che coinvolge anche Popsophia, il festival della pop-filosofia, la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, il Rossini Opera Festival, fino al circuito regionale Amat che prevede “la città immaginaria” sperimentare percorsi e scenari nuovi, con un ritorno anche allo sguardo internazionale che in questi ultimi due anni è stato impedito dalla pandemia. Il progetto prevede anche la nascita di una Fondazione di comunità, fortemente improntata a livello sociale e istituzionale che possa coinvolgere enti locali, ma anche altre fondazioni, così come il mondo dell’associazionismo legato anche al welfare e alla cooperazione, per creare una rete di rapporti sia nella raccolta fondi che nella gestione di parti del programma e che possa coprire in maniera capillare tutto il territorio provinciale. Ora, i primi passi da fare saranno quelli di incontrare tutte le realtà con cui costruire l’architrave del progetto. ¤
Il dono
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Un’opera di Piattella a Pesaro capitale 2024 L'ARTISTA: “FELICE DI ESSERE QUI PIÙ CHE A NEW YORK”
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n una parete della sala de Consiglio comunale ora domina il “Polittico per Pesaro”, un acrilico su tavola realizzato tra il 2017 e il 2020 da Oscar Piattella
Sopra, il momento dell'inaugurazione del polittico per Pesaro, opera dell'artista Oscar Piattella
che l’artista ha voluto donare al Comune affinché possa essere musealizzato e fruito da tutti, aprendo simbolicamente il cammino dell’intera comunità verso il progetto che ha permesso a Pesaro di conquistare il titolo di Capitale italiana della cultura 2024.”E’ un ideale legame tra costa ed entroterra – spiega il vicesindaco e assessore alla Bellezza di Pesaro Daniele Vimini - tra luce del mare e della montagna, in un progetto che va alla ricerca di nuovi stimoli. E quello di Piattella rientra in questo cammino, in questa idea laboratorio”. “Felice di essere qui con voiinterviene Oscar Piattella all’inaugurazione del Politti-
co - pesarese tra i miei amati pesaresi e insieme ringraziare l’amministrazione che ha voluto con grande sensibilità far coincidere questo nostro incontro con la data del mio novantesimo compleanno. Sì, oggi compio novant’anni e vi voglio dire che amo la mia città con tutto il cuore e qui, ora, mi sento meglio che fossi ospite, con la mia opera, del Metropolitan Museum di New York o dell’Ermitage di San Pietroburgo. Perchè le cose devono stare anche così se si ama quel frammento di terra che ha nutrito la nostra adolescenza e formato la nostra visione del mondo”. “Il tempo – continua - non conta più quando certe radici hanno attecchito nella nostra mente fiorendo il nostro pensiero sull’esistenza. Ma mi sento di appartenere anche all’altra metà della mia vita, quella che ha visto trascorrere parecchie stagioni sotto il monte Catria che continua a condizionare la mia pittura come la montagna “Saint Victoire” ha condizionato per tutta la vita la pittura di Cezanne. Sono questi i luoghi che ti fanno diventare, che ti fanno essere quegli stessi luoghi. Io sono il nostro mare, il nostro dolce, pallido mare, io sono il verde dei monti intorno a Cantiano, io non posso che essere quell’azzurro, quei boschi, quelle pietre. Ma una volta accertata l’origine del nostro essere in quel modo, e quindi i princìpi di una sana coscienza, il nostro pensiero dovrebbe superare i confini dell’evidenza, che, sì ci conforta, ma che ci costringe a una vita di rassegnazione dominata dall’abitudine dei gesti quotidiani”.
Il dono
Il “Polittico per Pesaro” installato nella sala del consiglio comunale Un omaggio alla Pala del Bellini
In alto, Oscar Piattella davanti alla sua opera. Qui sopra l'acrilico su tavola
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“Da qui – spiega ancora Piattella - il desiderio, la volontà di andare oltre, di immaginare figure che non ci sono, come se egli, il pittore, si sentisse il primo pittore apparso sulla terra, perché egli è il “principio”. Non dico della sua ricerca dell’invisibile, nascosto dalla realtà visibile, dal succo fragrante della terra, ma proprio di ciò che non c’è, del prima che qualcosa appaia. Ed ecco di fronte a me, di fronte a noi, apparire quest’ornamento, non come da un sogno, perché i sogni appartengono al vissuto, sono la eco degli accadimenti della vita, evocano comunque un brano della nostra vita reale, ma come una immagine irrapresentabile perché non ha correlato se non nel “non nato”; come un atto di astrazione pura fuori del tempo e dello spazio che non concede spiegazioni né le vuole, svelandosi soltanto quando viene portata a compimento come dovrebbe essere la nostra vita, in ogni istante mai compiuta”. “Il rigore con il quale egli progetta ogni sua opera fin nei minimi dettagli- illustra lo storico e critico d’arte Alberto Mazzacchera - il ricorso alla matematica e all'emersione del "fraseggio geometrico", si allenta e scompare con l'immissione del colore sulla tavola. A condurlo è una magistrale padronanza delle tecniche e l'aver saputo sviluppare ulteriormente e raffinare equilibrio formale e armonia cromatica. Quell'ipnotico rincorrersi di punti, di linee, di quadrati, di rombi, di onde in armonica alternanza cromatica cela un lavoro duro e senza tregua che
magistralmente sfuma sui bordi in un non finito, che ha la potenza del rimando all'infinito universo. Più ci si pone con occhio libero dinanzi alle opere dell'ultima produzione di Piattella, più cresce la sensazione che si stia entrando in un territorio di confine, un fertile inesplorato spazio liminare della pittura; di una pittura autentica, capace di emozionare”. L’opera, nelle intenzioni dell’autore, vuol essere anche un omaggio alla “Pala per Pesaro” il capolavoro di Giovanni Bellini situata nei musei civici. “Ora il fatto che io abbia voluto accostare - precisa l’artista - o meglio, mi sia ispirato per questa mia opera alla Pala di Giovanni Bellini, è stato un atto di grande presunzione, per il quale chiedo umilmente perdono, anche se il rapporto con quell’immenso capolavoro si è limitato in parte alla considerazione, ma anche qui molto superficiale, dell’architettura lignea e poi all’estrema ricchezza e luminosità del colore, ma del colore in sé. Spero soltanto che questa mia fatica possa ancor più spingerci a frequentare il nostro museo per sostare silenziosamente di fronte a quel miracolo e sentire nell’intimo del nostro essere che qualcosa di inspiegabile sta avvenendo, fino a credere che forse è la folgorane bellezza che ci appare nella sua verità, che forse è il mistero della vita che si fa pittura, che forse è proprio la sua verità che si fa bellezza e vita viva. E’ fuori di dubbio che se ci accadrà, il nostro sguardo si farà più vasto verso tutte le cose e verso l’altro”. ¤
La mostra | 1
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Rembrandt, l’incisore archetipo dei selfie ESPRESSIONI ED EMOZIONI IN OLTRE CENTO OPERE
I di Luigi Benelli
l segno di Rembrandt, dal nero assoluto ai tratti veloci e febbrili. Per la prima volta, la città di Pesaro dedica una mostra al grande pittore e incisore Rembrandt Harmenszoon van Rijn (1606 Leida – 1669 Amsterdam). A Palazzo Mosca – Musei Civici, “Rembrandt incisore” propone oltre cento opere che raccontano la produzione grafica di uno dei massimi artisti di tutti i tempi. La retrospettiva, a cura di Luca Baroni, è promossa dal Comune di Pesaro – Assessorato alla Bellezza, in collaborazione con Sistema Museo e The Art.Co., e si potrà visitare fino al 25 aprile. Cinque le sezioni grazie alle quali entrare nell’opera grafica dell’artista. Il mezzo è l’acquaforte, una tecnica incisoria che permette la modulazione delle tonalità dal nero al bianco del foglio grazie alla capacità dell’artista di utilizzare il segno e dosare la permanenza della lastra nell’acido. Infatti è il mordente che scava i segni che comporranno l’opera. L’incisione è spesso slegata dalle
committenze e questo permette a Rembrandt di essere libero nelle sue composizioni sia per i soggetti che per i temi. Un mezzo straordinario che rivela tutta la modernità dell’autore. Il percorso inizia con “Ritratti e Autoritratti”. L’artista non ostenta se stesso ma vuole piuttosto sperimentare tensioni emotive, espressioni e stati d’animo attraverso le grinze del volto, lo sguardo, le labbra. È l’archetipo dei selfie della nostra generazione. Tra questi spiccano L’autoritratto con cappello (1638) e quello con la moglie Saskia (1636), eseguito subito dopo il matrimonio. Poi una serie di ritratti di persone che sono state vicine all’artista anche nei momenti di difficoltà sentimentale dopo la morte della moglie ed economica, dovuta al fallimento del 1656. Il focus grafico è sul loro volto, sulla loro personalità. Si prosegue con la rappresentazione del “Corpo, della figura e dello spazio”, un’occasione che permette allo spettatore di entrare nello studio di Rembrandt. Sono esposti alcuni modelli che il maestro ritraeva dal vero. Tra i lavori più interessanti l’esemplare Diana al bagno (1631). L’artista rifiuta gli ideali artistici della scultura classica e della perfezione. Rembrandt rappresenta le pieghe, i debordamenti della carne, le grinze, i cedimenti. La donna non è idealizzata, perché l’artista cerca il vero. E lo fa anche nella serie dedicata i mendicanti. Qui, come un cronista dell’epoca, celebra personaggi miserabili, vestiti di stracci rammentati che vagavano per Amsterdam, ma senza alcun
La mostra | 1
Cinque sezioni in esposizione a Palazzo Mosca di Pesaro su ritratti punti luce, corpi antico testamento e pensatori
Nella pagina precedente, l'autoritratto di Rembrandt con cappello e in alto il noto Erudito nello studio Di seguito i luoghi della mostra (Foto di Luigi Angelucci)
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giudizio morale. La mostra prosegue con il tema della “Notte”. Il buio permette all’artista di esaltare la sua tecnica incisoria e la capacità compositiva. Piccoli punti luce come possono essere torce o fiammelle evidenziano grovigli di personaggi che appaiono e scompaiono al balenare della luce. La gamma cromatica del nero permette la resa di diverse tonalità, artificio tecnico che esalta l’abilità del maestro. La grammatica del segno è ricchissima: tratti paralleli e perpendicolari definiscono le forme e la materia. Segni diradati e contorni aperti fanno filtrare la luce, fino all’utilizzo di tratti brevi, irregolari o punti per delineare incarnati e vestiti. Rembrandt gioca molto sulla percezione dello spettatore che è chiamato a completare il “disegno”, a leggere un corpo, un tessuto o un oggetto. Un segno mai codificato e omogeneo, ma piuttosto dinamico e ritmico. Le linee si dispongono libere, intersecandosi nei vari piani prospettici. Un linguaggio unico, libero e modulato. Il percorso si snoda nei fogli delle scene dell’Antico e del Nuovo Testamento, tra cui spiccano la grande Deposizione (1633), Cristo davanti a Pilato (1634) e la Morte della Vergine (1639). Ancora una volta la combinazione dei segni grafici ci restituiscono figure finite e non finite, ma ben riconosciute nel nostro immaginario. Nell’ultima sala, le suggestive figure degli Artefici e pensatori. Tra questi spicca un foglio eccezionale, il notissimo Erudito nello studio (anche noto come ‘Dottor Fau-
stus’, 1652), che ispirò generazioni di artisti (da Goethe a Victor Hugo a Ingmar Bergman) e che è stato scelto, con il suo alone di mistero, come immagine di copertina della mostra. Un’opera che ha avuto ben 44 interpretazioni e che appassiona studiosi e collezionisti. L’esposizione si contraddistingue anche per la scelta di presentare al pubblico i diversi ‘stati’ delle singole opere, ossia le molteplici varianti ad acquaforte e puntasecca che, a partire dalla prima redazione, Rembrandt o i successivi stampatori hanno inserito all’interno dell’immagine. L’eccezionale quantità di fogli presenti a Pesaro si deve al generoso contributo di collezionisti privati, tutti residenti nel territorio marchigiano, che hanno deciso di mettere a disposizione del pubblico alcuni dei loro tesori più preziosi per diffondere la conoscenza e la passione per l’incisione. Il curatore Luca Baroni, allievo di PhD alla Scuola Normale Superiore di Pisa sottolinea: «Dopo le grandi mostre dedicate all’opera incisoria di Albrecht Dürer (Gradara, 2019) e Federico Barocci (Urbino, 2020), sono lieto che anche Pesaro partecipi al ‘rinascimento grafico’ del nostro territorio con una mostra dedicata a Rembrandt, uno dei massimi, forse il massimo, incisore di tutti i tempi. La provincia di Pesaro-Urbino è tra le più ricche in Italia in termini di storia della grafica, incisione e collezionismo. Qui operarono grandi incisori come Barocci, Cantarini, Peruzzini e, in tempi più recenti, Castellani, Bruscaglia, Piacesi e molti altri». ¤
La mostra | 2
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I temi raffaelleschi animano le incisioni ESPOSIZIONE A URBINO ALLA CASA NATALE DEL DIVIN PITTORE
di Luigi Benelli
Nella foto un particolare della Venere Spinaria di Maestro del Dado
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affaello e l’incisione tra Italia e Paesi Bassi è la mostra alla casa natale del divin pittore a Urbino. In una società rinascimentale in cui spostarsi era complicato, le stampe incise a bulino potevano circolare in tutta la penisola e anche oltralpe. Una potenzialità che Raffaello, imprenditore e grande comunicatore, aveva ben compreso. Grazie ai bulini poteva divulgare le sue conquiste formali e prospettiche in un rinascimento sempre più maturo. Si tratta di un percorso che si snoda in 30 incisioni provenienti dalle collezioni dell’Università di Liegi (Museo Wittert) e della Città di Liegi curata dalla professoressa Dominique Allart e An-
tonio Geremicca. Da un lato si vedono testimonianze rare e di altissima qualità dell’incisione antica a tema raffaellesco; dall’altro si apprezza la misura in cui gli antichi Paesi Bassi e il principato di Liegi hanno recepito le sollecitazioni raffaellesche nel loro linguaggio grafico. La mostra,
aperta fino al 26 giugno, è segno tangibile di un felice rapporto di collaborazione, di studio e di ricerca condivisi tra l’Università di Liegi e l’Accademia Raffaello. Il direttore dell’Accademia Raffaello Luigi Bravi ne spiega i contenuti: «Il mondo delle incisioni ha avuto enorme importanza per la diffusione del Raffaellismo. È stato il principale veicolo per la conoscenza delle opere uniche del maestro. La traduzione in incisione ha permesso a tutti di conoscerle, non solo in Italia. I fogli hanno anche consentito di unificare il gusto classico a livello internazionale. Le stampe di soggetti di Raffaello sono arrivate in tutta Europa. Ma proprio al principato di Liegi c’è stato un fenomeno particolare. Il divin pittore realizzò i cartoni per gli arazzi che sono stati poi realizzati dalle manifatture dei Paesi Bassi. Da lì è partita una produzione locale incisoria legata al tema raffaellesco. I suoi cartoni hanno avuto un grande influsso, sia per le opere di riproduzione che di ispirazione. Nelle prime sezioni della mostra si vedono fogli legati direttamente alla bottega di Raffaello, poi ci sono i bulini di ispirazione prodotti nei Paesi Bassi». La mostra rientra nelle annuali celebrazioni raffaellesche che saranno seguite da una conferenza a maggio di Matteo Lanfranconi direttore delle Scuderie del Quirinale che darà una panoramica complessiva delle celebrazioni realizzate in occasione del 500enario della morte anche in relazione alla mostra in corso alla National Gallery di Londra “Raphael”. ¤
Il segno
S di Walter Valentini
“Ero ragazzo e in tempo di guerra ero incuriosito da un personaggio di origine ebraica rifugiato a Pergola che dipingeva”
ul quaderno a quadretti di matematica erano più le immagini che disegnavo con la matita, copiandole dall’antologia di lettere, che le equazioni e gli esercizi vari che il professore ci assegnava come compiti. Quando il maestro si accorse di questo strano quaderno mi disse che avevo proprio sbagliato scuola. Allora frequentavo la quarta ginnasio e a dir la verità non c’era altra scuola, nella mia piccola città. A Pergola, in tempo di guerra non si poteva certo scegliere. E quindi, i miei precettori, me li scelsi io. Erano un professore di lettere, un giornalista che lavorava a Roma al Messaggero, un tenente colonnello dell’esercito e un’attrice. Erano tutti a Pergola, sfollati, nascosti. Si fecero venire un’idea, quella di usare il Teatrino dei Preti per realizzare uno spettacolo impegnativo: “Le catene” di Ibsen. Il tenente colonnello si improvvisò scenografo e io riuscii, con le buone maniere e con l’interesse dimostrato, a diventare il ragazzino tuttofare del gruppo. Cominciai con il reggere il barattolo del colore al tenente colonnello che dipingeva delle foglie nella parete e con il suonare il gong quando si chiudeva il sipario alla fine dello spettacolo. Insomma, quando capivo che da una qualsiasi situazione avrei potuto imparare qualcosa, io ne approfittavo. Ero affascinato seguendo le prove, e incredulo, nel constatare che gli attori si trasformavano, anche fisicamente. Mi chiedevo come fossero capitati nella mia piccola città. Del resto succedeva, di tanto in tanto, di incontrare nuove persone. Erano sfollati o internati,
quasi tutti per la loro origine ebraica. La legge razziale li obbligava, tutte le sere, a recarsi alla caserma dei carabinieri per confermare la loro presenza. Gente silenziosa, riservata, dignitosa, sicuramente preoccupata per il suo stato incerto ma che riusciva a integrarsi con i cittadini. Una famiglia, in particolare, si era nascosta in un podere appena fuori Pergola: era composta da una madre, un padre e un figlio. Quest’ultimo, in particolare, destava in me una grande curiosità per il suo comportamento. Percorreva Corso Vittorio Emanuele con passo spedito e si infilava in una delle stradine laterali che portavano in campagna. Lo sgabello che aveva sempre con sé e una piccola cassetta mi suggerivano la sua identità: era un pittore. Era la prima volta che mi capitava di vedere un artista. La mia indole mi portò a seguirlo con grande discrezione, anche se temevo che questa mia presenza potesse distur-
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Io artista per un tubetto a olio color bianco VALENTINI RAGAZZO E IL PRIMO INCONTRO CON LA PITTURA
barlo. Non fu così e un giorno mi chiese perché lo seguissi. Raccontai della mia curiosità e della mia enorme ignoranza per ciò che riguardava la pittura. Nel frattempo, mentre lui lavorava, avevo capito che potevo avvicinarmi sempre di più. Finalmente avrei potuto vedere da vicino un quadro che nasceva dal pennello di un artista. Ero felice di questa scoperta e delle tante informazioni sul mondo dell'arte che Albert Alkalay, era questo il suo nome, mi continuava a dare. Quella mattina, mentre aspettavo che lui passasse davanti al portone di casa mia, si fermò e aprendo la cassetta dei colori prese un tubetto dicendomi che mi voleva fare un regalo: era un tubetto a olio di colore bianco. La giornata seguente aspettai che lui uscisse dalla Voltarella per imboccare la strada che percorreva di solito. Ma quel giorno non arrivò e non arrivò neanche il giorno dopo, e così per tanti altri giorni. Non lo vidi più. Con il tempo, diventai pit-
“Un giorno mi fece dono un tubetto. L’ho incontrato di nuovo a Boston Ero lì con i miei quadri realizzati proprio con il colore bianco”
Albert Alkalay
tore anch’io. I miei quadri cominciavano a viaggiare. Arrivarono anche a Boston, alla Massachusset University, dove i docenti di lingua italiana organizzarono una mostra di alcuni artisti del Bel Paese. Tra i presenti all’inaugurazione, qualcuno pronunciò il nome “Alkalay”. Scoprii subito che si trattava proprio del mio primo maestro e che insegnava teoria del colore all’Università di Harvard. Incredibile! Che sorpresa! Ci incontrammo. Io, emozionatissimo. “Sono quel ragazzino pergolese che la seguiva mentre lei dipingeva, e sono qui con i miei quadri bianchi realizzati anche con il colore bianco del tubetto che lei mi regalò”. Ripercorremmo i tempi trascorsi e mi parlò di quanto la mia città fosse stata generosa con lui, salvandolo dalla deportazione. Io lo ringraziai per quell’importantissimo regalo che mi fece entrare nel mondo della pittura. E grazie ancora, Albert Alkalay. ¤
L’artista | 1
L’ di Federica Facchini
albero è spesso legato a simbologie profonde e molto antiche. In psicologia, l'albero rappresenta l'io, la personalità, il rapporto con la propria interiorità. Nell'arte è un’immagine da sempre rappresentata in tutte le civiltà: immagine di simboli che derivano prevalentemente dal fatto che l’albero sia considerato come un ponte, un collegamento, tra terra e cielo e di conseguenza, tra l’Umano e il Sacro, tra il Bene e il Male, tra la Vita e la Morte, tra lo Ying e lo Yang. Sin dai tempi antichi l’albero simboleggia anche la figura
del saggio, dunque la Conoscenza. Ancora oggi l’albero non smette di affascinare gli artisti che vedono in questo soggetto una fonte mai esaurita di ispirazione. Uno di questi è sicuramente Guido Armeni (Cremeno di Lecco - 1944) anconetano di adozione, che si dedica alla pittura e alla scultura traendo ispirazione dalla natura e interpretandola in atmosfere astratte in cui compare fin da subito l’albero come simbolo di vita. «La ragione dell’albero non era la famiglia. Nacque in
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Gli alberi mai verdi di Armeni quasi sospesi nel mare indefinito PER L’ARTISTA SONO SIMBOLO DI LIBERTÀ, LIBRANDOSI VERSO LA LUCE E TRASMETTONO SERENITÀ, SICUREZZA OPERE TRIDIMENSIONALI CON TRONCO ESILE E FRONDE VAPOROSE
un giorno qualsiasi in una mansarda rossa e nera dove lavoravo, non era nato per la mercificazione ma pensando ad un concetto green» racconta l’artista. Diplomato all'Istituto Statale d'Arte di Ancona, studia all'Accademia di Belle Arti di Urbino e alla Scuola di grafica e d'incisione. I primi lavori pittorici nacquero tra la seconda metà degli anni Settanta e gli anni Ottanta e l’albero per Armeni diviene subito un segno, un simbolo di libertà, quella di librarsi verso l’alto, verso la luce. Sempre dipinto su fondi
astratti e sempre senza radici. «Vengo dal mare e i miei alberi non sono radicati» aggiunge. Da appassionato velista e con tanti anni di esperienza nelle regate d’altura in Adriatico, classificatosi più volte ai primi posti nel Campionato italiano assoluto di Vela d’Altura, ha raccontato come prima della tempesta, navigando dall’Italia alla Croazia, con il sole tassativamente a est, si riesce a scrutare in lontananza, gli alberi sulla costa, anche da una distanza che a volte, può anche essere di 6 o 7 ore di naviga-
zione. Alberi che in quei momenti trasmettono un placido senso di serenità, sicurezza e tranquillità. I suoi alberi, sempre uguali nella forma e molto materici, si stagliano su paesaggi immaginari spesso vergati con una penna di gabbiano. Subiscono variazioni solo nella forte valenza cromatica, caricandosi di suggestioni estetiche e simboliche. Per Armeni però l’albero non è e non sarà mai verde, proprio perché non ha attinenza con il reale ma è legato al suo immaginario, alla sua memoria, al sogno e alle sue proiezioni inconscie.
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L’emozione visiva per Armeni viene dal colore dai ritmi cromatici che compone come fossero spartiti musicali
In alto, un angolo dello studio di Guido Armeni. Qui sopra, l'artista davanti ad una sua opera
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Sono alberi senza radici ma connotati da un forte plasticismo, da una meticolosa costruzione che nel tempo si è avvalsa di ricerca e sperimentazione nei supporti e nei materiali per creare effetti visivi stereometrici, di profondità e di movimento. L’emozione visiva per lui viene dal colore, dai contrasti, dalle associazioni e dai ritmi cromatici che di volta in volta compone come fossero spartiti musicali. La figura non è mai compresa nella sua pittura. Figura a cui invece si concede nella scultura. Basti pensare alla Stamira, l'eroina dorica che durante l'assedio di Ancona del 1173, ebbe il coraggio di uscire da una porta cittadina per incendiare l’accampamento nemico, noncurante dei soldati che tentavano di ucciderla. La scultura in bronzo di Armeni, posizionata nel luglio 2005 tra la piazza e la via a lei dedicati (rispettivamente piazza Stamira e
corso Stamira), la rappresenta come una giovane audace e pronta, protesa al pericolo come la polena di una nave. Il mare, appunto, è sempre una chiave di lettura della sua arte, a volte presente nei materiali o strumenti che utilizza, provenienti anche dal mondo della nautica, a volte nei simboli e significati. Ancora altre sculture figurative sono il “Crocifisso” per la Chiesa di San Marcellino a Roma (2011), le “Vele” scultura in bronzo installata al Porto Marina Dorica di Ancona e inaugurata nel 2008 in occasione della Regata Del Conero. Il busto bronzeo di “Corelli” sulla sommità dello scalone ottocentesco d'ingresso del Teatro delle Muse di Ancona. Una passione quella per la scultura che nel quinquennio tra gli anni 2000 e 2005 gli fa addirittura abbandonare quasi totalmente la pittura. Rapito dal furor della modellazione plastica tanto nel marmo quanto nel bronzo. In precedenza come scultore aveva indagato geometrie e movimento, lasciandosi ispirare dall'arte egizia e precolombiana, da geroglifici e antiche simbologie e giungendo alla realizzazione di totem, steli o piramidi dalle valenze ancestrali. Un linguaggio semplice e diretto quello di Armeni che ha sempre preso ispirazione dalla natura per manifestare un atteggiamento di attenzione nei suoi riguardi ma anche per attingere dalla sua forza primigenia aspetti e valori da infondere con una riconosciuta sintesi formale, nella pittura, nella scultura o nel disegno. ¤
L’artista | 2
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L’albero è la sua firma Il mare la sua passione ARMENI, DAI SUOI OCCHI TRASPARE IL PIACERE DELLA SFIDA
di Franco Elisei
Armeni con l'equipaggio della sua imbarcazione con cui sfida il mare in epiche regate
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sa alcune penne di gabbiano per realizzare le sue opere. “Perché rendono il tratto morbido” chiarisce. E come i gabbiani prende il volo dal mare verso la terra, verso i suoi alberi materici, prima quasi emergenti dal mare ora accompagnati da uno sfondo in cui si intravvedono anche forme sfumate di case dalle finestre tratteggiate. “E’ un’idea nuovissima, nata durante il periodo del Covid. Prima dipingevo uno sfondo astratto, ora aggiungo un paesaggio urbano”. Guido Armeni ha 78 anni “e ci tengo a dirlo” precisa. Ha vinto fin da giovanissimo
studente d’Accademia, premi importanti ed ha passato anche momenti difficili, superati proprio con la vendita dei suoi quadri. Lo hanno definito l’”artista navigante” per via della sua partecipazione alle regate. Ha una barca da
competizione ma non la usa per viaggi da crociera. Vuole competere. “io vado per vincere” afferma. Dai suoi occhi traspare il piacere della sfida, sempre. Anche ora. Uno sguardo vigile, pronto a cogliere sfumature di piacere e a testimoniare un vissuto intenso di emozioni. “La barca a vela – racconta – mi ha aiutato molto anche nella ricerca dei materiali per le mie opere, materiali da impastare con le resine”. Le regate, in verità, gli hanno lasciato anche agilità ed elasticità nei movimenti. Si muove come un gatto nel suo laboratorio a Falconara Alta, a cento metri dalla sua abitazione. Spesso in compagnia del suo cane “Blu” di due anni, che lo osserva incuriosito ma anche un po’ distratto mentre l’artista cerca di ultimare l’ennesimo quadro con un albero dal tronco esile e le fronde vaporose. Non è soddisfatto. Lo guarda, lo riguarda, lo mira e rimira. “Manca qualcosa spiega - Non c’è equilibrio. Forse un po’ di colore qui”. Lo accenna, poi si ritrae. “Ci penserò domani, quando lo osserverò ancora. L’artista deve prendere coraggio e non aver paura di sbagliare. Io ho sbagliato già tante volte”. L’albero è ormai la sua firma. Opere tridimensionali e morbide. Senza titolo ,“lascio libera l’interpretazione”. Apparentemente sempre uguali. La loro diversità è marcata da sfumature e colori che suscitano emozioni. “Non c’è quasi bisogno che sigli le mie opere - confida L’albero fa parte della nostra vita, della nostra cultura. E per me l’arte contempora-
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Ha 78 anni e spesso va in laboratorio con il suo cane “Blu” Per lui l’arte contemporanea è creare emozioni con il colore
Qui sopra, l'artista spiega la tecnica delle sue opere (Fotoservizio di Sergio Giantomassi)
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nea è creare emozioni con il colore”. I suoi alberi emergono dalle tele: sono intrisi di bianco titanio, sono blu, rossi e neri. “Mai verdi. Voglio distaccarmi dalla realtà.”. “Potrei definirmi - aggiunge ironico - artista navigato. Di esperienza. Ma sono anche molto emotivo. Ho sempre le lacrime in tasca. Come quella volta, circa trenta anni fa, quando in una regata, nel tratto tra Venezia e Trieste, abbiamo avvistato diversi delfini. Ad un certo momento un delfino femmina si è avvicinato alla barca con il suo piccolo. La poppa di una imbarcazione da regata è recisa e mi ci sono sdraiato sopra chiamandola. Senza timore, ha raggiunto lo scafo fino ad appoggiare il muso sulla piana della barca. Sono riuscito ad accarezzarla, era incredibilmente liscia. Mi ha guardato e si è sfilata. Non lo dimenticherò mai. Un’emozione grandissima che mi ha fatto piangere. Ho pensato:
quel delfino ha avuto fiducia in me. Ecco chi è Armeni. Questo sono io”. “Ma sono anche pratico, pragmatico, riesco a realizzare un’opera in pochissimo tempo. E senza sporcarmi“. Anche Stamira, la statua in bronzo di tre metri collocata nell’omonima piazza ad Ancona, è stata creata in un tempo record: “Ci ho impiegato cinque ore, muovendomi su uno sgabello traballante. L’ho immaginata come una polena. Non l’ho rifinita del tutto. Ho volutamente lasciato le imperfezioni, altrimenti sarebbe venuta come una delle tante statue. E’ stato un attimo. E’ successo qualcosa che non so, qualcosa di così bello che non ho voluto ritoccare l’opera, non ho cercato la perfezione”. “L’arte è psicologica, emotiva e allo stesso tempo suscitata dall’osservazione del reale conclude - L’arte è per tutti e dovrebbe essere anche meno cara”. ¤
La pubblicazione
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Da Giotto a Steinberg l’albero nell’arte TULLIO PERICOLI NE RIPERCORRE LE FORME IN UN LIBRO
T di Franco De Marco
Il pittore ascolano famoso interprete del nostro paesaggio ha osservato come l’albero è stato rappresentato nel tempo
ullio Pericoli, il grande pittore e disegnatore originario di Colli del Tronto, con incursioni di straordinaria intelligenza e raffinatezza anche nella letteratura, è l’indiscusso interprete del paesaggio marchigiano e ascolano in particolare. E l’albero, e le foreste, sono da sempre segni identitari della sua arte che, quando si tratta di paesaggio, non ha nulla a che fare con il vedutismo fotografico ma scava nelle viscere della terra e racconta poeticamente la storia del territorio. In alcune sue opere gli alberi hanno una presenza molto forte. Ad esempio, per citarne alcune, il dominante “Albero” del 1996, “I cavalieri escono dall’ombra” del 1993 o “Incontro del pittore e la modella” sempre del 1993 o “Altopiano” del 1998. Gli alberi, grandi o piccoli, sono spesso protagonisti. Tanto è importante l’albero, con tutti i suoi molteplici simbolismi nel corso dei secoli, albero della vita, della rinascita, dal collegamento tra terra a cielo, della conoscenza, della saggezza, della spiritualità, del benessere fisico, eccetera eccetera, che il pittore ascolano ha addirittura dedicato all’albero un delizioso libricino , titolo “Attraverso l’albero”. Si tratta di “Una piccola storia dell’arte” pubblicata da Adelphi nel 2012. Come mai questo omaggio all’albero nella storia dell’arte? Lo spunto venne all’artista quando, nel 1998, lo scrittore Michael Kruger, della casa editrice Hanser di Monaco, gli chiese di illustrare il racconto di Jean Giono “L’uomo che piantava alberi”. “Mi venne in mente - afferma Tullio Pericoli nella pubbli-
cazione - una grande tavola, una sorta di catalogo in doppia pagina da sistemare al centro del volume. In realtà non c’entrava proprio niente con il racconto, ma mi piaceva molto l’idea: disegnare i cambiamenti della forma dell’albero nella storia della pittura, dal Rinascimento ad oggi. La retrodatai un po’ e cominciai da Giotto”. “Da quella doppia pagina - continua Tullio Pericoli - è nato questo volumetto che, albero dopo albero, ripercorre sinteticamente un tratto della nostra storia dell’arte, analizzando le forme che la pittura ha inventato per rappresentare l’albero e osservando come l’albero è servito alla pittura, Da Giotto alla fine del Novecento. Ma con chi concludere? Pensai subito a Steinberg, un artista da me tanto amato, tanto ammirato, al quale non ho rubato materialmente molto, come ho fatto con altri, ma la cui genialità mi ha sempre enormemente arricchito”. In questa sua originale storia dell’arte attraverso l’albero, Tullio Pericoli ha attinto quindi da Giotto, il primo della serie, Paolo Uccello, Andrea Mantegna, Giovanni Bellini, Sandro Filippini detto Botticelli, Hieronymus Bosch, Leonardo da Vinci, Piero di Lorenzo di Chimmenti detto Piero di Cosimo, Lucas Cramach, Albrecht Altdorfer, Pieter Bruegel il Vecchio, Nicolas Pussin, Katsushika Hokusai, Caspar David Friedrich, Joseph Mallord Willam Turner, Paul Cezanne, Henri Rousseau, Paul Gauguin, Vincent van Gogh, Georges Seurat, Gustav Klimt, Henri Matisse, Piet Mondrian, Paul
La pubblicazione
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Pericoli meriterebbe una articolata esposizione permanente dei suoi capolavori che raccontano la natura e i paesaggi
Nella pagina precedente la copertina del volume di Tullio Pericoli sugli alberi nell'arte. Qui sopra alcune illustrazioni dello stesso autore e pittore
Klee, Fernand Leger, Pablo Picasso, Giorgio De Chirico, René Magritte, e, a chiursam Saul Steinberg. Da marzo 2019 a maggio 2020, nel Palazzo dei Capitani del Popolo di Ascoli, si è svolta con grande successo la mostra antologica di Tullio Pericoli “Forme del paesaggio. 1970-2018”. Qui l’artista ascolano-milanese (vive a Milano) ha scelto di costruire un percorso a ritroso nel tempo che dal presente risale, attraverso l’evoluzione della sua arte, dalle attuali frammentazioni visionarie alle originarie esplorazioni geologiche. A Palazzo Reale di Milano Tullio pericoli ha chiuso a gennaio l’altra grande mostra dal titolo “Frammenti” curata dal critico d’arte Michele Bonuomo. Il suo non è semplice paesaggio ma è la stratificazione della terra che non si limita all’esterno del paesaggio ma scava nel sottosuolo, cerca le radici e racconta la storia. Tullio Pericoli è sicuramente tra i più grandi pittori e
disegnatori italiani. Orgoglio delle Marche. I suoi paesaggi, seppur universali, partono proprio dalle Marche e in particolare dalle colline del Piceno. Forse però le Marche, anche se nel corso degli anni non sono mancate le mostre e gli omaggi, ancora non gli hanno dedicato l’attenzione che merita. Tullio Pericoli meriterebbe, a nostro giudizio, certamente una articolata esposizione permanente dei suoi capolavori che raccontano il divenire del paesaggio marchigiano. Ovvio che toccherebbe in primo luogo al capoluogo piceno questa iniziativa. Per la verità già la Galleria d’arte contemporanea di Ascoli Piceno, intitolata ad Osvaldo Licini, ospita alcune opere di Tullio Pericoli. Ma bisognerebbe allargare maggiormente il panorama su questo artista con una mostra permanente che racconti, in maniera esaustiva, il suo percorso artistico. ¤
L’esegesi
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Ecco, l’albero sono io mio essere e non essere MI RAPPRESENTA, È LA MIA PROIEZIONE, IL MIO ALTER EGO
L’ di Giordano Pierlorenzi
albero nell’arte, segnatamente nell’arte grafica e della comunicazione, una sorprendente chiave di lettura critica o esegetica dell’evoluzione dell’uomo. L’albero è ‘impiantato’ nella vita vissuta di ciascuno di noi come un faro che protegge, rasserena e orienta. Non è un caso infatti, che nell’iconografia classica talvolta appaia in disegni ed illustrazioni stilizzate in modo antropomorfico. Dell’uomo, è un compagno costante, un confidente silenzioso, un confortevole rifugio, un concerto di armonie e soavità di cui i sensi godono e si nutrono. Un antico detto sapiente sentenzia: “Gli alberi sono liriche che la terra scrive sul cielo” e aggiungerei testimoni e
scriba rispettosi della storia di cui sono fisiologicamente tracciamento evolutivo. E ancora, nel Cantico dei cantici (2,3) lo sposo è paragonato ad un albero: "Alla sua ombra, cui anelo, mi siedo, e dolce è il suo frutto al mio palato". Nei primi ghirigori, abbozzi di disegno infantile che sono il tentativo di rappresentare la scena di vita in cui campeggiano abitualmente la casa, i genitori, i monti, il fiume, non ritroviamo forse, immancabilmente, l’albero schizzato? Perché? Perché l’albero sono io, mi rappresenta, mi identifica; è la mia proiezione, il segno del mio incedere, l’esistere: il mio alter ego. Con Heidegger oserei dire, è la mia ontologia, il mio essere; la mia deontologia, il mio dover esse-
L’esegesi
C’è chi sceglie per affinità elettiva la quercia, il tiglio il leccio o il gelso ma tutti a Natale godiamo della regalità dell’abete
48 re; e pure, la mia meontologia il mio non essere: le cose e le azioni da evitare di compiere Si, l’albero è l’archetipo principe! Il simbolo iconico della vita, personalizzato attraverso la libera scelta della tipologia botanica più incline alla particolare sensibilità e conoscenza di ciascuno. Ne diviene il distintivo. C’è chi sceglie per affinità elettiva la quercia, chi il tiglio, chi il leccio, il larice, il gelso, l’ontano; ma tutti facciamo l’esperienza di comunità con la fragranza e la regalità dell’abete nel ricorrente più famoso e caro genetliaco: il natale. La civiltà declinata nelle più svariate modulazioni etno-culturali è debitrice della sua funzione di esempio e stimolo per l’uomo di ogni latitudine a procedere e progredire senza rassegnarsi, deflettere, ma al contrario a rintuzzare le proprie energie ed investirle in una vita in pienezza come insegnano la pervicacia delle sue radici, il rigoglio delle sue fronde, la bontà dei suoi frutti e la robustezza del suo fusto. E la corteccia, ne è la texture, l’evidenza della sua salute e lo sprone ad imitarlo. Il segno Per Ferdinand de Sausurre il segno è l’unione di significante e significato, cioè della forma e del contenuto: facies et species. Il segno è qualcosa che indica qualcos’altro; e dunque, l’albero è il segno che riepiloga la vita nella sua potenza, l’unione dell’essenza vitale, zoe, e dello scorrere dell’esistenza, bios: lo stupore del seme che si trasforma in pianta in un profluvio di germinazioni. In latino albero, arbor, appartiene alla radice urv, urb, arb, e richiama perentoriamente il valore di fecondità e la missione di generare vita. E così, analogamente all’uomo, l’albero comunica attraverso un sistema di segni appartenenti alla singola specie, che mutano con il contesto
simbiotico geoambientale, gli accidenti atmosferici, l’età e le stagioni della vita, ma soprattutto cambiano nelle relazioni che intrattiene con l’uomo non sempre di rispetto e reciprocità. Comunica attraverso le radici con cui si abbarbica al terreno fissando la sua zona di influenza e dominio; comunica attraverso i rami, le foglie, i fiori, i frutti manifestando capacità di adattamento, accoglienza e mutualità con gli uccelli e altri animali e piante parassitarie. Il suo regime sinergico è un modello ecologico esemplare di cui l’uomo dovrebbe fare più esperienza emulativa. E ancora, comunica attraverso il tronco e la corteccia ed infine, con la disseminazione, la germinazione di semi che il vento e gli animali s’incaricano di spargere a profusione. Questi, con altri segni pure, esprimono magnificenza, generosità, plasticità. Ecco, l’albero è un principe della terra per popolarità, stabilità, solidità, fertilità. E’ l’immagine ipostatica - èidos e eikòn -, la rivelazione della bellezza statuaria sacra - kalokagathia-, di una natura prodiga, tutta protesa a vantaggio dell’uomo e delle altre creature. E’ il segno, non solo il simbolo, della vita e del suo svolgersi nell’esistenza individuale e sociale. Il bosco, la vigna, le piantagioni, i parchi marcano il territorio di verde che è il colore della speranza, come pure del benessere e della serenità. L’uomo e l’albero dunque, due cifre, complementari dell’universo. Il simbolo Interpellando fugacemente le cronache storiche e spiluccando qua e là su internet, si possono trovare le più svariate locuzioni semantiche afferenti all’albero: in Eden l’albero della conoscenza o del bene e del male, causa della caduta dell’uomo; l’albero di natale, la solennità sacra alla famiglia; l’albero genealogico, la
L’esegesi
ricostruzione della stirpe, l’origine genetica di ciascuno; l’albero degli impiccati, (dal film di Delmer Daves), supplizio dei condannati; l’albero degli zoccoli (dal film di Ermanno Olmi), fornitore al contadino della materia per le calzature dei figli; l’albero maestro, pilastro dell’imbarcazione; l’albero motore, trasmettitore di potenza e abbrivio; l’albero della croce, su cui si è consumato il sacrificio di Gesù per l’umanità. E così via, tra referenzialità e metafora, troviamo anche nel linguaggio comune moderno e non solo in quello antico, il termine ricorrente di albero nei contenuti più diversi, ma sempre positivi, semanticamente pregnanti, carichi e densi di valori umani e trascendenti. Se poi, ci addentriamo nei settori dell’araldica e nell’iconografia delle bandiere degli stati, troviamo a dovizia l’impiego artistico dell’immagine arborea a sottolineare dove i caratteri identitari di un casato nobiliare, dove la storia distintiva di una nazione o della sua terra. Perché l’albero è maestro di vita e si presta per la sua larga pluralità, duttilità e poliedricità a rappresentare al meglio, a sublimare le peculiarità di qualsivoglia realtà o ente. Non a caso troviamo di frequente, la sua effige stilizzata con segni grafici o pittogrammi moderni anche nelle icone degli smartphone, dei software, dei siti, dei social; insomma, in tutta la comunicazione digitale. Nell’araldica rappresenta il potere della famiglia e del suo stemma o blasone in cui lo stilema dell’albero, le sue foglie, i fiori, ne denotano le qualità e le gesta epiche del capostipite o di qualche grande avo che ha reso prestigio al lignaggio. Eccone una sintetica descrizione: “In araldica l'albero è rappresentato abitualmente terrazzato, cioè con le radici nascoste; nel caso opposto, ovvero in cui esse sono visibili, è detto sradicato. Simboleg-
49 gia la concordia, perché i vari rami giungono tutti allo stesso tronco. Quando è secco, invece, simboleggia malinconia, impresa non riuscita” (da wikipedia). Per quanto riguarda poi, il simbolo arboreo sulle bandiere nazionali si possono ricordare ad esempio quelle del Libano che riporta l’effigie intera del biblico cedro; di Cipro con rami d’ulivo analogamente a quella dell’Eritrea; mentre quella di Macau riporta la silhouette di un fiore acquatico. Il Canada infine, usando la figura retorica della sineddoche, esibisce con orgoglio al centro del suo vessillo, la foglia di acero, pianta che cambia colore a seconda delle stagioni, caratteristica del territorio ed espressione dell’indole robusta del suo popolo. Il significato Nelle civiltà antiche e in quelle moderne con differenze religiose, artistiche e culturali l’albero rappresenta sempre la vita nel suo evolversi esistenziale. L’albero della vita infatti, è presente nell’arte grafica delle religioni sia monoteistiche che politeistiche. “L’albero della vita, però, non è un albero qualunque. È una raffigurazione fortemente simbolica che racchiude significati spesso esoterici (come nel caso della Cabala) o religiosi (come nell’Ebraismo o nel Cristianesimo). Fin dalle sue origini l’albero è sempre rigidamente simmetrico e, in base alla civiltà di riferimento, può somigliare ad una palma, ad un sicomoro, un melograno o ad altre specie particolari” (da wikipedia). Così in Mesopotamia all’epoca assira e nell’antico Egitto l’albero della vita, un tronco d’acacia probabilmente, raffigurava spesso il re, il faraone, in associazione alla divinità. E lo stesso Nilo, il fiume della vita e prosperità, era rappresentato dall’albero somigliante al delta della sua foce. Nella mitologia greca
Analogamente all’uomo l’albero comunica attraverso un sistema di segni ed è un modello ecologico esemplare
L’esegesi
L’albero è presente nell’arte grafica delle religioni Lega la terra al cielo perché riproduce l’aspirazione dell’uomo alla trascendenza
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poi, l’albero della vita coincide con l’albero dalle mele d’oro presente nel giardino di cui le Esperidi, figlie di Atlante, sono custodi e dove Ercole uccide il serpente Ladone per cogliere le mele che donano l’immortalità. L’iconografia dà ampia descrizione della somiglianza con ciò che accade in Eden, il paradiso terrestre della tradizione ebraico-cristiana. E ancora, l’albero per gli ebrei rappresenta l’idea della bellezza e fertilità, mentre per i cristiani i valori di santità e resurrezione. L’albero di Jesse ritorna spesso nell’arte cristiana perché disegna la genealogia di Gesù, figlio di Davide, figlio di Jesse. Il Cristianesimo, a partire dal basso medioevo, darà grande risalto all’iconografia dell’albero della vita, di cui ad Otranto è visibile ancora il meraviglioso mosaico pavimentale del 1165 del monaco Pantaleone. Nella civiltà romana infine, le piante sacre, in particolare il fico, l’ulivo, la vite, sono presenti ovunque negli spazi pubblici, e le loro effigi d’arte compaiono sulle decorazioni edili e monumentali, sulle insegne dei commerci nel forum venalium dedicato ai vari generi alimentari. L’aniconismo e iconoclastia
Nelle pagine precedenti le illustrazioni sono di Sergio Giantomassi Qui sopra un particolare dell'opera di Gustav Klimt "l'albero della vita"
L’unicità e l’alterità proprie della divinità nelle religioni monoteistiche abramitiche ed islamiche non ne consentono alcuna rappresentazione, donde l’aniconismo l’assenza di produzioni di immagini del mondo naturale e soprannaturale. E’ tabù, divieto assoluto. L’arte pertanto, in questi mondi ha preso altre strade come quelle dell’architettura,
dell’artigianato, della manifattura pregiata di oggetti utili e tessiture – un vero design ante litteram – , di cui l’archeologia dà conferma . La svolta avviene con il Cristianesimo e il suo teandrismo, - il Cristo, uomo e Dio -, nella Persona di Gesù: l’epifania, la manifestazione di Dio da Lui rivelato e fatto conoscere attraverso il suo volto umano. E’ raffigurato ovunque, nelle chiese, nelle croci, nelle icone, negli oggetti sacri, nei libri miniati e nei santini devozionali. Il Cristo Pantocratore di Monreale o di Cefalù, può provocare davvero la sindrome di Stendhal. La profusione dell’arte sacra, delle icone però, ad un certo punto della storia è stata ferocemente combattuta con la distruzione di tutte le immagini sacre. Si tratta de “L’iconoclastia o iconoclasmo … un movimento di carattere religioso sviluppatosi nell'impero bizantino intorno alla prima metà del secolo VIII. La base dottrinale di questo movimento fu l'affermazione che la venerazione delle icone spesso sfociasse in una forma di idolatria, detta iconodulia" (da Wikipedia). L’iconografia dell’albero tuttavia, sopravviverà con le sue stupende icone continuando a promuovere il suo significato di vita piena e il suo simbolo di eternità attraverso la bellezza dell’arte. L'albero è dunque, un oggetto di culto molto diffuso in tante parti del mondo ed in diverse epoche, perché disvela la scintilla divina nell’uomo di cui è immagine: la sinderisi di cui parla san Girolamo. L’albero lega la terra al cielo, perché riproduce l’innata aspirazione dell’uomo alla trascendenza. ¤
La psicologia
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Il disegno dell’albero svela la personalità SULLE VARIE ANALOGIE ANCESTRALI È BASATO UN NOTO TEST
I di Catia Mengucci
Qui sopra lo schema del simbolismo spaziale di Pulver
l legame tra l’umanità e gli alberi si perde nella notte dei tempi ed ha generato contenuti psichici depositati nel nostro inconscio collettivo: emozioni reiterate nel corso della maturazione dell’uomo e riferite ad esperienze di vita e di morte, comportamenti selezionati nel tempo per la sopravvivenza, spinte istintive alla ricerca di rifugio o di cibo, vissuti connessi alla scoperta del fuoco e all’apprenderne il dominio della sua potenza. Fenomeni che hanno intriso la nostra mente per migliaia di anni, riversati in miti e leggende per tramandarne i significati e che continuano tutt’oggi a richiamare la nostra parte atavica, quella di un paradiso perduto dove si vive-
va in mezzo alle piante. Il collegamento tra terra e cielo che l’albero incarna, emblematica sintesi di due spinte opposte, si ritrova nella nostra psiche tra l’inconscio, quanto di irrazionale e sconosciuto esiste nella profondità del nostro essere, e il conscio, ciò di cui siamo consapevoli, che con-
trolliamo e che mostriamo agli altri. “Noi esseri umani siamo come alberi, radicati al suolo con un’estremità, protesi verso il cielo con l’altra, e tanto più possiamo protenderci quanto più forti sono le nostre radici terrene” E’ quanto afferma Alexander Lowen, padre della bioenergetica, approccio psicocorporeo in cui è centrale il concetto di grounding, letteralmente “avere i piedi solidamente nella terra” e consiste nell’accrescere il senso di sicurezza basilare immaginandosi ben “piantati” a terra, nel conficcare radici in profondità per trarne solidità e nutrimento, ponendo accento sulla respirazione e sul fluire delle proprie emozioni e pensieri. Questa tecnica, ormai utilizzata in molti contesti body-mind e non solo psicoterapeutici, è molto efficace per la gestione di sensazioni negative quotidiane come ansia e stress, per fronteggiare momenti di disorientamento o di confusione e per favorire la concentrazione prima di una performance. Sull’analogia ancestrale tra uomo e albero si basa il test proiettivo per l’analisi della personalità di Karl Koch del 1949, il Baumtest. Il reattivo, tuttora valido, viene utilizzato sia con i bambini - consigliabile da un’età superiore ai quattro anni - sia con i ragazzi e gli adulti in ambito terapeutico ed educativo. “Disegnare un albero” afferma la psicopedagogista Evi Crotti “è un po’ come farsi un autoritratto”. Durante la prova grafica, posti davanti ad un foglio bianco e liberi di disegnare la pianta che ci immaginiamo, viene attivata la nostra
La psicologia
Nell’interpretazione del disegno, indicativi sono la collocazione dell’albero sul foglio l’osservazione delle radici, del tronco e della chioma
In alto, un'illustrazione di casa sull'albero e qui sopra la Tree House vicino Poppi in Toscana
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parte più istintiva, come se si tornasse bambini e allora senza censure e giudizi, emergono caratteristiche della propria personalità che si riversano sul foglio prendendo forma. Nell’interpretazione del disegno, in primis si osserva la collocazione dell’albero all’interno del foglio, che rappresenta come l’individuo si posiziona nel proprio spazio di vita, facendo riferimento allo schema di Pulver, già noto per l’analisi della grafia, la croce con i quattro vettori spaziali ed esistenziali: l’alto come area della spiritualità, dell’immaginazione e delle aspirazioni, il basso quale zona dell’istinto e delle passioni, la sinistra emblema delle relazioni con il passato e l’introversione, la destra che rappresenta invece il futuro e l’apertura verso l’altro. Si prosegue con l’osservazione delle radici che rilevano la nostra parte emotiva; il tronco, la parte meno soggetta ai cambiamenti stagionali che simboleggia la struttura dell’Io e cioè come ci percepiamo; la chioma, la parte più visibile e dalle molteplici fogge, che mette in luce le nostre “maschere” sociali. Alla parte di noi più istintiva fanno appello anche nuove soluzioni di vacanza per liberarsi dallo stress o per riequilibrarsi. Chi non ha desiderato da bambino avere su una casetta sull’albero? Staccati i piedi da terra si entra in un mondo magico dal quale vedere le cose con un’altra prospettiva. Il mondo adulto e dei doveri si allontana, lo sguardo è orientato al sogno, ai progetti all’immaginazione. L’esperienza immersiva di dormire in un rifugio tra le
fronde di un albero è da tempo proposta per rigenerarsi e sono molti in Italia e all’estero a proporre queste nuove formule di ospitalità temporanea. Molto ha spinto in questa direzione la pandemia, accendendo quel desiderio soffocato di vicinanza alla natura causato dai lunghi mesi di chiusura all’interno di spazi ridotti. Nelle Marche al momento sono pochi gli avventori, a Cantiano nel pesarese e un progetto a Smerillo in provincia di Fermo, ma questa tendenza è stata riconosciuta anche a livello legislativo dalla recente approvazione della Legge sugli agriturismo. E quindi spazio a casette in legno tra i rami, tree housing, che possono diventare delle vere e proprie suite con ogni confort, ma anche al glamping -glamour camping- confortevoli ed eleganti tende inserite nei boschi e per i più temerari c’è il tree sleeping, dormire in una tenda appesa tra più alberi o penzolante da una chioma. La psicologia ambientale da tempo evidenzia come il contatto con ambienti naturali e in modo specifico i contesti “verdi” attenui gli effetti dello stress e della fatica mentale rispetto ad ambienti urbani. Recenti studi canadesi rilevano una relazione tra il disturbo di deficit d’attenzione nei bambini e le condizioni di inquinamento dei contesti urbani e con poco verde in cui vivono. Scuole e luoghi di lavoro avrebbero studenti e lavoratori più attenti e con prestazioni migliori se fossero pensate in un’ottica più green. E di questo molto avrebbe da dire la psicologia architettonica. ¤
I testi sacri
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L’albero nelle religioni simbolo di spiritualità UN RUOLO DI GRANDE RILIEVO NELLE TRE FEDI MONOTEISTE
“T di Claudio Desideri
Sopra, un ulivo secolare nell'orto dei Getsemani a Gerusalemme
roverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegnano le cose che nessun maestro ti dirà.” Così scrive San Bernardo di Chiaravalle, il monaco cistercense vissuto in Francia nell’anno Mille, Dottore e Padre della Chiesa, venerato dalla Chiesa Cattolica, Luterana e Anglicana. Il Santo che Dante sceglie come terza ed ultima guida, dopo Virgilio e Beatrice nel suo viaggio nell’oltretomba della Divina Commedia. La frase che il Santo scrisse più di mille anni fa è sempre attuale e sottolinea l’importante ruolo che l’albero ha rivestito e riveste in ogni credo. L’albero affascina l’uomo dal suo primo giorno sulla terra e ad esso è stato sempre affi-
dato un senso di spiritualità. La sua crescita, la sua decadenza e rinascita annuale sono considerati in ogni epoca simboli di vita, morte e resurrezione. Non vi è cultura che non lo abbia esaltato. Gli antichi Egizi associavano il salice ad Osiride e il sicomoro ad Hator, albero che il Libro dei Morti indica indispensabile per il passaggio alla vita ultraterrena. I Greci e poi i Romani associavano la quercia a Zeus e a Pan, il fico a Dioniso, a Marte il cipresso, ad Atena l’ulivo, il mirto ad Afrodite. Nella mitologia Indù vi sono i sacri baniano e ficus religiosa. Nel Buddismo l’albero della Bodhi sotto il quale Buddha giunse all’illuminazione. Nelle tre grandi religioni monoteiste l’albero
I testi sacri
Il Paradiso in arabo è indicato con la parola “Jannat”, giardino dove dimorano alberi sempre verdi palme e melograni
Sopra, Abramo e i tre angeli sotto la quercia A destra in alto, l'albero nella religione islamica e sotto l'albero della vita nel giardino dell'Eden
54 occupa sempre una posizione di rilievo. I sacri testi della religione Islamica, il Corano e la Sunna, Atti e detti del Profeta, considerano l’albero come dono di Dio con l’unica eccezione dell’albero dell’Inferno lo “Zaqqum” i cui frutti amari e velenosi si contrappongono a quelli dolci e saporiti del Paradiso. Nel Corano, l’albero, in arabo “Shajar” appare ventisette volte ed è citato in diciannove Sure. In questo testo sacro tutta la natura è stata creata per essere al servizio dell’uomo che è tenuto a rispettarla perché nella creazione gli uomini possono cogliere un aspetto dell’onnipotenza del Creatore. Con
la creazione tutti gli esseri viventi e quanto è inanimato glorificano e lodano un unico Dio. Come ogni altra creatura dell’universo, l’albero con la sua natura utile, glorifica anch’esso la grandezza di Dio. “Egli è Colui che ha creato i cieli e la terra e ha fatto scendere per voi acqua refrigerante dal cielo, e ne ha fatto crescere orti fiorenti i cui alberi voi non sapreste far germinare mai, potrebbe essere accanto a Lui, Dio, altri dei?:” Sura
Al-Nama (le formiche) XXVII - 60. L’albero per la sua natura va rispettato e nessun albero di palma può essere abbattuto a meno che non serva alla jihad, la guerra santa. L’albero è infatti, indispensabile perché procura cibo con i suoi frutti, scalda quando è bruciato, sostiene quando si costruisce una casa. Il Corano poi associa l’albero alle persone attribuendone un valore: “Non vedi come Dio assomiglia buona parola a un albero buono che ha radice salda e i rami alti nel cielo - che da i suoi frutti in ogni stagione col permesso del Signore? Iddio propone similitudini agli uomini, a che essi riflettano. - E la somiglianza di una parola cattiva sarà come un’albero cattivo che facilmente si sradica dalla terra, senza solida base.” Sura Ibrahim (Abramo) XIV - 24-26. Molti dei profeti inviati da Dio incontrano, nel Corano, l’albero. Dio vieta ad Adamo ed Eva di avvicinarsi a quell’albero per non finire “tra gli ingiusti” e sceglie un albero per manifestarsi a Mosè. “E quando fu giunto presso al fuoco s’udì un grido dal pendio destro della vallata, nel Luogo Benedetto, dall’Albero: Mosè Io sono Dio, il Signore del Creato.” Sura Al-Qasas (il racconto) XXVIII - 30. Alla Madonna, unica donna ad essere presente nel Corano, è dedicata la Sura Maryam XIX. Maria dopo l’annunciazione resta incinta e da alla luce Gesù in un luogo lontano, sotto un’albero. “E la chiamò una Voce di sotto la palma “non rattristarti che il Signore ha fatto sgorgare un ruscello ai tuoi piedi. - Scuoti verso di te il tronco della palma e questa farà cadere su di te datteri freschi e maturi.” Dopo la vita terrena all’uomo è riservata l’eternità, in Paradiso o all’Inferno. Il Paradiso in arabo è indicato con la parola “Jannat”, giardino, dove dimorano alberi sempreverdi, palme e melograni,
I testi sacri
loti e banani dai caschi ben colmi e il Toubà, il grandissimo albero che da tutti i frutti esistenti al Mondo. “Per chi avrà temuto di presentarsi al cospetto del suo Signore ci saranno due Giardini - Di fresche fronde. - In entrambi due specie di ogni frutto. - E vi saranno adagiati (gli uomini) su coltri foderate all’interno di broccato, e il frutto dei giardini sarà li a portata di mano;” Sura Al-Rahman (il Compassionevole) LV - 46 - 48. L’albero è presente più volte in questa Sura, che è tra le più venerate del Corano. E’ tutta un bellissimo inno ritmato e cadenzato, il cui ritornello ricorre identico ben ventinove volte: “Qual dunque dei benefici del vostro Signore negherete?” Nel Qatar, dal 2012, esiste un giardino coranico dove sono allevati gli alberi citati dal testo sacro islamico, il fico, il giuggiolo, il melograno, l’ulivo, la palma da datteri, il tamerice. Per un islamico piantare un albero da frutto significa ingraziarsi Dio da cui, per questo, riceverà sempre una ricompensa. La religione ebraica nel Talmud e nella Bibbia mostra un grande rispetto per l’albero che occupa anche un posto nelle festività religiose con il Capodanno degli alberi il “Tu bi-Shevat” o “Rosh Hashana Lailanot” che si festeggia il 15 del mese ebraico di Schevat. Quinto mese del calendario ebraico moderno corrisponde solitamente a gennaio - febbraio del calendario gregoriano. Un giorno che viene festeggiato secondo regole ben precise, si può lavorare ma non sono ammesse forme di tristezza come le orazioni funebri o la lettura del tachanun. Dall’alto Medioevo c’è la tradizione di mangiare in questo giorno i prodotti dell’albero per cui nella Torà è celebrata la Terra d’Israele e cioè uva, fichi, melograni, olive, datteri e altri frutti menzionati nella Bibbia, mandor-
55 le, pistacchi, noci e agrumi. Tutti questi frutti, belli da vedersi e gustosi da mangiare Dio li ha fatti crescere nel giardino dell’Eden al cui centro ha fatto spuntare l’albero della vita eterna. Il frutto di quest’albero da infatti la vita eterna e quando Adamo ed Eva mangiano dell’albero del bene e del male, anch’esso piantato al centro del giardino, il Signore disse: “Ecco, l’uomo è diventato come uno di Noi, quanto alla conoscenza del bene e del male. Guardiamo che egli non stenda la mano e prenda anche del frutto della vita, ne mangi e viva per sempre.” Genesi, 3:22 Gli studiosi biblici interpretano questo passo come la volontà di Dio di non far perpetuare per sempre la condizione di impurità di Adamo ed Eva dopo aver disobbedito al Signore. All’albero sono affidati i frutti più importanti del Paradiso, quelli che possono essere fonte di bene e di male e di eternità. Ma per i Cristiani, Dio non ha lasciato l’uomo senza speranza che può ancora aspirare di mangiare i frutti dell’albero della vita: “Chi ha occhi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese. A chi vince io darò da mangiare dell’albero della vita, che è nel Paradiso di Dio.” Apocalisse 2:7 L’albero della vita, infatti, cresce al centro della nuova Gerusalemme: “In mezzo alla piazza della città, da una parte e dall’altra del fiume cresceva l’albero che da la vita. Esso da i suoi frutti dodici volte all’anno, per ciascun mese il suo frutto. Il suo fogliame guarisce le nazioni.” Apocalisse 22,2 Anche re Davide si rifà all’albero nei salmi: “Beato l’uomo che non cammina secondo il consiglio degli empi, che non si ferma nella via dei peccatori, ne siede in compagnia degli schermitori; ma il cui diletto è nella legge del Signore e su quella legge medita giorno e notte. Egli sarà come albero pianta-
Nella Bibbia la quercia ha un significato sacro e l’ulivo è citato venticinque volte All’albero sono affidati i frutti più importanti del Paradiso
I testi sacri
In alto, San Bernardo da Chiaravalle di seguito Adamo ed Eva sotto l'albero del bene e del male A destra, il sicomoro su cui sale Zaccheo per vedere Gesù
56 to vicino a ruscelli, il quale da il suo frutto a suo tempo e il cui fogliame non appassisce e tutto quello che fa prospera.” Salmi, 1:1, 3 Davide paragona l’uomo retto e religioso ad un albero sano e prospero che da buoni frutti. Ed ad Abramo, da cui ha origine il popolo di Israele, Dio appare “alle querce di Mamre” Genesi 18:1 La quercia in tutta la Bibbia ricopre un significato sacro. E’ sotto questo albero che la profetessa Debora viene sepolta rendendo il suolo circostante sacro come sacro è il suolo dove Debora, l’unica donna della Bibbia ad essere chiamata “giudice” , emette le sue sentenze dopo aver risolto le dispute che sorgevano tra il popolo. Sotto la: “palma di Debora tra Rama e Betel, sulle montagne di Efraim.” Il Libro dei Giudici 4.5 Il ruolo di giudice era di estrema importanza in Israele e il fatto che fosse attribuito ad una donna ne aumenta il valore anche perché la Bibbia dipinge Debora come una persona forte, risoluta, piena di spirito e di iniziativa. E questa donna profetizza e giudica sotto un’albero di palma, ne in una tenda ne in un palazzo. E’ poi sotto una quercia che Giacobbe sotterra tutti gli idoli stranieri della sua famiglia in segno di purificazione e negazione dell’idolatria. Quercia che, in questo caso, è sinonimo di fedeltà ed amore verso Dio. “L’albero che fruttifica e non si secca cresce vicino al ruscello della fede” (Isaia 12:3) “sulle cui rive crescono gli alberi” (Ezechiele 47:11), “ogni specie di alberi da frutto le cui foglie non appassiscono mai” (Ezechiele 47:12). E Geremia, nelle sue visioni: “Mi fu rivolta questa parola del Signore “Che cosa vedi, Geremia?” Risposi: “Vedo un ramo di mandorlo”. Il Signore soggiunse: “Hai visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla.” Il mandorlo, primo albero a fiorire in primavera diviene il
simbolo della realizzazione della parola di Dio. Nella Bibbia l’ulivo è citato venticinque volte ed è quest’albero a segnare la pace tra Dio e l’umanità dopo il Diluvio universale quando la colomba inviata da Noè ritorna con in becco una foglia di quest’albero che diverrà per sempre simbolo di riconciliazione, di rinascita e benedizione e soprattutto di pace. E sono con molta probabilità rami d’ulivo quelli che gli ebrei agitano nell’aria, insieme ai rami di palma, per salutare Gesù che entra a Gerusalemme. L’ulivo diviene simbolo di gioia come lo era stato quando gli Ebrei tornano, dopo l’esilio, in Israele e riscoprono la Festa delle capanne da costruire ovunque e festosamente con “rami di Ulivo”. Quest’albero diviene poi simbolo di fede nei salmi: “Ma io come ulivo verdeggiante nella casa di Dio, confido nella fedeltà di Dio in eterno e per sempre.” Salmo 52. Ulivo che è anche simbolo di benedizione: “Tuoi figli come virgulti di ulivo intorno alla tua mensa.” Salmo 128. Ed è nell’Orto degli ulivi che Gesù trascorre in preghiera le sue ultime ore prima di essere catturato, torturato ed ucciso. “Gesù andò in un podere chiamato Getsèmani”. Matteo 26,36. Come aveva profetizzato Zaccaria: “i piedi del Messia si poseranno sopra il monte degli ulivi”. Zaccaria 14,4. La parola Getsèmani in ebraico significa frantoio dell’olio. L’ulivo è pianta sacra e sacro è anche l’olio che si ottiene dai suoi frutti. Nel Cristianesimo l’ulivo benedetto è il simbolo nella liturgia della Domenica delle Palme e i ramoscelli dell’anno precedente sono bruciati per farne cenere da posare sul capo dei fedeli il Mercoledì delle Ceneri. L’ulivo apre e conclude la Quaresima che precede la festa più importante per i Cristiani, la Pasqua. Il prodotto dei suoi frutti, l’olio, quando è bene-
I testi sacri
detto diventa Crisma ed è usato nelle liturgie cristiane del Battesimo, della Cresima, dell’Unzione degli infermi, nella Consacrazione dei nuovi sacerdoti e di ogni altare in cui si celebra l’Eucarestia. Nel Vangelo vi è poi l’albero di sicomoro su cui sale Zaccheo per vedere Gesù circondato dalla folla. L’albero è il mezzo che permette a Zaccheo, che è di bassa statura, di elevarsi in alto, superare l’ostacolo delle tante persone che gli impediscono l’incontro con il Messia divenendo simbolo di coraggio, di distinzione dalla massa, di chi cerca la fede. Altro albero a comparire più volte nel Vangelo è il fico che quando non da frutti è considerato segno di infedeltà verso Dio. Il fico, che nella Bibbia ha una simbologia legata alla fertilità e alla prosperità, è più volte sinonimo della terra di Israele e i suoi frutti, i fichi, gli Israeliani. Nel Vangelo Gesù lo utilizza come esempio per impartire il suo pensiero sul dono di se. La parabola del fico maledetto da Gesù altro non è che la rappresentazione di Gerusalemme che ha deluso le attese di Dio, e che per questo subisce la punizione divina. E sotto un fico è seduto Natanaele quando Gesù lo chiama per farlo divenire suo discepolo: “Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità.” E “Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi”. Giovanni 1.48 Ancora oggi il fico è uno degli alberi più piantati in Israele dove fruttifica due volte l’anno. Sedersi all’ombra di quest’albero è per un ebreo il luogo migliore dove stare, per leggere e studiare la Bibbia perché le sue foglie fanno ombra consentendo alla luce di passare. Un albero che nel Vangelo è anche nominato per riconoscere la fine dei tempi: “Le stelle del cielo caddero sulla terra, come i fichi acerbi cadono dall’albero quando è colpito
57 da vento impetuoso.” Apocalisse 6:13. Potremmo continuare a scrivere ancora molto sulle citazioni dell’albero nei testi sacri ma il risultato non cambierebbe. Oltre al valore ecologico, senza alberi non ci sarebbe vita sulla Terra, esistono valori comuni tra l’albero e l’uomo che hanno portato il secondo a considerare il primo come esempio di forza e resilienza, di crescita spirituale, intellettuale e morale. L’albero quando è ben radicato sul terreno da cui trae nutrimento cresce, si sviluppa, si eleva verso l’alto e produce buoni frutti che una volta maturi danno all’uomo gusto e piacere. L’albero
che non ha solide radici non cresce o cade. Così l’uomo si eleva intellettualmente e spiritualmente quando ha solide basi e come l’albero, se ben curato, darà i suoi frutti che è in sostanza lo scopo della sua esistenza. E i suoi frutti non sono solo i figli cui lascerà i suoi valori ma anche gli insegnamenti, le azioni, le conquiste, gli studi e tutto quanto nella sua vita ha realizzato per se e per gli altri. ¤
Il fico, una simbologia legata alla fertilità e alla prosperità E nel Vangelo quando non dà frutti è considerato segno di infedeltà verso Dio
La fotografia
S di Alberto Pellegrino
Dal lirismo di Cavalli agli alberi di Ferroni angeli caduti dal cielo in una realtà estranea fino ad Argalia e all’onirico viaggio nella realtà di Gatta
enza gli alberi le Marche non potrebbero mostrare quel paesaggio variegato e splendidamente movimentato, unico per le sue sfumature multicolori che scende dagli Appennini fino al mare Adriatico. Veri monumenti della natura, gli alberi punteggiano tutto il territorio regionale, affondano le loro radici nel cuore materno delle terra e tendono le braccia verso il sole per cercare quella linfa che alimenta la nostra vita quotidiana. All’interno del nostro paesaggio gli alberi hanno sempre rappresentato una straordinaria metafora dell’umana esistenza: sono creature capaci di resistere al tempo, di sfidare la pioggia e il vento, la neve e la tempesta come stendardi della memoria, di cullare i nostri sogni nelle notti di plenilunio. In particolare gli ulivi come verdi cattedrali impreziosiscono le distese dei campi o il declivio delle colline. Soprattutto le querce, queste monumentali creature cariche di secoli, troneggiano solitarie
nei campi, ci scortano come fedeli campagne lungo strade e i sentieri di campagna, segnano lo skyline delle colline, così importanti nella nostra cultura da assurgere a simbolo di storia, forza e bellezza di tutta la regione. Era pertanto inevitabile che i fotografi marchigiani fossero attratti dalla loro significativa presenza fino a farne i protagonisti di alcuni loro scatti. Partiamo da Giuseppe Cavalli, la maggiore personalità degli anni Quaranta-Cinquanta, il massimo esponente del lirismo chiarista: intenso ritrattista, legato a una “poetica” del paesaggio marino dove si concentra il suo afflato esistenziale con immagini dai toni alti del bianco e del grigio, con un mondo racchiuso entro geometrie e atmosfere quasi surreali. Quando abbandona la sua Senigallia e si addentra nell’ nell’entroterra marchigiano Cavalli rappresenta il paesaggio, si esprime con realismo e con la consueta eleganza, realizzando immagini che
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L’albero per immagini affascinante presenza È PROTAGONISTA DEGLI SCATTI DI NOTI AUTORI MARCHIGIANI
riflettono una pacata visione della natura. Quando Cavalli si trova in città l’albero diventa la poetica cornice di figure umane, oppure ritorna ad essere il protagonista della sua poetica “chiarista”. Ferruccio Ferroni è uno dei tanti artisti formatisi nella scuola senigalliese di Giuseppe Cavalli, dal quale ha ereditato la capacità di un’astrazione simbolica della realtà che viene frammentata sotto il profilo materico e “reinventata” attraverso atmosfere poetiche caratterizzate da un sapiente dosaggio delle luci, un’innata eleganza delle composizioni, una predilezione per atmosfere oniriche, una ricerca di geometrie capaci di trasfigurare l’oggetto o di estrapolare un frammento della realtà per farle assumere un contenuto simbolico. Ferroni riesce a trasferire questa intensità lirica anche nei paesaggi sia urbani che campestri, nei quali l’albero emerge con forte intensità espressiva sia nel pieno splendore della natura, sia quando è come im-
prigionata all’interno di una realtà urbana, oppure entra in quella lirica del segno quando il manufatto urbano interagisce con un elemento naturale. Una parte della sua produzione Ferroni la dedica alla “poetica delle vetrine”, quando cerca di rappresentare la vita quotidiana delle città attraverso il filtro di un vetro che mostra l’interno ma riflette anche la realtà esterna. Appaiono allora fantasmi di alberi dietro vetri rigati dalla pioggia, sperduti nella solitudine dei marciapiedi, smarriti nel traffico urbano. Si perde allora quella solenne serenità dei campi, quello stretto legame tra l’albero e il cielo; predomina una sensazione di tristezza di alberi come angeli caduti dal cielo e precipitati in una realtà estranea alla loro natura. La fotografa jesina Adriana Argalia è una appassionata interprete del paesaggio urbano e delle creature che lo abitano; è un’accurata interprete del mondo femminile e una raffinata documentarista
della scena teatrale. Eppure, nel lungo racconto per immagini dedicato a Castelbellino, non riesce a sottrarsi al fascino del contesto naturale nel quale si colloca questo piccolo centro urbano pieno di antiche bellezze, ravvivato dal colore del mattone e animato dalla rievocazione di antiche memorie. Così, tra palazzi storici e terrazzi che si affacciano su piazzette chiuse tra torri e campanili, il suo obiettivo si è fermato ad ammirare una gigantesca quercia affacciata come una verde regina sulla vallata dell’Esino; ha percorso i viali di un parco riccamente alberato; ha fissato nel buio della notte un albero che si protende verso il cielo come una grande fiammata di luce. Renato Gatta è un fotografo maceratese specializzato nella fotografia del paesaggio, che ha passato la vita a documentare con immagini di straordinaria precisione tecnica i campi coltivati, i prati, le colline, le vallate, i fiumi, i monti della Marca centrale. Nella
La fotografia
Nei paesaggi di Giacomelli gli alberi assumono importanza perché costituiscono una forma d’iconica meditazione
Nella pagina precedente accanto al titolo da sinistra, immagini di Ferruccio Ferroni, Giuseppe Cavalli e Mario Giacomelli Qui sopra dall'alto, scatti di Renato Gatta, Adriana Argalia e Ferruccio Ferroni
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sua produzione più recente ha cambiato completamente ottica per arrivare a una visione più poetica e meno realistica della natura, dove tutti gli elementi paesaggistici sono come trasfigurati dalla morbidezza del colore, dalle luci radenti delle albe o dei tramonti; sono spesso avvolti da nebbie ovattate fino ad assumere l’affascinante astrazione di quella leopardiana “immensità” dove “s’annega” il nostro pensiero e dove “il naufragar […] è dolce in questo mare”. Gli alberi, in questo onirico viaggio sospeso tra realtà e fantasia, a volte spuntano come fantasmi dal mare delle nebbie; a volte tracciano un verde percorso lungo le vallate; a volte emergono come solitari protagonisti sul grande palcoscenico della natura. In questa rapida panoramica un posto a parte merita il grande genio fotografico di Mario Giacomelli che ha rivoluzionato la concezione del paesaggio nel panorama fotografico mondiale, perché egli diventa il “grande cantore” della Madre Terra, proiettando il paesaggio marchigiano verso l’universalità. La sua creatività affonda le radici nella terra, per cui i paesaggi sono animati da un profondo afflato poetico, comunicando da un lato il senso dell’infinito e riaffermando dall’altro la centralità dell’uomo rispetto alla natura. L’autore riesce così a stabilire un legame tra la terra e il cielo, a concepire i paesaggi come una ribellione alla irresponsabile urbanizzazione che minaccia l’esistenza stessa della natura, imprimendo alla terra, che ci accoglie tra le sue braccia materne, delle insanabili ferite. A proposito del rapporto con
la natura Mario Giacomelli ha scritto “Così sento l’uomo, la terra, il passare delle stagioni, della vita”. Questa visione poetica è presente in tutti i suoi paesaggi che ha definito Storie di terra, perché essi son la rappresentazione metaforica l’uomo, sempre assente ma costantemente presente come il vero protagonista di questa “narrazione”. Nei paesaggi giacomelliani la componente umana è rappresentata dalle case che sono il nido delle memorie e il centro della vita familiare, da questa terra solcata da rughe profonde come ferite bruciate dal sole o dilavate dalla pioggia, amata e assediata, sconvolta e curata dagli esseri umani. L’autore ha definito i suoi paesaggi una “presa di coscienza sulla natura”, perché quelle forme fortemente drammatiche, quell’abbraccio quasi ossessivo della terra intorno a una casa, quella profondità dei solchi che incidono la terra rappresentano una costante meditazione sulla condizione della natura. Nel paesaggio assumono una particolare importanza proprio gli alberi nati spontaneamente o piantati dalla mano dell’uomo, perché essi costituiscono una forma d’iconica meditazione; queste creature viventi sono a volte un segno di angosciante solitudine e di profondo dolore, mentre possono anche trasmettere intime emozioni, essere un invito alla speranza, un segno di forte vitalità, di straordinaria capacità nel lottare contro gli elementi, perché è la Madre Terra a trovare la forza di rinascere continuamente a nuova vita anche attraverso il respiro profondo del verde polmone degli alberi. ¤
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Le verdi cattedrali ispirano anche i poeti IL FASCINO SECOLARE DEGLI ALBERI ATTRAVERSO I VERSI
di Alberto Pellegrino
L’
albero è una presenza talmente importante nel paesaggio marchigiano da rendere inevitabile che i poeti, attraverso i secoli, subissero il fascino di queste preziose creature viventi che punteggiano di verde i nostri centri urbani o ci nutrono di bellezza e di ossigeno dal mare adriatico fino ai Monti Sibillini. Per ovvie ragioni di
Paolo Volponi
Da La foglia mortale Una pianta reagisce con dolore distacco di una foglia o a un sol pensiero aggressivo di chi rimiri i suoi rami; così gioisce per l’ammirazione e i complimenti del medesimo, intrisa come un’adolescente. una pianta si riempie di negatività quando cellule viventi del suo albero e ambiente vegetale e d’ombre vengono trucidate, reagisce con spasimi violenti alla tortura e riconosce tra mille colui che l’ha mutilata.
Nel “paesaggio perenne” di Volponi gli alberi entrano come dei protagonisti che assumono una forma vivente
spazio potremo occuparci solo di alcuni autori contemporanei che hanno dedicato agli alberi delle specifiche composizioni. Al nord della nostra regione c’imbattiamo per primo con Paolo Volponi (1924-1995), uno dei maggiori narratori italiani del Novecento che, negli anni della giovinezza, ha però frequentato il mondo della poesia tra il 1946 e il 1966 con composizioni chiuse all’interno delle mura urbane della sua Urbino, tra le strade e le piazze, gli orti e i giardini illuminati dalla luna, imbiancati dalla neve, arroventati dal sole. Con le raccolte Il ramarro, L’antica moneta e soprat-
tutto Le porte dell’Appennino il poeta abbandona il paesaggio urbano per addentrarsi nel Montefeltro, un terra che lo affascina per il susseguirsi delle stagioni, per i casolari abitati, per i campi illuminati dal sole o dalla luna, bagnati dalla pioggia o coperti di neve, per le strade bianche che scendono lungo le vallate, là dove “gli alberi/come alghe galleggiano” e dove il cuore irrequieto del poeta si “pascola le nebbie”. E’ questo mondo a suscitare in Volponi un amore profondo: “Bene che sia caduta/dal platano la foglia più alta, /che ricoprano il fiume tenerissime nebbie/e la macchia resti/greve di pioggia…/sempre io amo queste coline/della terra di mia madre”. Questa sua composizione ci aiuta a comprendere meglio come gli alberi entrino da esseri viventi in questo suo “paesaggio perenne”. L’altro poeta urbinate Umberto Piersanti (1941) è un autore meno vicino al mondo urbano ma più legato al paesaggio dell’entroterra, essendo un “uomo delle Cesane” come ha voluto definirsi nella sua prima opera, continuando a raccontare questo mondo nei romanzi e nei film-poemi Sulle Cesane, Un’altra estate, Ritorno d’autunno. La presenza di una natura idilliaca ma anche drammatica caratterizza tutte le sue raccolte poetiche fin dagli esordi (La breve stagione) e nelle opere successive (I luoghi persi, I tempo che precede, L’albero delle nebbie, Tra alberi e vicende, Nel folto dei sentieri, Canti d’ostinato amore), nelle quali il paesaggio delle Cesane assume una dimensione mitica e leggendaria; diventa
Il paesaggio in rima
La presenza di una natura idilliaca ma anche drammatica caratterizza tutte le raccolte poetiche di Piersanti fin dagli esordi
62 un contenitore delle memorie e degli amori, un luogo dove “il passato è una terra remota” in cui sono racchiusi i volti della sua famiglia e soprattutto del figlio Jacopo a cui è legato da un doloroso amore, il ricordo delle ragazze e delle donne della sua vita, la presenza di streghe e di folletti, di contadini e di pastori. Proprio questo paesaggio, con i campi, i monti e i boschi, diventa un particolare mondo poetico con i suoi colori solari, le nebbie, i rigori delle nevi, i fiumi Foglia e Metauro che scendono verso la marina per arrivare e fino a quelle spiagge la cui aria sa di salmastro. Uomo di mare e di città è Gianni D’Elia (1953), uno
Umberto Piersanti
Dal pometto “Aspettando l’inverno (su per la gola del Furlo)” Lo scotano, albero delle nebbie e quel rosso arancione forte fiammeggia per il pastore che ha perso la sua strada. Oh! quel grande ciliegio giù per i fossi che raduna gli uccelli e i ragazzini, senza foglie, l’inverno, riluce chiaro dentro l’aria. Tra le piante d’intorno tu lo noti il ginepro cos’ verde e scuro, e se lo metti adesso nel camino sfrigolano aghi e legno, fa un gran fumo che dentro i muri resta giorni e mesi.
S’alza il sorbo alto e solo sopra le gole, la sua fiamma rossa contro il cielo, ma tra i ceppi verdi della macchia lo scotano d’ottobre è l’altra fiamma. La gloria dell’ottobre luminoso, il leccio verde cupo dal tronco scuro s’intreccia con lo scotano arancione. Sono gli alberi secchi, dolorosi, solo chi ha sofferto a lungo nella vita sempre qui torna e attorno ci gira prima che il sole scenda e tutto oscuri. dei poeti italiani più importanti della sua generazione che si muove tra impegno civile e “rabbia” pasoliniana contro questi tempi amari senza ideologia e senza onore, ma sa anche ritrovare la lirica armo-
nia di un moderno trovatore che ha il coraggio di scrivere in rima divenuta strumento espressivo sempre più raro. L’originalità di questo autore sta anche nel concepire la poesia come una grande opera teatrale divisa in prologhi, atti e intermezzi, come un palcoscenico su cui celebrare la vita della “sua” Pesaro con i viali e le piazze, le basse e degradanti colline, le spiagge chiuse tra la Romagna e il Conero. All’interno di questa lirica così antica e così contemporanea non mancano riferimenti alla natura, allo scorrere del tempo e delle stagioni, al paesaggio collinare e agli alberi che vivono in città e che hanno bisogno d’amore e di rispetto: “Amala, la signoria degli alberi, /tutti i nomi che non sai e che non saprai, /l’allargarsi del cuore ad ogni chioma, /il trono magro e svettante delle acacie, / le belle nuvole-isole dei pini, ormai /sopra il set delle macchine e le strade”, perché sono “verdi polmonarie…e riaccesi lampadari contro l’azzurro dei cieli…fiaccole ondeggianti come gran ventagli…flauti ultramarini per il bel canto degli uccelli…della ricca Natura linfa gentile”, per cui poeta si chiede “come al verde rigoglio mai ostile/sta l’infestante pianta umana e vile?”. Nell’entroterra anconetano nasce Massimo Ferretti (1935-1974), un’interessante poeta scomparso troppo giovane dopo avere lasciato la raccolta Allergia e avere condotto una vita segnata da una endocardite reumatica che lo porterà alla morte. Nelle poesie si trovano le tracce della chiarezza-consapevolezza della sua condizione esistenziale, della ripetitività dei giorni vissuti in una immobilità che ricorda quella del leopardiano “borgo selvaggio”. La sua opera si presenta pertanto come un poema-romanzo, dove s’intrecciano le vicende personali e familiari, il paesaggio e la memoria della guerra civile
Il paesaggio in rima
in continuo oscillare tra sperimentalismo e tradizione. I suoi versi riflettono una condizione di “segnato” dalla malattia, di un isolato che, malgrado tutto, ama la vita, che accetta una monotonia dove riesce a trovare una ricchezza di contenuti che si rinnovano ostinatamente nel paesaggio e nelle figure umane che lo animano in un continuo impasto di fughe e ritorni: “Venivo da loro e da loro ritornavo, /ma loro non mi offrivano la vita: /m’offrivano il teatro di me stesso/per monologare all’infinito”. In questa sua dolorosa autoconsapevolezza in questa dimensione universale l’albero diventa metafora di memorie personali e di una profonda condizione esistenziale e sentimentale. Nella Marca centrale Claudio Claudi (Serrapetrona 1914-Roma 1970) è stato filosofo, saggista, narratore e soprattutto poeta di notevole valore, molto legato alle Marche, dove ritornava spesso, dividendo il suo tempo tra il paese natale e San Severino. Autore complesso e tormentato, nei suoi versi troviamo una drammatica dialettica tra il sublime e il terreno, tra una volontà di affermazione dell’Io e il senso negativo della vita, tra la ricerca di un dialogo con Dio e un silenzio che rimane costantemente senza risposta. Per Claudi l’uomo affonda nel vuoto dell’abbandono e dell’infelicità ma, come un nuovo Faust, non smette di lottare per trovare la verità e cercare rifugio in una immensità cosmica, in un universo avvolto in un silenzio abitato da misteriose entità e popolato da antichi ricordi. In questa “infinita navigazione degli astri”, l’autore si muove in una dimensione che travalica i limiti del reale per assumere a una visione escatologica, nella quale si annida la speranza di poter un giorno risorgere a nuova vita e trovare una metafisica “terra promessa”. Nel-
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Il platano Ben più alto dei barconi alti dei tetti Tra i ciottolosi spioventi dei coppi Su dal marrone e rossiccio par svetti Che l’oro del sole e l’azzurro lo tocchi Forma ariosa d’un timpano con guglie O mongolfiera che veleggia ed arde Il verde ondeggia dorato di foglie Falbo limone acerbo e autunno ad arte Come una bionda che scrolli la chioma L’estate incandescente spruzza brezza E a ogni folata aspetti che si smuova L’ardente icona di fresca bellezza E vedi il vento prima che ti arrivi Il caro senso frusciante sospiri Fiore gigante e fiaccola di terra Maturo sorge a far scordar la guerra Là come un faro acceso giorno e notte Ombra ad uccelli e a scolaresche frotte Slanciando le sue rotonde vene fulgenti Bianche e lisce in gran frondosi concenti Come un angelo che dall’alto contempli Stordito dallo scampanìo dei templi. Massimo Ferretti
In memoria di un albero Quando nacqui eri già vecchio, ma ci volemmo subito bene: e tu fosti un buon nonno ed io un caro nipotino. Eri bello. Il tronco possente; i solidi rami simili a una mano dischiusa al cielo; il folto fogliame asilo ogni estate d’un usignolo romantico; l’ombra tua densa così dolce dell’impassibilità disumana d’agosto non vedrò né sentirò più. Eri bello. E quando una primavera le foglie non spuntarono dai tuoi rami freddi e inariditi volemmo lo stesso che vivessi.
E avesti un vestito di verde edera; e i tuoi rami, accomodati da mani esperte, divennero una cupola imponente, come d’una basilica. Ma il tempo non si commuove. E tu, mangiato dai vermi, corroso dalla pioggia, ti piegasti. E una scure nera e lucente ti prostrò su quella stessa radura in cui fosti signore. Ora tossicchi sul fuoco, ed io, se guardo la tua fiamma stanca piegata ubriaca di vita, vorrei che tu fossi un albero sconosciuto – vittima di tagliaboschi – venuto da montagne lontane.
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Franco Matacotta
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Non toccare gli alberi
Non toccare gli alberi, perché segretamente delirano. Guarda il silenzioso tremito dei rami come corre nell’etere…laggiù sono già azzurro fumo, si sollevano oltre il vetro dei monti. E come puoi toccare tu, spietata, senza grido le creature dell’aria? Ascolta il cielo come si posa, gloria degli uccelli, sopra quell’urne dense di segreti leggere solo al vento, e come brucia l’oscurità di fuoco delle foglie. Sono verdi ombre, della terra tempo e inafferrabile memoria. E tu non toccare gli alberi, perché segretamente delirano…
In D’Elia troviamo riferimenti lirici agli alberi che vivono in città Più di altre creature hanno bisogno d’amore e d’affetto
le profondità del suo pensiero anche il paesaggio diventa una gigantesca metafora della condizione umana, di una spaesante e spaesata dimensione dell’Io, un mondo in cui gli alberi offrono una momentanea oasi di pace, oppure sono la rappresentazione di un abisso in cui affondano le radici dell’umanità: Albero del silenzio verde albero della speranza incrocio di strade senza fine. Albero lucente raccolto come il pensiero oltre il vertice raggelato dell’eternità di te, cristallo di forza albero dell’incantesimo nel vento imperituro delle consumazioni la vita solamente avverte la nube fredda del nulla. La tua radice è nell’abisso quiete miracolosa, dell’implacabile volontà dell’esistere, dormirò in te come la colomba nel nido. Franco Matacotta (Fermo 1916-Genova 1978) è una delle voci poetiche più rappresentative del Novecento. Dopo un
periodo di studio e di formazione a Roma, dove ha modo di conoscere e frequentare poeti e artisti della cerchia romana, è richiamato sotto le armi ma, dopo l’8 settembre 1943, entra in clandestinità e si rifugia nelle Marche per sfuggire ai nazisti. E’ il momento di passaggio da una poesia lirica a una poesia civile, segnata dagli orrori e dalle devastazioni della guerra, dalla violenza dei tedeschi, dalle rappresaglie contro i partigiani e la popolazione civile. Un doloroso strascico di lutti e di sangue diventa materia di un racconto poetico fortemente improntato a un crudo espressionismo nel solco del neorealismo, per cui Fisarmonica rossa è uno dei maggiori esempi di poesia resistenziale di tipo corale e popolare, con la quale Matacotta dà voce alle lotte contadine e operaie e immagina l’alba di un mondo nuovo che porti al rinnovamento della società italiana, traducendo in versi il sogno di una palingenesi fondata sull’uguaglianza e la giustizia sociale. Nel 1948 con Ubbidiamo alla terra egli ha un ripiegamento nella poetica nel privato, alla ricerca di un legame più stretto tra l’uomo e la natura. Dopo la parentesi del Canzoniere di libertà (1953) in cui Matacotta ritorna alla poesia civile, pubblica nel 1959 Gli orti marchigiani, una delle opere tra le più alte della poesia contemporanea, nella quale un faticoso cammino segnato dal dolore si unisce a un profondo radicamento alla propria terra e ai valori trasmessi dalla sua gente. Un esempio del suo impegno di poeta civile è l'appello a rispettare gli alberi come nostri preziosi fratelli. ¤
Miti e leggende
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Lauro, simbolo di gloria e immortalità poetica LA VITA DELL'UOMO, UNA METAFORA ISPIRATA ALLE PIANTE
“Q di Marco Belogi
Sopra, il Parnaso di Raffaello (particolare)
uando le fontane si disseccano-scrive Ernest Junger- si va ad attingere l’acqua al fiume; ovvero si fa tacere il ronzio di una ragione che riesce soltanto a riflettere narcisisticamente i suoi meccanismi; e si cominciano a contemplare piante, animali, minerali, stelle, acque, per riacquistare il senso del reale nelle sue dimensioni”. Nel complesso mondo di oggi, governato in gran parte dalla tecnologia e dal profitto, può essere buona cosa interessarsi alla conoscenza delle piante scoprendone miti e leggende. Le piante, che ci sono antenate, sorelle e protettrici,
hanno dato vita non solo ad illuminazioni simboliche, cibi, farmaci, ma anche a miti, favole, proverbi, poesie, opere d’arte in un grande mosaico variegato. Se il cosmo, sempre simboleggiato da un albero, è la manifestazione di energie divine creatrici, ogni pianta è pervasa da un’energia positiva che può essere trasmessa.
Uno dei medici di Bismarck racconta che al suo illustre paziente, esaurito dall’eccessiva tensione nervosa derivante dagli impegni di governo, consigliava come terapia sdraiarsi mezz’ora al giorno sotto una quercia. Contemplando un albero, infatti, con le sue forme e i suoi colori, chiunque non sia spiritualmente del tutto anestetizzato può cogliervi un’immagine del cosmo in quanto periodicamente si rigenera e apporta frutti. D’altronde tutta la vita dell’uomo è stata descritta e commentata nei secoli da metafore, locuzioni, proverbi, ispirati al mondo delle piante. Non a caso l’uomo “nasce” o deriva da un “ceppo” o da una “stirpe”, dal latino stirps che significa ceppo. In questo viaggio sulla conoscenza delle piante è necessario però un avvertimento: bisogna avvicinarsi a loro con un approccio diverso dall’usuale, puramente botanico, rivisitando la nostra storia, gli strati della nostra cultura sia alta che popolare partendo dagli strati più lontani fino ai più recenti, da Dante al più ingenuo proverbio campagnolo. Un viaggio dove incontreremo divinità pagane e protagonisti di favole, personaggi dell’Antico Testamento e Santi, paesi reali e immaginari, riti pagani e cristiani. Chi li vorrà contemplare avrà a disposizione un bastone su cui appoggiarsi: le riflessioni di una schiera maestri che ci hanno preceduto dall’età dell’Oro ad oggi. Il Mito del lauro Tra le piante consacrate al sole, il lauro è la più famosa
Miti e leggende
Alle soglie del Novecento nei campi emiliani si traevano auspici sul futuro raccolto bruciando le foglie di alloro
66 e maggiormente utilizzata in campo simbolico. Nel linguaggio degli alberi, infatti, il lauro è simbolo di vittoria, di potenza, di gloria, di immortalità e di poesia tanto che atleti, vincitori di gare, imperatori, poeti, venivano incoronati con rami di alloro. Dal Medioevo in poi si cominciò ad ornare i neodottori con una corona di alloro ricca di bacche. Baca-Laurea da cui deriva la parola di Baccalaureato. Anche il sostantivo Laurea, con cui si denomina la felice conclusione degli studi universitari, deriva dal suo nome. L’onore legato ai suoi rami origina dal fatto che il lauro è sacro ad Apollo, una delle più importanti divinità della mitologia greca. Il nome di Apollo significa lo splendente (Apollo Foibos), il solare (Apollo Elios). La solarità del lauro si riscontra tra i guaranì delle foreste del Paraguay che lo consideravano come una delle immagini dell’Albero Cosmico, dell’Asse del mondo, le cui ceneri miste a miele purificano. E’ anche l’albero del protosciamano, dell’eroe solare: con il suo legno si fabbrica l’urna dove viene deposto lo scheletro dei bambini morti da cui
si ottengono responsi divinatori. L’alloro è anche chiamato “Verga del Creatore”, tramite “dell’Acqua della Vita”. Apollo è anche la divinità che respinge i mali, che purifica, che guarisce, che prevede,
oltre ad essere dio della musica e della poesia. Dietro queste radiose apparenze di solarità e di canto si cela anche una divinità misteriosa che introduce nel mondo dell’Ignoto. Pizia, famosa profetessa greca, prima di ogni seduta masticava foglie di lauro. In campo magico ed esoterico le foglie di alloro venivano usate come amuleti per allontanare forze negative e si diceva che messe sotto il cuscino del letto provocassero sogni profetici. Boccaccio nella Vita di Dante (XXV) racconta di un sogno profetico capitato alla madre del grande poeta. Durante la sua gravidanza sognò di partorire, ai piedi di un rigoglioso lauro, un bambino che subito iniziò a nutrirsi con le bacche della pianta e ad ornarsi con le sue fronde. Più avanti, in seguito ad una caduta, il fanciullo scomparve e al suo posto si levò un bellissimo fagiano. Questo animale è considerato immagine allegorica del “furor poetico”. Rami di alloro si facevano bruciare per ipnotizzarsi sul loro crepitio e intravedere il futuro: tanto più era fitto tanto più se ne traevano auspici favorevoli. Usanza giunta fino alle soglie del Novecento: nelle campagne emiliane si traevano auspici sul futuro raccolto bruciando foglie di alloro; più il crepitio era vivace più il raccolto sarebbe stato copioso. Omero all’inizio dell’Iliade “cantami o diva…” si rivolge alla Luna che, nella Grecia arcaica era la fonte della poesia. Con l’avvento del culto di Apollo, giunto dall’isola di Delo, la funzione di supremo ispiratore di poesia passò al dio del sole. Pianta mitica dunque fin dai tempi più antichi, il culto della quale ebbe origine nella valle di Tempe dove scorre il Peneo. Mito tra i più noti e affascinanti del mondo classico rielaborato magistralmente
Miti e leggende
da Ovidio nelle Metamorfosi (I,452). Il poeta racconta che un giorno Apollo, vedendo Eros intento a maneggiare un grande arco, si prese gioco di lui dicendogli: “un carico tanto possente non è adatto ad un fanciullo come te. Accontentati di accendere passioni con la torcia e non con attributi che mi spettano”. Indispettito Eros volò sul Parnaso architettando vendetta. Estrasse dal turcasso due dardi: uno d’oro dalla punta acuminata che accendeva passioni amorose, l’altro di piombo e spuntato che le impediva. Con il primo ferì Apollo e con il secondo trafisse Dafne (in greco alloro), figlia di Peneo, divinità fluviale. La fanciulla rifiutava tutti i pretendenti preferendo vivere libera e correre per i boschi seguendo l’esempio della casta Diana. Apollo, ferito dal dardo d’oro e ardendo di passione, si gettò all’inseguimento della ninfa. “Fermati - le urlava dietro - non sai a chi sfuggi! Giove è mio padre ed io so quel che sarà, che fu, che è.” Non le concedeva requie ed era sul punto di afferrarla quando Dafne, esausta, si rivolse al padre implorandolo di tramutare il suo corpo in altra figura. Fu esaudita: un’invincibile torpore invase il suo corpo. La pelle splendente si mutò in scorza sottile, la chioma in fronda, le braccia in rami, i piedi in ruvide radici e il volto nella cima di un lauro. Mirabile scena rappresentata dal Bernini nel gruppo scultoreo ora nella galleria Borghese di Roma. Ma l’amore del dio era più forte del sortilegio. Apollo, poggiando il capo sul tronco dell’albero sentiva il battito del cuore di Dafne e lo stringeva appassionatamente. “Se non puoi essere mia sposa-sospirava - sarai almeno la mia pianta. O Dafne, di te si orneranno per sempre i miei capelli, il turcasso e la cetra. E come il mio giovane capo biondeggia in eterno, così tu
67 potrai fregiarti per sempre di verdissime foglie”. Mentre pronunciava queste parole, la chioma dell’albero si mise ad ondeggiare dolcemente quasi a voler cedere all’amore del dio. Pianta sempreverde, il lauro è simbolo dell’amore eterno a differenza dell’edera simbolo dell’amore carnale. Predilige, dove sorge spontaneamente, le colline dei litorali mediterranei, formando insieme al pungitopo, all’edera e ad alcune latifoglie la cosiddetta “ macchia di alloro o lauretum”, tipica delle nostre colline marchigiane. Era infatti un lauretum il luogo dove fu collocata la casa di Nazareth, che ha poi dato il
nome alla cittadina di Loreto. Dal latino laurus, l’alloro ha foglie coriacee persistenti e aromatiche. Produce fiori giallastri a piccole ombrelle e frutti drupacei. Ogni sua parte è molto odorosa, con sapore amaro e acre, caratteristiche sfruttate fin dai tempi antichi dalla medicina popolare. Una pianta dalle proprietà energetiche. Le sue foglie essiccate e adoperate in infuso o decotto sono infatti stimolanti e anti-
Il lauro, pianta sempreverde era simbolo dell’amore eterno a differenza dell’edera simbolo dell’amore carnale
In alto, a sinistra, un ritratto del Petrarca con corona di alloro; sotto, Laura del Giorgione (particolare) Qui sopra, Apollo e Dafne del Pollaiolo (particolare)
Miti e leggende
Le foglie dell’alloro essiccate e usate in infuso o decotto sono stimolanti e antisettiche E aiutano la digestione
In alto, le proprietà terapeutiche della foglia di alloro
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settiche. Aiutano la digestione, curano le turbolenze digestive prodotte dalla aerofagia e fermentazioni intestinali abnormi. L’olio ricavato dalle drupe è efficace per curare dolori articolari. Un suo strato sottile cosparso sul pelame difende gli animali dagli insetti. La pianta è usata in cucina per aromatizzare la selvaggina e profumare intingoli e pietanze. I monaci benedettini ne ricavano un liquore verde bottiglia, ottimo come digestivo. Ripercorrere il mito ovidiano ci permette di ricavarne la valenza allegorica. Dafne (Laura in italiano derivante dal latino laurus che è di genere femminile), colpita da un dardo di piombo, è la metafora della psiche umana incatenata al proprio io e alle sue pulsioni, refrattaria ad ogni cambiamento. Resistenza che non dura a lungo. ”Mutami- implora il padre Peneo- toglimi questa figura che mi fu troppo cara”. Ecco che a poco a poco perde la sua natura plumbea trasformandosi in pianta. Da acqua fuggitiva come piom-
bo fuso, figlia di una divinità acquatica, diventa pianta ovvero aria, poiché ogni albero dalla grande chioma è simbolo di aria. Quando Apollo l’abbraccia dicendo:” se non puoi essermi sposa sarai il mio albero”, Dafne cede infine al dio e diventa aria impregnata di fuoco dello Spirito, aureo crine, ovvero Sapienza. Da quel momento Dafne-Laura vive nell’aurora, nel puro intelletto. E’ proprio Laura – Sapienza a convertire il cuore di Francesco Petrarca, tra i grandi poeti che si sono ispirati al simbolismo dell’alloro. Quand’io veggio dal ciel scender l’aurora/ co la fronte di rose e co’ crin d’oro,/Amor m’assale, ond’io discoloro,/et dico sospirando: Ivi è Laura ora./ (Le Rime,CCXCI). Nei vari sonetti allegorici dedicati alla pianta apollinea, che interpretano sapienzalmente il mito di Apollo –Dafne, la poetica del Petrarca tesse infinite variazioni. Quasi un caleidoscopio dove molte immagini si sovrappongono a significare che, giunti ad una certa altezza spirituale il discorso razionale non basta più. L’aura che ’l verde lauro et l’aureo crine/ soavemente sospirando move, fa con le sue viste leggiadrette e nove/l’ anime da’ lor corpi pellegrine. (Le Rime, CCXLI). Questa pianta ,tanto celebrata, portò fortuna al poeta, tra i pochi a ricevere il massimo riconoscimento quando ancora in vita. Nell’aprile del 1431, infatti, fu incoronato in Campidoglio dal senatore Orso dell’Anguillara con una corona di alloro, simbolo di immortalità e di eterna giovinezza, che aveva raggiunto con la poesia. ¤
La collezione
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Bucci col notes di rame per le strade di Parigi L'ARTISTA GIRAVA INCIDENDO MOMENTI DI VITA QUOTIDIANA
V
di Grazia Calegari
Sopra, un'incisione a puntasecca Lista Réveillion del 1913 (Foto Luca Toni)
orrei presentare sette incisioni inedite di uno dei grandissimi artisti del novecento marchigiano, quell'Anselmo Bucci nato a Fossombrone nel 1887 e morto a Monza nel 1955, assoluto protagonista come pittore e come scrittore, ma forse poco conosciuto a livello regionale. Dato che ho il privilegio di conoscere la collezione Giuliani, la più grande raccolta privata del Novecento nella provincia di Pesaro Urbino, il proprietario ha scelto per noi sette fogli delle sue numerose incisioni di Bucci. Per dare un'idea sintetica dell'artista e della sua storia, preferisco citare uno scritto del 1954 del critico Carlo Alberto Petrucci, che serviva da introduzione al catalogo della mostra Le incisioni di Bucci, alla Calcografia Nazionale di Roma. “Affrontare Parigi a diciannove anni, con una preparazione culturale troncata a mezzo liceo, ed artistica limitata al primo anno di Brera, è in verità avventura assai rischiosa, che solo può correre un temperamento sicuro di sé, esuberante e impaziente di affermarsi, insofferente delle soffocanti ristrettezze di un ambiente provinciale. Si pensi alla Parigi del 1906, con Cézanne, Rodin, Renoir, Degas al tramonto, con Braque e Picasso che, ancora ignoti, elaboravano già i fermenti destinati a sconvolgere l'arte contemporanea. C'era da disorientarsi in quell'improvviso, prematuro contatto; c'era da compromettere una personalità che cominciava appena a delinearsi, e aveva più che mai bisogno d'introspezione. Bucci superò la
prova con spavalda sicurezza, in virtù di quelle robuste e schiette qualità istintive che lo votavano all'arte e gli assegnavano senza equivoci la sua strada. Si legò a Modigliani, a Viani, a Severini; a Picasso, Utrillo, Zuloaga, Cottet, Boldini: fu incoraggiato da Apollinaire, da Legrand, da Kahn, da Adler che fu suo maestro. Si buttò nel lavoro per insostenibile smania di fare; e nacquero le cinquanta puntesecche di “Paris qui bouge”, vivacissime e fresche ancora, tributo gentile di omaggio alla città che lo aveva accolto. Fu il primo successo della sua carriera, e va sottolineato che lo dovette all'incisione. Perchè di tutte le attività che hanno valso a questo italianissimo spirito la bella notorietà di cui gode, la pittura, la critica, il giornalismo, l'incisione è stata forse quella che meglio ha rivelato e riassunto le sue possibilità, riconosciute da editori di gran classe per i quali ha lungamente lavorato. Al “Paris qui bouge” dovevano più tardi ricollegarsi, nello stesso spirito, i “Ricordi di guerra”, quella del '16, alla quale collaborò come volontario ciclista, e quella ultima che seguì come soldato artista, documentandone episodi e tipiche figure. Uno dei caratteri più salienti dell'arte di Bucci è il senso di totalità, la sicurezza compositiva, la coesione che sa mantenere con mano ferma anche nelle composizioni più vaste e impegnative, il cui insieme non gli sfugge mai di mano, e il cui mordente rimane sempre ad alto livello. La sua grande passione, il disegno, è sostenuta da quel-
La collezione
Sono oltre seicento le incisioni di Bucci conservate alla Quadreria Cesarini di Fossombrone assieme a sessanta dipinti e vari disegni
Nella pagina altre incisioni di Bucci realizzate tra il 1908 e il 1928 (Foto Luca Toni)
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la prontezza d'intuito, quella concitazione che trovano il loro sfogo in segni fulminei e rabbiosi come schiocchi di frusta, che fermano di colpo gesti e movimenti.” In totale le incisioni eseguite da Bucci sono 600, conservate alla Quadreria Cesarini di Fossombrone assieme a suoi sessanta dipinti e a numerosi disegni. Tra gli artisti presenti figurano, tra gli altri, Giorgio Morandi, Francesco Messina, Achille Funi, Marino Marini, Gino Severini, Nino Caffè, Francesco Carnevali, Pio Semeghini, Cesare Peruzzi. Un panorama vastissimo, nel 'paesello' dal quale Bucci era partito, seguendo prima il padre, ispettore scolastico, a Venezia, poi decidendo di iscriversi a Brera nel 1904, e ancora, nel 1906 raggiungendo Parigi. Dal 1906 al 1909 Bucci ha occasione di studiare dettagliatamente la vita della metropoli, frequentare musei e mostre, incontrare artisti di ogni parte del mondo convenuti a Parigi. Il risultato di questa complessa esperienza di vita intellettuale sarà documentata dalla serie di cinquanta puntesecche di “Paris qui bouge” Bucci ha sciolto il contratto di affitto del suo atelier parigino solo nel 1934: Parigi ha rappresentato per lui la parte più viva della vita, non solo artistica, è un punto di partenza privilegiato per le sue incursioni alla ricerca di realtà diverse....(Silvia Cuppini, Frammenti di vita in un segno, Pesaro Urbino, 1993) Nel 1920 è ospite a Milano del salotto di Margherita Sarfatti, con cui collabora alla na-
scita del gruppo di artisti che egli stesso battezza col nome di “Novecento”, dal quale rimane però sostanzialmente defilato. E' presente alla vita intellettuale di Bagutta, accanto a Bacchelli e a Vergani. Dal 1951 al 1955 collabora a vari quotidiani e settimanali fra cui il “Corriere della sera” e la “Domenica del Corriere” Muore a Monza nel 1955. Tra le incisioni qui pubblicate, vorrei segnalare l'affascinante modernità delle due puntesecche intitolate 'La radio' del 1928, con l'idea del corpo di donna che si avvolge e schiocca in sequenza simultanea con il mondo contenuto al centro. Un'immagine statica e dinamica, astratta e realistica, simbolica e sonora, al di fuori di correnti artistiche storiche, come capitava spesso a Bucci. Un'immagine adatta più che mai alla tecnica della puntasecca, che parte dalla lastra di rame, dalla quale il ricciolo di metallo proveniente dal solco inciso non è stato asportato ma ha lasciato una slabbratura, cioè un segno sfilacciato molto più morbido. Le incisioni di Bucci sono uniche proprio per questa singolare energia e freschezza, vivificate dall'inchiostro in palpitanti passaggi tonali, com'è evidente in queste sette prove, compresa la lista Révellion del 1913, una lista di Café puntellata di piccoli ritratti dal vero di clienti abituali. Era il modo normale di fissare un momento di vita quotidiana della metropoli, girando per le strade con la lastra di metallo da incidere sempre nelle mani, come fosse un semplice blocco di appunti. ¤
Scrutando in biblioteca
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Omaggio d’amore in un codice a cuore MANOSCRITTO DEL XV SECOLO CUSTODITO ALL'OLIVERIANA
di Elisabetta Marsigli
In alto, una delle sale più suggestive della biblioteca Oliveriana di Pesaro
E
siste un luogo a Pesaro che custodisce con cura l’inestimabile memoria di una città e di alcuni dei suoi illustri esponenti. La Biblioteca e i Musei Oliveriani stanno per compiere 230 anni: una lunga storia iniziata grazie alla generosità di Annibale Olivieri che a metà settecento ha deciso di donare alla città di Pesaro le sue collezioni di documenti, libri, reperti archeologici e di diversi altri oggetti che aveva raccolto nel corso della sua vita. Amico di avventure, “mio dolcissimo amico” come lo chiama Annibale, è Giovanbattista Passeri, noto per i suoi studi archeologici, ma in realtà personaggio eclettico e interessantissimo, le cui collezioni sono state unite a quelle
dell’Olivieri e insieme costituiscono il “cuore” di quello che oggi è custodito nel pregevole scrigno pesarese. Il codice a cuore E a proposito di cuore, nel vero e proprio labirinto di volumi, carte, e preziosi oggetti, passeggiare per la Biblioteca Oliveriana accanto alla direttrice Brunella Paolini è occasione di stupore e incanto per la ricchezza e la consistenza dei numerosi documenti raccolti. È difficile individuare, tra i tantissimi, un documento che in modo particolare ed eccezionale possa rappresentare la bellezza e al tempo stesso scatenare la curiosità di una visita, ma, tra i tan-
Scrutando in biblioteca
Si tratta di una raccolta di brani musicali per liuto e lira intervallati da brani poetici e annotazioni
ti, unico ed emozionante più di altri è un manoscritto del XV sec. che per la sua forma e anche per quello che racconta, rappresenta davvero un unicum. «Il Codice a cuore (Ms.1144 – Sec. XV) è una raccolta di brani musicali per liuto e lira da braccio, intervallati da brani poetici e annotazioni che raccontano momenti di vita quotidiana della famiglia che lo ha posseduto. - racconta la direttrice - Particolare per la sua forma, a cuore, che lo caratterizza, è anche per questo uno del “pezzi” più significativi del patrimonio oliveriano. La sua forma fa immaginare che si tratti di un omaggio d’amore o comunque di un pensiero affettuoso. Il proprietario era Tempesta Blondi di San Lorenzo in Campo e alla famiglia Blondi, al servizio di Federico da Montefeltro, è appartenuto almeno fino agli ultimi anni del XVI secolo, anche dopo la morte di Tempesta. Tra i brani musicali, quasi tutti scritti in intavolature per liuto, sono da segnalare composizioni più tarde per lira da braccio, uno dei pochi esempi di scrittura musicale per questo strumento. Il documento è stato studiato e le musiche sono state eseguite anche recentemente e incise in un cd musicale pochi anni fa con esecuzioni di Andrea Damiani. La ricerca è stata condotta da Marco Mencoboni». La memoria del presente Accanto alle grandi famiglie che hanno governato Pesaro (gli Sforza, i Malatesta, i Della Rovere) come anche le più importanti famiglie che hanno contribuito, in tempi più recenti e in diversi ambiti, alla fortuna della città: gli Antaldi, i Perticari, i Mamiani, i Montani fino ai più recenti Vaccaj e Adelelmo Campana, troviamo anche acquisizioni più attuali, come ad esempio
72 quella dei documenti e della biblioteca di Sergio Guerra, musicista e professore universitario, scomparso per Covid nel 2020: «Facciamo in modo che le acquisizioni continuino anche oggi, non possiamo interrompere questo percorso, anzi dobbiamo rafforzarlo ed adeguarci anche alle nuove sfide e tecnologie che i tempi impongono. - prosegue la direttrice - E anche su questo stiamo molto lavorando: la memoria, anche del presente, non può andare dispersa, va al contrario tutelata e sempre valorizzata. Conserviamo il presente che sarà la nostra memoria nel futuro. Ed ecco perché, da diversi anni, abbiamo iniziato anche ad occuparci di fotografia». Non è da molto, infatti, che le le fotografie hanno acquisito un valore documentario e in Oliveriana questo è accaduto grazie all’interessamento di Marcello Di Bella, che fu direttore dal 2010 al 2014. Dopo un primo lavoro di ricognizione e riorganizzazione, ora le fotografie (dai documenti che risalgono alla seconda metà del XIX secolo, per arrivare alle fotografie e diapositive del anni ’80 del XX sec.) vengono digitalizzate e catalogate e sono visibili online dalla pagina “Cataloghi” del sito www.oliveriana.pu.it. «Tra i fondi ricordo quello di Giorgio Rinolfi, aviere pesarese durante la prima guerra mondiale, fotografo ufficiale inviato dall’esercito sui campi di combattimento, o un altro testimone di quei tragici avvenimenti come Mauro Arceci, urbinate, grazie alla generosità di Franco Arceci e di sua moglie Bruna Stefanini. Poi la collezioni di Alcibiade Della Chiara, con tante immagini delle sue vetrine dei negozi della Pesaro del secondo dopo guerra. E ancora il ricco fondo di Enrico Mochi, che comprende splendide immagini degli eventi espositivi dedicati all’arte contemporanea a Pe-
Scrutando in biblioteca
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saro nei primi anni ’70, oltre a numerosissimi paesaggi dei nostri territori. Abbiamo intenzione di valorizzare questa parte del nostro patrimonio e abbiamo per questo avviato il progetto “Pesaro nell’obiettivo. Cento anni di fotografie 1880-1980” che verrà presto ufficialmente presentato con un evento dedicato proprio ad Alcibiade Della Chiara del quale ricorrono quest’anno i 50 anni dalla morte». Comunicazione innovativa Per ricostituire il più possibile la condizione originaria delle acquisizioni, ogni volta che arrivano documenti in biblioteca, questi vengono inventariati, catalogati e contrassegnati con il nome, o i nomi, dei precedenti proprietari. L’obiettivo è quello di contribuire non solo alla conservazione, ma soprattutto alla valorizzazione e comunicazione di ciò che è stato e di renderlo disponibile a tutti. La biblioteca non è infatti solo il luogo della memoria e della conservazione, ma è anche una istituzione che si dedica al racconto e alla divulgazione del suo patrimonio in collaborazione e stretta connessione con la città e il territorio. «Stiamo realizzando progetti con diverse associazioni e istituzioni cittadine, come l’Università di Urbino. Abbiamo firmato una convenzione con Centre National de la Recherche scientifiche dell’Università di Tours per la valorizzazione delle nostre fonti musicali, il Codice a Cuore e la biblioteca musicale Albani comprendente composizioni musicali essenzialmente del XVI secolo, soprattutto per liuto, tiorba ed altri strumenti a pizzico, preziose testimonianze inedite delle relazioni artistiche del ducato di Urbino con Roma negli anni immediatamente precedenti alla devoluzione alla Santa Sede».
Alla Oliveriana si organizzano eventi, incontri, conferenze, concerti, presentazioni di libri, esposizioni in ogni momento dell’anno. «E anche si può venire in biblioteca per consultare tutti i nostri documenti, per studiare, per il prestito (delle pubblicazioni più moderne), per il prestito interbibliotecario. Si possono richiedere riproduzioni e queste sono molto aumentate negli ultimi due anni, anche in conseguenza dell’emergenza pandemica, ma anche offrire consulenze di studio e di ricerca». La direttrice tiene a sottolineare anche come una attenzione particolare sia rivolta ai più giovani: «I ragazzi delle scuole superiori e delle università sono i benvenuti quando decidono di svolgere da noi l’esperienza di studio-lavoro o stage. E ancora per loro si organizzano visite guidate e laboratori in collaborazione con i docenti. Questa ultima attività ha subito un forte rallentamento a causa del Covid, anche da noi si sono sentite fortemente le conseguenze della pandemia, ma abbiamo sempre continuato ad offrire i nostri servizi, adeguandoci di volta in volta alle diverse disposizioni». ¤
Non solo conservazione In biblioteca avviato anche il progetto “Pesaro nell’obiettivo” cento anni di fotografie dal 1880 al 1990
Nella pagina a fianco il "codice a cuore" un manoscritto del XV secolo e sotto la direttrice della biblioteca Brunella Paolini In alto, le librerie che contengono i testi antichi e una vista laterale di alcuni libri in esposizione
L’analisi
U di Maurizio Cinelli
Viaggio nel labirinto delle norme prima di arrivare alla meta cioè alla pensione miraggio di una vita intera
n labirinto da attraversare, prima di arrivare alla meta. Un labirinto nel quale è facile perdersi. Eppure è il miraggio di una vita intera. Indovinare non è difficile. La meta a cui si allude è la pensione: il servi-zio sociale tra i più ambiti, e , tuttavia, anche tra i più difficili da penetrare, se manca l’ausilio di una guida esperta dei luoghi. Non vi è dubbio, comunque, che il sistema previdenziale e l’ordinamento delle pensioni, che di quello rappresenta il cuore, costituiscano aspetti sa-lienti e caratterizzanti della forma assunta dallo Stato moderno. È , infatti, allo Stato sociale che si deve, in particolare, la traduzione in strutture ope-rative e in precetti normativi – anzi, per quanto riguarda il nostro ordina-mento, in un principio basilare – di espressione eminente della vocazione sociale dell’uomo
e dei valori trascendenti che ne animano l’azione: la so-lidarietà. Un valore, la solidarietà, nel quale si coniugano tanto l’afflato eti-co a favore dell’altro da sé, quanto la consapevolezza dei vincoli che com-porta la condizione di interdipendenza derivante dallo stare insieme, dall’essere “società”. Come enuncia quella norma fondamentale della nostra Costituzione, che è l’articolo 2, il vincolo solidaristico permea di sé ogni settore di attività: sociale, economica, politica. E la previdenza – che in sé fonde sociale ed economico –, non si sottrae, di certo, alla regola. Essa rappresenta, anzi, uno dei settori elettivi per quella redistribuzione della ricchezza – nella “misura” (la “adeguatezza” della prestazione), fissata dall’art. 38 Cost. – che è manifestazione materiale di quel vincolo. Nel vigente ordinamento previdenziale varie sono le occasioni in cui il dovere di
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Il “Palio” delle pensioni nonni contro nipoti SINGOLAR TENZONE SULLA “SOLIDARIETÀ INTERGENERAZIONALE”
solidarietà ha motivo di manifestarsi. Qui non si tratta, però, di entrare in dettagli; l’intento delle presenti note ha un orizzonte più circo-scritto: delineare un quadro di insieme e per sommi capi – “a volo di uccel-lo”, come si suol dire –, che possa aiutare ad orientarsi tra i vari (e spesso problematici) significati di una formula di frequente impiego, ma non sem-pre di trasparente valenza: l’endiadi “solidarietà intergenerazionale”. L’utilizzo meno controvertibile di tale terminologia è quello che fornisce l’“interpretazione” della valenza concettuale di un aspetto tecnico: la ge-stione “a ripartizione” delle risorse finanziarie destinate all’alimentazione di quel sistema, che rimanda, appunto, a una forma di solidarietà tra gene-razioni. Ma di che cosa si tratta, precisamente? Prima di rispondere, va richiamata alla memoria la situazione
creatasi nell’immediato dopoguerra, quando l’inflazione ha polverizzato (anche) le riserve monetarie del sistema a capi-talizzazione, proprio dell’ordinamento pensionistico dell’epoca. In quel cruciale, drammatico momento, si è reso necessario trovare – e trovare subito – una valida alternativa, che potesse dare continuità alla tute-la pensionistica. E l’alternativa è stata, appunto, adottare la gestione “a ri-partizione”, caratterizzata dal fatto che la generazione degli attivi assume su di sé (attraverso l’obbligazione contributiva, di volta in volta opportu-namente modulata) l’onere finanziario complessivo, corrispondente, nel pe-riodo dato, al valore totale delle prestazioni pensionistiche in corso di ero-gazione in quel medesimo periodo. Tale soluzione ha reso possibile procedere immediatamente ad onorare gli impegni pensionistici già
assunti dallo Stato, senza dover attendere il tempo necessario all’accumulo di capitali, il loro investimento, e la relativa fruttificazione. In cambio si richiede agli interessati un atto di fiducia sulla disponibilità delle generazioni successive a onorare, una dopo l’altra, quello stesso vincolo; per dirla con una metafora, una sorta di indissolubile ca-tena, che si allunga nel tempo, senza soluzioni di continuità. Una situazio-ne, invero, rispetto alla quale l’unico vero rischio sarebbe il sopravvento di un malaugurato shock demografico. Il quadro si è complicato – con riflessi, come capita, anche a livello lessi-cale –, quando, all’incirca a partire dall’ultimo decennio dello scorso seco-lo, il sistema previdenziale, in parte per cause endogene, in parte per cause esogene (calo demografico, allungamento della vita media, modelli di lavo-ro caratterizzati da
L’analisi
Dall’ultimo decennio del secolo scorso il sistema pensionistico è entrato in crisi sollevando preoccupazioni sulla tenuta
76 frequenti interruzioni, innovazioni tecnologiche, e così via), è entrato in crisi. Proprio a causa della crescente, inarrestabile onerosità del sistema, si so-no fatte più insistenti le preoccupazioni in merito alla sua capacità di tenu-ta: e, ciò, tanto da parte delle imprese, a fronte dei maggiori costi del lavo-ro, derivanti dalla lievitazione degli oneri sociali; tanto da parte delle nuove generazioni, a fronte del processo di progressiva contrazione delle disponi-bilità finanziarie del settore, e, dunque, della precarizzazione delle prospet-tive pensionistiche ad esse relative. Ben comprensibile, dunque, è che, per esorcizzare il rischio di un depre-cabile conflitto tra generazioni, si sia fatta strada l’idea che l’impegno soli-daristico potesse trovare una nuova (e aggiuntiva) modalità espressiva: questa volta attraverso l’assunzione di specifici impegni finanziari non già da parte dei giovani nei confronti degli anziani, bensì a posizioni invertite. Con l’intuibile conseguenza di dover scontare un mutamento di direzione (di parte) del flusso delle risorse finanziarie. Per dirla con il linguaggio di tutti i giorni, alla solidarietà cui si allude con l’espressione “pensiamo agli anziani” (quella a base del testé ricordato criterio a ripartizione), da questo periodo in poi nel dibattito corrente se ne affianca una diversa, che può essere riassunta anche qui con l’espressione colloquiale “pensiamo ai nostri nipoti”. La capacità di presa di detta idea si è potuta avvantaggiare del clima cul-turale che, nello stesso periodo e a livello mondiale, ha diffuso ed alimenta-to il dibattito sulla tutela dell’ambiente, e contribuito, così, ad accre-
scere la consapevolezza di una responsabilità collettiva nei confronti delle future generazioni: e ciò, dunque, non solo in merito alla conservazione dei beni ambientali e delle risorse naturali, ma anche per quanto concerne le prero-gative individuali e collettive, frutto delle conquiste sociali dei precedenti decenni. L’obiettivo dell’orientamento che si richiama a tale concetto di solidarie-tà intergenerazionale, di più recente conio, è, come primo stadio, la pere-quazione del sistema pensionistico in una prospettiva che abbracci presente e futuro, operazione da avviare, pertanto, immediatamente, e sulla base di criteri e regole di accertata funzionalità al perseguimento dell’ambizioso obiettivo finale. Detto programma può considerarsi fondato su alcuni postulati, collegati l’un l’altro, così riassumibili: a) una disciplina pensionistica, per essere e-qua, deve garantire una equivalenza sostanziale di trattamento tra le varie generazioni; b) l’assetto pensionistico vigente presenta sperequazioni da imputare a discipline (seppur legittime) troppo generose o frutto di privile-gi, dunque, da eliminare; c) le risorse che l’attuazione di detta opera di pe-requazione permetta di “risparmiare” devono essere destinate a utilizzi che favoriscano i futuri trattamenti pensionistici. Tale concezione non è stata (ancora) tradotta dalle forze di governo in uno specifico programma riformatore. E, tuttavia, si può affermare che so-stanzialmente su quella stessa linea di pensiero si collochino, nei fatti, le politiche pensionistiche rigoriste degli ultimi tempi, così come, in generale, i “prelievi” effettuati sul-
L’analisi
le pensioni in corso, disposti dalla legge in varie occasioni, tramite l’imposizione di contributi di solidarietà, il blocco o il raffreddamento della perequazione automatica, o altre misure analoghe. Risponde a tali criteri, in particolare, il più recente di detti interventi “pe-requativi”: quello disposto dall’art. 1, commi 260-261 della legge di bilan-cio per il 2019. Una disciplina che ha immediatamente generato un nutritis-simo contenzioso da parte di vaste aree di pubblici dipendenti, convinti del-la incostituzionalità di detta regolamentazione, ben presto delusi, però, dalla Corte costituzionale che, con la sentenza n. 234 del 2020, ha dichiarato la legittimità di quell’operazione. Ciò che qui interessa evidenziare, tuttavia, non è la specifica vicenda in sé. Interessa, piuttosto, richiamare l’attenzione sulla peculiarità del criterio che il legislatore in tale recente occasione ha adottato per selezionare le pensioni da assoggettare a prelievo. Un criterio – che parrebbe volersi ac-creditare come il frutto di valutazioni di carattere definitivo – caratterizzato dal concorso di un elemento di carattere materiale (l’entità dell’importo della pensione) e di un elemento di carattere, per così dire, valutativo, basa-to sull’apprezzamento del criterio di computo (retributivo, piuttosto che contributivo) applicato alle pensioni oggetto di scrutinio. Era ragionevole attendersi che la misura di prelievo in questione cadesse sulle pensioni di maggior importo – come raccomandato, d’altra parte, dal-la stessa Corte costituzionale, da ultimo con la sentenza n. 173 del 2016 –, considerati i maggiori margini di resistenza
77 dei relativi beneficiari. Ma si può dire altrettanto per l’altro, concorrente elemento discretivo, fondato sul criterio di calcolo dell’importo delle pensioni? Risulta chiaro che la scelta di assoggettare a prelievo solo le pensioni cal-colate interamente sulla base del criterio retributivo, esentando, per conver-so, tutte le altre (determinate con il calcolo contributivo, o in parte con l’uno, in parte con l’altro) quale che ne sia l’importo, è frutto di una pre-giudiziale valutazione negativa da parte delle attuali forze di governo (con il conforto della Corte costituzionale), in merito al criterio di calcolo retri-butivo (e, ovviamente, nei confronti delle forze che hanno contribuito alla sua introduzione), evidentemente ritenuto criterio di ingiustificata “genero-sità”. Comunque sia, si tratta di scelta che, ove la sottoponga ad un test valuta-tivo, rivela tutti i suoi limiti. Si può assumere a riferimento, allo scopo, una situazione risalente nel tempo, ma che ancora ben si presta alla comparazione che qui interessa: il trattamento pensionistico riconosciuto ai dipendenti civili dello Stato o di enti pubblici, ex combattenti o assimilati (legge n. 366 del 1970 e successi-vi decreti delegati applicativi). È proprio in occasione della configurazione di detto particolare, favore-vole trattamento pensionistico che, per la prima volta, è stata utilizzata l’espressione “pensioni d’oro”. Non però con l’intento spregiativo che quell’espressione avrebbe assunto più tardi. È stato subito evidente, infatti, che quel trattamento veniva a compensare la penalizzazione di carriera su-bita per effetto delle chiamata alle armi. Dunque, nonostante l’elevato im-porto e la
Si è fatta strada una nuova modalità espressiva della solidarietà: da pensiamo agli anziani a pensiamo ai nipoti
L’analisi
78 sua determinazione interamente secondo il criterio di calcolo re-tributivo, in nessun caso quel trattamento avrebbe potuto essere considerato “sperequato”, ossia non (interamente) meritato dai destinatari. Si tratta di riscontro che, già di per sé, evidenzia la non univocità del cri-terio e, dunque, la sua sostanziale inattendibilità. Va considerato, comunque, che parimenti significativa è una ulteriore si-tuazio-
Dalle “pensioni d’oro” alle “baby pensioni” fino alle “pensioni d’annata” sono messi in evidenza i limiti di alcuni criteri selettivi di intervento
ne, strettamente connessa a quella testé considerata. Si tratta dell’implicito coinvolgimento in quella stessa vicenda dei lavoratori che e-rano in attività nel periodo immediatamente successivo alla erogazione di dette “pensioni d’oro” (cioè, a partire dai primi anni settanta dello scorso secolo); soggetti anch’essi da considerare coinvolti direttamente da quella stessa vicenda, perché su di essi è necessariamente ricaduta – in coerenza a quanto caratterizza la gestione a ripartizione delle risorse finanziarie, già ri-cordata – il maggior onere contributivo, corrispondente a quella maggiore spesa.
Ebbene, di fronte a tale vicenda, l’imposizione, oggi, a quei soggetti, o-rami tutti in pensione, di qualsiasi contributo di solidarietà o di altra forma di prelievo sulle relative pensioni (tutte necessariamente a calcolo retributi-vo) sarebbe sostanzialmente equivalente ad una duplicazione di oneri: dun-que, non già una forma di perequazione, ma, al contrario, una forma di in-giustificata penalizzazione di chi ha già assolto in pieno il proprio debito solidaristico. Altri casi esemplari potrebbero essere addotti: le pensioni baby, le pen-sioni di annata e via elencando. Già quanto testé richiamato, tuttavia, appa-re sufficiente a mettere in evidenza limiti e contraddizioni del criterio selet-tivo suddetto. Vi è quanto basta per alimentare perplessità anche sulla affidabilità del progetto riformatore. Invero, se l’intenzione di dar vita ad uno stabile, equo e sostenibile sistema pensionistico è reale, la via maestra dovrebbe essere, secondo buon senso, quella che contempli iniziative non così estemporanee e approssimative, bensì iniziative che esprimano una progettualità consona all’importanza dell’obiettivo, e, dunque, significative di un rigoroso, effet-tivo impegno di energie e, perché no, di risorse finanziarie. Il fatto che i diritti sociali hanno un costo – come, in vari contesti, non si perde occasione di lamentare – non è circostanza che, in sé considerata, possa legittimare una tutela “a risparmio” o “sotto tono” di quei diritti (ove, beninteso, non vi siano specifiche e ben documentate ragioni che tanto giu-stifichino). Significa soltanto che tale “costo” va messo in bilancio, come si fa con le spese che, riguardan-
L’analisi
do beni o servizi di riconosciuto valore, non possono che essere messe in conto per quel che sono. È giusto sottolineare, comunque, come buona parte delle sollecitazioni, provenienti dal dibattito in corso, a confrontarsi con il suddetto concetto di “solidarietà intergenerazionale” – nella specie, quella equivalente alla for-mula colloquiale “pensiamo ai nostri nipoti” –, persegua, in realtà (e in maniera, se vogliamo, opaca), l’obiettivo di implementare i livelli di con-senso nei confronti delle politiche di contenimento o riduzione della spesa sociale, così come delle modifiche in chiave recessiva della vigente disci-plina pensionistica. Indicazioni che, in sostanza – è bene sottolinearlo – appaiono rispondere ad una logica ispirata più da esigenze prettamente economiche, che non da una effettiva volontà di innovazione, razionalizzazione e rafforzamento del sistema di protezione sociale. La panoramica non sarebbe completa, se, a questo punto, prima di chiu-dere, non si desse brevemente conto, anche di un ulteriore tassello del qua-dro: quello che riguarda l’accezione che la formula verbale in esame assu-me nel momento in cui si cala nel contesto dei regimi previdenziali dei li-beri professionisti. Come è noto, la previdenza dei liberi professionisti è strutturata come componente distinta dalla restante parte del sistema previdenziale generale; ed è gestita da casse di previdenza, che (a differenza di quanto vale per gli altri enti previdenziali) hanno natura giuridica di diritto privato; i singoli regimi di categoria, a loro volta, sono strutturati per essere indipendenti ri-spetto al sistema pubbli-
79 co generale, e indipendenti l’uno dall’altro, e, per questo, dotati di una sostanziale autarchia, e, soprattutto, vincolati all’autosufficienza finanziaria (decreti n. 509 del 1994 e n. 103 del 1996). Una regolamentazione “particolare”, che rappresenta la contropartita di quanto dette casse hanno ottenuto in termini di garanzia di esenzione rispet-to a interventi della mano pubblica. La solidarietà, in tale contesto, opera in una forma, per così dire, “rita-gliata”, cioè, calibrata rigorosamente sullo specifico referente: la categoria. Una solidarietà, dunque se vogliamo, di carattere “difensivo”, del genere “pensiamo a noi, alla
categoria”, se anche qui si volesse utilizzare, come negli altri casi, una formula sintetica, calibrata sul linguaggio quotidiano. Nella specie, la solidarietà è, dunque, valore che funziona da usbergo per la categoria stessa. Nel momento stesso, però – ed è l’altra faccia della me-daglia –, è anche bastione che si erge ad excludendum nei confronti di tutti coloro (gli altri cittadini, ma anche le altre categorie di liberi professionisti) che si trovano al di là di quel bastione. Anche per ciascuna di dette casse si pone, ovviamente, l’esigenza di go-vernare il confronto tra generazioni.
Anche nel caso della previdenza dei liberi professionisti si pone l’evidenza di governare il confronto tra generazioni
L’analisi
Oggi è inevitabile l’urgenza di una complessiva “rivisitazione” del sistema per una stabilità e sostanziale equità
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Un’esigenza, tuttavia, che non si pone per tutte con la stessa urgenza o intensità. In via di massima, si può assu-mere che la stabilità di ciascun singolo regime sia in rapporto sopratutto con la stabilità della disciplina della professione della categoria alla quale quel regime si rivolge. Ciò vuol dire che categorie professionali la cui con-sistenza numerica può considerarsi stabile nel tempo (ad esempio, quella dei notai), hanno meno da temere l’avvicendarsi delle generazioni, rispetto a quanto avvenga per altre categorie (come quella degli avvocati o quella dei geometri), la cui disciplina professionale risulti esposta (quali che ne possano essere le ragioni) a maggiori dinamismi. Né è da escludere a priori l’incidenza di fattori esogeni: in primis, la si-tuazione economica generale, già per gli intuibili effetti sul livello redditua-le medio dei singoli professionisti (la contrazione del reddito comporta una corrispondente contrazione della massa contributiva e, dunque, delle risorse per le pensioni). Ma altrettanto può dipendere da vicende specifiche o set-toriali; esemplare quanto è recentissimamente avvenuto per i giornalisti di-pendenti, la cui gestione previdenziale è caduta in una situazione di disse-sto (che ne ha determinato, come sancito dalla legge n. 234 del 2021, legge di bilancio per il 2022, il trasferimento “di soccorso” all’INPS) anche in ra-gione delle politiche di rigore sul piano retributivo e occupa-
zionale, assunte dalle case editrici datrici di lavoro. Con questo si può considerare concluso l’excursus sulla valenza del ri-chiamo alla “solidarietà intergenerazionale” nei vari contesti: libero il letto-re, a questo punto, di fare le sue valutazioni e di trarre eventuali conclusio-ni. È comunque da ritenere improbabile che si possa dissentire sulla ricor-renza, oggi, di una reale, genuina esigenza a che ci si faccia carico del de-stino pensionistico delle generazioni che si stanno affacciando al mercato del lavoro, e, dunque, sulla necessità e sull’urgenza di provvedere ad una complessiva “rivisitazione” del sistema, tale da poterne garantire la stabilità e la sostanziale equità, anche in prospettiva. Quanto, invece, alla realtà che abbiamo sotto gli occhi, netta è l’impressione che le iniziative finora concretamente adottate abbiano molto più a che fare con l’intento di dirottare risorse ad altri impieghi, seguendo le logiche dell’economia, che non con l’etica perequativa e un’effettiva vo-lontà di razionalizzazione, consolidamento e sviluppo dello specifico, fon-damentale settore. Evidentemente, nonostante l’autorevole provenienza di dichiarazioni più o meno solenni e impegnative – e, nel prenderne atto, non si può evitare una punta di amarezza –, risulta ancora deficitario, per più aspetti, l’impegno a far sì che quelle condizioni possano effettivamente rea-lizzarsi in tempi ragionevoli. ¤
Punti di vista
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Il Covid ci ha incrinato il delirio d’onnipotenza L'UOMO CONTRASTA LA NATURA MA NON PUÒ DOMINARLA
N di Leonardo Scorcelletti
iente come … il punto di vista può cambiare radicalmente l’immagine della realtà. Per esempio il profilo di una montagna che può sembrare un volto di un gigante dormiente o, kilometri più in là, un animale preistorico o il dorso di un dromedario. Ricordo una trasmissione di Piero Angela in cui ci faceva riflettere sulla forma delle costellazioni: L’orsa maggiore, fra le più note, la vediamo stampata nel cielo come un disegno geometrico, ma le stelle non sono complanari ed, in profondità (parliamo di migliaia se non milioni di anni luce) sono così lontane e sole da non poter sapere, se avessero la capacità di chiederselo, che noi le abbiamo accomunate in una … famiglia. Per giunta, fra qualche migliaio di anni, l’incessante movimento degli astri
potrebbe cambiare completamente l’immagine della volta celeste; senza considerare che anche la luce, pur veloce oltre l’immaginazione, impiegando migliaia di anni per arrivare a noi potrebbe farci vedere stelle che … non esistono più come le gocce d’acqua di una fontana che continuano per qualche secondo a cadere quando la fontana viene spenta. Chi scrive è un medico di quasi … ant’anni, ma sostanzialmente un uomo qualsiasi che, come tutti, dopo tanto vivere ha dovuto cambiare molte volte il suo punto di vista che è il miglior modo per tradurre il neologismo romantico … Welt Anschau! Dunque eccoci qua negli anni 20 del 3° millennio a sperimentare una vicessitudine planetaria cui abbiamo dato il nome di “Pandemia”. Come questo piccolissimo
Punti di vista
La medicina rispetto alle scienze si presta a interpretazioni spesso infondate dando più spazio alle emozioni che alle conoscenze
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virus il “covid 19” che, pur moltiplicandosi in miliardi di miliardi, identifichiamo come se fosse uno solo il “covid 19”, anche noi umani, non sempre in modo cosciente, abbiamo dovuto rinunciare alla nostra individualità. Non ci sono più confini fra gli stati e neppure confini geografici. Grazie alla nostra … globalizzazione il “Virus”, pur se incapace di muoversi, ha superato enormi distanze, catene montuose, distese d’acqua oceaniche. Se tanto male tutto ciò ci ha fatto, ci ha però costretti a rinunciare al naturale e diffuso “Delirio di onnipotenza”. Le nostre case, i nostri comportamenti, il nostro sapere possiamo paragonarlo alla grotta in cui l’uomo primitivo si riparava dai predatori e dalle insidie della natura. Per certi versi era, in qualche modo, più saggio poiché non conosceva il deliro di onnipotenza! Le pandemie non sono certo nuove alla storia della umanità: Pestilenze, colera e quant’altro si sono succedute con cadenza quasi regolare nei secoli. Perché? Ora possiamo anche comprenderlo: chi riusciva a sopravvivere diventava immune e così per almeno due o tre generazioni fin quando un’altra pandemia poteva trovare fertile terreno. Non c’erano praticamente difese; sull’eziologia (le forme di vita invisibili) e sul significato (punizioni divine?) si potevano fare solo congetture. E oggi? E’ cambiato qualcosa? Certamente! L’homo sapiens ha imparato a contrastare la natura ma non … a dominarla. Ciò che non è cambiato è la confusione, suggellata dall’antica leggenda della “Torre di Babele”, che vediamo
persino fra i più esperti. La pandemia dei nostri giorni è stata in qualche modo domata dalle conoscenze scientifiche; ne abbiamo ridotto l’aggressività ma, inconsapevolmente, ne stiamo allungando la durata. Una certezza c’è!!! Finirà prima o poi, almeno questa fase pandemica. In questo contesto, e torno ora a fare il medico, mi viene spontanea una riflessione! Vero è che la medicina può offrire sempre e solo messaggi di probabilità, ma, è pur sempre una scienza! Cioè un metodo per produrre indicazioni inconfutabili!!! Eppure la medicina, differentemente da ogni altra … scienza, come, per esempio, l’ingegneria, si presta ad interpretazioni sociali spesso infondate. Con inspiegabile facilità si subisce il plagio di presuntuosi ed improvvisati predicatori, si da spazio alle percezioni, alle sensazioni, alle emozioni piuttosto che alle consolidate conoscenze. Tutto ciò, amplificato a dismisura dai “Mass Media” e dallo strapotere delle “Social Network”, espande, senza confini, la confusione e genera inarginabili disordini. Ma tutto ciò, ripeto, passerà! Incasseremo questo insulto naturale! Le nuove generazioni forse, dimenticheranno! Spero con tutto il cuore che, oltre al disastro, maturi nei nostri pensieri il valore del benessere che, senza accorgerci, avevamo, la grande ricchezza della semplicità, il profondo rispetto per la natura, il saggio e razionale utilizzo delle risorse che essa ci offre, il contenimento degli effimeri piaceri che abbiamo trasformato in necessità, ed, in sintesi, il rifiuto degli idoli che ci siamo creati ascoltando solo … l’egoismo! ¤
Racconti della memoria | 1
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I rituali e le invocazioni contro guerra e calamità SI CHIAMAVANO ROGAZIONI, SI SVOLGEVANO IL 25 APRILE
di Marco Belogi
Nell'immagine la processione di una confraternita e nella pagina seguente un ramoscello d'ulivo simbolo di pace
D
opo due terribili anni di pandemia, in lotta contro un nemico invisibile, ci ritroviamo davanti ad un baratro: una guerra fratricida, alle porte dell’Europa. Il mondo è nel panico per la possibilità di un conflitto nucleare. Ritornano scene, quasi sempre confinate negli angoli della storia, che portano con sé il corollario di ogni conflitto: le bombe, i cadaveri per le strade, le città ridotte a cumuli di macerie, la disperazione dei profughi, una marea umana, donne, bambini e anziani, che cercano a tutti i costi la salvezza. Una guerra orribile e imprevista, scatenata da Mosca. E’ il passato che ritorna. Budapest 1956: stessi
invasori, stessa resistenza. E anche oggi un dittatore: Putin come Stalin. E’ un antico conflitto che ritorna fuori dal tempo e ripropone il marcio di tutte le guerre. Una guerra post pandemica che genera una vera apocalisse, con i missili che solcano i cieli e piombano ovunque, dalle case ai reattori nucleari, con
i droni, i satelliti, la tecnologia, e tutti i demoni di questo secolo. E poi a ritroso, con la fila dei carri armati e gli aerei da abbattere, le sirene, le fughe nelle stazioni metro diventate nuove catacombe, la guerriglia, la resistenza dei civili, la paura, gli assedi a città affamate, gli stupri sulle donne. Sangue che richiama il sangue delle eterne guerre civili, come nella notte dei tempi. E’ tutto come sempre, come ogni volta e solo alla fine si sveleranno i particolari dell’orrore. Una guerra, ogni giorno in diretta televisiva, che ci lascia sbigottiti. Scene che mi portano a ricordare antiche preghiere ascoltate nella mia prima infanzia. La seconda guerra mondiale era passata da pochi anni. Abitavo in un piccolo paese dell’entroterra fanese, dove le ferite belliche erano ancora ben evidenti. Il 25 aprile, festa di san Marco e nei tre giorni precedenti l’Ascensione, quando le coltivazioni dei campi iniziavano a germogliare, venivo svegliato all’alba da cori che mi richiamavano le filastrocche. Incuriosito, correvo alla finestra da cui potevo vedere una processione alquanto singolare. Guidava il corteo il vecchio pievano, con berretto a tre punte e paramenti sacri in viola, che, camminando dietro una grande croce e invocando tutti i Santi del paradiso, continuava a chiedere la protezione del cielo. C’erano tutte le confraternite, con la loro mantellina rossa sulla tunica bianca e i loro stendardi, seguite da una folla di persone infreddolite in preghiera. Facevano sosta proprio sotto casa mia da cui iniziavano a degradare ampi spazi collina-
Racconti della memoria | 1
Erano processioni propiziatorie che si rifacevano alle “Ambarvalia” del mondo pagano per allontanare ogni sciagura
ri coltivati a grano, in mezzo a filari di vite sorretti da olmi. Così vicino, potevo osservare i rituali della benedizione dei campi e dei fedeli. Terminate le orazioni, tutte in latino, il corteo riprendeva il cammino raggiungendo ogni contrada del paese. Ad ogni invocazione del sacerdote il popolo ripeteva il ritornello: Te rogamus audi nos! I partecipanti avevano in mano dei ramoscelli di ulivo che, benedetti, avrebbero portato nelle proprie case ed esposto nei loro campi e orti. Erano processioni propiziatorie, chiamate rogazioni, per ottenere il buon esito dell’annata agraria. Dovevano allontanare le grandi calamità ben note a quella gente di campagna: la carestia, la peste, la fame, la guerra, il terremoto. Erano riti che provenivano da lontano. Si rifacevano a ricorrenze del mondo pagano, le Ambarvalia, che non erano altro che processioni fatte per ottenere un buon raccolto, elevando preghiere alla dea Cerere. La più importante Ambarvale si teneva nel giorno del calendario corrispondente
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al 25 aprile. Questa pratica cessò quando fu trasformata in rito cristiano da papa Liberio (325-366). Nei secoli successivi si diffuse a tutta la cristianità, caldeggiata anche da Carlo Magno, fino ad essere praticata, dal IX secolo in poi, in ogni parrocchia. Erano rituali molto seguiti perché c’era di mezzo la vita stessa della gente. Un anno senza raccolto, per grandine, alluvione, siccità, terremoto, voleva dire fame a cui ,quasi sempre, seguiva la pandemia. La peste ne era il prototipo. Lo dimostrano i tanti dipinti nelle chiese raffiguranti San Rocco con il tipico bubbone della peste sulla coscia. Ma in agguato c’erano anche il colera e il tifo. Se a tutto questo si aggiungeva la guerra, era una vera catastrofe. Lo raccontano le cronache di ogni tempo, che, concordi, sottolineavano lo sbigottimento delle genti davanti a queste sciagure. Quel mondo contadino della mia infanzia, semplice, marginale, ma saggio, affacciato sui quei campi che in seguito avrebbero subìto una radicale trasformazione con l’avvento della società industriale, aveva memoria di quegli orrori patiti e per questo continuava a chiedere: A fulgure et tempestate, a peste, fame et bello, libera nos Domine!. Oggi, dove il cambiamento è veloce e globale per la regola del mercato, dove istituzioni come famiglia e chiesa sono obsolete e quasi abbandonate, non c’è più spazio per la memoria. Le crisi economiche del nuovo millennio, la pandemia da Covid-19 e la guerra in Ucraina lo ricordano a tutti noi. Il presente non basta. ¤
Racconti della memoria | 2
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Io bimbo vidi l’aereo sopra di me mitragliare RICORDO L’URLO DEL MOTORE E IL TERRENO CHE SALTAVA
A
di Salvatore Tomei
Ho vivo nella mente anche la sorpresa di aver trovato un accampamento di tedeschi nello spazio dei nostri giochi
d oltre ottant’anni dalla Seconda Guerra Mondiale: con la M maiuscola per darle un nome da battesimo che distingua quel periodo da quello delle mille e mille guerre confinate, dopo di allora, a macchia di leopardo, ma per nostra fortuna, fuori dall’Ovest d’Europa, le testimonianze vanno sparendo e dunque rappresento qui i miei personali ricordi di eventi che pur se infantili, incisero tanto da restarmi impressi indelebilmente e tali da farmi aborrire la guerra e la violenza che è inevitabile compagna. I ricordi si possono tramutare in racconti, i racconti si possono documentare per diventare Storia oppure essere solo cronaca di un evento o di una serie di eventi: a scuola ci insegnavano che il limitare temporale tra cronaca e storia, per avere una visone incondizionata dalle visioni di parte, aveva un valore significativo: ricordo insegnanti che parlavano di almeno venticinque anni per avere racconti privi di pregiudizi politici attuali ed altri che chiedevano cinquant’anni di tempo per raccontare “La Storia” indipendentemente dai pareri soggettivi delle parti coinvolte; e tuttavia un plenipotenziario cinese, recentemente interrogato sugli effetti della Rivoluzione Francese in Europa, ha risposto che è troppo presto per rispondere compiutamente. E dunque ecco il racconto di una breve e disarticolata collezione di momenti illuminati dalla memoria come
un album fotografico con qualche didascalia. Ed infatti sono abbastanza vecchio da ricordare qualcosa, ma troppo giovane per un racconto articolato e descrittivo di quei lontani momenti ed è solo per una casuale e simpatica chiacchierata che sono stato indotto a trascrivere questi ricordi. E così il primo ricordo, spensierato e divertito di me piccolissimo portato da un mio anziano zio al “Ricovero” che così veniva chiamato a Napoli dove nacqui, il rifugio antiaereo: mio fratello appena più piccolo di me ed io, venivamo imbacuccati ed inseriti in un gran cesto di vimini biancastro con un solo manico che ondeggiava e rollava al braccio di Zio Carlo e raggiungeva il rifugio. Di esso mi rimane il forte abbaglio inziale dopo aver abbandonato la strade buie ed una immagine che mi è per sempre rimasta di un soldato in divisa che mi sollevava in alto e mi stringeva e che era mio padre allora poco più che trentenne, il bagliore inziale trasformato in filamento rossastro ed il vocio che ricordo allegro perché i bambini danno sempre allegria. Più netto il ricordo del periodo tar il ’42 e il ’44 quando fummo “sfollati” in un paesino della provincia di Avellino. Le grandi città oggetto degli attacchi delle “fortezze volanti” (i bombardieri B29, americani della Boeing che continuarono a bombardare sia da nemici, sia da alleati tutto ciò che rappresentava
Racconti della memoria | 2
Il conflitto in Ucraina mi ha fatto riaffiorare questi struggenti ricordi bellici Mai lo avrei immaginato
obiettivo di guerra, cioè tutto, disseminavano paura e fortunosamente, ma anche fortunatamente (ma questa è un’altra storia) riuscì a portare la sua famigliola in quel posto sperduto. E’ un Comune della provincia di Avellino e si chiama Contrada, oggi fa tremila abitanti e in quegli anni il numero era più o meno lo stesso. E qui ho forte il ricordo di un accampamento di soldati tedeschi trovato un mattino nello spiazzo dei nostri giochi, vicino alla casa in cui stavamo e dove ci accostammo mano nella mano con il mio fratellino e sono ancora vivissimi i ricordi di un asino e un cavallo legati a un alberello, sicuramente oggetto di confisca e un grossissimo camion, alcune tende e i soldati attorno. Un ufficiale ci riaccompagna da mia madre e le mostra la foto di una donna sorridente con un vestito a fiori e due bambini. A gesti le dice che spera di rivederli e che il viaggio sarà lungo. Il giorno dopo erano scomparsi e non ho mai dimenticato quel momento raramente raccontato e talvolta, nel ricordare, mi domando chissà cosa ne sarà stato di quell’uomo e della sua famiglia. Dopo l’Armistizio dell’otto settembre del ’43 ricordo la confusione e il gran parlare che certamente percepii ed infatti ho netto il ricordo di aver imprecato, con una parola certamente sentita in quel clamore, contro la padrona di casa dove soggiornavamo che mi aveva rimproverato per qualcosa: “Mussolini” Doveva essere per me un’accusa gravissima e che costrinse mia madre a potarmi via per farmi tacere. Il timore del “Lui sente tutto” era ancora presente. E qui si accende il tristis-
86 simo ricordo del bombardamento di Avellino: 14 settembre 1943 che distrusse la città e fece tremila morti: ebbi il primo insegnamento sul bene e sul male che mi è rimasto in mente come una grigia foto sbiadita. Ero vicino a mia madre e, da un ballatoio della casa che ci ospitava e che era sulla strada di Avellino, ai margini del paese, vidi questa folla di donne e uomini che, carchi di masserizie: materassi, sedie, piccoli mobili, grandi involti di coperte, reti da letto e tanto altro ancora e mia madre che mi spiegò che quella gente si era comportata malissimo: tornava da Avellino, dove era accorsa non per soccorrere, ma per saccheggiare dopo il bombardamento. Homo homini lupus: una buona lezione e la vana speranza che ciò non sia mai ed invece è sempre. Mio padre era un soldato del genio, ed era a Napoli, risparmiato dalla Libia dove ancora si trovava alla nascita sia mia, sia di mio fratello, alla fine del ‘39 ed all’inizio del ‘41: le circostanze me le ha raccontate quando gli ero molto vicino allorché ebbe superato i novant’anni. Era un tecnico telefonico come lo sono stato io per suo inconsapevole plagio e fu segnalato da un suo dirigente al Comando militare di Napoli per l’assistenza tecnicamente necessaria ai sistemi di rilevamento degli aerei in arrivo per l’attivazione delle sirene di allarme: un lamento lacerante che ancora oggi porta segnali d’angoscia mai sopiti. E quindi veniva a Contrada di tanto in tanto. Ed è forse da questi racconti che la mia memoria si è rinverdita dissotterrando, attraverso il ricordo così suscitato, una memoria nascosta nei plichi del mio cervello ormai antico. Ricordo dunque l’estate
Racconti della memoria | 2
del ’43 con l’accampamento dei soldati tedeschi e quell’ufficiale che mostrava a mia madre le foto della sua famigliola ed insieme le strade bianche di polvere: l’asfalto, la pavimentazione stradale, l’aspetto che oggi consideriamo usuale per le strade, non erano di quei posti sperduti. Ancora indelebile è rimasto il ricordo del mio orgoglio infantile di avere una borraccia a tracolla di quelle di alluminio ricoperte di feltro verde-grigio militare. E quel giorno avevo un incarico molto importante: accompagnare mio padre in una calda mattina di sole accecante e con quella borraccia a tracolla, andare a prendere l’acqua ad una fonte vicina, in collina, appena fuori dell’abitato. Ma, percorrendo la strada sterrata che seguiva un pendio che ricordo dolce, apparve improvviso uno di quegli Stukas che avevo già visto più volte volteggiare alti sulle nostre teste e che, volando a poche centinaia di metri di altezza, prese a mitragliare. Mi è rimasto in mente l’urlo del motore in picchiata e il terreno colpito che saltava all’intorno a raggiera. Fui tirato via in un gran solco e protetto dall’abbraccio di mio padre e ricordo la sua calma spiegazione: l’aereo era uno Stuka ed era un caccia-bombardiere, i suoi proiettili si chiamavano (ed ancora così si chiamano) shrapnel che vuol dire scheggia le cui tracce, se interessati, sono ancora visibili sulla superficie esterna, a sinistra dell’ingresso del Castel Nuovo o Maschio Angioino di Napoli. E finché sono stato a Napoli (alla fine degli anni sessanta) ne andavo riconoscendo le tracce dove non era ancora arrivata la ricostruzione di oggi. E’ poi mi è ancora impres-
so il ricordo delle bombe inesplose appoggiate alle pareti di una casa e il tramestio dei soldati, molti con l’elmetto a padella degli inglesi. Ma oltre ai ricordi legati alla guerra e alla violenza dell’uomo è forte in me il ricordo di quella che è stata l’ultima eruzione del Vesuvio, gigante dormiente e che raramente ha mostrato la violenza della natura. L’eruzione, dice la Storia, si manifestò virulenta e cioè non solo fumo con un raro boato accompagnato da qualche fremito della terra, ma lava incandescente e distruttiva con lancio di cenere e lapilli a grande altezza cominciò il 6 gennaio 1944 per terminare definitivamente il 29 marzo dopo l’ultimo sussulto fatto di emissione di sola cenere vulcanica. Parrebbe che sia stata l’eruzione vulcanica meglio documentata e descritta per la presenza massiccia di militari alleati. La cenere risparmiò la parte metropolitana di Napoli e si depositò invece verso est e nord-est e dunque fu tale da alimentare i mei ricordi: il cielo era oscuro come di sera, tutto era grigio di cenere che oscurava agni vista ed attraverso questo grigiore una processione verso un vicino Santuario per ingraziarsi il Creatore con l’ombrello per viatico a proteggere il Sacramento (non un baldacchino) come ho poi visto più tardi in altre occasioni. E poi finisco di raccontare e mi sto dando la patente di jettatore: mai avrei potuto immaginare di evocare ciò che sta ora accadendo e mai avrei potuto immaginare che dopo tanti anni di assenza di conflitti armati si potesse passare alle vie di fatto e così, con una speranza ed un ottimismo indomito, usando il linguaggio contratto di oggi: sono ukraino! ¤
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Alcune immagini della distruzione nelle città causate dalla seconda guerra mondiale
L’associazione
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LE CENTO CITTA’ Associazione per le Marche Fondata nel 1995 “L’Associazione si pone lo scopo di promuovere e coordinare studi ed azioni finalizzati a rafforzare l’identità culturale della Regione Marche e a favorirne lo sviluppo economico e sociale attraverso la conoscenza e la valorizzazione delle realtà esistenti, il recupero e la tutela del passato, la collaborazione tra soggetti pubblici e privati, la partecipazione al dialogo culturale interregionale ed europeo, nonché con le comunità marchigiane all’estero.” (Art.3 dello Statuto)
Presidenti Giovanni Danieli
(marzo 1995 – dicembre 1996)
Catervo Cangiotti
(gennaio 1996 – dicembre 1997)
Folco Di Santo
(gennaio 1998 – dicembre 1999)
Alberto Berardi
(gennaio 2000 – dicembre 2001)
Evio Hermas Ercoli
(gennaio 2002 – dicembre 2003)
Mario Canti
(gennaio 2004 – luglio 2005)
Enrico Paciaroni
(agosto 2005 – dicembre 2006)
Tullio Tonnini
(gennaio 2007 – dicembre 2007)
Bruno Brandoni
(gennaio 2008 – luglio 2008)
Alberto Pellegrino
(agosto 2008 – luglio 2009)
Walter Scotucci
(agosto 2009 – luglio 2010)
Maria Luisa Polichetti (agosto 2010 – luglio 2011) Ettore Franca
(agosto 2011 – luglio 2012)
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(agosto 2012 – luglio 2013)
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Anno XXVI
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