Centocittà n. 75

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Rivista di divulgazione culturale e artistica del territorio marchigiano | Sped. in a.p. - 70% - Filiale di Ancona

ISSN 1127-5871

ARTE | STORIA | ARCHEOLOGIA | LETTERATURA | SOCIETÀ | MUSICA | SCIENZE

Il burattino

digitale

NUMERO

75|2021

NOVEMBRE



Preludio

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... figuratevi la sua meraviglia quando si accorse che gli occhi si muovevano e che lo guardavano fisso.

Pinocchio una fiaba che anticipa l'era virtuale. Accanto al messaggio morale c'è spazio per un'ironia tagliente e irriverente.

Le avventure di Pinocchio illustrate da più di 300 disegnatori e tradotte in centinaia di lingue e ora in un cartoon in chiave moderna.

Il burattino senza fili è anche senza tempo, bugiardo incallito impertinente ma anche ingenuo e di indole buona.


Editoriale

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L’editoriale

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Marche, rispondenza tra animi e paesaggi

M di Fernando Piazzolla Presidente de Le Cento Città

Un popolo che rifugge gli estremismi Ricco di solidarietà e partecipazione e non diffidenza né incredulità

i sono appassionato al libro del mio amico e collega Marcello Marcellini “L’assassinio di Seneca (Riflessioni con Ramon Sampedro sulla parte estrema della vita)” e ne ho seguito la preparazione e poi la pubblicazione. Si tratta di un libro straordinario, dove attraverso l’espediente letterario di lettere immaginarie a Ramon Sampedro, pescatore galiziano rimasto tetraplegico a seguito di un tuffo errato in mare e poi costretto a vivere disteso su un letto e immobile, si raccontano da un lato, come su scale mobili parallele, le vicende di questo personaggio, che voleva morire con dignità ed era per questo alla ricerca di un’impunità per legge di chi gli volesse procurare la morte, con le contrastanti meraviglie di una vita pur in quelle condizioni, imbevuta di amore e di poesia, e dall’altro le vicende processuali di Marco Cappato, che aveva accompagnato a morire in Svizzera DJ Fabo in virtù di una decisione assolutamente autonoma di quest’ultimo, incentrate sulla sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, a certe condizioni, della norma che punisce l’aiuto al suicidio. Ebbene, nel seguire preparazione e pubblicazione del libro sono capitato una volta al teatro di Montecarotto e un’altra volta al teatro di Arcevia. In entrambi i casi erano pieni. E’ come se la gente avesse d’incanto sentito il bisogno di discuterne e si fosse trovata nel luogo naturale dove l’incontro e la discussione dovevano aver luogo.

Quindi c’è da essere orgogliosi non solo del fatto che le Marche hanno il maggior numero di teatri in rapporto alla popolazione, ma del modo in cui le popolazioni locali vivono e si stringono attorno al loro teatro, dove vanno a dibattere gli argomenti più sentiti. Il secondo pensiero è che il dibattito si è svolto in un’atmosfera civile e pacata, assolutamente tollerante e contraria agli estremismi verbali. E’ come se la leggerezza del tono usato dall’Autore nell’accostarsi a questa materia si fosse trasmessa agli abitanti riuniti a teatro. Dunque solidarietà e partecipazione, e non diffidenza, né incredulità. Mi sovviene il libro, sempre attuale, di Guido Piovene “Viaggio in Italia”, che, nel descrivere le caratteristiche del popolo marchigiano, ne individua il carattere medio, che rifugge dagli estremismi e che si coniuga in armonia con il paesaggio anch’esso “medio , dolce senza mollezza, equilibrato, moderato quasi che l’uomo stesso ne avesse formato il disegno” e conclude che è “difficile trovare una così esatta rispondenza tra gli animi e il paesaggio”. Ebbene queste mie esperienze, nel mio piccolo, mi hanno fatto riscoprire l’accezione della medietà come civiltà dei pensieri e dei comportamenti. In un’epoca di pseudo cultura diffusa fatta di insulti, polemiche, prevaricazioni, estremismi ideologici e comportamentali ritrovare il senso di un quieto ragionare è come scoprire una nuova sorgente di vita. ¤


Il punto

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Burattini senza fili nell’era digitale

P di Franco Elisei Direttore de Le Cento Città

La conoscenza genera consapevolezza e permette scelte responsabili per non diventare marionette inconsapevoli

erché Pinocchio? Presto detto: perché sono trascorsi 140 anni dalla prima striscia sul burattino di legno pubblicata a puntate e l’intenzione era di rendere omaggio a tutti i fanciulli a poche settimane dalla Giornata mondiale dell’infanzia. Ma cosa c’entra Pinocchio con le Marche? C’entra eccome, perché Ancona ha un quartiere chiamato proprio “Pinocchio” addensato su una delle colline doriche e perché le Marche hanno contribuito a rendere sempre più attuale una favola senza tempo, la più tradotta al mondo, con la partecipazione creativa di nostri autori in programmazioni televisive: nel 2009 per la Rai, con il burattino in legno che doveva essere somigliante all’attore, realizzato dall’azienda Bartolucci di Pesaro e ora con la serie in programma sempre per la Rai (Rai Yoyo) del Pinocchio ideato da Iginio Straffi, l’imprenditore marchigiano considerato da tutti il Walt Disney italiano. L’idea è di rileggere Pinocchio sotto la lente dell’attualità. La fiaba di Collodi- ne sono convinti i nostri autori – è più complessa di quanto può sembrare e densa di spunti interpretativi che hanno stimolato anche letture in chiave teologica. E proprio Straffi ha voluto vestirla di elementi moderni, di desideri, ingenuità, bugie e avventure proprie dei ragazzi d’oggi. Per la prima volta Pinocchio è affiancato da una bambola di pezza, una presenza femminile nella fiaba, finora relegata solo alla Fata Turchina. Attualità e fantasia insieme. E se alla fantasia non si

possono mettere catene, all’attualità ci si deve avvicinare con consapevolezza. Così il campo dei miracoli può oggi avere similitudini con l’universo digitale. Il burattino di oltre un secolo fa può lasciar pensare al rischio di trovare e ritrovarsi imprigionati in altri burattini in chiave moderna, anche questa volta senza fili. E ancora, se Pinocchio anelava, pur nelle sue intemperanze, a diventare un uomo, l’uomo da sempre si ritrova a riflettere su come evitare di trasformarsi in un burattino mosso da fili invisibili. Un rischio che preoccupa oggi gli organismi incaricati della tutela dei fanciulli e adolescenti attratti sempre più da un “Paese dei balocchi” in forma digitale. Che fa pensare anche molti sociologi e filosofi contemporanei, studiosi di un fenomeno che coinvolge tutti, in cui le bugie, chiamate fake news, spesso si moltiplicano attraverso la rete e si trasformano in post verità, tese dolosamente a smontare l’interpretazione collodiana e pedagogica di fandonie dal “naso lungo”. Ma tese anche a cercare furbescamente di fare più strada di quella che la convinzione popolare attribuisce alle bugie dalle “gambe corte”. Il miglior antidoto è la conoscenza, o come lascia emergere Collodi, l’istruzione. La conoscenza genera consapevolezza e permette scelte e decisioni responsabili, al contrario degli “uomini a una dimensione”, come li definiva il filosofo Marcuse, uomini allineati e senza senso critico. Inconsapevoli burattini in una realtà sempre più virtuale. ¤


Argomenti

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Sommario 10

A 300 anni dalla scomparsa

Papa Clemente XI patrono e difensore delle arti DI FABIO MARIANO

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Gli amori di Dante e Leopardi

Silvia e Beatrice vere e inarrivabili DI LUCILLA NICCOLINI

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Marchigiani nel mondo

Un materasso di mais e i sogni oltre Oceano DI PAOLA CIMARELLI

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L’opera

La sfera fantasma nel santuario d’arte di Ca’ Staccolo DI FRANCO ELISEI

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Archeologia

Il favoloso scrigno di avorio e d’ambra DI NICOLETTA FRAPICCINI

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Il segno

Iacomucci, sette gocce come le note musicali DI PATRIZIA MINNOZZI

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L’artista

Sante Monachesi un post matissiano con sensibilità dadaista DI ARMANDO GINESI


Argomenti

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Sommario 39

Il personaggio

Carnevali, scrittore e illustratore illuminato DI GRAZIA CALEGARI

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Il monello di Collodi 140 anni dopo | 1

Pinocchio, cartoon made in Marche La novità Freeda bambola di pezza DI FRANCO ELISEI E SERGIO GIANTOMASSI

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Il monello di Collodi 140 anni dopo | 2

E l’attore volle imparare a diventare Geppetto DI GIORDANO PIERLORENZI

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Il monello di Collodi 140 anni dopo | 3

Pinocchio deve morire no ai burattini nella vita DI PAOLO ERCOLANI

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Il monello di Collodi 140 anni dopo | 4

Quel ciocco di legno metafora della vita e fiaba senza tempo

DI GIORDANO PIERLORENZI

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Il monello di Collodi 140 anni dopo | 5

Pinocchio, non solo fiaba ma vera parabola

DI CLAUDIO DESIDERI

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Il monello di Collodi 140 anni dopo | 6

Le aventur de Pinocchi in versione dialettale

DI ELISABETTA MARSIGLI


Argomenti

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Sommario 66

Il monello di Collodi 140 anni dopo | 7

Corri Pinocchio, corri Inafferrabile il burattino di Collodi DI CATIA MENGUCCI

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Il drammaturgo

Il teatro di Morselli l’anti Dannunzio DI ALBERTO PELLEGRINO

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La storia

Marche e Polonia pagine di solidarietà DI CLAUDIO SARGENTI

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Fondazione Guazzugli Marini

Biblioteca di Pergola di eccezionale interesse DI ROSANGELA GUERRA

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L’aneddoto

La pelliccia di lupo e Anna Magnani DI WALTER VALENTINI

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Il progetto

I portici de j’archi riò di storie e di storia DI ROBERTO PETRUCCI


A 300 anni dalla scomparsa

N di Fabio Mariano

ella ricorrenza dei trecento anni dalla sua scomparsa, la figura di Giovan Francesco Albani (Urbino, 23 luglio 1649 – Roma, 19 marzo 1721), merita di essere ricordata come quella di uno dei pontefici più impegnati sul fronte della tutela dei beni culturali. La sua predisposizione e la passione per gli studi umanistici, per la cultura, l’arte e l’antichità classica, già manifestate in età giovanile, non lo abbandonarono neanche durante l’età dei gravi impegni del suo pontificato. Esse trovarono riscontro nel gusto

per il collezionismo, nutrito già da cardinale e poi da pontefice, rivolto ad ogni aspetto dell’espressione artistica sia classica che contemporanea, come ci confermano le fonti storiche a lui coeve e sottolineati dal Bellori soprattutto, il quale così ne lodava le inclinazioni: “…quando ornando la sacra porpora d’un insigne dottrina e d’ogni e più nobil studio fra essi ammette e si compiace della pittura’’. Ne sono conferma le sue raccolte di disegni e di stampe, tipiche dello studioso o dello specialista addetto ai lavori più che del collezionismo degli uomini


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Papa Clemente XI patrono e difensore delle arti GIOVAN FRANCESCO ALBANI DI URBINO È RICORDATO PER LA SUA PASSIONE RIVOLTA AGLI STUDI UMANISTICI, ALL’ARTE E ALL’ANTICHITÀ CLASSICA E PER IL GUSTO DEL COLLEZIONISMO COLTIVATO GIÀ DA CARDINALE

di potere, regnanti, cardinali e papi, consuetudinariamente più interessati, grazie anche al loro potere politico ed economico, ai grandi pezzi scultorei ed alle tele di grandi firme da poter esibire con orgoglio al vasto o ristretto pubblico. Giovan Francesco era figlio di Carlo, maestro di camera del cardinal Francesco Barberini, famiglia strettamente collegata ai territori dell’ex Ducato di Urbino a partire dalla sua devoluzione seguita alla morte del duca Francesco Maria II Della Rovere e perseguita da papa Urbano VIII, Maffeo Barberini, nel 1631

trasformandolo in Legazione Apostolica. Il nonno Orazio aveva inoltre ricoperto la carica di Senatore di Roma per nomina dello stesso papa. Di una precoce, inconsueta e colta passione per il collezionismo cartaceo testimonia il suo acquisto dagli eredi ad Urbino, documentato già prima del 1690 anno della sua elezione alla porpora cardinalizia, di un grande cartone di Federico Barocci preparatorio al vero della tela della Beata Michelina, allora nel San Francesco di Pesaro ed oggi alla Vaticana. Dal quel primo acquisto documentato la sua collezione

grafica ebbe vieppiù ad incrementarsi, non solo con acquisti ma anche con doni deferenti, da cardinale e poi da papa, annoverando opere di Guido Reni, Raffaello, Domenichino, Annibale Carracci, Guercino, Pier Leone Ghezzi, Carlo Maratti, e quindi anche disegni di architettura come quelli di Giulio Romano e Carlo Fontana. Di quest’ultimo, scomparso nel 1714, riuscì ad assicurarsi nel 1716 i 14 volumi dei suoi splendidi disegni di progetto per la cifra di 160 scudi, e fu un vero affare se si confrontano alle 140.000 corone con cui il cardinale nepote li vendet-


A 300 anni dalla scomparsa

La sua inclinazione artistica era rivolta non solo alla collezione ma anche verso il restauro e la conservazione

Nelle pagine precedenti Specchi Alessandro, Prospetto del Nuovo Navale di Ripetta, (1704) Qui sopra, Carlo Maratti Il Cardinale Giovanni Francesco Albani, (1692) A destra, Carlo Maratti, Ritratto di Giovan Pietro Bellori A fianco, Medaglia per Il Restauro della Colonna di Antonino Pio, (1707) Sotto, Giuseppe Ghezzi, Le tre arti, Pittura, Scultura e Architettura, Roma (1716)

te poi nel 1762 al re Giorgio d’Inghilterra, dove oggi sono conservati nelle collezioni di Windsor. La sua predisposizione alla cultura artistica si caratterizzò non solo verso l’acquisto e la commissione di opere per la collezione che andava precocemente costituendo bensì si rivolgeva - in modo nuovo ed inconsueto – verso problematiche cogenti e di illuminata visione di politica culturale, quali quelle del restauro e della conservazione. È nota la sua premura per gli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina, per i quali solleciterà l’intervento di Carlo Maratti presso il papa Innocenzo XII Pignatelli, ed al

quale da pontefice affiderà poi i restauri pittorici degli affreschi di Raffaello nelle Stanze vaticane e nella Villa della Farnesina. La stima e l’apprezzamento per il conterraneo marchigiano porteranno Giovan Francesco ad individuare nell’artista cameranese il suo pittore ufficiale sin dalla nomina cardi-

12 nalizia. Il Maratti, eletto principe a vita dell’Accademia di San Luca, più anziano di un quarto di secolo di Giovan Francesco, godeva oramai di una fama e di un successo internazionale consolidati sia presso il pubblico sia presso l’entourage ecclesiastico, grazie anche al suo naturale allineamento stilistico sui canoni del classicismo romano teorizzato di Giovan Pietro Bellori, allora autorevole storico dell’arte e teorico dell'estetica classicista del XVII secolo. Numerose furono le commesse di dipinti privati a lui direttamente richieste, ma anche alla sua qualitativa bottega che annoverava nomi di successo, quali fra gli altri: Giuseppe Passeri, Sebastiano Conca, Pier Leone Ghezzi, che ricevettero commesse anche per interi cicli decorativi in edifici ecclesiali romani quali: San Pietro, Santa Cecilia, San Clemente, ed anche per il Duomo di Urbino dove troviamo nella Cappella della Concezione l’Assunzione in cielo della Vergine, (1707 ca.) di Maratti e la Natività della Vergine di Carlo Cignani (1709). Come consulente personale per gli acquisti d’arte il papa si affidò al romano di nascita, ma di padre ascolano di Comunanza, Pier Leone Ghezzi, pittore, collezionista e mercante d’arte, con una particolare vena per il disegno caricaturale, vero iniziatore moderno di questo genere. Accademico di San Luca appena trentenne, tra il pittore e papa Albani si instaurò un rapporto di vera e propria predilezione, in parte motivata dalla comune origine marchigiana, ma soprattutto dalla duttile creatività narrativa di Pier Leone, che si espresse nella prima committenza pubblica affidatagli nel 1712, particolarmente importante poiché destinata alla cappella della famiglia Albani, fatta erigere su disegno di Carlo


A 300 anni dalla scomparsa

Fontana, nella chiesa di S. Sebastiano fuori le Mura. Il ritratto di Clemente XI, del Museo di Roma, (databile intorno al 1710-12), sembra stia a testimoniare il sentimento di cordiale familiarità stabilito col pontefice. Grazie alla predilezione manifestata da papa Albani e al prestigio ormai assunto, Ghezzi partecipò da protagonista alle due imprese pubbliche più importanti del periodo, la decorazione della navata della basilica di S. Clemente nel 1715 e di quella della basilica di S. Giovanni in Laterano nel 1718. A causa della difficile situazione politica internazionale, la condizione delle finanze vaticane non fu allora delle più felici, sia per l’austerità delle relative contingenze militari dell’epoca sia per la particolare magnanima predisposizione del papa verso le elemosine pubbliche cui s’era mostrato particolarmente sensibile durante le numerose calamità naturali che avevano colpito lo Stato in quegli anni, oltre

che per i mancati introiti derivanti dalla perdita dei numerosi privilegi del clero romano presso le corti europee durante gli anni della guerra. Ciononostante, il lungo ventennale pontificato di papa Albani si caratterizzò anche per alcune importanti opere architettoniche ed a scala urbanistica, testimoniate anche, come da consuetudine, su dodici delle venti medaglie annuali del suo pontificato. Sotto Clemente, nel 1703, ebbe compimento il colonnato berniniano di piazza S. Pietro, con l’innalzamento delle cinquanta statue di santi in travertino poste sull’attico dei due bracci avvolgenti del colonnato. Ma fu certamente il comacino Carlo Fontana (16381714), cauto mediatore della transizione dal tardo barocco al nuovo classicismo, ad impersonare l’architetto preferito di papa Clemente fino alla sua morte, come anche il folto gruppo dei suoi dotati allievi quali: il figlio Francesco,

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Come consulente personale per gli acquisti d’arte, il Papa si affidò a Pier Leone Ghezzi pittore e mercante


A 300 anni dalla scomparsa

Sotto Clemente XI ebbe compimento il colonnato di piazza San Pietro e l’innalzamento delle cinquanta statue di santi

In alto, Arnold van Westerhout Ritratto di Clemente XI attorniato dalla Fede, Speranza Carità e Giustizia, (1701) Nella pagina a fianco, Pier Leone Ghezzi, Ritratto di Clemente XI Albani, (178-12), Museo di Roma Sotto, Pier Leone Ghezzi autoritratto in caricatura

Alessandro Specchi, Filippo Barigioni, ecc. A Carlo il papa commise subito il vasto ospizio con casa di correzione minorile del S. Michele a Ripa Grande (oggi sede del Mibact); il nuovo portico di S. Maria in Trastevere; la tomba della regina Cristina di Svezia in San Pietro (1702); il restauro della Basilica dei Santi XII Apostoli (col figlio Francesco); il citato restauro della basilica di San Clemente(1711-15). Con lo Specchi e Barigioni Carlo eseguì la Cappella Albani in S. Sebastiano fuori le Mura. Al Barigioni fu assegnato il ridisegno della fontana di Piazza del Pantheon. Lo scenografico Porto di Ripetta sul Tevere fu certo il capo d’opera del dotatissimo Alessandro Specchi,

14 ma fu soprattutto la maggiore realizzazione urbana promossa dal pontificato di Clemente. Iniziato dal 1703 con un concorso vinto dallo Specchi ed inaugurato il 1706, rappresentò un raccolto e raffinato capolavoro d’urbanistica tardo barocca dove si legavano gli aspetti funzionali dell’attracco dei navigli fluviali per lo scarico del legname con le suggestioni percettive e spaziali indotte brillantemente dal gioco di scalee curve e convesse che ne fanno rimpiangere la sua barbara ed evitabilissima distruzione operata nel 1880 per la costruzione dei muraglioni. Il bel complesso, in parte realizzato coi travertini caduti dal Colosseo per il terremoto del 1703, comprendeva anche il limitrofo palazzetto della Dogana. A Clemente va anche assegnato il merito di aver bandito nel 1717 il primo concorso pubblico per la sistemazione della scalinata di Trinità dei Monti (annoso problema urbanistico irrisolto dai tempi di Sisto V), vinto da Francesco De Santis e realizzato dopo la morte del papa. Nella sua patria, ad Urbino Clemente inviò anzitutto il Fontana per restauri al campanile fatiscente ed alla scarna facciata quattrocentesca del Duomo, ma rimasti senza esiti evidenti, mentre gli si attribuisce la facciata del Palazzo Vescovile. Allo Specchi commissionò invece il disegno per l’altare marmoreo della cappella della Concezione e, soprattutto la mossa mole del Palazzo degli Scolopi, iniziato nel 1705 ma interrotto alla morte del pontefice. Mentre al Barigioni fu affidato il rifacimento della Chiesa di S. Domenico. Dubitativi rimangono i possibili interventi del giovane Luigi Vanvitelli nel palazzo Albani in via Bramante, e nella cappella di famiglia in S. Francesco, venuto in Urbino al seguito del padre Gaspar


A 300 anni dalla scomparsa

van Wittel commissionato qui delle due note vedute panoramiche della città. Fra le opere di valorizzazione culturale promosse da papa Clemente, coerentemente con la sua particolare sensibilità per l’attività educativa e formativa, non si può non ricordare che nel 1702 costituì il fondo per il monte premi dei concorsi per giovani artisti allievi della Pontificia Accademia di S. Luca, della quale già da cardinale era stato eletto ‘’Accademico di Honore’’. I fondi erano destinati agli annuali premi per le classi di pittura, architettura e scultura e vennero prelevati da quelli destinati alle corse dei cavalli berberi sul Corso in periodo di Carnevale; da allora furono detti in suo onore ‘’Concorsi Clementini’’. La politica praticata da papa Clemente in favore della promozione e della tutela dei beni culturali fu intensa, convinta ed innovativa. Quasi collegandosi idealmente con la celebre lettera del Raffaello urbinate a Leone X Medici sulla protezione dei monumenti dell’antica Roma, a partire dal pontificato del papa urbinate verrà sempre più definendosi, sino a Pio IX, una avanzata produzione giuridica in materia di tutela e di catalogazione dei beni culturali, per la quale lo Stato pontificio sarà sempre all’avanguardia, legislazione che sarà poi presa a modello sia dallo Stato unitario dopo il 1860, sia successivamente dai principali stati nazionali europei, venendo a costituire nei fatti la base concettuale d’ogni moderna strumentazione di salvaguardia e di conoscenza. Del pontificato di Clemente XI vanno citati in merito – e soprattutto letti direttamente come documento vivo della sensibilità di un’epoca - gli editti specifici in materia: a partire da quelli del cardinal Camerlengo Giovan Battista Spinola sulla ‘’Prohibitione sopra l’estrattione di statue

di marmo o metallo, figure antiche e simili’’, del 18 luglio 1701, reiterato poi il 30 settembre 1704 ed estendendolo – su sollecitazione dell’erudito Albani – anche alle antiche scritture ed ai libri manoscritti: “proibiamo che nissuna persona di qualunque grado, condizione, sesso e qualità ardisca di vendere, o comprare sotto alcun pretesto qualsivoglia sorte di libri scritti a mano tanto volgari, e latini, quanto greci, ebraici, e di qualunque altra lingua così in carta pecora, come in carta bambacina, tanto intieri, quanto divisi, rotti, e sciolti…’’, le pene previste erano: ‘’…tre tratti di corda da darseli subito in publico, e di scudi 200, da applicarsi alla R.C.A. de’ quali si promette, e si darà la metà a chi rivelerà le compre, e vendite di simili libri, e scritture fatte senza licenza, et esso rivelante sarà tenuto segreto’. In continuità, ma a firma diretta del cardinal nepote Annibale Albani, in veste di pro Camerlengo, si ricorda invece l’importante editto ‘’Sopra li scarpellini, segatori di marmi, cavatori, ed altri’’ del 21 ottobre 1726 nel quale si proibiva’’ a qualsiasi persona, ancorché avesse la nostra licenza per cavarne, di farlo vicino agl’Edifizi, e muraglie antiche, acciò non ne restino danneggiate […], il guastare qualunque Edificio, o Fabrica, o altra opera antica sopra terra, ancorché lesa dal tempo, o rovinosa, senza nostra espressa licenza, e senza la precedente visita, ed inspezione del suddetto nostro Commissario […], che debbano subito quelli, che le troveranno darne notizie[…] prima eziamdio di levare le suddette cose dal luogo in cui saranno state trovate […] per assicurarsi ancora che non si rompino, o offendino nel cavarle [….] a qualunque Scarpellino, Segatore di Marmi o altri, il segare o far segare, o in altro modo rompere, o guastare qualunque pietra, o

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A Clemente XI va anche assegnato il merito del primo concorso pubblico per sistemare la scalinata di Trinità dei Monti


A 300 anni dalla scomparsa

La politica di Papa Clemente a favore della tutela e promozione dei beni culturali fu intensa, convinta e innovativa

In alto, Medaglia per Altare di S.Crescentino, Urbino Anno IV (1704); Qui sopra, Medaglia premio per il Concorso Clementino, Accademia di San Luca. (1708) incisione di Ermenegildo e Giovanni Hamerani

marmo, ove sia alcuna iscrizione, o Basso rilievo, siccome ancora Colonne di qualsivoglia sorte, o tronchi di esse…’’. Contestualmente, grazie alla rinnovata preoccupazione per la conservazione del patrimonio culturale professata personalmente dal papa, divenne consuetudine sempre più diffusa la creazione di elenchi inventariali dei beni artistici da allegare agli atti testamentari e fidecommissari delle principali famiglie nobili romane: pratica indispensabile a contenere il rischio della frammentazione e della successiva dispersione ed esodo immediato di ingenti collezioni d’arte e di grandi biblioteche private. Fra le principali iniziative del pontefice – che lo annoverava tra i principali benefattori della Biblioteca Vaticana - ci fu l’acquisto a proprie spese di numerosi e rarissimi codici orientali, per i quali aveva inviato i massimi esperti dei suoi tempi, come l’Assemani ed il Massard, in Siria ed in Egitto alla pervicace ed onerosa ricerca di quei materiali bibliografici da lui ritenuti fondamentali alla conoscenza

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testuale delle religioni delle origini. Contestualmente, grande impulso diede agli studi di archeologia cristiana con una particolare attenzione alla tutela delle catacombe romane. La vasta raccolta artistica della famiglia Albani, sensibilmente incrementata dagli acquisti di Giovan Francesco, venne poi ulteriormente arricchita dagli acquisti del fratello Orazio e poi soprattutto da quelli dei di lui figli, i cardinali nepoti Annibale ed Alessandro, dei quali è ben nota l’attitudine e l’attenzione prestata al mercato dell’arte. Essi divennero i fortunati eredi della sua ricchissima collezione d’arte, nonché della celebre biblioteca del palazzo di famiglia alle Quattro Fontane. Essi godettero a Roma alla metà del XVIII secolo di una posizione di privilegio culturale, politico e mondano notevole come proprietari di una delle più grandi raccolte d’arte dell’epoca, anche se lamentavano, come cita il De Brosses, che “Les neveux des papes meurent deux fois, la seconde comme les autres et la premiere a la mort de leur oncle’’. ¤


Gli amori di Dante e Leopardi

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Silvia e Beatrice vere e inarrivabili DUE DONNE IDEALIZZATE, UN DESTINO LEGATO DAI VERSI

S di Lucilla Niccolini

arà capitato anche a voi, di sentir risuonare in testa versi di poesie imparate sui banchi di scuola, richiamati da volti e situazioni. E succede che la memoria burlona abbini frasi di autori differenti, ma tra loro assonanti, in combinazioni plausibili. Non so più quante volte, a “per le sorrise parolette brevi”, nella mia mente, è tornato ad accostarsi il verso “negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi”. Cinque secoli di letteratura e civiltà italiana separano queste due espressioni, la prima riferita da Dante a Beatrice nel I canto del Paradiso; l'altra, lampo indimenticabile dell'incipit di “A Silvia” di Giacomo Leopardi. Proviamo a capire. Beatrice e Silvia, due donne inventate dal nulla? No, vere e inarrivabili. Perdute nella vita e riconquistate con l'immaginazione. Poche donne della poesia eterna condividono così denso spessore ideale, e insieme restano nella memoria dei lettori con connotati tanto concreti e reali. Entrambe hanno avuto il privilegio di assurgere a sim-

boli di valori, entrambe sono morte senza sapere con quanta luce e fascino i due poeti le avrebbero eternate. Ci piaceva immaginare, da ragazzi, che nell'altro mondo le due creature si fossero incontrate, avvicinate dalla sorte comune, sorridendo con affetto dei due poeti, e del loro sentimento, ormai così lontano, con quell'espressione intenerita delle donne nobili, quando se ne lusinga la bellezza. In quel mondo, non contano più le differenze. Di classe sociale: figlia, la prima, di Folco Portinari, influente banchiere fiorentino, che andò in sposa a un altro banchiere, Simone de' Bardi. Teresa Fattorini, invece, cui Giacomo ha dato il nome di Silvia, era figlia del cocchiere di casa Leopardi, e non si sposò mai. Morirono entrambe giovanissime, la prima a 24 anni, Teresa a 21 anni, “da chiuso morbo combattuta e vinta”: probabilmente vittime entrambe, a cinque secoli di distanza, della limitatezza del regime sanitario, che nel mondo ha avuto una svolta solo nel secolo scorso. E che mieteva vittime indifferentemente tra ricchi e poveri, abitanti delle città e dei borghi. Nella civilissima e popolosa Firenze, Beatrice, fanciulla benestante e vezzeggiata, non diventò mai adulta, come Teresa/Silvia, cui il “natio borgo selvaggio”, come Leopardi definisce Recanati, non poté assicurare cure adeguate alla tisi. Tempi e luoghi diversi le videro salire “il limitare di gioventù”, senza vedere “il fior degli anni”. Ma mentre Beatrice fu oggetto di ammirazione diffusa, a meno che il sonetto “Tanto gentile e tanto onesta pare”


Gli amori di Dante e Leopardi

Morirono entrambe giovani senza sapere con quanta luce e fascino i due poeti le avrebbero rese eterne

Nella pagina precedente e in alto due immagini raffiguranti Dante e Beatrice Qui sopra, il manoscritto "A Silvia" di Giacomo Leopardi

non sia un'invenzione dell'immaginazione innamorata di Dante. “Ella si va, sentendosi laudare, benignamente d'umiltà vestuta” non è mai stato considerato il racconto di una percezione soggettiva. La sua bellezza di bambina di rosso vestita, che sconvolge Dante a soli nove anni, si conferma quando, a diciotto, ne ha una nuova visione, giovinetta in abito bianchissimo. E lo saluta “molto virtuosamente, tanto che da me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine”. Da Teresa, Giacomo fu attratto in quel tempo della sua vita mortale, “quando beltà splendea” negli occhi ridenti

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e fuggitivi. Gli appare “lieta e pensosa”, in abbinamento antifrastico di aggettivi, non si sa quanto influenzato, quando Giacomo scrisse “A Silvia”, dieci anni dopo la sua morte, dall'aura opaca della sorte di una fanciulla cui “negaro i fati la giovanezza”. E che gli appare ormai come simbolo della sua “lacrimata speme”. Ma mentre, a Dante, di Beatrice resta negli occhi l'immagine smaltata, di “una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare”, “sì piacente a chi la mira, che dà per li occhi una dolcezza al core”, a Leopardi, nello studiolo di Pisa, dove compone l'idillio, con un altro senso, l'udito, pare di sentire ancora risuonare il suo perpetuo canto, intenta alle “opre femminili” con “la man veloce che percorrea la faticosa tela”. Umile, “assai contenta di quel vago avvenir” che in mente aveva, Teresa è donna del popolo, idealizzata nella mente di Giacomo dal suono della sua voce. I pensieri soavi, le speranze, il cuore di allora sono scomparsi, cancellati dalla consapevolezza e dal dolore della comune sventura: la perdita della vita, per lei; di ogni speranza, per il poeta. Idealizzate, assurte a simboli, entrambe - della teologia l'una, della giovanile confidenza nel futuro, l'altra – sembra di vederle sorridere, ora, del paradosso poetico: a Beatrice, il divino poeta ha dedicato un poemetto, “La vita nuova” e un intero poema, mentre Teresa/ Silvia resta immortalata da appena 63 versi. Inarrivabili entrambe, la poesia ne ha fatto due divinità. Due stelle che brillano nel cosmo della memoria dell'intero pianeta. ¤


Marchigiani nel mondo

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Un materasso di mais e i sogni oltre Oceano A 6 ANNI IN VIAGGIO VERSO L'ARGENTINA, ORA INDUSTRIALE

È di Paola Cimarelli

In alto, la famiglia al completo di Ivano Badiali, prima di partire per l'Argentina nel 1951

la storia di un bambino che ha attraversato l’oceano e non ha mai smesso di credere nei suoi sogni. Sono passati quasi settant’anni dal viaggio che ha portato Ivano Badiali dalle Marche in Argentina. Dai suoi occhi però traspare ancora la commozione per quello che lui e la sua famiglia hanno vissuto nei primi anni da migranti, di cosa ha voluto dire lasciare la propria casa, arrivare in un Paese così diverso dal proprio e lavorare continuamente, fin dall’adolescenza, per costruire una vita migliore. Nel suo ufficio sono esposte tre bandiere: a sinistra quella argentina, a destra quella italiana, al centro quella della sua azienda, la

sua “creatura” immaginata e costruita con determinazione e lungimiranza, l’Inmeba, Industria metallurgica Badiali. Tre simboli dell’intreccio fra cultura dell’essere e del fare, della contaminazione fra le origini e il futuro. Su una parete, c’è un calendario con la cartina dell’Italia. Nel suo parlare, la lingua madre è solo un po’ incerta. Vi si incrociano il ritmo dello spagnolo sudamericano con l’accento dell’entroterra anconetano, con una cadenza che ricorda la campagna, la terra, il lavoro contadino, una nonna curva sul fuoco per nutrire quelle che una volta erano grandi famiglie, con generazioni che vivevano tutte sotto lo stesso tetto. “Marchegiani” d’Argentina, con una vita ispirata


Marchigiani nel mondo

E’ la storia di Ivano Badiali 75 anni una vita ispirata dalle parole sacrificio sfida e coraggio

In alto, Ivano Badiali con il fratello Alfio nel 1951 Qui sopra, la prima fotografia scattata in Argentina nel 1954 In alto a destra, Ivano nel primo lavoro da tornitore nel 1962 e sotto, al lavoro davanti a una pressa nello stesso anno

dalle parole sacrificio, sfida e coraggio. “Sono nato nel 1946 a Castelleone di Suasa – racconta Badiali -, la nostra era una famiglia di contadini, che lavorava sotto padrone. Mio padre Gino aveva fatto nove anni di guerra: in Africa, la Seconda guerra mondiale e poi era stato prigioniero due anni in Germania. Quando è tornato, nel 1945, pesava 48 chili. C’era la fame e il lavoro non c’era. Voleva trovare altro per noi figli, perché non dovessimo passare quello che aveva vissuto lui durante quegli anni di sofferenza. Voleva andare via dall’Italia e decise di venire in Argentina dove aveva uno zio, Giovanni, che era arrivato nel 1923”. Lo zio viveva a Córdoba, nel centro del Paese, ai piedi della catena montuosa Sierras Chicas. Oggi è la seconda città per popolazione, con 1,3 milioni abitanti, un importante centro industriale con produzioni di automobili, ferrovie, aerei, aziende tessili e chimiche. Gino partì per Córdoba nel 1951, con una fisarmonica e la chiamata di lavoro da parte dello stesso zio. Partì per andare a vedere cosa si poteva fare in quell’Argentina di cui si parlava tanto e con l’intenzione, con i primi risparmi, di farsi raggiungere dalla famiglia, la moglie Giovannina Bonaccorsi, Alfio, Ivano e la piccola Mariangela. “Siamo partiti un anno dopo mio padre, nel 1952, io avevo sei anni. Mi ricordo bene il viaggio perché ero l’unico che non soffriva il mal di mare. Mia madre è stata sempre a letto e così mio fratello. Mia sorella aveva solo due anni. Siamo partiti dal porto di Genova a bordo del transatlantico Conte Biancamano. Viaggiavamo nell’ultima classe, la più economica della nave. Io dovevo andare a prendere da mangiare per tutti perché non si muoveva-

20 no dalla cabina. Però quando abbiamo attraversato l’Equatore, con mare grosso, quel giorno nessuno ha potuto mangiare niente”. Per pagare il viaggio, che è durato 18 giorni, il padre dovette vendere anche la sua fisarmonica. “Siamo sbarcati a Buenos Aires dove c’era babbo che ci aspettava con un suo cugino. Sì, me lo ricordo bene, molto bene. È stata una gioia, una grande gioia rivederlo”. Poi in treno per percorrere i 700 chilometri che separano il mare da Córdoba. “Siamo partiti alle nove di sera e siamo arrivati alle otto del mattino. Ci è venuto a prendere un altro cugino di mio padre per aiutarci a portare le robe a casa. Dopo è arrivato anche il baule con i vestiti, che viaggiava su un altro treno. Era pieno di teli e biancheria che facevano parte del corredo di mia madre”. L’inizio della nuova vita è stato difficile, la povertà nei primi tempi ha preso il posto della speranza. “A casa di mio zio non c’era spazio, la sua famiglia era grande. Così mio padre ha dovuto trovare un posto per sistemarci. Siamo stati più di un anno dentro una capanna fatta di lamiere e mattoni che si trovava fuori Córdoba, vicina ad un’altra famiglia italiana, poi rientrata. Il materasso era riempito con le foglie di mais. È stato veramente brutto. Mio padre lavorava sempre, come muratore e nei campi. Faceva un po’ di tutto, lavorava anche il sabato e la domenica in diverse ditte”. Per andare a scuola, Ivano doveva camminare per otto chilometri, all’andata e al ritorno. “Non c’era altra possibilità. Ho cominciato la scuola appena arrivato e tutti ridevano di me perché non mi capivano, mi prendevano in giro. Così abbiamo cominciato la nostra vita in questo Paese. Quando tornavo a casa


Marchigiani nel mondo

– ricorda con commozione – trovavo spesso mia madre che, poveretta, piangeva perché non si voleva abituare alla vita di qua. Era partita da una casa, anche se non era la sua, dove aveva le comodità e, anche se c’era la fame, aveva tutti i suoi parenti, la madre, le sorelle. Ora era da sola e la situazione non era quella che si poteva sperare”. Finalmente il padre Gino, tramite un prete che lo aiutò scoprendo che era italiano, trovò un lavoro migliore. Fu assunto come cameriere di notte al Crillon Hotel dove rimase fino alla pensione, a 70 anni. Questo miglioramento consentì alla famiglia di comprare un lotto di terreno in un quartiere nuovo. “Mio padre ha costruito una piccola abitazione, con i mattoni e il cemento, e finalmente siamo entrati in una vera casa anche se c’erano solo due stanze, una cucina e un bagno piccolo. Intorno non c’era niente. Ma c’era tanta voglia di fare”. Nello stesso hotel, dopo aver finito a 13 anni il primo ciclo scolastico, Ivano cominciò la sua lunga carriera lavorativa come facchino trasportando “valigie che erano quasi più grandi di me”. Badiali aspirava a migliorare la sua situazione. Si iscrisse alla Scuola tecnica metalmeccanica, le lezioni si tenevano dalle 19 alle 23 dentro gli uffici delle ferrovie. Lavorava tutto il giorno in hotel e poi la sera di corsa a scuola malgrado un impedimento iniziale. “Avevo chiesto al responsabile del personale di poter uscire un’ora prima per raggiungere in tram le lezioni. Non mi voleva dare il permesso salvo che trovassi qualcuno disposto a sostituirmi per l’ora di buco in cui uscivo prima. Era chiaro che non avrei potuto trovare nessuno. Così mio padre ha fatto ancora un grande sacrificio per me. Dopo aver lavorato la mattina come muratore,

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essersi riposato e prima di affrontare la notte in hotel, sostituiva anche me. L’ha fatto per un anno finché non mi ha portato a lavorare in una ditta metalmeccanica. Al proprietario disse di non pagarmi

ma di insegnarmi un mestiere. E così è stato, sono stato un anno senza stipendio ma lavoravo sulle frese, al tornio, facevo i bulloni. Mi piaceva tanto stare dietro una macchina. A 18 anni sono passato alla Perkins, una fabbrica inglese che produceva motori diesel, dove sono rimasto fino a quando ho finito il tecnico, a 20 anni”. Un nuovo cambio in una piccola ditta del settore dove la paga era più alta, “ma sempre magra, come i mille euro di oggi” e allo stesso tempo studiava all’università dalle sette di sera a mezzanotte. Per conciliare meglio i tempi di studio e lavoro, Badiali entrò nell’officina tecnica di Fiat dove si producevano grandi motori diesel per treni ed elicotteri. Nel 1970, a 24 anni, si sposò con Olga Gechelin, anche lei di origine italiana, il padre del Veneto, la madre della Calabria. Avranno tre figlie, Mirna, Nadia e Yamila. “Ci siamo conosciuti su un autobus, lei aveva 15 anni, io 17. Ci siamo potuti sposare sette anni dopo”. Per l’Argentina quelli

Una navigazione lunga 18 giorni Per pagare il biglietto il padre Gino dovette vendere la fisarmonica


Marchigiani nel mondo

Ogni giorno otto chilometri all’andata e al ritorno per andare a scuola Poi facchino in hotel e a lezione di sera fino a mezzanotte

Nella foto in alto, Badiali con il titolo di Cavaliere dell'Ordine della Stella d'Italia e sotto in un fotogramma durante la nostra intervista A destra dall'alto con le figlie durante le nozze d'oro e sotto, in compagnia dei lavoratori della sua nuova azienda

sono anni bui, quelli della dittatura. “Nessuna in famiglia ha avuto problemi – ricorda Badiali -, certo i controlli c’erano. Mi hanno fermato tante volte per la verifica dei documenti, dell’automobile. Una volta i militari hanno circondato l’isolato di casa nostra, dove c’erano mia moglie e la bambina. Hanno perquisito ogni stanza ma se ne sono andati senza trovare niente. Lo hanno fatto con tutti i miei colleghi di ufficio perché con noi lavorava una ‘guerrigliera’. Siamo stati sempre sereni perché sapevamo che non avevamo niente da nascondere”. Sempre in quegli anni Ivano parte per un viaggio di sei mesi in Europa con alcuni colleghi universitari e nel 1974, a 28 anni, si laurea, diventa ingegnere metallurgico rispettando i sei anni previsti dal corso. Era impiegato all’ufficio controllo acquisti ma gli mancava l’officina. Nel 1976, quando era già nata la seconda figlia, lasciò la Fiat e cominciò la grande sfida, diventare imprenditore. “Ho preso dei lavori per fare pezzi saldati. Li facevo il sabato e la domenica in un’officina metalmeccanica di amici di mio padre quando

22 loro non lavoravano. Pagavo loro la luce, le spese, le tasse e per due anni lavoravo il fine settimana per preparare le consegne della settimana dopo. Così ho potuto cominciare grazie all’aiuto dei miei genitori, dove mangiavamo, e a mia suocera che ci ha cucito i vestiti. Ho comprato delle piccole macchine, una saldatrice, un tornio usato, e ho cominciato a lavorare in un capannone che c’era su un terreno che avevamo preso in precedenza. Mi piaceva molto. Il lavoro cresceva, cambiavo spesso le macchine perché aumentava la richiesta di produrre pezzi di alta qualità”. Nel frattempo, arrivò anche un incarico all’università prima come assistente e poi, dopo un concorso, come docente di algebra e analisi matematica 3. Anche qui lezioni serali, dopo il lavoro in officina, per 15 anni. “La ditta si stava ingrandendo e ho dovuto smettere di insegnare. È venuto mio fratello Alfio, che ora non c’è più, a lavorare con me, e piano piano siamo cresciuti”. La grande crisi economica argentina, cominciata nel 1999, toccò pesantemente anche l’Inmeba. “In azienda lavoravano 45 persone. Dovetti mandare via quasi tutti, rimanemmo in cinque. Avevo un debito con la banca che non potevo pagare e per questo quasi perdetti la casa, che stava per andare all’asta. Ho ricominciato a fare qualsiasi lavoro possibile e sono riuscito a salvarla. Quello che avevo imparato nei primi anni in Argentina mi è bastato per sapere cosa fare prima di sbattere con il muso a terra”. Ora, per il Covid, c’è un forte rallentamento ma nel complesso l’impresa sta funzionando bene. “Produciamo componenti per l’industria automobilistica, lavoriamo per le più grandi aziende del settore, facciamo stampi, calibri di controllo, isole di saldatura anche per al-


Marchigiani nel mondo

tre fabbriche fra cui una che produce satelliti. Ci lavorano 38 persone, con profili tecnici specializzati, compresa parte della mia famiglia”. La figlia più grande, Mirna, laureata in economia e commercio, è responsabile dell’area amministrativa e contabile. In azienda c’è anche il marito della più piccola, Yamila, lei è architetto, e della seconda Nadia, che invece ha aperto un’agenzia di viaggio, che è il capo officina ingegneria. E c’è anche Fabricio, uno degli otto nipoti di Badiali, la terza generazione della famiglia. “L’eredità che posso lasciare ai miei discendenti sono radici e ali e il fatto di credere sempre che il mondo è nelle mani di quelli che hanno il coraggio di sognare”. Al lavoro, Badiali ha sempre affiancato la vita associativa, sia come imprenditore nella Camera delle industrie metallurgiche di Córdoba, sia come rappresentante dei marchigiani all’estero. In Argentina sono cominciati ad arrivare a fine dell’800, nazione che è stata la principale destinazione dell’emigrazione regionale. Oggi, con i discendenti di terza generazione, i marchigiani sono circa 1,5 milioni. Badiali è stato presidente dal 2008 al 2018 dell’Associazione marchigiana di Córdoba, fondata nel 1936, e ora guida la Federazione dei marchigiani della Repubblica Argentina, che raggruppa 22 associazioni. Un impegno, per i rapporti fra Italia e Argentina, che gli è stato riconosciuto nel 2020 con il titolo di Cavaliere dell'Ordine della Stella d'Italia, consegnato di recente dalla console generale a Cordoba, Giulia Campeggio. “La nostra sede è un punto di riferimento per la comunità. Organizziamo attività sociali, ricreative, scuole di lingua italiana per adulti e bambini, scuola di danza e di musica per i più piccoli. Abbiamo organizzato corsi

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di formazione per imparare un mestiere e iniziative per far conoscere le Marche e l’Italia. Fra i 280 iscritti, molti hanno un’età superiore ai 4050 anni. Sono quasi tutti nati in Argentina, sono la seconda e terza generazione di immigrati e sentono il forte bisogno di continuare a mantenere un legame con il Paese d’origine

della loro famiglia. Per questo abbiamo fatto quattro viaggi in Europa: nell’ultimo, nel 2018, eravamo 39, con persone che non c’erano mai state. La cosa più importante sono gli educational tour per i giovani marchigiani nel mondo che speriamo di poter riprendere presto”. Ivano Badiali ha vissuto finora una vita piena. Ha fatto tante cose, anche coraggiose. Le rifarebbe tutte? Dopo qualche secondo di silenzio dice “sì, rifarei tutto un’altra volta. È stata una vita di molti sacrifici però sono stato felice”. ¤

Ora l’impresa produce componenti per l’auto “Il mondo è nelle mani di quelli che sanno sognare”


L’opera

“T di Franco Elisei

u darai il volto alla mia chiesa”. Le parole di don Elia Bellebono sorpresero Walter Valentini, l’artista di origine pergolese capace di scrutare il cielo e i suoi misteri con segni proiettati verso l’infinito. E chi meglio di lui avrebbe, dunque, potuto ideare un santuario ispirato dalla voce divina allo stesso don Elia? “Sono rimasto di sasso – racconta l’artista dalla sua casa di Milano – Ero incuriosito dalla figura di questo sacerdote, l’ho voluto incontrare con mia moglie Rita. Si trovava a Montegiove. Siamo stati a chiacchierare

per quasi due ore. Mi ha raccontato della sua vita, della sua vocazione e dei suoi dialoghi con Gesù. Mi aveva anche confidato di aver subìto un furto, diversi soldi spariti. E mentre ci stavamo salutando, sulla porta del convento mi mise la mano sulla spalla e mi disse: la mia chiesa la farai tu. Tu le darai il volto. Non avevamo mai fatto cenno né alla chiesa né a Ca’ Staccolo”. E così è stato. Il santuario del Sacro Cuore è stato inaugurato a settembre in prossimità di Urbino nel segno di


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La sfera fantasma nel Santuario d’arte di Ca’ Staccolo “TU DARAI IL VOLTO ALLA MIA CHIESA”: COSÌ DON ELIA SI RIVOLSE A VALENTINI PRESAGENDO L’INCARICO PER IL PROGETTO ALL’ARTISTA DI PERGOLA AL CENTRO DELLA CUPOLA PREVISTO UN GRANDE GLOBO POI SPARITO

Valentini. E ancora una volta si è realizzato un connubio di sensibilità e maestrìa, nato dalla creatività di un grande artista e dall’abilità tecnica di un architetto come Yasuo Watanabe, professionista legato da decenni a Pesaro. Lo stesso legame stretto anche di recente tra altri due mostri sacri: Giuliano Vangi e Mario Botta, insieme nella realizzazione di un altro santuario, ma questa volta a Seul. Un rinnovato Rinascimento, come è stato definito da esperti, dove arte e architettura andavano spesso a braccetto. La storia del Santuario è

lunga e tormentata. Il desiderio di don Elia di realizzarlo nasce nel 1969 in seguito alle apparizioni del Sacro Cuore di Gesù al sacerdote, ma dalla visione fino alla sua inaugurazione sono passati oltre cinquanta anni. Valentini è intervenuto quando più di una dozzina di progetti erano stati bocciati o abbandonati. Nessuna ipotesi aveva ricevuto il gradimento dei committenti e neppure dei tecnici che avevano ritenuto il terreno agricolo di Ca’ Staccolo acquistato dallo stesso don Elia non idoneo all’edificazione della chiesa.

Per questo motivo Walter Fontana, docente di storia dell’arte, priore della Confraternita di San Giovanni e vicepresidente dell’Accademia Raffaello, contattò Valentini. “Per risolvere tutti i problemi ci vuole la tua presenza” gli disse “All’inizio – racconta oggi Valentini – ero tormentato. Esitavo. Non avevo fatto nulla di simile. Gli dissi che mi stava chiedendo una cosa impossibile. Poi mi convinse. E più pensavo al progetto e più mi appassionavo. Era diventata una sfida con me stesso. Mi aveva preso. E’ stato un impegno immane, nato ben 27 anni


L’opera

La chiesa inaugurata dopo un lungo iter tormentato e un connubio di sensibilità e maestria tra artista e architetto

26 fa ma alla fine si è realizzato. La previsione di don Elia si è avverata”. I lavori del santuario sono partiti nel 1998, due anni dopo la morte del sacerdote. E per avviarli sono stati raccolti sette milioni di euro, molti dei quali provenienti da oltre duemila donazioni di fedeli e dall’8 per mille destinato alla Chiesa. Intanto tutti i progetti precedenti erano stati accantonati, Valentini è ripartito da zero partecipando a numerosissime riunioni tecniche a Pesaro fino a quando la sua idea trovò finalmente l’approvazione delle autorità ecclesiastiche, civili e della Fondazione Opera del sacro Cuore di Gesù, incaricata di raccogliere e gestire i fondi per la costruzione. “Urbino vista dall’alto – ebbe a dire a suo tempo Valentini – ha una pianta ovale, così è nata l’idea di una chiesa a forma di uovo che ne ripropone la forma, come in uno specchio”. Il Santuario, adagiato sulle colline fuori dalle mura della città ideale, viene anche orientato diversamente rispetto ai progetti precedenti. I fedeli per entrarvi lasciano alle spalle la città e scendono verso l’altare che riprende con forza il segno dell’artista, elegante e rigoroso. Così come l’ambone e la fonte battesimale, delicata nella sua asimmetria, come se giocasse a sfuggire agli scherzi di luce, protesa tra il finito e l’infinito in un rigore dorato, immerso tra il sacro e il profano. Tutto sembra progettato con il compasso

Nella pagina precedente, la sfera scomparsa che doveva essere installata all'interno della chiesa In alto, uno scorcio dell'edificio e qui sopra una simulazione dell'interno come da progetto originale; a destra alcune immagini del santuario inaugurato recentemente

All’interno della chiesa non esistono angoli. Tutto sembra progettato con il compasso. La luce del sole entra lateralmente dai varchi dei muri, in forma discreta, per favorire la meditazione, mescolandosi in simbiosi con quella artificiale. Ma entra, invece, prepotentemente dal portone del santua-

rio. Sei quintali di bronzo con decine e decine di vetri colorati scelti da Lino Reduzzi e incastonati nella lamiera, su cui sono riassunte tutte le emozioni artistiche di Valentini e tutti i riferimenti al cielo. A quel cielo armonioso descritto nelle sue opere. Un lavoro pazzesco di creatività e di equilibrio. Possente e armonioso al tempo stesso. La “Porta del cielo” è la poesia di Valentini. Tutto, all’interno della chiesa trasmette la sua filosofia artistica, dove la linea diventa bellezza e i muri sfumano in una dimensione celeste, si sposano in segni aristocratici ed eleganti dando vita a perfezione e poesia. Tutto, riflette il progetto di Valentini, tranne un particolare, di non poca importanza: al centro della cupola, proprio sopra l’altare, doveva librarsi una sfera dal diametro di sette metri con uno scheletro di acciaio. Dipinta di bianco opaco. Concepita per assorbire la luce e rifletterla. Doveva es-


L’opera

sere un elemento importante nel gioco di equilibri architettonici. Quella sfera era stata realizzata e trasportata all’interno del Santuario. Un’amara sorpresa per l’artista Ma poi è sparita, cancellata dal progetto. All’improvviso sembra non avere avuto più il consenso dei committenti. Un’amara sorpresa per l’artista: “La Fondazione con don Corrado Leonardi, sacerdote amante dell’arte, aveva approvato l’intero progetto – rimarca Valentini – così pure l’amministrazione comunale, poi, probabilmente, c’è stato un ripensamento”. Ma quell’opera non è stata mai restituita all’artista. Sembra sia stata smantellata senza che il suo creatore ne sapesse nulla. “Eppure – racconta ancora Valentini – la dinamicità della cupola stessa del Santuario era stata progettata in funzione della sfera, che doveva dare l’idea del

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cielo, senza tanti incisioni”. Il fabbro la realizzò con le misure indicate e fu trasportata all’interno della chiesa ma mai installata. Nel modellino e nei progetti è ancora presente. Poi è diventata improvvisamente fantasma. E’ rimasta invece una sfera più piccola, in cima al campanile alto 25 metri accanto alla croce, in un dialogo aperto con l’infinito. Diverso dal progetto iniziale anche il sagrato che in origine doveva conservare tutta l’impronta di Valentini, con altre sinfonie grafiche tra cerchi, semicerchi e linee dirette che dovevano attraversarli, misurandosi in un gioco infinito. L’intento era di realizzare una chiesa testimone del tempo attuale, aperta ai fedeli ma anche ai giovani studenti per un sostegno spirituale. Così come voleva fortissimamente don Elia Bellebono quando ha accolto e “predestinato” Valentini. E così è stato. Finalmente le sue campane hanno suonato a festa. ¤

La sfera di acciaio del diametro di sette metri ritenuta elemento importante nel gioco di equilibri architettonici


L’opera

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Le prime apparizioni a un umile ciabattino

C

Don Elia diventato sacerdote a 65 anni racconta che Gesù stesso gli chiese di costruire il Santuario dove sorgeva un melo

In alto, don Elia Bellebono a cui si deve la costruzione della chiesa Qui sopra, un'immagine suggestiva del portale progettato da Walter Valentini

hi era don Elia Bellebono? Un umile ciabattino diventato sacerdote a 65 anni destinato ora a diventare beato. Don Elia nasce a nel 1912 a Cividate al Piano in provincia di Bergamo da una famiglia molto povera. A nove anni appena, lascia la scuola per lavorare e aiutare la famiglia e a 29 anni, dopo essere entrato nel noviziato dei gesuiti a Gallarate, riceve le prime apparizioni. Che destano molta diffidenza, (non ancora riconosciute ufficialmente dalla Chiesa) al tal punto che don Elia torna a fare il ciabattino nel convento di Stresa vivendo una forte esperienza mistica. E in una di queste apparizioni, avvenuta nel 1969 nella chiesa di San Francesco di Urbino, racconta che Gesù stesso gli chiese di costruire un santuario. Un santuario e una casa di spiritualità. Don Elia, capace di dialogare con tutti, anche con i giovani universitari di cui condivideva le richieste del Movimento studentesco e da tutti rispettato, viene ordinato prete dal cardinale Pietro Palazzini a 65 anni grazie all’intercessione del vescovo di Fano Costanzo Micci. Ospitato nell’eremo dei camaldolesi di Montegiove a Fano, inizia la raccolta fondi per acquistare un terreno di

22 ettari alla periferia di Urbino, dove sorgeva un melo. Proprio il luogo indicato in una delle visioni. Ci riesce nel 1985 con donazioni provenienti da tutta Italia e perfino dalla Svizzera, superando diffidenze e rifiuti, soldi a cui si sono aggiunti recentemente i proventi dell’8 per mille. Ora quel terreno è di proprietà della Fondazione. La licenza per edificare arriva nel 1996 e si racconta che don Elia gravemente malato, accolse la notizia con un sorriso. La prima pietra del santuario viene posta nel 1998 dall’arcivescovo Ugo Donato Bianchi. Ma don Elia non riesce a vederla, muore due anni prima, il 2 settembre del 1996 a 84 anni. .Alla fine ci sono voluti 23 anni per realizzare il santuario dopo un iter molto tormentato e complicato. Determinante per la conclusione dei lavori, è stato l’arcivescovo Giovanni Tani che ha annunciato ogni primo venerdì di settembre, una celebrazione per ricordare la realizzazione della chiesa e l’anniversario della scomparsa di don Elia. Intanto, l’associazione “Amici di don Elia” nata nel 2015 ,sta raccogliendo testimonianze di grazie ricevute. Utili alla causa di beatificazione. f.e.


Archeologia

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Il favoloso scrigno di avorio e d’ambra PREZIOSO RITROVAMENTO NEL SITO DI BELMONTE PICENO

R di Nicoletta Frapiccini

Eccezionali reperti emersi dagli scavi testimoniano un insediamento al centro di una fitta rete di traffici tra oriente e occidente

isale agli inizi del Novecento la clamorosa scoperta di una ricchissima necropoli picena a Belmonte Piceno, esplorata tra il 1909 e il 1911 dall’allora Soprintendente Innocenzo Dall’Osso. Tombe principesche con corredi sontuosi, che comprendevano armi e carri per le sepolture maschili, gioielli in avorio, ambra e bronzo per quelle femminili, insieme a vasellame in bronzo e ceramica, contribuirono in modo significativo a incrementare la raccolta, all’epoca esposta nel Museo Archeologico di Ancona, presso l’ex Convento di San Pellegrino agli Scalzi. I numerosi, straordinari reperti rinvenuti in questa necropoli, pubblicati dal Dall’Osso nella Guida del Museo, offrirono un importante riferimento alla redazione della cronologia del Piceno IV A (580-520 a.C.) che sarebbe stata elaborata in seguito dalla Soprintendente Delia Lollini, nel suo fondamentale studio sulla civiltà Picena. Questo importantissimo contesto necropolare fu oggetto di una nuova

numerazione delle sepolture alla fine degli anni Venti del ‘900, in occasione del suo trasferimento nella nuova sede del Museo, presso l’ex convento di San Francesco alle Scale, allestito dal Soprintendente Giuseppe Moretti e inaugurato nel 1927. Durante la Seconda guerra mondiale il Museo subì rovinosi bombardamenti nel 1943 e nel 1944, a seguito dei quali molti corredi di Belmonte Piceno furono sconvolti e alcune associazioni funerarie andarono perdute, anche a causa della confusione creata dalla nuova numerazione. I reperti superstiti, ancora oggi esposti al Museo Archeologico Nazionale delle Marche di Ancona, ora ospitato nella prestigiosa sede di Palazzo Ferretti, costituiscono un insieme fondamentale della raccolta, che vanta almeno due oggetti considerati veri e propri cimeli per la loro unicità: il nucleo di ambra con la rappresentazione figurata di un leone e una leonessa, opera di maestranze probabilmente magno greche, e le anse in bronzo di una hydria (grande reci-


Archeologia

La scoperta più sorprendente è un cofanetto ricavato da un unico pezzo di avorio con diciotto figure intagliate nell’ambra

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piente per contenere acqua), con la rappresentazione del Signore dei cavalli, opera di officine greche o magno greche. Gli eccezionali reperti dalla necropoli di Belmonte Piceno, riferibili ad ambiti di produzione greco, magno greco ed etrusco, documentano che in età arcaica questo insediamento doveva trovarsi al centro di una fitta rete di traffici tra oriente e occidente, grazie ai quali la comunità qui insediata godeva di una straordinaria prosperità, chiaramente rivelata dai corredi funerari appartenenti ai personaggi più facoltosi. L’importanza fondamentale di questo contesto che, tuttavia, era fortemente lacunoso sia per la perdita di numerosi dati di scavo a seguito dei bombardamenti, sia perché le singole sepolture non erano mai state sistematicamente pubblicate, ha indotto ad avviare un progetto di ricerca italo-tedesco, intrapreso nel 2016 da Johachim Weidig (Albert-Ludwig-Universität di Friburgo) in collaborazione con il Römisch Germanischen Zentralmuseum di Mainz, la Direzione Regionale Musei Marche e la Soprintendenza

Archeologia Belle Arti e Paesaggio delle Marche. Un primo, rilevantissimo esito degli studi, è costituito dalla scoperta dei taccuini di scavo di Innocenzo Dall’Osso e dei suoi assistenti, che hanno consentito di mettere finalmente ordine nella denominazione delle tombe e dei relativi corredi, purtroppo spesso confusi a causa della nuova numerazione assegnata negli anni Venti. Nuovi reperti finora sconosciuti, provenienti dagli scavi di Giuseppe Moretti (1921; 1927) e Paolo Marconi (1931), sono stati rintracciati nei depositi dei Musei di Ancona e Ascoli Piceno. Una certosina opera di collegamento delle notizie contenute nei taccuini, con le foto degli scavi, come pure con le foto dei contesti funerari esposti al Museo nell’ex convento di San Pellegrino agli Scalzi, con la lista dei reperti contenuta nei Buoni di Carico stilati per il pagamento dei premi di rinvenimento ai proprietari dei fondi dove si erano rinvenute le tombe, con la numerazione delle sepolture nel cosiddetto “Inventario a schede” e con i vecchi inventari, hanno consentito di ricostruire correttamente le associazioni di ogni singolo corredo e di rettificare gli errori che fino a oggi non avevano permesso lo studio complessivo della necropoli. Oltre agli studi sui corredi scavati durante il secolo scorso, nel 2018 sono stati intrapresi nuovi scavi archeologici sul sito di Colle Ete, sotto la direzione di Johachim Weidig e il sostegno del Comune di Belmonte Piceno, su autorizzazione del Ministero della Cultra. In seguito a un primo intervento di indagini geofisiche nell’area della necropoli, si decise di riprendere gli scavi in una zona già esplorata, dove si rinvennero due sepolture che erano state solo parzial-


Archeologia

mente recuperate nel corso degli scavi novecenteschi. Stando alle informazioni dei taccuini del Dall’Osso, di queste sepolture erano stati lasciati in situ i materiali che sembravano meno interessanti, come i grandi dolia e la ceramica di impasto, considerata all’epoca meno significativa di quella dipinta. La scoperta più sorprendente è stata fatta proprio accanto a un grande dolio, interrato fino al collo, da dove è emerso uno straordinario cofanetto in avorio con decorazioni a intaglio e intarsi in ambra, di raffinatissima esecuzione e pregio incommensurabile. Recuperato direttamente insieme al “pane di terra” che lo conteneva, il preziosissimo reperto è stato oggetto di un microscavo effettuato in laboratorio e poi di un accurato restauro, magistralmente eseguito da Nicola Bruni. Benché si sia corso il rischio che questo reperto eccezionale non fosse mai rinvenuto, a causa delle modalità selettive del recupero dei materiali all’epoca degli scavi novecenteschi, dobbiamo considerare che questo ritrovamento, a oltre un secolo di distanza dagli scavi del Dall’Osso, ha consentito di effettuare il microscavo con tecniche molto più sofisticate che in passato e di sottoporre l’oggetto a un delicatissimo restauro, impossibile da realizzare all’inizio del secolo scorso, che ne ha garantito la completa e precisa ricostruzione. Altri frammenti di ferro rinvenuti sul fondo della fossa, riferibili a lance e a un fodero di spada, suggeriscono che il reperto faceva parte del corredo di una tomba maschile, databile nella seconda metà del VI sec. a.C. Il cofanetto deposto nella tomba doveva essere un vero e proprio cimelio, costituito da una profonda sca-

31 tola chiusa da un coperchio completamente intagliato a giorno, con la rappresentazione di due coppie di sfingi accosciate e contrapposte, che presentano i volti e le ali intarsiate in ambra. Si tratta di una lavorazione pregevolissima che non conosce confronti e utilizza un unico pezzo di avorio, sfruttando lo spessore della zanna di elefante per conferire al contempo una conformazione emisferica al coperchio. La scatola, un parallelepipedo molto profondo (l’altezza complessiva è di cm 15,7), ha pareti in avorio intarsiato con diciotto figure intagliate nell’ambra, disposte su due registri sovrapposti. Alcuni

personaggi rappresentati sono riferibili alla mitologia greca, come Perseo e Medusa e Achille che trasporta il corpo di Aiace, accanto ad altri personaggi forse etruschi, identificati nelle figure sedute su diphroi (sgabelli) e in quelle con fiori di loto. Per l’esecuzione di questo straordinario scrigno, le abili maestranze sembrano essersi ispirate a modelli dell’arte greco orientale, di ambito ionico, ripresi e tradotti in uno stile etrusco, da artigiani che probabilmente lavora-

Il cimelio faceva parte del corredo di una tomba maschile della seconda metà del VI secolo a.C.

Nelle pagine alcuni particolari del prezioso ritrovamento nella necropoli di Belmonte Piceno Si può ammirare il cofanetto databile nella seconda metà del VI secolo a.C. in tutti i suoi lati intarziati (Foto di Ivano Bascioni)


Archeologia

Il coperchio presenta quattro sfingi Ai lati figure della mitologia greca come Perseo e Medusa e Achille che trasporta il corpo di Aiace

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vano sul posto, ma di provenienze diverse, forse anche dall’Etruria stessa. L’ipotesi sembra avvalorata dalla presenza nella necropoli di altri simili oggetti preziosi, come i noti pendagli in avorio che rappresentano una figura femminile alata (la cd. Dea Cupra), con il volto in ambra, anch’essi a intarsio. Questa commistione di stili greco, etrusco e italico è stata richiamata anche per altri oggetti dalla necropoli di Belmonte Piceno, come la fibula in bronzo con staffa configurata a teste di leone, il torques con le rappresentazioni di sirene e cavalli marini, la bulla in ambra con gorgoneion e teste umane, ricondotti da Johachim Weidig a un’arte “di corte”, che trova nel cofanetto la sua massima espressione. I confronti di molti dei reperti rinvenuti nelle sepolture con oggetti di produzione etrusca e la considerevolis-

sima presenza di oggetti in ambra, di esecuzione straordinaria, hanno indotto a ritenere che il sito di Belmonte Piceno avesse un ruolo fondamentale proprio nello smistamento della preziosa resina fossile, di provenienza baltica, verso l’entroterra e in particolare verso l’Etruria, come pure verso la Magna Grecia. Ciò presuppone anche rapporti, sia pure mediati, con l’area dell’Europa centro-settentrionale e con la cultura hallstattiana nonché con l’ambito balcanico. Allo stesso modo è probabile che in questo centro ci fosse uno smistamento dell’avorio proveniente dall’oriente, che contribuì, insieme all’ambra, a rendere Belmonte Piceno uno dei centri più fiorenti dell’età arcaica, sia sul piano economico, sia culturale, dove sembra che sia stata principalmente l’Etruria ad aver giocato un ruolo fondamentale. ¤


Il segno

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Iacomucci, sette gocce come le note musicali È IL NUMERO CHE ACCOMPAGNA LA VITA DELL'ARTISTA

H di Patrizia Minnozzi

Carlo Iacomucci nel suo studio (Foto Maurizio Paradisi)

o la grande fortuna di frequentare, con una certa assiduità, il bellissimo studio-atelier di Carlo Iacomucci, sia per confrontarmi con lui in merito alle sue scelte tecniche e pittoriche, sia a livello umano, ai fini di un mio arricchimento artistico, attraverso la dimostrazione pratica di come si crea un’incisione o come si realizza un’opera pittorica. E’ molto stimolante parlare con il Maestro e, a volte, dato che lui è sempre una fucina in fermento, capita anche che riesca a dargli qualche spunto per una nuova opera o per un nuovo progetto. Magari, all’inizio, l’idea può sembrare irrealizzabile o troppo cam-

pata in aria, ma poi nella sua mente i pensieri si rincorrono e le idee prendono forma e, alla fine, avviene la “ magia artistica”! L’incontro con il Maestro Iacomucci si è trasformato, nel tempo, in una profonda simpatia e stima, grazie alle quali ho avuto la possibilità

di avvicinarmi alla sua arte. Le opere di Iacomucci sono toccanti e coinvolgenti da un lato e attraenti, cromatiche e suggestive dall’altro. É un artista che ha l’innata capacità di spiegare, con molta semplicità, la tematica dei suoi lavori, il ricorrere frequente delle gocce o tracce, del personaggio-sentinella e di quel leggero alito di vento che permea ogni sua creazione. Lo spettatore viene visivamente coinvolto, attraverso il segno inconfondibile delle sue tracce; il colore brillante e vivace con cui sono dipinti i suoi quadri e la forma, altrettanto tipica e caratteristica delle gocce e dei personaggi, che emergono dalle opere, per assorbire, infine, tutta la poesia che le creazioni di Iacomucci trasmettono. Nel corso della sua lunga carriera, sono stati numerosi i colleghi artisti, poeti, personaggi dello spettacolo critici, giornalisti che hanno avuto l’onore di incontrare e conoscere Carlo Iacomucci contribuendo, attraverso il riconoscimento dei suoi meriti, ad accrescere e valorizzare l’impegno del Maestro nel lungo viaggio nel mondo dell’arte. Artisticamente parlando, il viaggio di Iacomucci, è stato soprattutto un viaggio spirituale, un viaggio all’interno di sé, per mettere a nudo i suoi sentimenti più profondi e la sua colorata poetica. Il viaggio è durato a lungo: una vita interamente vissuta e dedicata all’arte, come insegnante prima e come artista successivamente; una vita spesa, sotto il profilo umano e professionale, in modo sicuramente positivo, facendo quello che più ama fare: inci-


Il segno

Dall'alto a sinistra "Mosaico impossibile", acrilico su sasso della Vallesina; "La tavola del duca" olio su tela; un'immagine suggestiva dell'artista con gli strumenti da incisione Qui sopra "Omaggio a Urbino e al suo duca"

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dere e dipingere. L’arte di Iacomucci, si è sviluppata in un processo di continua trasformazione, al pari del suo movimento ventoso che, aggirando gli ostacoli che incontra nel suo cammino, si adatta alle circostanze, come in una danza armonica, che tutto tocca e trasforma … così come il suo aquilone, trasportato dal vento che, quando riflette i raggi del sole, acquista i colori dell’arcobaleno…o ancora la purezza e il rigore della sua abilità incisoria, tecnica antica, ma sempre attuale, che richiama ad un ordine e ad una pulizia nello stile, che però, non sempre si lasciano imbrigliare dalla mano dell’incisore. Carlo Iacomucci, in tutti questi anni di intensa attivi-

tà, ha avuto una compagna di lavoro molto particolare. Si tratta della sua mano destra, affetta da una patologia tipicamente propria di artisti quali scrittori, musicisti e incisori: “distonia di torsione idiopatica”, meglio conosciuta come “crampo dello scrivano” e definita, da Iacomucci stesso, “mano ribelle”. Per quasi un decennio, la mano ribelle si è impadronita dello spazio all’interno della produzione artistica del Maestro, ma Iacomucci, con grandi sforzi e notevole dispendio di energie fisiche, ha sempre tentato di affermare e manifestare, con tutto sè stesso, la supremazia della volontà sulla sua stessa mano ribelle. La cosa più curiosa è che il Maestro ha anche dedicato un libro d'arte a questa sua compagna di vita artistica, dal titolo emblematico “La mano ribelle”. Oggi il Maestro Iacomucci ha raggiunto le “sette decadi“ di vita. Evidentemente, il numero 7 ha fatto sempre parte della sua vita di artista: non a caso anche le sue amate e onnipresenti gocce sono in numero di 7, quasi un richiamo alla perfezione del numero, anche in riferimento a tutto ciò che c’è di più bello in natura, come i colori dell’arcobaleno o la soave poesia delle 7 note musicali. E, ancora di più, in questa bellissima occasione, le 7 compagne di strada di Iacomucci (stilisticamente parlando), fanno da cornice e da palcoscenico alla sua luminosa e brillante carriera di incisore e pittore. Iacomucci, pur nella saggezza della maturità senile, è rimasto un giovane fanciullo che esprime la sua curiosità nei confronti del mondo, ma, allo stesso tempo, il bisogno di sentirsi riparato, protetto e al sicuro, rimanendo un piacevole compagno di strada e di avventure artistiche! ¤


Il segno

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Da sinistra, "Dante Alighieri - ExLibris in acquaforte"; "La Luce onde s'infiora - Paradiso canto XIV", acquaforte "La mano ribelle con Urbino" e sotto, "Forme assenti", olio su tela

Sassi colorati per ingannare il Covid

L’

estro e l’ispirazione del Maestro Carlo Iacomucci continua a lasciare i suoi segni colorati creando dei piccoli capolavori con la forza della sua fantasia. Questa volta l’abilità dell’artista urbinate si è simpaticamente espressa su…sassi! Dovendo rimanere per un lungo periodo fuori dalla sua residenza abituale, a causa del distanziamento sociale e dell’isolamento forzato, Iacomucci si è voluto cimentare in questa esperienza molto particolare, anche se non del tutto nuova per lui, perché verso la fine degli anni 70, quando risiedeva a Varese, ha dipinto parecchi sassi provenienti dal fiume Ticino. Anche nel dipingere questi frammenti di roccia modellati dalla natura, Carlo Iacomucci mostra il suo inconfondibile stile, attraverso l’utilizzo di colori vivaci e segni, per rappresentare figure,

gocce, tracce e oggetti immersi in vortici ventosi. Sono presenti anche personaggi e oggetti, come l'onnipresente aquilone, che danno dinamismo e, allo stesso tempo, esprimono un significato simbolico e realistico della natura da difendere. L’idea del Maestro, originale e bellissima, di creare queste piccole opere d’arte, in un periodo difficile come quello che stiamo attraversando, rappresenta un messaggio di allegria, perché i suoi sassi costituiscono dei piccoli capolavori, pieni di colore e fantasia e raccontano anche la voglia di stupire e regalare gioia, con la semplicità di un sasso colorato. Alcuni sassi saranno donati alla biblioteca di Pace di Monsano che penserà di metterli a disposizione dei cittadini e dietro la sua sapiente guida sono stati dipinti altri sassi da adulti e bambini. p.m.

Piccole pietre dal significato simbolico che sprigionano fantasia e regalano un sorriso


L’artista

L’ di Armando Ginesi

Una vita densa di aneddoti Anticipatore anche dell’arte concettuale oltre che bravo pittore e scultore

ho conosciuto agli inizi degli anni Sessanta, quando ero presidente della casa editrice Foglio OG di Macerata gestita assieme a Giorgio Cegna , Silvio Craia, Cesare Ruffini e altri. Veniva a trovarci di tanto in tanto nella sede di Via Spalato. Poi siamo diventati amici, nonostante i quasi trent’anni di età che ci separavano. La vita di Monachesi è densa di aneddoti. Io stesso ne potrei raccontare tantissimi. Come quello, per esempio, di quando mi trovavo a casa sua, a Roma, in Via Ferrari. Ero seduto in una poltrona del salotto accanto ad un tavolino sul quale era posato un telefono. Stavo prendendo appunti che mi sarebbero serviti per scrivere un articolo. Sante – che era un omone grande e grosso, con due baffoni neri che coprivano l’intera porzione labiale superiore – mi disse improvvisamente: “Telefona al Papa e chiedigli un appuntamento per me”. Sollevai lo sguardo dai fogli sorridendo


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Sante Monachesi un post matissiano con sensibilità dadaista E ANCHE UNA DELLE MIGLIORI FORCHETTE DEL MONDO DELL’ARTE

(credevo che scherzasse) e ripresi a scrivere. “Ti ho detto di telefonare al Papa”, insisté. Allora gli chiesi: “Ma come si fa a telefonare al Papa?”. E lui di rimando: “Prendi l’elenco telefonico e cerca Vicariato. Di’ che sei il mio segretario”. Convinto che avrei fatto un buco nell’acqua (ma non me ne importava più di tanto, visto che quelli del Vicariato non potevano vedermi né mi conoscevano) misi in atto quel che Monachesi mi aveva chiesto, anzi ordinato, di fare. Dall’altra parte del telefono una monaca centralinista mi passò un monsignore di cui non ricordo il nome. Ma il bello è che costui mi prese sul serio, mi trattò con molta gentilezza (io mi aspettavo che mi mandasse a quel paese) e mi assicurò che il nome del Maestro sarebbe stato inserito nell’elenco di coloro che attendevano un’udienza particolare del Pontefice. Mi domandò infine a quale numero di telefono avrebbe dovuto richiamare per comunicare la data e l’ora

dell’udienza che – seppi poi dallo stesso Monachesi – gli fu regolarmente concessa. Quando l’Unione Sovietica occupò, con i carri armati dell’esercito, la Cecoslovacchia, Monachesi per protesta costruì a Baia Domizia, in provincia di Caserta, dove possedeva una casa per le vacanze, un grande cubo di plastica e di legno nel quale si chiuse giurando che non ne sarebbe uscito fino a quando l’ultimo carro armato russo non avesse lasciato Praga. Poi mi scrisse una lettera invitandomi a raggiungerlo dentro il cubo per condividere con lui la protesta. Il guaio fu che l’occupazione durò a lungo, molto di più di quanto i commentatori politici avessero previsto e allora l’artista convocò i giornalisti per annunciare che la protesta l’avrebbe continuata in forma simbolica, lasciando il cubo al suo posto, ancorché vuoto, perché lui doveva tornarsene a Roma in quanto aveva tante cosa da fare. Un giorno suonai il campa-

nello della sua abitazione romana e mi venne ad aprire un giovane che aveva in mano un forchettone da cucina sul quale era infilzato un grande pezzo di carne cruda, seguito da Whisky, il barboncino di casa Monachesi. “C’è il Maestro?”, domandai. Entrai nel salotto che ben conoscevo notando un viavai di giovanotti e di ragazze, tutti diretti in cucina o da lì provenienti, con le mani occupate da ingredienti per la cottura o oggetti casalinghi. Era un andirivieni frettoloso e vociante. Quando Monachesi comparve gli chiesi: “Chi sono questi ragazzi?”. “Sono miei studenti” – mi rispose (egli era titolare della cattedra di Disegno in bianco e nero presso l’Accademia di Belle Arti di Roma) – “Sto tenendo una lezione su come si cucina l’abbacchio”. Era cosa nota in tutta Roma, ma anche nel resto d’Italia, come egli fosse una delle migliori forchette del mondo dell’arte. Erano famose le sue mangiate a base di pasta e fagioli con le cotiche, di


L’artista

Riusciva a calare nelle sue azioni quotidiane e nelle sue opere una enorme carica ironica e inventiva

Nell'immagine grande della pagina precedente Sante Monachesi insieme ad Armando Ginesi e il Sottosegretario Danilo De' Cocci Sotto, alcuni particolari delle opere dell'artista. In alto, un'altra opera dal titolo "Energia e colore" Qui sopra, il pittore durante la contestazione all'invasione sovietica della Cecoslovacchia nel 1968

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coda alla vaccinara, di trippa con la menta. Monachesi è stato un grande artista del comportamento, oltre che un bravo pittore e scultore del quale andrebbe riconsiderata e rivalutata l’ampia gamma espressiva. Come pittore è stato certamente un “matissiano”, una sorta di neo-fauvista che amava i colori diretti e vivi stesi all’interno di un impianto grafico semplificato ma affascinante. Come scultore ha anticipato – sin dagli anni Trenta – tendenze astratto-informali destinate a diffondersi oltre vent’anni dopo le sue intuizioni. Ma soprattutto, ripeto, fu un grande artista del comportamento debitore degli atteggiamenti antipassatisti e volutamente strabilianti del Futurismo (era stato promotore, assieme a Ivo Pannaggi e ad altri, della costituzione nel 1936 del Gruppo Boccioni di Macerata, sua città natale) ma ancora di più del Dadaismo. Dell’essenza dei due sopradetti movimenti avanguardistici egli fece tesoro per la creazione del Gruppo Agrà (Agravitazionale) nell’anno 1974, il cui manifesto costitutivo firmai anch’io assieme a Cegna, Craia, Luciano Collamati, oltre al grandissimo poeta – e suo amico per la pelle – Emilio Villa. Che Monachesi fosse un artista comportamentista (quindi un anticipatore anche dell’arte concettuale) lo si era visto in due grandi episodi avvenuti agli esordi della sua carriera. Letti oggi, ci fanno capire molto meglio l’enorme carica ironica e inventiva che egli calava nelle sue azioni quotidiane oltre che nelle opere realizzate. Giovanissimo (era alto e magro), nei primi

anni in cui viveva a Roma, aveva grossi problemi economici e faticava a mantenersi. Una volta, per essere sicuro di poter mangiare per qualche giorno di fila e di dormire al caldo, si fece ricoverare in un ospedale della capitale accusando forti dolori al ventre. Gli venne diagnosticata un’appendicite non urgente e fu programmato l’intervento chirurgico di lì ad una settimana. Per quasi sei giorni l’artista si riparò dal freddo e poté mangiare con regolarità. Poi, durante la notte che precedette l’operazione, se la filò all’inglese calandosi da una finestra del primo piano. Era già un artista conosciuto quando il Comune di Roma gli fece pervenire la comunicazione che avrebbe dovuto lasciare lo studio presso un edificio storico che lo stesso municipio gli aveva affittato anni prima. Lo spazio – dove pare avesse lavorato o abitato, nel Seicento, il Cavalier D’Arpino (Giuseppe Cesari), maestro del Caravaggio – doveva avere un’altra destinazione. Ricevuta la notizia, Monachesi convocò una conferenza stampa annunciando che era sua intenzione agire per via giudiziaria contro il Comune al quale avrebbe richiesto un risarcimento danni derivati dal mancato guadagno fino alla fine dei suoi giorni. Un giornalista gli obbiettò che avrebbe potuto trovarsi un altro studio dove continuare a dipingere. “Impossibile!” – ribatté Monachesi – “E come farò con l’ispirazione? Nello studio da cui vogliono sfrattarmi era l’anima del Cavalier D’Arpino che me l’assicurava. Non posso mica pretendere che traslochi con me”. ¤


Il personaggio

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Carnevali, scrittore e illustratore illuminato UN GRANDE MAESTRO DELLA SCUOLA DEL LIBRO DI URBINO

H di Grazia Calegari

Nella foto, un autoritratto di Francesco Carnevali

o pensato di dedicare questo articolo a Carnevali quando sono venuta a conoscenza di un suo grande acquerello su cartone di dimensioni insolite (56 x 118) raffigurante una “Festa campestre”, acquistato recentemente da Elio Giuliani, noto e instancabile collezionista di artisti del '900 nella provincia di Pesaro Urbino e proprietario dei disegni qui pubblicati. Prima di questo mio intervento, l'ultima occasione di conoscenza di Carnevali illustratore fecondissimo è stata la mostra a lui dedicata nel 2018 da Luigi Bravi alla casa Raffaello di Urbino, dal suggestivo titolo “Il

mondo degli affetti”. Quel mondo è rappresentato da disegni e studi che dimostrano l'abitudine minuziosa all'analisi, l'incantevole bravura derivata dalle pagine di antichi co-

dici miniati e rielaborata attraverso l'amore per la pittura fiamminga, per gli affreschi urbinati dei Salimbeni nell'Oratorio di San Giovanni e per la predella di Paolo Uccello con Il miracolo dell'ostia profanata. Ma credo che il il riferimento più generale da proporre sia con la poesia di Giovanni Pascoli, con la precisione amorosa dei particolari da chiamare e rappresentare per nome, con la quotidianità delle cose che assume una grandezza semplice e sublime. Altre suggestioni poetiche e visive gli derivavano comunque anche da Gabriele D'Annunzio e Adolfo De Carolis, per rendere un'idea sintetica della sua formazione. Francesco Carnevali è nato a Pesaro nel 1892 da agiata famiglia, ha frequentato il liceo classico e contemporaneamente la Scuola serale di arti e mestieri in via Giordano Bruno. Si è poi iscritto all'Istituto d'Arte di Urbino che ha frequentato dal 1912 al 1915, quando è partito per la prima guerra mondiale dalla quale è stato congedato per malattia nel 1916. Trasferitosi a Roma, ha collaborato con varie riviste come “Il Giornalino della Domenica”, il “Corrierino” di Milano, la “Lucerna” di Ancona, la “Festa” di Milano-Bologna. Nel 1943 è nominato direttore dell'Istituto d'arte di Urbino, già trasformato in Scuola del Libro, dove era stato anche insegnante a partire dal 1925, ed imprime alla Scuola, fino al 1967, un ruolo determinante per l'illustrazione e la decorazione


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“La festa campestre” Un acquarello dalle dimensioni insolite, sembra di essere in teatro con soggetti in costume settecentesco

Nella doppia pagina precedente "Festa campestre" di Francesco Carnevali Qui sopra dall'alto "Contadino di profilo", "Contadino" e un ritratto; a destra dall'alto "Ragazzo con i capelli lunghi" "Ragazzo"ed infine uno scorcio di Urbino realizzato dall'artista

42 del libro, con numerosi allievi che ne vengono formati e diventano a loro volta protagonisti, come Franco Fiorucci, Walter Piacesi, Arnaldo Ciarrocchi, Remo Brindisi, Salvatore Fiume, per fare solo qualche nome. Della sua sterminata attività di illustratore, vanno almeno ricordati i disegni per libri come “Il Bugiardo” di Goldoni, la “Didone abbandonata” del Metastasio, le “Allegre comari di Windsor” e la “Dodicesima notte” di Shakespeare, il “Guglielmo Tell” di Schiller, e soprattutto quelli per testi di Giovanni Pascoli e di Giuseppe Fanciulli. Carnevali, tra Urbino e Pesaro, è stato ispiratore e guida di alcuni protagonisti del '900 come Mariotti, Gallucci, Cancelli, Wildi, Caffè, Bettini, Della Costanza, Pagliacci.

E va ricordata anche la sua produzione letteraria, come “Cento anni di vita dell'Istituto d'arte di Urbino” (Urbino 1961), “Favola di un luogo della terra” (Urbino 1972), “Testimonianza per Fernando Mariotti pittore pesarese” (Urbino 1971), “Indizi e indicazioni” (Urbino 1976). E' morto a Urbino nel

1987, dopo una vita appartata e riservatissima, passata a dividere il suo tempo tra la famiglia nella grande casa in campagna vicino a Urbino, la sua Scuola del Libro, le illustrazioni, le centinaia di fogli sparsi di disegni, la scrittura di libri: uno di questi , la “Favola di un luogo della terra”, scritto dal '53 al '67, consta di oltre tremila pagine. Il suo isolamento è stato compensato dalla presenza di uno spazio contemplativo nella sua arte, e dal mantenimento di una precisa funzione anche artigianale in tempo di massificazione , con l'intenzione forse inconsapevole di una 'ritualità', nell'esigenza di riscattare l'opera disegnativa dall'anonimato. Vorrei ricordare, per comodità dei lettori, gli studi fondamentali su Carnevali e la sua Scuola del Libro: nel 1982 Paola Pallottino pubblica “Grandezza e dignità delle 'figurine' di Francesco Carnevali” per l'Accademia Raffaello di Urbino. Nel 1986 l'artista fa naturalmente parte del volume “La Scuola del Libro di Urbino”, catalogo della mostra avvenuta all'Istituto Italiano di Cultura di Copenaghen. Nel 1991 in “Studia Oliveriana” Gastone Mosci dedica a Carnevali un articolo che resta un necessario punto di riferimento su di lui e sulla Scuola del Libro. Già nel 1989, l'intero numero di Notizie da Palazzo Albani , rivista semestrale di Storia dell'Arte dell'Università di Urbino, s'intitolava “Omaggio a Francesco Carnevali”, a cura di Silvia Cuppini, e comprendeva saggi di Pietro Zampetti, Rosario Assunto, Paola Pallottino, Silvia Cuppini e altri protagonisti della cultura di quegli anni come Arnaldo Battistoni, Renato Brusca-


Il personaggio

glia, Carlo Ceci, Arnaldo Ciarrocchi, Salvatore Fiume, Fabio Tombari. Per rendere l'idea del mondo sterminato della produzione di Carnevali, ho scelto i due temi fondamentali dei disegni di ritratti e della grande scena, imparentata con le già citate illustrazioni per libri. E accosto qui i suoi due formati tipici, quello minuscolo del foglio, e quello vastissimo della scena teatrale. Veniamo appunto alla “Festa campestre”. Lo spazio è enorme, scandito da una prospettiva che ci illude di vedere la scena come spettatori di un teatrino, davanti a questi numerosissimi personaggi in costume settecentesco, sparsi in mezzo ai grandi alberi verdi. In primo piano, tovaglie da picnic piene di frutta, su cui si posano uccelli rispettosi. Tre fontane scandiscono lo spazio, mentre a destra s'intravvede una città murata nella quale si dirigono persone. L'effetto è quello

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di un arazzo antico, di una favola, di un sogno settecentesco di bellezza alla Fragonard, di una minuziosissima illustrazione per l'infanzia allietata da suoni di chitarra: alcuni elementi tipici di Francesco Carnevali illustratore. Ho scelto poi alcuni piccoli disegni inediti di proprietà di Concetta Mattucci, nipote per parte materna dell'artista, che ringrazio per l'affettuosa disponibilità assieme a Fausto Schiavoni, che è stato l'autore prestigioso delle fotografie. Sono alcuni ritratti di famiglia e studi di persone, soprattutto di contadini fissati con straordinaria dimensione anche sociologica, databili attorno agli anni trenta. Una sfilata di umanità tra cui spicca l'autoritratto di Carnevali, interessante documento della moda del tempo e del clima culturale della Scuola del Libro, dedicata non solo all'illustrazione ma anche ad una continua curiosità verso il mondo. ¤

L’effetto è quello di un arazzo antico o di un sogno settecentesco In altre opere ritratti di famiglia o studi di persone


Il monello di Collodi 140 anni dopo | 1

di Franco Elisei e Sergio Giantomassi

L

o chiamano il Walt Disney italiano. Iginio Straffi è il presidente e fondatore di Rainbow, meglio conosciuto come il “papà” delle Winx, le fate che hanno incantato le adolescenti e che possono vantare oltre 100 milioni di fans. “Disney – racconta - ha fatto cose importanti, ci ha lasciato emozioni. Sono lusingato. Forse mi vedono così perché nel merchandising siamo riusciti a fare qualcosa di simile anche in Italia”. Recentemente Straffi ha conquistato Lucca Comics e ha sfilato nel red carpet della 78esima mostra Internazio-

nale del cinema di Venezia lanciando un’altra sua idea, un’altra sfida con i cartoon. Ha reinventato Pinocchio, rileggendolo in chiave moderna. Un salto di 140 anni, dall’età della prima striscia di Collodi ai nostri giorni, per renderlo più vicino ai bambini d’oggi, più riconoscibile alle loro emozioni, sogni e desideri e alle loro intemperanze. E in cui i più piccoli possono riconoscersi. Pinocchio non sarà un film ma una serie televisiva di ben 26 episodi previsti in onda su Rai Yoyo. Diversi i film girati sul burattino di Collodi, ma


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Pinocchio, cartoon made in Marche La novità Freeda bambola di pezza L’IDEA DI UNA SERIE TV È DI IGINIO STRAFFI FONDATORE RAINBOW CHIAMATO IL WALT DISNEY DEI CARTONI ITALIANI ACCANTO AL BURATTINO UNA PRESENZA FEMMINILE MODERNA

mai una serie per il piccolo schermo. Un’idea cullata da diverso tempo nella mente di Straffi. Dai trailer si intravvede già lo spirito di questo nuovo pratonista di legno. Forme morbide ed empatiche che sembrano distinguersi da altri personaggi influenzati dal tratto giapponese dei cartoon. Pinocchio è il personaggio più noto e letto dell’infanzia, tradotto in 260 lingue. Anche in dialetto. E rivisto pure in chiave teologica, come fosse una parabola. Una forza psicopedagogica mai terminata. E seppur sfruttato a piene mani nelle pellicole, Straffi ha

voluto riproporlo: “L’ho fatto per vari motivi - spiega – Perché è una fiaba italiana, perché il naso che si allunga dopo le bugie è entrato nel nostro immaginario comune e perché i bambini di oggi la stanno conoscendo meno nella sua interezza. Ma non basta: per fare arrivare un messaggio, soprattutto ai più piccoli – precisa l’ideatore – bisogna costruirci attorno una storia divertente”. Una storia che catturi, che arrivi diretta alle emozioni dei bambini, basata, oggi come allora, su mistero, fantasia, sorprese, ingiustizie, avventura, emozione e com-

mozione, lotta tra il bene e il male e su immancabili bugie dal naso lungo, il trait d’union tra la realtà di una volta e quella di oggi. Pinocchio è anche una fiaba più complessa di quello che vuol apparire, custode di valori universali che si confrontano oggi con una quotidianità animata o “governata” dal virtuale. Lo smartphone odierno è il paese dei balocchi di ieri. E in questo contesto, ben descritto da esperti, si muove il nostro amato personaggio. Non è più c’era una volta…. ma c’è oggi un pezzo di legno, o meglio, un burattino. Ma


Il monello di Collodi 140 anni dopo | 1

La fiaba originaria è presa a pretesto per raccontare la realtà in chiave attuale in un’ambientazione tutta italiana

quanti rischiano oggi, anche tra gli adulti, di essere o di diventare inconsapevoli “burattini”? “Tanti” risponde senza esitazione Straffi. Il Pinocchio di Straffi è ribelle, scanzonato, si annoia, vuole esplorare il mondo. Un monello comunque dal cuore buono e incosciente come il personaggio di Collodi, ma che si confronta con temi inediti e tentazioni diverse. La fiaba originaria è presa a pretesto per raccontare la realtà attuale. Un utilizzo dei classici per parlare al presente. “L’impianto del racconto è identico – spiega Straffi – ma trasferito e raccontato al giorno d’oggi. Da un mondo di povertà a quello attuale. L’ambientazione in cui si muovono i personaggi riprende il paesaggio toscano. Un mondo fantastico in cui è presente l’italianità, totalmente diverso da quello delle Winx. ”. “Ho cercato – precisa ancora – di realizzare una storia rispettosa dei personaggi e del messaggio della favola originale ma che potesse, al tempo stesso, affascinare i fanciulli di oggi, spesso troppo presi da videogiochi e altri intrattenimenti veloci”. Falsi idoli, come se ne incontrano a piene mani nella fiaba. Eppure Pinocchio qui corre in piazza, in una piazza del borgo, alle prese con giochi esplorativi: “Giochi che servono a crescere – aggiunge l’autore non solo filtrati dal mondo digitale” Rimane una metafora della vita, ma di una vita moderna dove cellulari e droni diventano protagonisti. “Ispirandosi alla fiaba più amata di tutti i tempi – precisano i collaboratori dell’imprenditore/regista – Iginio Straffi ha ricreato una storia universale trasportando il classico di Collodi nel mondo contemporaneo e facendo emergere, al

46 tempo stesso, l’essenza che rende Pinocchio un intramontabile sogno a occhi aperti”. Il burattino senza fili è senza tempo, bugiardo incallito, impertinente ma anche ingenuo e di indole buona. E accanto a lui, i personaggi immortali della fiaba: il grillo parlante, Geppetto dalle mani d’oro con l’immancabile barba e occhiali, la fata inevitabilmente turchina ma anche robot, giocattoli meccanici, vecchi e nuovi balocchi ”Pinocchio and Friends”, tutto altamente digitale, parla ai fanciulli di oggi in modo moderno con storie variopinte e colpi di scena. E, come la sensibilità moderna chiede, o come i modelli eticamente corretti pretendono, accanto al burattino di legno parlante ecco apparire una bambola di pezza, Freeda, moderna, agile, dinamica, dal piglio e vestiti che ricordano i pirati. Ma questa volta in gonnella. Una presenza femminile innovativa, stile “pigotta”, che non poteva mancare oggi. Una coprotagonista del cartoon. La Fatina Turchina pensata da Collodi non era sufficiente a colmare un voto di genere. Così Freeda affianca Pinocchio nelle sue avventure. A contatto anche con gli “umani”, per scoprirne pregi e debolezze. E confrontarsi. “Mentre Pinocchio – racconta Straffi – è un pezzo di legno che vuole trasformarsi in bambino, Freeda è una bambina che viene trasformata in bambola di pezza. Un percorso inverso ma con le stesse aspirazioni”. Già Straffi aveva colto con le Winx l’opportunità di imprimere un cambiamento al ruolo dei protagonisti. Aveva intuito la mancanza di personaggi di riferimento per le bambine, una carenza soverchiata da moltissimi modelli maschili. In televisione solo cartoni con questo sbilanciamento tra protagonisti. A Iginio era sembrata un’autenti-


Il monello di Collodi 140 anni dopo | 1

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Mentre Pinocchio è un pezzo di legno che vuole diventare un bambino Freeda è una bambina trasformata in bambola di pezza Nella pagina precedente la versione di "Pinocchio and Friends" della Rainbow. In queste pagine dall'alto a sinistra in senso antiorario Il grillo parlante, Pinocchio e Freeda Qui a sinistra, Iginio Straffi, il creatore ed ideatore della nuova serie animata

ca sciocchezza. Così ha deciso di andare controcorrente, sfidando il trend del mercato. Ed era riuscito nell’intento di stravolgere stereotipi e luoghi comuni. Ecco le fate che non hanno bisogno del principe azzurro ma che addirittura lo salvano. Non solo: aveva lanciato un forte messaggio di identificazione nella stessa canzone che introduce le avventure delle Winx . “Sarai una di noi se lo vuoi….”. Dove la fantasia può diventare realtà, dove il disegno può vivere di vita propria o il pezzo di legno diventare un bambino. Nulla diventa impossibile con la fantasia, nessuna catena la può ostacolare. Fantasia e magia, così le Winx hanno rotto gli argini del successo, immedesimandosi in tanti “Harry Potter” al femminile. E la serie è stata diffusa in 150 paesi. Straffi non è solo un imprenditore di talento lungimirante ma è anche regista, produttore e soprattutto creativo. Ma lui ama definirsi “visio-

nario” Il suo motto: pensare velocemente e avere sempre una soluzione di riserva. “Mi rendo conto – spiega – che molte cose le vedo prima, riesco a mettere in fila tanti tasselli e intravvedere dove andare. Capace di cambiare pelle in un mondo che va di corsa”. Non solo visionario, ma anche con un “Peter Pan” interiore ben vivo e scalpitante. “Quanto Peter Pan c’è in me? – risponde con un sorriso – Tanto. E’ una mia ragione di vita. Non riesco a immaginarmi vecchio”. Nel 1993 Straffi ha fondato la Rainbow, lo studio di animazione italiano che ha voluto mantenere nelle Marche, la sua regione natale e precisamente a Loreto, a pochissimi metri dal confine con Recanati, ignorando le grandi metropoli. Che ha conquistato poi con le sue produzioni. Racconta lui stesso che era appassionato fin da piccolo di fumetti e televisio-


Pinocchio Rainbow

Straffi ama definirsi un “visionario” sempre in cerca di nuove sfide Il suo Peter Pan interiore come ragione di vita

Sopra, alcuni fotogrammi della serie televisiva che andrà in onda prossimamente sui canali Rai

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ne, fonte per lui di sogni e fantasie. E il fumetto è stato un momento ispiratore, tanto da iniziare come disegnatore alla Sergio Bonelli Editore nelle avventure di Nick Raider. Ma il passaggio dal fumetto ai lungometraggi di animazione è stato breve. E cos’è il fumetto se non un film su carta? Così, dopo esperienze all’estero, realizza il cartone delle Winx, diventato fenomeno internazionale. Ma non si ferma qui. Ora le fate hanno compiuto 17 anni e al momento di avvicinarsi alla loro maggiore età sono diventate anche un film in carne ed ossa. L’imprenditore Straffi studia, sperimenta, il regista Straffi realizza, avvalendosi anche di esperti di psicologia infantile e adolescenziale. Attento ai dettagli e sempre in cerca di nuove sfide. E investe tanto: in analisi di mercato per comprendere il trend e in tanti progetti. “Abbiamo avuto – racconta – anche il coraggio di buttar via cose in cui avevamo investito anche mezzo milione di euro. Cerchiamo il prodotto migliore da immet-

tere nel mercato. Quando non sono convinto, sono capace di rinunciare anche a idee già approvate” La pandemia non lo ha bloccato: “Ha inciso minimamente. Anzi, c’è stato un aumento della domanda e degli ascolti. Abbiamo lavorato molto in smart working”. Il gruppo Rainbow ha conquistato progressivamente tutti i mercati gestendo sia i processi produttivi che il relativo merchandising. Nell’azienda si respira un’aria mitteleuropea con soluzioni equilibrate e armoniche di lavoro ed accoglienza. Le parole d’ordine da sempre declinate, sono rispetto per l’ambiente, solidarietà e diversità. Un percorso sostenibile del gruppo che continua a investire anche in risorse intellettuali, dimostrando da subito capacità manageriali. E confermandosi un’eccellenza nell’animazione made in Italy. Con un punto di forza nelle Marche. E con un altro ambizioso obiettivo. Straffi lo confida con entusiasmo: “Finché non farò un film italiano con il maggior incasso, non sarò soddisfatto”. ¤


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E l’attore volle imparare a diventare Geppetto AZIENDA PESARESE COINVOLTA IN UN'ALTRA PRODUZIONE

di Giordano Pierlorenzi

Nella foto Bob Hoskins tra i coniugi Bartolucci con il burattino in legno, loro creatura

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ncora una volta le Marche protagoniste di produzioni cinematografiche e televisive dedicate al burattino Pinocchio Questa volta il protagonista è Francesco Bartolucci famoso artigiano e artista di Pontevecchio di Pesaro con la sua azienda a conduzione familiare in cui operano anche la moglie e la figlia Maria. l'Azienda Bartolucci è stata coinvolta nella realizzazione del Pinocchio per la mini serie omonima del 2009, diretta da Alberto Sironi e prodotta da Rai Fiction e Lux Vide. Così Maria descrive la collaborazione: "Siamo stati contattati dalla produzione per realizzare un pinocchio in legno, che riproducesse le fattezze dell’attore (Robbie Kay) e potesse essere utilizzato durante le riprese della mini serie. Dopo aver realizzato il Pinocchio, abbiamo partecipato attivamente alla realizzazione della scenografia della bottega di Geppetto (interpretato da Bob Hoskins) nella splendida cornice di Civita di Bagnoregio. Mio padre,

infatti, colleziona da anni attrezzi da falegname prodotti dal 1700 alla prima metà del ‘900 e ha utilizzato una parte di questa sua collezione per impreziosire il set e ricreare l’atmosfera perfetta per una bottega di falegname di quel periodo storico di cui parla Carlo Collodi. Una volta terminato l’allestimento, la produzione si è resa conto che mio padre e Bob Hoskins avevano fattezze e mani molto simili, quindi hanno proposto di utilizzare mio padre come “controfigura” per le riprese ravvicinate durante l’intaglio. Bob Hoskins si è però rifiutato, chiedendo invece a mio padre di insegnargli come muovere le mani e utilizzare gli attrezzi di scena, per poter offrire una recitazione più realistica ed emozionante. Ha aggiunto ‘voglio che lo spettatore possa credere che quel Pinocchio sia stato veramente realizzato da me’. E' stato un momento che ricordiamo con incredibile gioia ed affetto, essendo oltretutto fan del compianto attore”. “Sono cresciuto in una


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Bob Hoskins chiese all’artigiano Bartolucci di insegnargli a muovere le mani per essere più realista nella sua parte

Nelle immagini alcune fotografie di scena della mini serie diretta da Sironi

famiglia di artigiani e falegnami- racconta Francesco Bartolucci - quindi, fin da piccolo, mi è sempre piaciuto esplorare la bottega, ed imparare ad utilizzare gli attrezzi di mio padre e dei suoi fratelli. La mia famiglia non aveva molte possibilità economiche, non avevamo giocattoli, ma non mancavano mai piccolo pezzi di legno, che potevo modellare ed assemblare per costruire piccoli trattori, treni, auto-

mobiline… A 13 anni ho iniziato il mio apprendistato in bottega. Adoravo stare all’aria aperta, ho sempre amato il calore del sole, quindi trovarmi tutto il giorno chiuso in una bottega poco illuminata era per me difficile. Così ho iniziato a mettere piccoli pezzi di vetro e piccoli specchi fuori dalla bottega, in modo che riflettessero all’interno tanti sottili raggi di sole.Mi sembra ancora di vedere la polvere di legno che danzava illuminata da quei raggi, mentre imparavo ad intagliare e a lavorare il legno”. “Negli anni - continua - ho fondato la mia azienda, ho ideato e realizzato migliaia di prodotti, lavoro in un grande laboratorio pieno di

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luce, ma continuo a tornare con la mente a quei preziosi momenti della mia infanzia. E sorrido, con la speranza che tutti gli oggetti che creo possano essere come dei piccoli raggi di sole, che entrano nelle case di tante persone nel mondo.” Che cosa può dire ancora ai giovani perchè si avvicinino all'artigianato artistico e al craft design? Può descrivere la sua soddisfazione come artista e artigiano e, soprattutto come maestro di giovani aspiranti ad entrare in questo mondo dell'arte e del design… “Creare articoli unici, scoprire nuove tecniche, imparare dalla tradizione per innovare, sono sempre state attività proprie di ogni cultura fin dalla preistoria. È qualcosa che è presente intrinsecamente nella storia di ognuno di noi. Negli ultimi decenni, però, la continua ricerca del “fast” e del “cheap” non ha aiutato il mercato dell’artigianato, e gli eventi drammatici (a livello socio-economico) degli ultimi due anni hanno contribuito negativamente allo sviluppo del nostro lavoro”. “Nonostante questo, siamo fermamente convinti che questa spinta a creare sia ancora forte, specialmente nelle nuove generazioni. Ci auguriamo quindi che molti giovani possano riscoprire questa loro innata capacità creativa, e possano continuare a credere che, con tanto impegno e volontà, l’artigianato artistico possa continuare a rappresentare una carriera lavorativa per migliaia e migliaia di persone”. ¤


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Pinocchio deve morire no a burattini nella vita LA SFIDA È NON LASCIARSI TRASFORMARE IN DOCILI ROBOT

P di Paolo Ercolani

inocchio sarebbe dovuto morire. Pinocchio deve morire. Prima di comprendere il senso di tali affermazioni, occorre chiarire alcuni aspetti attraverso cui mostrare come questa favola, sul piano semantico, è molto più complessa di quanto il senso comune ha voluto riconoscere. Innanzitutto partendo dalla celebre definizione di «classico» che ci ha lasciato Italo Calvino: «Un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. Un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso». Da questo punto di vista, Pinocchio di Carlo Collodi - il cui

vero cognome era Lorenzini uscito inizialmente a puntate su Il giornale dei bambini dal 1881 al 1883, ci si rivela come un classico a tutto tondo. Un’opera che ha avuto molto da dire a suo tempo, quando insieme a Cuore di De Amicis

rappresentò un formidabile esempio di romanzo di formazione, a differenza dell’altro ambientato in un mondo fantastico che ricorda quello delle fiabe (con personaggi inesistenti e animali parlanti), ma come quello impostato su un intento pedagogico di fondo. Sì, si trattava di elaborare quell’operazione - mai riuscita fino in fondo - che consisteva nell’educare al valore dell’istruzione e del rispetto delle regole il popolo di un’Italia nata da poco. La stessa Italia che fin dagli albori della propria unificazione si distingueva per scandali bancari, trasformismo politico, scarsa diffusione del sentimento nazionale e, soprattutto, di un’istruzione all’altezza di un paese che si apprestava a entrare nel XX secolo. Ma Pinocchio è un libro che per tanti versi ha molto da insegnare anche oggi. Un insegnamento diverso e complementare, certo, rispetto alla sola necessità di darsi un’istruzione e di imparare le regole del vivere onestamente. Perché ormai siamo entrati nel XXI secolo, quello in cui l’abbondanza di informazioni è direttamente proporzionale soltanto alla diffusa incapacità di selezionarle ed elaborarle in maniera intelligente. Ma, soprattutto, quello in cui a trovarsi sotto attacco è la capacità individuale di servirsi di un pensiero autonomo e critico rispetto all’omologazione incoraggiata dal sistema mediatico. Proprio qui entra in gioco l’altro registro etico insito nell’opera di Collodi, quello meno evidenziato dalla letteratura critica. Per coglierlo occorre richiamarsi alla radice «toscanaccia» e anarchica dell’auto-


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Questa favola sul piano semantico appare molto più complessa di quanto il senso comune ha voluto riconoscere re, per tutta la vita fervente sostenitore di quel Giuseppe Mazzini che, a motivo delle sue idee e azioni fieramente repubblicane e popolari, dette sì un contributo fondamentale alla nascita dello Stato unitario italiano, ma al tempo stesso subì molteplici processi e arresti, trascorrendo tutta la sua vita in una latitanza che si interruppe soltanto con la morte. Nasce probabilmente da questa ragione biografica di Collodi, dalla sua mascherata affinità con il pensiero anarchico e rivoluzionario, la vena bizzarra e irriverente che è possibile rintracciare in Pinocchio. Sì, accanto al più esplicito messaggio morale - e talvolta moralistico - di cui ho parlato sopra, nella favola collodiana c’è spazio per un’ironia tagliente e irriverente. Quella di cui l’autore si serve per inscenare la rappresentazione capovolta del funzionamento della giustizia (indulgente o addirittura corriva con i potenti colpevoli, implacabile e crudele con gli umili innocenti). Si

spiega così la feroce mancanza di rispetto con cui Collodi rappresenta i tutori della legge, descrivendoli come figure per nulla edificanti che gli consentono di esprimere una quanto mai attuale satira (e quindi denuncia) delle istituzioni italiane. Insomma, quando l’autore di Pinocchio sembra simpatizzare con le marachelle del burattino, la sua intenzione è duplice. Da una parte abbiamo l’intento più esplicito: educare i bambini a cogliere l’aspetto giocoso e scanzonato della vita, da integrare però con la capacità di comprendere che l’istruzione e una certa disciplina sono fondamentali per trovare il proprio posto nella società, specialmente se appartieni a una famiglia umile e vivi in un contesto in cui i ricchi usufruiscono di privilegi preclusi alle classi sociali meno abbienti. L’istruzione e la capacità di sacrificarsi sono gli strumenti più importanti con cui combattere ingiustizia e privilegi, ossia quella “crudeltà del


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mondo” che il povero impara a conoscere fin dai suoi primi anni di vita. Dall’altra parte possiamo leggere il messaggio più implicito contenuto nella favola di Collodi: mi riferisco alla denuncia verso un potere che intende disciplinare in maniera quanto più possibile pervasiva il popolo, ingabbiandolo all’interno di comportamenti sociali in cui ai più poveri risulta impossibile modificare l’ordine delle cose e quindi la propria posizione sociale. Non a caso c’è stato chi ha visto in Pinocchio, malgrado la grande diversità del genere narrativo e del registro comunicativo, una forte similitudine col personaggio di ‘Ntoni – il protagonista de I Malavoglia di Verga, libro uscito poche settimane prima del capolavoro collodiano. Entrambi i personaggi, infatti, rappresentano l’epitome del ribelle dal cuore buono, che rischia, sbaglia e fallisce in nome della ricerca di una promozione sociale. Ci troviamo di fronte a un topos inscritto nel destino sociale, prima ancora

che letterario, dell’Italia post-unitaria. Nel tempo presente, quello di una società iper-tecnologica che rischia di ingabbiare i nostri ragazzi all’interno della vita virtuale, in cui tutti compiono gli stessi gesti ipnotizzati dal fascino sterile e fuorviante di schermi colorati, la grande sfida degli adolescenti consiste nel non lasciarsi trasformare nell’equivalente del burattino: cioè nel “docile robot” di cui parlava Charles Wright Mills. Quello che partecipa inconsapevole, e perfino entusiasta, al miserabile teatrino di una società in cui l’uomo acquista valore soltanto nella misura in cui produce profitto o contribuisce al progresso tecnologico. In cui all’essere umano è chiesto di funzionare e non pensare, di farsi burattino volontario di coloro che tirano i fili della sua esistenza. Proprio qui arriviamo a comprendere la morte di Pinocchio con cui ho iniziato questo articolo. Quello stesso Pinocchio che sarebbe dovuto morire impiccato secondo l’intendimento originario di Collodi, poi costretto a cambiare il finale della favola a fronte delle richieste di tanti bambini innamorati del burattino che voleva diventare uomo. Il medesimo Pinocchio che deve invece morire realmente in ognuno di noi, quando impariamo ad abbandonare le favole, gli errori e l’ignoranza che caratterizzano il mondo adolescente, finalmente pronti ad affrontare il cosmo crudele dell’età adulta. Cioè quando smettiamo di essere burattini o docili robot, e prendiamo in mano i fili della nostra esistenza. Fuori dagli schermi piatti del virtuale, ma ben dentro la complessa pienezza della vita vera. ¤

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N di Giordano Pierlorenzi

Pinocchio rappresenta un formidabile compendio psicopedagogico per tutti sull’età dello sviluppo

el 2021 ricorrono i 140 anni dall’uscita della prima striscia narrativa di Pinocchio nella forma del feuilleton allora di moda sui quotidiani, il romanzo a puntate pubblicato tra gli anni 1881 e 1882 e poi dell’intera raccolta nel libro “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino” presentato a Firenze nel 1883. Pinocchio, come nel mondo è più conosciuta l’opera di Carlo Collodi pseudonimo del fiorentino Carlo Lorenzini scrittore, giornalista e patriota, è la fiaba senza tempo sulla natura inquieta dell’adolescente di ogni epoca e latitudine, il burattino monello per antonomasia avvezzo alla bugia. E’ la metafora della fatica di ogni ragazzo alla ricerca di se stesso che prova le scorciatoie più improbabili incappando in numerose disavventure e guai di cui tardivamente si pente. E’ l’impervia strada dell’incedere verso la maturità sotto il

peso dell’inesperienza - raffigurata dalla corazza di legno del burattino e dall’iperbole, una sorta di polisindeto visivo, del naso che si allunga col ripetersi della bugia-, per affrancarsi dalla famiglia ed aprirsi alla società. Su questa strada Pinocchio avventurandosi nel mistero della vita trova il grillo parlante, la voce della propria coscienza e la buona fatina, la stella d’orientamento verso la rigenerazione: l’abbandono della corazza di legno con la metamorfosi definitiva da burattino a ragazzo. Ma è pure la legittima aspirazione alla genitorialità di Geppetto, icona simbolo della continuità nella discendenza. Un espediente letterario su uno spaccato originale dunque, sulla realtà di ogni tempo e perciò sempre attuale che ne fa un romanzo classico per giovani e adulti, per docenti e genitori: un bignami, un formidabile compendio psicopedagogico per tutti sull’età dello sviluppo.


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Quel ciocco di legno metafora della vita e fiaba senza tempo SIMBOLEGGIA LA FATICA DI OGNI RAGAZZO ALLA RICERCA DI SE STESSO

Ma Pinocchio è molto di più ancora. Una fiaba che anticipa l’era virtuale Mentre ieri ci cullavamo tra sogno e realtà, oggi ci agitiamo tra l’analogico e il digitale scoprendo una dimensione nuova oltre a quelle già note ai greci: la corporea del soma, la mentale della psichè, la spirituale del pneumos. Ma mentre questi tre aspetti o dimensioni sono costitutivi ed interni all’uomo, nel nostro tempo un’altra dimensione però esterna, lo arricchisce e rafforza conferendogli una sorta di alone immateriale, di potenziamento comunicativo e relazionale. E’ la realtà virtuale, del tutto immaginabile, del tutto possibile: la realtà aumentata, il nuovo umanesimo creativo digitale. La tecnologia spalanca frontiere inesplorate, cariche di suggestioni infinite, di molte promesse e altrettante

minacce sulla strada dove corre il progresso dell’uomo avviato a navigare sul web con la velocità del 5G e ormai disposto a viaggiare nello spazio per soggiorni selenici e marziani. “Il virtuale è intorno a noi, dentro di noi che siamo già immersi nel virtuale semplicemente perché il virtuale era già. Nel telefono, che porta con una voce anche un pensiero ed un cuore, ma anche nei sogni condivisi; nel televisore, ma anche nei telegrammi; nei videogiochi, ma anche negli scacchi” (Maria Bettetini 1997). Ebbene Pinocchio che è un personaggio prodotto dalla simulazione immaginifica e favolosa di espedienti solo letterari vive tuttavia in una sorta di realtà virtuale prolettica, analoga, molto simile a quella dei personaggi della simulazione di situazioni reali attraverso il digitale: gli avatar, immagini animate o robot che assumono sembianze umane, gli umanoidi dello special visual

design effects. Mutatis mutandis, Pinocchio è un pezzo di legno che si trasforma in burattino e poi in monello e come tale potrebbe essere benissimo un virtual idol ante litteram di un cartoon come Lara Croft l’eroina dei videogame Tomb Raider o Webbie Tokay la prima mannequin digitale arruolata dall’agenzia Elite. Si può dunque affermare che Pinocchio sia una fiaba impiantata nella realtà virtuale e come tale, prolessi dei cartoons, dei videogames. La realtà virtuale infatti, per il filosofo francese Lèvy non ha niente a che vedere con la falsità o la dissimulazione, è invece ogni rappresentazione immateriale e perciò reale anch’essa. La filosofia scolastica medioevale d’altronde, usa già la parola virtualis per indicare ciò che è in potenza, ciò che può proseguire in atto. E Pinocchio è appunto un burattino che in potenza, cioè virtualmente, diventerà un


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L’opera di Collodi appare un romanzo protovirtuale anticipatore dei videoracconti e del cinema di animazione

ragazzo. La realtà virtuale non può dunque risultare sconosciuta al Collodi se sceneggia il racconto partendo dall’espediente letterario di un ceppo di olmo a cui attribuisce l’anima di un bambino che al lavoro di crescere come i suoi coetanei, aggiunge la fatica di doversi muovere partendo dalla dimensione virtuale (irreale ma possibile per l’immaginazione) per approdare al reale. Naturalmente attraverso tentativi ed errori dove la bugia avanza quale trovata creativa più probabile per uscire d’impaccio, per la fuga veloce. Allora, a ragione Pinocchio si può definire un romanzo protovirtuale, anticipatore dei videoracconti e della cinematografia di animazione. Psicologia della bugia: dalla fiaba alle fake news Si farebbe torto al burattino monello collocarlo solo nella dimensione della bugia; la verità è che Collodi nel tratteggiare la sua perso-

56 nalità in formazione di preadolescente lo connota ricorrente alla bugia come fanno di solito i ragazzi di quell’età. Certo che nel personaggio la bugia si coniuga facilmente con la curiosità e l’avventura di chi esplora il mondo per conoscerlo e conviverci da protagonista, da eroe. Ma un dubbio sorge. Perché Collodi non ha raccontato semplicemente la storia di un fanciullo precoce adolescente? Perché è ricorso all’espediente d’effetto speciale quasi cinematografico, del ciocco di legno che si anima e prende vita umanizzandosi progressivamente tra mille peripezie? Probabilmente per evitare di scrivere l’ennesimo romanzo-saggio sull’età evolutiva e narrare invece una storia inattuabile per il cronista, congeniale invece alla fantasia dello scrittore tardoromantico: il ciocco di legno che prende vita. Ecco l’idea geniale che apre al virtuale. Collodi racconta così di un bambino non nato

Ancona, statua e rione dedicati al burattino

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a tradizione orale, la voce del popolo di cui diversi frammenti sono rintracciabili anche su google, riferisce che la città di Ancona sia l’unica in Italia ad avere un quartiere dedicati a Pinocchio. Un fatto davvero sorprendente. Tanto più che c’è chi afferma in un flash news: “Mai fidarsi di Pinocchio. Il burattino famoso per raccontare bugie non fa eccezione ad Ancona”. Perché? Approfondendo infatti un poco la ricerca emergono diversi modi di raccontare alcune chiare memorie storiche anconetane. La prima narra l’attribuzione del toponimo del rione

del capoluogo delle Marche non al burattino di Collodi quanto piuttosto ai frutti dei pini italici molto fitti allora come adesso, nella frazione della periferia rurale: detti appunto ‘pinoli’, ‘pinòchi’, ‘pinocchi’ nel vernacolo anconetano. La seconda memoria invece riferisce quale fonte toponimica la parola ‘pedocchi’, trasformata poi nell’uso gergale in ‘pidocchi’ ed infine nel più eufonico termine ‘pinocchi’. Questa seconda tradizione si giustifica con la presenza stagionale di comunità nomadi e di casolari di povera gente sparsi qua e là scarsamente provvisti di fonti d’acqua.

Molto più verosimile ma senza conferma documentale, relata refero, ne compare una terza che riferisce la residenza temporanea dello stesso Collodi in qualità di maestro nella scuola elementare di Ancona il quale recandosi a passeggio sul colle più alto della città, allora poco urbanizzato e munifico di stupendi scorci panoramici che aprono sul colle guasco e sul duomo, con ogni probabilità ebbe modo di apprendere dai nativi i vocaboli che ci interessano e da cui ha tratto l’appellativo del più famoso burattino. Sia come sia, il 30 maggio 1954


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dal grembo materno, ma forse evocando sue reminiscenze mitologiche, come Athena che nasce dalla testa di Zeus, lo fa generare da madre terra che fornisce la materia prima – il legno - a Geppetto che lo modella a sua immagine soddisfacendo la duplice vocazione di artigiano artista e quella genitoriale completa di padre e madre. Dal punto di vista psicologico letterario è una fiaba ricca di elementi simbolici che si associano alla crisi esistenziale di quell’età complessa, in cui come dice il Linton non si è più bambino ma non ancora adulto; si vuol chiudere la porta di casa per aprire quella del mondo con la spavalderia di chi osa e rischia senza protezioni. E’ l’età dello smisurato continuo sforzo di adattamento, disadattamento e riadattamento alle situazioni che cambiano sia endogene della pubertà sia esogene legate a contesti, a dinamiche sociali in famiglia, nella scuola, nella vita sociale. Dovremmo ricordare che il

‘burattino Pinocchio’ è la maschera che qualche volta abbiamo indossato tutti e che ci ha protetti nella delicata fase della fanciullezza, quando eravamo dipendenti dagli altri ed incapaci ancora di costruire il nostro io, la nostra identità attraverso l’assimilazione di valori, modelli e contenuti personali influenzabili. Questi, eccoli raccolti nei simboli di cui la fiaba è disseminata a scandire la vita del monello. Il Grillo parlante è la coscienza che orienta al bene e rimorde nell’errore. Il gatto e la volpe rappresentano le seduzioni, le sirene che ammagliano. Il mare, l’ingoiamento nella balena rappresentano l’inconscio che prevale sulla consapevolezza ancora scarsa per l’inesperienza. Infine la salvezza procurata dal padre costituisce la rinascita, l’emergere della propria coscienza e dell’identità personale con motivazioni interne forti e voglia di vivere come gli altri.

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Nelle pagine le illustrazioni sono di Sergio Giantomassi Qui sotto a sinistra il monumento dedicato a Pinocchio nella città di Ancona

il sindaco di Ancona Francesco Angelini inaugura la statua dedicata al figlio del falegname Geppetto, denominando ufficialmente il rione con l’appellativo ‘Pinocchio’. Il famoso artista anconetano Vittorio Morelli prendendo spunto dai racconti popolari l’ha realizzata conferendo al burattino una postura ed un atteggiamento direi tra il beffardo e il trasognato e fabbricandone un totem per la gente del rione e per l’intera città. Pinocchio, una fiaba universale per tutti i popoli in tutte le latitudini perché parla al cuore e alla mente esaltando l’amore per la vita nella fraternità solidale. g.p.


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Dal punto di vista psicologico è una fiaba ricca di elementi simbolici, Pinocchio è la maschera che abbiamo indossato tutti

Dovremmo ricordare infine, che quella maschera di Pinocchio che rende burattini può capitare nella vita di doverla riusare ancora e quindi di cautelarci per evitare di ritornare in qualche modo dipendenti dagli altri, dalle cose, dalle circostanze e contesti, insomma di ‘imburattinarci’. Su questo argomento la teoria della reificazione (dal latino res cosa) di Gyorgy Lukacs sia pur ad uso nel campo del lavoro, credo possa illuminarci per comprendere quando e come il soggetto possa divenire oggetto, l’uomo libero schiavo, cosa, alienato nella società che dissipa l’essere a vantaggio

dell’avere. A Pinocchio non può più succedere la reificazione, ne è vaccinato, immune perché è un personaggio positivo che si è riscattato; per dirla con Max Weber, dalla deriva della devianza istituzionalizzandosi, diventando cioè un bravo ragazzo, un esempio, per qualcuno persino un eroe capace di navigare tra i marosi della vita. La fiaba così conferma la sua funzione morale sottolineando peraltro quanto la bugia abbia ‘le gambe corte’, come d’altronde le fake news che imperversano sui social e che talvolta recano danni importanti a persone e comunità. ¤


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Pinocchio, non solo fiaba ma vera parabola IL CARDINALE BIFFI: UN VERO CAPOLAVORO TEOLOGICO

“C di Claudio Desideri

Copertine di due diverse edizioni del saggio scritto dal Cardinale Biffi

’era una volta…- Un re - diranno subito i miei piccoli lettori. - No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze. Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname il quale aveva nome maestro Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza come una ciliegia matura.” Così inizia la fiaba, forse

più famosa al mondo, scritta da Carlo Collodi: “Le avventure di Pinocchio.” Considerata uno dei capolavori della letteratura universale per i bambini è senza ombra di dubbio il più importante testo per l’infanzia della letteratura italiana. L’opera fu pubblicata a pun-

tate dal 7 luglio del 1881 sul Giornale per bambini di Fernando Martini. Il primo volume, con l’opera completa, fu edito nel 1883 da Felice Paggi di Firenze e da allora è stato stampato in tutte le lingue e in un numero incalcolabile di edizioni. Sono trentasei i capitoli con cui l’autore racconta la storia di un pezzo di legno che mastro Geppetto trasforma in burattino e che poi, alla fine della storia, diventa un bellissimo bambino. Con questa fiaba alcuni di noi hanno imparato a leggere, altri si sono addormentati ascoltando il proprio genitore, e altri ancora, leggendola da grandi si sono commossi nel finale. E’ un testo che possiede una forza incredibile e con il quale si sono realizzati film, lungometraggi, cartoni animati, sceneggiati e scritti altri libri. Quante volte ci siamo chiesti chi è l’autore italiano più tradotto al mondo? E sempre abbiamo risposto Dante. Ma non è così. Nel 2020 Sergio Malavasi, forse uno dei bibliofili più noti a livello planetario, ha eseguito una ricerca nella Rete, negli archivi, nelle biblioteche, nelle Fondazioni degli scrittori per poi realizzare un repertorio, uscito con la sigla MareMagnum, dal titolo: Quale è il libro più tradotto al mondo? E, a questo punto anche senza stupirci troppo, a raggiungere il primato è proprio Pinocchio, tradotto in 260 lingue, dallo svedese all’armeno, dal catalano al basco e anche in dialetto milanese ed esperanto. Collodi, il suo vero nome era Carlo Lorenzini, nasce a Firenze il 24 novembre del 1826, primogenito di


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una numerosa e sventurata famiglia. Sua madre, Angelina Orazi, benché diplomata come maestra elementare, svolge l’attività di cameriera per la famiglia dei Garzoni Venturi che ha una tenuta a Collodi, un luogo che rimarrà sempre vivo nei ricordi dello scrittore. Convinto mazziniano partecipa alle rivolte risorgimentali del 1848 e 1849 e dopo aver seguito la carriera di giornalista inizia a collaborare con i giornali e a scrivere i suoi primi romanzi. Ma il suo suc-

Secondo l’alto prelato il libro contiene un messaggio eterno che tocca le fibre del cuore di tutti gli uomini d’ogni tempo e cultura cesso lo raggiunge dopo l’Unità d’Italia quando, funzionario del nuovo Stato, inizia a dedicarsi alla letteratura per ragazzi. Inizialmente con traduzioni di altre opere, che secondo lui potevano essere di aiuto alle giovani generazioni nel diventare un giorno uomini e donne Italiani, per poi scrivere il suo capolavoro, le avventure di Pinocchio. In un primo momento la storia si concludeva con l’impiccagione del burattino ma tali furono le proteste dei giovani lettori del Giornale dei bambini che dovette riprendere a proseguire il racconto che si conclude con la trasformazio-

60 ne del burattino in bambino. Divenuta libro, la fiaba, raggiunge un successo incredibile che l’autore non riesce purtroppo a gustare, muore a Firenze il 26 ottobre del 1890. Il suo Pinocchio è oggi un monumento della letteratura mondiale e come le grandi opere costruite dall’uomo, è studiato, ammirato, interpretato. Come ha fatto il Cardinale Giacomo Biffi che quando era ancora in vita si definiva un “pinocchiologo” e su questo racconto ha scritto un libro: “Contro Maestro Ciliegia”. Un libro che il cardinale scrive per rapportare la favola di Pinocchio ad una parabola definendo l’opera di Collodi: “un vero capolavoro teologico e di introspezione”. Il burattino entra nella vita di Biffi quando era ancora bambino e il padre gli compra una edizione economica della storia. Da quel momento in poi non lo lascerà più, tanto che più tardi, nel momento di presentare la sua tesi di teologia dirà che: “fu tutta debitrice al libro di Collodi. Solo che dovetti scriverla in un linguaggio accademico, col risultato che fu apprezzata da tutti e letta da nessuno.” Divenuto sacerdote, quando era vescovo di Milano, decide di scrivere un libro, un commento teologico al racconto che per lui non era solo un giocoso intrattenimento, esso conteneva un “messaggio che svelava il mistero centrale dell’universo. Ai piccoli lettori Collodi non diceva come dovevano comportarsi, bensì narrava la storia dell’uomo e presentava il senso dell’esistenza.” Il successo di questa storia è uno solo: “contiene un messaggio eterno che tocca le fibre del cuore di tutti gli uomini di ogni tempo e cultura”. Il saggio di Biffi fu pubblicato per la prima volta nel 1977 da Jaca Book e da allora è stato costantemente ristampato sino ad oggi. Appena edito


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il volume fu completamente ignorato dal mondo laico che considerava Pinocchio e Cuore di De Amicis i due libri usciti dal Risorgimento. Giovanni Spadolini definiva Pinocchio una Bibbia mazziniana e c’è chi ha scomodato marxismo e psicanalisi per interpretare l’avventura del burattino. Ma per il cardinal Biffi la storia ha una esclusiva concordanza con l’ortodossia cattolica, racconta la storia dell’uomo che è la storia cristiana della salvezza. C’è una fuga dal padre, c’è un tormentato e difficile ritorno al padre, c’è un destino ultimo che è la partecipazione alla vita del padre. Nel suo lavoro Biffi prende in esame i trentasei capitoli della fiaba e scrive 214 pagine, intense e profonde che con non poca difficoltà, ce ne scusiamo, cercheremo di affrontare. Innanzitutto il perché di un titolo come: “Contro Maestro Ciliegia” Questo personaggio compare solamente all’inizio della fiaba per poi scomparire completamente. Lui è la rappresentazione di un materialista per cui solo ciò che si vede e si tocca è vero, il resto è abbaglio frode, superstizione. Solo ciò che è sempre capitato può capitare, un pezzo di legno altro non può essere che un pezzo di legno e quando si accorge che tra le mani ha qualcosa di diverso, non usuale, lo regala perché non lo accetta: “io non posso credere” afferma. Il Cardinal Biffi individua nel suo trattato teologico sette verità che emergono dal racconto di Collodi. La prima: il mistero di un creatore che vuole essere padre. Questo quando entra “in scena Geppetto e anche se comparirà poi solo negli ultimi capitoli, da lui tutta la vicenda si snoda, verso lui si dirige, con il ritorno a lui si conclude.” Geppetto sta come raffigurazione di Dio che ha un progetto ben definito sulla

creazione dell’uomo. Pinocchio non è frutto del caso, è stato pensato e voluto prima ancora di esistere. Il burattino fugge dal padre e da qui iniziano tutte le sue sventure, dove il ritorno al padre è l’ideale che sorregge Pinocchio che una volta raggiunto, dopo un tormentato viaggio, trova la felicità. La seconda: il mistero del male interiore. Un male che è dentro il cuore dell’uomo. “Dal cuore degli uomini escono i propositi di male.” Marco (7,14-23). Il burattino sa perfettamente dove sta il bene e dove sta il male e per quanto libero di scegliere segue sempre l’alternativa peggiore: tra scuola e teatro dei burattini, a casa o al campo dei miracoli con il gatto e la volpe, dalla fata o al Paese dei balocchi. La terza: il mistero del male esteriore all’uomo. Il male è ovunque attorno a noi perpetrato da astute e intelligenti potenze maligne che operano per allontanarci dalla salvezza. Il senso del male serpeggia in tutta la fiaba e Pinocchio lo incontra ripetutamente dentro di sé, mimetizzato candidamente nelle figure del Gatto e della Volpe e soprattutto nella perfida creatura dell’Omino, all’apparenza docile guardiano del Paese dei balocchi, (significativa rappresentazione del mondo che si allontana da Dio), tenero conduttore del carro che trasporta i bambini ma perfido nella realtà dell’insonne nemico, il Diavolo. “Tutti la notte dormono e io non dormo mai.” La quarta: il mistero della mediazione redentiva. Pinocchio costantemente insediato dal male interiore ed esteriore non può raggiungere la salvezza se non interviene un aiuto superiore che poi alla fine riesce a compiere il prodigio di riconciliarlo con il padre, di riportarlo a casa e trasformarlo in un essere nuovo. L’esistenza di questa salvezza è rappresentata dalla Fata

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Il cardinale Biffi nel suo trattato teologico “ Contro maestro Ciliegia” individua sette verità che emergono dalla fiaba di Collodi

Nelle pagine illustrazioni al tratto di Enrico Mazzanti contenute nelle prime edizioni originali del 1883 Sopra il cardinale Giacomo Biffi autore del saggio su Pinocchio


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Il libro racconta la storia dell’uomo che rappresenta la storia cristiana della salvezza C’è la fuga dal padre e il ritorno al padre

dai capelli turchini. La quinta: Il mistero del padre, unica sorgente di libertà. Pinocchio è il simbolo dell’uomo, condizionato da ogni parte, schiavo dei prepotenti e degli oppressori, legato da fili invisibili ai persuasori occulti che rendono illusoria la sua libertà. A differenza degli altri burattini egli non rimane prigioniero di Mangiafuoco nel momento che afferma di avere un padre, tanto che il burattinaio gli dà delle mone-

te per ricongiungersi a lui. Il padre è quindi l’unica fonte di liberazione per tutto quanto affligge l’uomo. La sesta: Il mistero della trasnaturazione. Il burattino riesce ad essere veramente libero e felice solo quando riesce a raggiungere una natura più alta della sua, la stessa del padre portando a termine il superiore disegno che aveva dato vita alla storia. La settima: Il mistero del

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duplice destino. L’uomo ha dinnanzi a sé sempre due strade. La fiaba porta due finali opposti tra loro. Se Pinocchio, per la mediazione della Fata, riesce a mutare natura e diventa un bambino, dall’altro Lucignolo, che non incontra nessuna potenza redentrice, diventa inevitabilmente un animale e resta per sempre ciuco destinato alla morte. Queste sette verità che Collodi evidenzia nella sua opera corrispondono, per il Cardinal Biffi, ad altrettante sette verità cristiane. La prima: La nostra origine è opera di un Creatore e la nostra vocazione è divenire suoi figli; la seconda: Il peccato originale corrisponde alla nostra volontà che da sola non è in grado di resistere al male; la terza: Il demonio è la creatura che opera solo ed esclusivamente per portarci, con intelligenza e malvagità, al male; la quarta: Cristo è l’unico in grado di salvarci; la quinta: di fronte ad ogni oppressione, la presenza di Dio è fondamento di dignità umana e della nostra libertà; la sesta: una vita di grazia è un dono di Dio che ci fa partecipi della sua esistenza; la settima: ogni essere umano può discernere il suo destino e scegliere tra il bene e il male. Biffi, a conclusione del suo lavoro riporta una frase di Collodi: “Sarà un pregiudizio, ma credo che la lettura dei libri noiosi sia nociva alla salute.” L’auspicio è che queste righe non lo siano state per voi e che invece siano in grado di stuzzicare la vostra curiosità tanto da indurvi a leggere un libro, che al di la della fede, dovrebbe essere comunque letto. ¤


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Le aventur de Pinocchi in versione dialettale LA FIABA TRADOTTA ANCHE IN VERNACOLO NEL PESARESE

N di Elisabetta Marsigli

on solo è più venduto della “Divina commedia” di Dante, ma “Le avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi è il libro italiano più tradotto al mondo, in oltre 260 lingue, tanto da essere il secondo nella classifica mondiale dei libri più tradotti. Ma l’Italia può vantare, grazie a Sanzio Balducci, una ulteriore versione: quella nel dialetto di Montemontanaro, un piccolo antico castello nel comune di Montefelcino, uno dei baluardi dell’antico Ducato di Urbino, abitato da circa un centinaio di anime. E non è stato per niente facile per il professore, nativo di Colbordolo, ma residente a Fossombrone, avere a che fare con i tanti “toscanismi”

del libro, oltre alla ricerca di tante parole che derivano da una grammatica non scritta e non sempre utilizzabili per una traduzione quasi “letterale” del testo di Collodi. Per Sanzio è stata una vera e propria sfida, soprattutto perché la sua famiglia si guardava bene dal parlare in dialetto con lui, convinta che potesse minare la sua istruzione. Ma, attualmente in pensione, Balducci ha scelto di insegnare, per diversi anni, Storia della lingua e Dialettologia italiana nel Corso di Lettere e Linguistica italiana a Scienze della formazione all’Università di Urbino, proprio per questa sua passione per una lingua carica di tradizione, che rischia di


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L’idea è venuta a Sanzio Balducci che ha insegnato dialettologia italiana per anni all’Università di Urbino

scomparire. «Quando parlo in dialetto i miei amici mi prendono in giro, - racconta sorridendo - dicono che non ho l’intonazione giusta». Ma per Sanzio, il dialetto è un riappropriarsi delle proprie origini: «La mia passione per il dialetto c’entra con lo spirito che si respirava intorno agli anni ’70: ritornare al popolo, al lavoro manuale, alla conoscenza delle tradizioni. Il dialetto rimanda inevitabilmente alla conoscenza del mondo popolare. Ho iniziato con studi classici e poi mi sono iscritto al Conservatorio di Roma, ma non l’ho finito perché ho deciso di tornare a Urbino e iscrivermi alla facoltà di Lettere: il primo esame è stato proprio quello di dialettologia italiana. Uno dei colpi “mortali” più efferati contro il dialetto, credo sia stata l’istituzione della scuola media dell’obbligo». Nei suoi studi a Urbino, Balducci ha poi approfondito le sue ricerche finendo col presentare, nel 1975, la sua tesi in dialettologia italiana che analizzava i dialetti della valle del Metauro: «Con il mio registratorino anni ’70, intervistai circa 180 persone, da Pergola fino alla vallata del Foglia, ma senza arrivare a Pesaro. Entrato in Università, ho iniziato a insegnare sia dialettologia che linguistica, anche proseguendo le mie ricerche, fino ai confini con la Romagna». Nel 1996 pubblica un’edizione critica delle poesie di Pasqualon, il noto poeta pesarese Odoardo Giansanti: «Non è stato facile ritrovare le testimonianze delle liriche di Pasqualon: sappiamo che era quasi cieco e non scriveva mai le sue poesie, tanto che molte di esse sono arrivate ai giorni nostri leggermente diverse dall’originale, contaminate dagli “inserti” della tradizione popolare. Io riuscii a trovare anche degli inediti».

64 Ma come è nata l’idea di “tradurre” in dialetto Pinocchio? «Quando insegnavo all’università ho fatto fare diverse volte delle traduzioni di poesie di autori importanti ai miei studenti, nel loro dialetto. Era un esercizio utile a capire fino a che punto erano dominati dalla loro lingua: il dialetto può esprimere anche poesia. Così ho fatto con Pinocchio, chiedendomi se il mio dialetto sarebbe stato in grado di sorreggere un racconto così lungo con tematiche così vaste. Se era in grado di raccontare una storia: il dialetto non ha una grammatica scritta, ma può parlare di tutto, così come l’italiano. Questa è stata la sfida: il dialetto è in grado di comunicare ogni sentimento, ogni stato d’animo, a volte anche meglio dell’italiano». In realtà poi, lo stesso Balducci confessa che Pinocchio è stato occasionale, nessuna scelta precisa: già aveva tradotto diverse poesie di Pascoli, Leopardi, il I canto dell’Inferno e alcuni brani dei Promessi sposi. «Così mi sono avvicinato a Pinocchio, iniziando con il primo capitolo e traducendolo letteralmente, parola per parola. Rispettando le caratteristiche dialettali, ma senza stravolgimenti forti. La struttura si basa già su un italiano abbastanza popolare: il toscano non era così distante dalla costruzione dialettale dei paesi del nostro territorio. Direi che è stato un passaggio abbastanza fluido». E così, dopo i primi capitoli iniziati per “scherzo”, la traduzione di Pinocchio è diventata un vero e proprio “impegno” per Sanzio. «Quando mi capitava di non sapere come tradurre alcuni passaggi, li lasciavo in sospeso e, appena possibile, mi recavo da persone esperte, che mi hanno dato un grande aiuto perché ormai sape-


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vano della mia “impresa” e c’era una bella sintonia per ricercare le parole giuste». Ma qualche volta gli è capitato di doverne “inventare” qualcuna: «È capitato sì, ma in pochi casi: più che altro dove c’erano concetti filosofici e/o più astratti. Il dialetto si occupa di “vita vera”, di quotidiano e in quel caso ho dovuto rigirare un po’ la frase». L’esempio più eclatante è proprio nel titolo: “Avventura” non è una parola molto popolare. «Quel “aventur” mi ha creato non pochi problemi. I dialetti sono delle vere e proprie lingue, non sono storpiature dell’italiano: hanno la loro grammatica, la loro costruzione della frase e un vocabolario di suoni. Per questo, a volte, è facile individuare i poeti dialettali che non scrivono direttamente in lingua: certi scritti sembrano tradotti dall’italiano perché è difficile trovare il vero “pensiero dialettale”». Eppure sta scomparendo: «È un grande problema questo, che riguarda tutte le lingue minori. Qualche autore di commedie comiche ancora lo mantiene, ma il dialetto è in grado di raccontare tutto, è la conoscenza stessa che l’uomo ha della realtà. La storia ci insegna che ci sono migliaia di lingue scomparse. Prenda l’ebraico: era una lingua morta che con lo stato di Israele è tornata viva, ma col dialetto è più un sogno che una speranza. Non ho conosciuto nessun genitore che ama parlare in dialetto con i propri figli e se non lo facevano i miei, tanti anni fa, si figuri oggi. Lo stesso italiano si sta trovando in difficoltà con l’inserimento di tanti termini in inglese, o in altre lingue, anche dove non ce ne sarebbe necessario bisogno. Le uniche parole nuove che sono state inventate, passano attraverso la tecnologia o il giornalismo.

Pensi che a D’Annunzio è stata attribuita l’invenzione di una sola parola! E l’Accademia della Crusca non ha più, ormai, alcuna autorità». Non ci resta dunque che sfogliare, con un po’ di nostalgia forse, le pagine di “Le aventur de Pinocchi”, pubblicato nel 2015 da edizioni Gema di Camerata Picena, con le magnifiche e poetiche illustrazioni di Bruno d’Arcevia, pittore e sculture di fama internazionale, che con Balducci aveva già collaborato alla realizzazione delle “Battaglie del Metauro e di Sentino”, illustrate con sue acqueforti prodotte dalla Stamperia GF di Urbino. E per chi avesse qualche dubbio, il libro è corredato di un appendice intitolata “Vocaboleri montanares-italien”, per aiutare i lettori a capire meglio i vari passaggi, sia nell’interpretazione delle parole che nella fonetica, nel suono dolce o secco delle consonanti, oltre ad un vero vocabolario che sciolga ogni perplessità sul significato di qualche “oscuro” termine, ormai dimenticato. ¤

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“Il dialetto può esprimere poesia ed è in grado di comunicare ogni sentimento a volte meglio dell’italiano”

Nelle immagini, alcune illustrazioni di Bruno D'Arcevia che corredano il volume in dialetto pesarese


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L di Catia Mengucci

Esposte al Magma Museo le opere di De Poli Innocenti, Rauch Scarabottolo e Venturi In alto, un particolare del mosaico di Venturino Venturi e un'opera di Andrea Rauch

e rocambolesche avventure di Pinocchio sono state illustrate da più di 300 disegnatori e ognuno di questi artisti si è dovuto confrontare “con una storia lunga e complicata”, come la definisce Andrea Rauch, curatore assieme a Lucia Fiaschi, della mostra “Corri Pinocchio corri…” al Magma Museo Archivio Grafica e Manifesto di Civitanova Marche fino al 12 dicembre. Per Rauch, grafico e illustratore, i libri dell’opera collodiana dalla prima edizione del 1883 con le immagini di Enrico Mazzanti fino ad oggi, testimoniano la storia dell’illustrazione italiana. Ma andiamo per gradi. Intanto partiamo dal titolo che è stato scelto per la mostra - “Corri Pinocchio corri”- a sottolineare l’inafferrabilità del burattino che, già nel mentre della creazione ad opera delle mani di Geppetto, si rivela un essere dall’argento vivo addosso. Appena una parte del corpo viene scolpita, emergendo dal ciocco, subito

si muove: gli occhi iniziano a fissare, il naso cresce e si allunga, la bocca ride e sbeffeggia, poi le mani che strappano la parrucca e, non appena piedi e gambe sono formate, ecco che il burattino scappa per la stanza, infila la porta di casa e scappa e da quel momento fino a quando non si troverà nella pancia del pescecane, continuerà a correre per fuggire o per raggiungere qualcosa. Ma l’inafferrabilità di Pinocchio non si riferisce alla sola impossibilità di farlo stare fermo e in un posto, è insita nella storia stessa, perché Collodi non descrive dettagliatamente ma suggerisce, lasciando così grande spazio di intervento a quanti hanno provato a dare vita con immagini al nostro burattino. E’ proprio questa varietà interpretativa che si ritrova nelle opere esposte: cinque autori, cinque stili, cinque mondi completamenti diversi. Aprono la mostra le tavole di Fabio De Poli, realizzate


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Corri Pinocchio, corri Inafferrabile il burattino di Collodi IN MOSTRA A CIVITANOVA LE ILLUSTRAZIONI DI 5 AUTORI CON STILI DIVERSI

per “Il mio primo libro di Pinocchio” del 2005 edito da La Biblioteca Junior, illustrazioni con campiture piatte di colori saturi giocate sul contrasto gestaltico delle figure che si stagliano nettamente dallo sfondo. Il rimando alla tecnica del collage e l’utilizzo di cromie vivaci, scelti come linguaggio per i lettori più piccoli, fermano sul foglio i tratti essenziali della scena - le fiamme rosse dei piedi che stanno bruciando, le figure nere del gatto e la volpe sotto un cielo stellato, la smorfia di tristezza di Pinocchio per il naso che si sta allungando sempre più…- con grande immediatezza visiva ed emotiva. Ad accogliere il visitatore salendo al primo piano sono le opere del curatore Andrea Rauch che, con l’amato burattino italiano si è confrontato non solo come illustratore, ma anche come art director per le celebrazioni del Centenario della pubblicazione delle Avventure; come storico scrivendo a

quattro mani con Valentino Baldacci un testo sui maggiori illustratori del burattino italiani; come ideatore delle scene con Enrico Baj per il suo spettacolo teatrale su Pinocchio e progettando il manifesto per quello di Carmelo Bene. Rauch adotta linguaggi formali diversi per le illustrazioni, pur all’interno dello stesso testo illustrato edito nel 2006 da Nuages, e le caratterizza con policromie complesse e con un fervido dinamismo, siano esse oli o acquerelli. Inequivocabili i personaggi ed è impossibile non riconoscere nel monolite su fondo nero scavato da pennellate multicolori “il burattinaio, un omone così brutto, che metteva paura soltanto a guardarlo. […] La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso…” Di tutt’altro carattere è il Mangiafuoco del terzo artista presente alla mostra, Guido Scarabottolo. Qui l’emblema-

tica lunga e folta barba c’è, come la frusta fatta di serpenti e code di volpe, ma lo sguardo sebbene cupo lascia a chi osserva quasi preludere che alla fine il burattinaio si lascerà intenerire dal burattino che piangeva e non voleva morire e che dimostrò, una volta scampato il pericolo, di avere un cuore d’oro offrendosi per essere bruciato per salvare i suoi amici burattini. I personaggi nel Pinocchio dell’illustratore, edito nel 2010 per Prìncipi e Princípi, sono resi con un segno spoglio ed essenziale e il colore è dato in modo omogeneo che sborda dalla sagoma. E’ un disegno di immagini aperte, che lasciano grande spazio all’interpretazione di chi guarda che rimane attratto, o forse impigliato, nella rete dei tratti di pennino e in un’atmosfera rarefatta e distante, pervasa da un misterioso silenzio. Altro straordinario illustratore che per gran parte della vita si è confrontato con Pinocchio divenendo “il prete-


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Collodi non descrive ma suggerisce lasciando così spazio di intervento a quanti hanno dato vita con immagini al burattino di legno

In alto, Mangiafuoco di Scarabattolo e vicino l'atmosfera da taverna realizzata da Roberto Innocenti Qui sopra un'opera di Fabio De Poli

sto per fare un uomo”- questo affermava- è Venturino Venturi, che incontrò il burattino nel 1953 partecipando al concorso internazionale per un monumento a Pinocchio nel Parco di Collodi. L’artista presentò il progetto, una piazza con le pareti perimetrali in mosaico e al centro una scultura di Pinocchio in bronzo, ma vinse il premio in ex equo con Emilio Greco, al quale fu affidata la realizzazione della scultura. Deluso dall’impossibilità di realizzare la sua opera completa, oppresso dal ricordo della guerra e logorato dall’enorme sforzo fisico e mentale di due anni per realizzare dei 900 mq di mosaici, cadde in una forte depressione dalla quale emerse, guarito, dopo alcuni anni. Le opere esposte al Magma rivelano un’atmosfera sofferente e a tratti angosciosa, le figure sono quasi delle maschere totemiche che si staccano su fondi dai toni inquieti del grigio e del blu narrando le fatiche dell’uomo che incontra le sventure del burattino.

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Roberto Innocenti, il quinto illustratore presente a Civitanova, fa un salto di prospettiva al centro della quale non c’è Pinocchio e, nemmeno i personaggi collodiani, ma il paesaggio del Granducato toscano. Anche Carlo Chiostri, l’illustratore che subito dopo Mazzanti ha disegnato le scene delle Avventure, aveva intuito l’importanza dell’ambiente inserendo il burattino all’interno della vita reale e anche altri artisti hanno proseguito su questo filone, ma la maestria di Innocenti nella definizione dei dettagli fa immergere chi guarda nella scena fino a sentirne gli odori e suoni. Nelle tavole, realizzate nel 1989 per Jonathan Cape Creative Editions, è tutto descritto minuziosamente e chi osserva viene catturato dai caleidoscopici particolari, come nella scena dell’arresto di Geppetto o nello scorcio all’interno della taverna del Gambero rosso, fino quasi a perdere di vista lo stesso Pinocchio, che ancora una volta si rivela inafferrabile. ¤


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Il teatro di Morselli l’anti D’Annunzio I SUOI PERSONAGGI INTIMISTICI LONTANI DAL SUPERUOMO

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di Alberto Pellegrino

Le sue opere contraddistinte da una poetica quotidianità da sentimenti delicati e sottile ironia

gli inizi del Novecento il decadentismo si afferma quando in Italia la scena teatrale è dominata dalla forte personalità di Gabriele D’Annunzio che trasferisce nel suo teatro alcune tematiche dei suoi romanzi attraverso un linguaggio poetico e magniloquente: la componente erotico-sessuale come forma di ribellione contro la società; il sesso come energia dirompente che può superare ogni limite morale; la predilezione per ambienti di esasperata raffinatezza; una religiosità caratterizzata da un forte erotismo; la rappresentazione della donna passionale, feroce e dominatrice dell’uomo; l’esaltazione del Superuomo pronto a violare regole e tabù sociali per affermare la propria superiorità e per conquistare un potere e una grandezza spesso distruttivi. In polemica con il dannunzianesimo si colloca il teatro crepuscolare caratterizzato da una poetica della quotidianità, da una sensibilità fatta di sentimenti intimi e delicati, da una sottile ironia che a volte vira verso il “grottesco”, popolato da eroi problematici, sofferenti e perdenti. Il teatro crepuscolare, rappresentato da diversi autori tra cui il nostro Ugo Betti (Una bella domenica di settembre, Il paese delle vacanze, I nostri sogni), è caratterizzato da un particolare intimismo che “non è una scuola letteraria né un grande movimento di idee […] Con la parola intimismo si è cercato di riassumere la maniera raccolta e pudica con cui vengono espressi i sentimenti e allo stesso tempo evocare gli am-

bienti di grigia e malinconica realtà quotidiana in cui si svolge generalmente l’azione” (Antonio Stauble, Il teatro intimista, Bulzoni, Roma, 1975). Brevi annotazioni biografiche Figlio di un funzionario statale, Ercole Luigi Morselli nasce a Pesaro nel 1882, frequenta la scuola elementare a Modena, poi a Firenze compie gli studi ginnasiali e liceali, s’iscrive alla facoltà di medicina e successivamente a quella lettere senza mai completare la carriera universitaria. Nei primi anni del Novecento stringe un sodalizio letterario con Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini con i quali firma nel 1900 il Proclama degli spiriti liberi, nel quale si sostiene il diritto alla felicità, alla libertà, all’amore, all’arte; si afferma l’opposizione alla schiavitù materiale e spirituale imposta dalla società, il rifiuto della feroce lotta per la vita e della mediocrità intellettuale. Nel 1903 Morselli, insieme al suo amico e drammaturgo Federico Valerio Ratti (1877-1947), parte da Genova in cerca d’avventura sul veliero “Angela”, raggiungendo Città del Capo. Da qui sbarca a Buenos Aires, partecipa a una fallita guerra di liberazione dell’Uruguay e, attraverso il Brasile, ritorna a Buenos Aires per poi approdare in Inghilterra; dopo avere soggiornato a Londra e a Parigi, ritorna a Firenze nel 1904. In cerca di lavoro Morselli si trasferisce a Roma dove inizia a svolgere un’attività


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Morselli considerato uno dei maggiori esponenti del teatro crepuscolare dove fama e ricchezza non sono altro che dolorose vanità

70 giornalistica e letteraria con notevoli difficoltà economiche. Nel 1907 sposa Bianca Bertucci che resterà fino alla fine la sua compagna. Lavora anche per il cinema come impiegato e comparsa; poi tra il 1914 e il 1916 dirige la “Santoni Films” e scrive diversi soggetti cinematografici. Nel 1916 cura insieme a Ugo Falena la regia del film Effetti di luce (tratto da un soggetto di Lucio D’Ambra), che non incontra i favori né del pubblico né della critica. Cerca di affermarsi come narratore e pubblica alcune raccolte di racconti: Favole per i Re d’oggi (1909), la novella La donna-ragno (1915, considerata il primo esempio di fantascienza in Italia), Storie da ridere…e da piangere (1918), Il “Trio Stefania” (1919), Favole e fantasie (1928), L’osteria degli scampoli ed altri racconti (1936). Ma la sua vera vocazione è il teatro e nel 1910 la tragicommedia Orione viene rappresenta con successo nel Teatro Argentina di Roma. Nel 1919 Glauco va in scena e riscuote il consenso del pubblico e della critica e con il grande successo arrivano i primi vantaggi economici purtroppo tardivi, perché Morselli, minato dalla tubercolosi, si ammala gravemente e muore il 16 marzo 1921. Il teatro “intimista” di Ercole Luigi Morselli

Sopra e a destra due ritratti d'epoca di Ercole Luigi Morselli Sopra, una scena dello spettacolo tratto dai testi teatrali di Glauco (Foto Massimo Avenali)

Ercole Luigi Morselli, pur essendo apparso come una fragile e luminosa meteora nel panorama teatrale italiano del primo Novecento, va considerato uno dei maggiori esponenti del teatro crepuscolare, perché le sue opere teatrali sono contrassegnate da un “disarmato candore”, da atmosfere antieroiche e intimiste, da un linguaggio lirico ma non verboso, da atmosfere sognanti, nostalgiche e fortemente emotive, a

volte accompagnate dal gusto per l’ironia e il grottesco. Una cifra originale è costituita da una rivisitazione del Mito fondata su sentimenti umani e sul rifiuto di una esasperata esaltazione dell’eroe. I personaggi mitologici di Morselli presentano limitazioni, pulsioni, sofferenze molto terrene, conoscono la morte, conquistano l’immortalità per concludere che la fama, la ricchezza e l’invincibilità non sono altro che dolorose vanità. Il suo “teatro di poesia” nasce da un sapiente dosaggio di raffinato lirismo, da una capacità di coniugare nostalgia e malinconia, ironia e satira, voglia d’avventura e desiderio di gloria senza cadere nei toni declamatori e retorici propri del teatro dannunziano. Lo stesso mito del viaggio-liberazione presenta una nuova concezione del nostos di Ulisse. A differenza del modello dannunziano, il sogno d’avventura dell’eroe di Morselli inteso come ricerca di se stesso e scoperta di un “altrove” che sta sempre oltre l’orizzonte; è segnato dalla sofferenza e da una spiritualità interiore, per cui il suo ulissismo è più vicino all’Ulisse di Pascoli che nell’ultimo viaggio vede svanire le illusioni e le passioni del passato per morire sulle rive di Ogigia avvolto dalle lacrime di Calipso. L’amore per il mare e per il viaggio, inteso come “iniziazione”, come esplorazione del mondo e del proprio io, consentono a Morselli d’inventare degli eroi diversi dal Superuomo dannunziano e dall’eroe “maledetto” d’ispirazione decadente: sono personaggi che scoprono quanto sia inutile la ricerca della gloria, del potere, della ricchezza, persino dell’immortalità rispetto ai valori della famiglia, dell’amore e della fedeltà.


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Le opere teatrali minori Morselli fa il suo esordio in teatro con Acqua di fuoco (1906), una “commedia moderna di carattere pastorale”, nella quale rivisita il mito della natura, dove si consumano gli amori della pastorella Oliva e del marinaio Leopoldo in quel mondo racchiuso tra gli Appennini e il Mare Adriatico, particolarmente caro all’autore. Segue il dramma Una croce tarlata, che ha come protagonista il mare visto come uno strumento del Fato. I protagonisti sono il pescatore Brogio oppresso dai sensi di colpa per avere abbandonato la fidanzata e sposato una donna che non amava, che corre sul mare alla ricerca di una innocenza perduta; suo figlio Memmo che scompare in mare condannando alla solitudine la fidanzata Chiara; l’altro figlio Baldaccio ucciso in duello rusticano dall’amante della fidanzata

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Orsola. Il personaggio più originale e più tragico è Orsola che vaga per il cimitero e sulla spiaggia in preda alla pazzia per avere scatenato un dramma di sangue e di peccato, divenendo il capro espiatorio di un’intera comunità che scarica sopra di lei i suoi sensi di colpa. Nel 1911, dopo l’atto unico di scarso rilievo Il domatore Gastone, Morselli scrive Le nozze d’oro, una “commedia borghese” dove si avverte la presenza di alcuni elementi crepuscolari propri di una poetica divisa tra esaltazione dei sentimenti e senso ironico della vita. I protagonisti sono donne fatali e ammaliatrici, giovani posseduti dal demone del gioco, aspiranti artisti, uomini di mare che finiscono per essere travolti dalle loro passioni. I due personaggi principali, Libero e Alda, alla fine accettano il crollo delle loro illusioni in cambio di una nuova speranza: “Dobbiamo compatirci l’un l’altro […] il volo di una chimera ci

I due grandi elementi del migliore teatro crepuscolare morselliano sono l’avventura e il mare


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Morselli trasferisce nell’opera Orione la sua delusione per la vita la sua speranza di sopravvivere attraverso l’arte

72 ha accecati […] abbiamo bisogno di pietà tutti e due”. La prigione (1911) è un “dramma borghese” in cui tornano a incrociarsi amori contrastati e falliti, il demone del gioco, il crollo dei valori tradizionali che portano i due protagonisti verso il suicidio (Romano) e la pazzia (Luisa). Assenti di due grandi elementi del migliore teatro morselliano (il mare e l’avventura), i temi crepuscolari sono legati al mondo agreste dove si conduce un’esistenza velata di malinconia e tormentata dal desiderio di un impossibile sogno di felicità. Nel 1912 Morselli scrive Dafni e Cloe, una commedia pastorale ispirata al romanzo di Longo Sofista, carica di atmosfere fiabesche e percorsa da una delicata vena poetica che termina con il trionfo del contrastato amore tra un pastore e una ninfa, inteso come gioia di vivere, ardente passione e appagata sensualità. Contenuti e caratteri delle maggiori opere

Sopra, due volumi dell'epoca con gli scritti di Morselli A destra un'immagine di scena dello spettacolo "Glauco" (Foto Massimo Avenali)

Orione (1910) è l’opera teatrale che segna il successo di Morselli sulla scena italiana tanto da riceve il premio di migliore lavoro drammatico del 1912. In questa tragicommedia l’autore usa la satira come forma espressiva più congeniale al suo temperamento in un climax crepuscolare, nel quale si fondono ironia, poesia e pessimismo, ma dove è presente anche la vena ironica di Favole per i re d’oggi, un “bestiario morale” nel quale gli animali diventano la metafora delle virtù e dei vizi umani. In questa rilettura del Mito confluiscono l’amletismo, l’ossessione del tempo che fugge, l’ebrezza dionisiaca del sesso e del cibo e Morselli entra in un “campo problematico aperto, a rischio, dove la cultura moderna preferibilmente disegna la

sua vocazione più intimista, più riflessiva, più scavata” (Marcello Verdenelli, Il gioco mitologico dell’Orione, Studia Oliveriana, Pesaro, 1994). Orione è un gigante bellissimo, un grande guerriero e cacciatore, un conquistatore di ninfe e di belle mortali. Quando rapisce un’ancella di Diana, suscita la gelosia e l’odio della dea che preferisce uccidere la ninfa pur di non farla godere all’eroe. Enopione, re di Chio, per liberare l’isola dalle fiere, assolda il gigante che chiede in cambio la mano della principessa Merope che si rifiuta di sposarlo. Orione si vendica violentando la regina sua madre, ma ora Merope si è invaghita dell’eroe e vuole sposarlo. Si celebrano le nozze e s’inneggia alle gloriose imprese dell’eroe, quando giunge la notizia che Diana ha inviato sulla terra un terribile mostro, ma tutti scoppiano a ridere quando compare uno scorpione e invitano lo sposo a risparmiare la vita del “mostro”. Orione, con la solita fede nella sua invincibile forza, invita l’animale a baciargli il piede in segno di sconfitta, ma lo scorpione gli inietta un veleno mortale. Dopo avere compiuto straordinarie imprese e sconfitto terribili nemici, il grande Orione muore per la puntura di un piccolo insetto inviatogli dalla Madre Terra che ha voluto punire la sua arroganza e la sua gioia di vivere. L’eroe chiede al padre Giove di essere trasformato in una costellazione: “Dammi il governo delle nubi e delle bufere … Io mi affaccerò sul mare per vedere le ultime vendemmie …e non appena le vedrò finite, su leverò la mia spada, spaventosamente alta, sopra la terra briaca … e incomincerò la mia vendetta! Madre beffarda…Nelle tue profonde ferite voglio contentare la mia sete, ridendo!”. Morselli trasferisce in


Il drammaturgo

Orione la sua delusione per la vita, la sua speranza di sopravvivere attraverso l’arte: “Orione sarà colpito nel suo debole tallone umano da un scorpioncello velenoso; la sua forza e la sua bellezza si dissolvono nel nulla, come sagome caduche, illusioni passeggere. Sopravviverà la sua parte divina, si trasformerà in una costellazione fulgida, fissa ed eterna. E’ la metafora, la vittoria dell’arte sulla vita? E’ la sfida della poesia di Morselli alla vita che brevissima scorre e si dissolve?” (Vincenzo Consolo). Nel 1919 Morselli scrive il Glauco, un dramma ispirato alle Metamorfosi di Ovidio che può essere considerato il capolavoro. In esso troviamo una particolare rilettura del Mito e un mondo fiabesco, un desiderio di gloria e una malinconia crepuscolare. La vicenda si svolge in Sicilia, ma in realtà Glauco vive sul mare e per il mare, quell’Adriatico che Morselli ha sempre amato e che egli descrive nella prima scena: “Una secca scogliera bianca. Un gran Mare nero che sospira, leccandole i fianchi. Un Cielo fitto di stelle che guarda ammiccando, or con l’uno or con l’altro dei suoi mille occhi”. E’ il mare materno di Pesaro, sono le acque limpide e le bianche scogliere del Conero con quel suo litorale frastagliato, tormentato e carico di pathos che suscita l’amore di Morselli sa cogliere l’anima delle Marche, lo spirito di “un mare e una terra che avevano nutrito la sua fantasia, lanciandolo in un’avventura breve e intensa, a un tempo poetica, geografica e profondamente umana” (Peris Persi, Lungo il mare dannunziano. Le Marche nella transizione al Novecento tra geografia e letteratura, Studi Urbinati, 1994). La vicenda si apre con il canto delle Sirene che cercano di ammaliare Glauco,

73 il quale resiste al richiamo di queste “maestre d’inganni”, perché vuole conquistare la gloria e la ricchezza per sposare la bellissima Scilla. Glauco “vuole il mare infinito, vuole la libertà infinita… vuole il mondo, vuole il sangue, vuole l’oro, vuole la morte, vuole la vita, vuole l’Olimpo”, ma soprattutto vuole Scilla, il “fiore dei fiori! Stella delle stelle!”. Carico di fama e di ricchezza, egli arriva nella reggia di Circe che rimane affascinata dalla bellezza di Glauco con il quale ingaggia un duello, essendo abituata a domare “l’infantile superbia degli eroi”. Ma Glauco è astuto e, fingendosi ubriaco, riesce a strappare alla dea con

un bacio e con un amplesso il dono dell’immortalità. Ora che ha realizzato il suo sogno più grande, gli sembra di sentire la voce di Scilla che lo chiama e lo implora di tornare. Allora rifiuta ridendo le profferte d’amore di Circe e fugge su una zattera per ritrovare la donna amata, ma la maga colma di odio toglie dalle mani delle Parche il filo della vita di Scilla e la uccide (“Io te l’ho spezzata! Glauco!

Il suo capolavoro è “Glauco”, rilettura particolare del Mito e del mondo fiabesco desiderio di gloria e malinconia


Il drammaturgo

È il mare paterno di Pesaro e le bianche scogliere del Conero con il suo litorale carico di pathos che suscitano l’amore di Morselli

In alto, un ritratto di Morselli in versione avventuriero

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Tu non riderai più!”). Al suo arrivo Glauco apprende che Scilla è morta e maledice la sua immortalità che non gli consente di seguire la fanciulla nell’aldilà, per cui ordina ai pescatori di legare con una catena d’ancora il suo corpo a quello di lei e di gettarlo nelle profondità marine da cui emergono le sue parole finali: “Potesse almeno il mio pianto essere udito nel frastuono dei mortali! Potesse il profumo del cuore di Scilla salire su nel mondo e penetrare in ogni petto d’uomo”. L’ultimo lavoro di Morselli è Belfagor (1920), una commedia di tipo fiabesco-umoristico, ispirata alla celebre novella di Machiavelli, nella quale racconta le vicende dell’arcidiavolo Belfagor spedito da Satana sulla terra per verificare quanti uomini finiscono all’inferno per colpa delle mogli. Il diavolo sposa la bella ma superba Onesta Donati, la quale rende la vita impossibile all’arcidiavolo, costringendolo a ritornare all’Inferno per sfuggire al

“giogo matrimoniale”. Il diavolo di Morselli, che nell’Inferno è il “capo di tutto il reparto di donne”, è un personaggio caricaturale e patetico, un specie di miles gloriosus incapace di azioni eroiche e vincenti, maltrattato e ridotto alla disperazione da una giovane donna. Fuggito dall’aldilà per vedere se esistono ancora donne oneste da sposare, Belfagor chiede aiuto al farmacista del paese Mirocleto, un ubriacone immorale, avido di denaro e con tre figlie da maritare. La scelta cade su Candida che è innamorata di Baldo, un povero falegname partito per la guerra contro i Saraceni nella speranza di guadagnare il denaro sufficiente per acquistare una casa e farne il nido d’amore per la sua Candida. La ragazza è però costretta dal padre a sposare il ricco Belfagor, ma si tratta di un matrimonio “in bianco”, perché non consente al marito di toccarla e, quando il diavolo compra dal padre un bacio per duemila ducati, lei reagisce a morsi e il diavolo pensa che sia posseduta dal demonio. Baldo, ritornato dalla guerra, apprende che Candida si è sposata e Belfagor, travestito da mendicante, lo avvicina per insinuare il dubbio sulla sua purezza. Baldo si convince della illibatezza di Candida che giura “sul Cristo crocifisso che sono qual m’hai lasciata!”. I due fidanzati si possono sposare dopo l’annullamento del precedente matrimonio, mentre Belfagor, di nuovo scapolo, non intende ritornare all’inferno, ma avverte “i signori padri” che ha ancora voglia di prendere moglie. ¤


La storia

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Marche e Polonia pagine di solidarietà NON SOLO COMBATTIMENTI NEGLI ANNI DELLA GUERRA

P di Claudio Sargenti

oteva essere ricordato come uno dei tanti episodi di quella sciagurata guerra che per sei lunghi anni nella prima metà del Novecento insanguinò il Mondo intero sconvolgendo anche il nostro Paese. Storie legate alla guerra di liberazione certo, ma pur sempre storie di battaglie, lutti e rovine. E invece il II Corpo d’Armata polacco, strutturato sul modello dell’esercito britannico, ma con supporti di artiglieria, carri armati e altri servizi logistici non presenti nel corpo di spedizione inglese, non solo fu l’artefice della liberazione delle Marche dai nazisti, ma scrisse anche pagine di solidarietà, convivenza pacifica e

to delle truppe impegnate nell’assalto da est alla cosiddetta linea Gotica. Alle Marche, pur nella tragedia della guerra, non solo furono risparmiate ben altre umiliazioni toccate ad altre parti d’Italia: un esempio per tutti il Lazio e la Ciociaria “liberate” da ben altri corpi di spedizione sempre al seguito degli Alleati, ma i polacchi dimostrarono umanità e solidarietà con la gente con la quale entrava in contatto. Gli uomini, sapientemente guidati dal generale Wladyslaw Anders, trovarono con i marchigiani momenti di vicinanza anche umana, difficilmente immaginabili durante un periodo bellico, tanto che molti di loro si fermarono poi a vivere nella nostra regione, sposando e mettendo su famiglia con molte ragazze e donne marchigiane, impegnandosi nel lavoro, contribuendo in qualche maniera anche nella difficile fase della ricostruzione. L’impegno in guerra del Corpo polacco

civile con le popolazioni liberate. Ai soldati polacchi desiderosi di riscattare la madre patria vessata da anni di dominazioni, angherie e soprusi, venne affidato, lo ricordiamo, dagli alleati Anglo-Americani il compito di liberare la dorsale Adriatica e in particolare di prendere il porto di Ancona, località logistica di primaria importanza per il rifornimen-

All’epoca degli eventi nelle Marche gli effettivi del II Corpo d’Armata polacco ammontavano a circa 43 mila uomini. Si trattava di una unità composta da due divisioni di fanteria (3° fucilieri dei Carpazi, 5^ Divisione Kresowa), e poi truppe di supporto (artiglieria, servizi, esploratori) e dalla 2^ Brigata corazzata dotata di carri armati Sherman e Stuart. C’è anche un attivo “Servizio Ausiliario Femminile” per garantire i compiti nella sanità, nelle trasmissioni e nei trasporti. Con i polacchi collaborarono


La storia

Al II Corpo d’Armata polacco venne affidato il compito di liberare il porto di Ancona sito strategico

Sopra, il generale Wladyslaw Anders e in basso i combattimenti che hanno visto in azione il secondo corpo d'armata polacco a cui è stata intitolata la porta Santo Stefano ad Ancona (foto in alto) Di seguito due reduci durante la celebrazione della messa al cimitero polacco a Loreto Sotto, il ministro Kasprzyk e l'ambasciatrice Anna Maria Anders figlia del generale

76 nella campagna delle Marche, il Corpo Italiano di Liberazione (forte di 25 mila uomini) il 7mo Reggimento Ussari britannico e i partigiani della “Brigata della Maiella”, composto da 400 uomini. I Comandi Alleati assegnarono, appunto, al II Corpo la conquista del porto di Ancona allo scopo di poter disporre di una base logistica avanzata necessaria per rifornire le truppe impegnate nello sfondamento a nord del fronte. La città verrà presa con una manovra di aggiramento condotta dal territorio di Osimo, attraverso Polverigi e Agugliano e dalla foce dell’Esino con intensi combattimenti specie nella zona di Torrette e di Camerata Picena. La presa di Ancona, avvenuta il 18 luglio 1944, costituì un notevole successo per gli Alleati, perché il porto entro pochi giorni, fu messo in grado di funzionare e quindi, di far sbarcare materiale bellico, viveri e carburante e fruttò al generale Anders e alle sue truppe un encomio solenne da parte dell’Alto Comando Alleato e dallo stesso Re della Gran Bretagna. Si è trattato di una battaglia di fondamentale importanza per i polacchi, essendo stata l’unica, grande operazione condotta in Italia in modo pressoché autonomo. I polacchi in questa campagna non solo diedero prova di maestria e di grande capacità bellica, ma dimostrarono concretamente agli occhi del mondo la voglia di riscatto del loro Paese schiacciato dalla dominazione straniera. Purtroppo però, di lì a poco, gli accordi di spartizione del Mondo operato dai tre Grandi, soffocarono ancora la voglia di libertà della Polonia. Come si diceva, polacchi, alleati, partigiani e volontari combatterono fianco a fianco per riaffermare anche dalle nostre Marche i valori della libertà e della democrazia.

Le imprese belliche del Corpo polacco proseguirono anche dopo la liberazione di Ancona. Dal 19 al 22 agosto la battaglia del Metauro è considerato il combattimento più accanito affrontato in terra marchigiana. Il 25 agosto poi, parteciparono con gli Alleati all’attacco alla stessa “linea gotica”. Con il mese di settembre l’impegno operativo delle truppe polacche si concluse non dopo aver liberato, però, Pesaro e Gradara. Ad ottobre furono trasferite in Emilia Romagna. La presenza dei Polacchi in terra marchigiana Dicevamo che la presenza del II Corpo polacco ha lasciato numerose tracce e ricordi sicuramente positivi nella regione. E chi scrive queste note ne è stato testimone diretto. Ero ancora bambino quando ho accompagnato più volte la mia famiglia a trovare un polacco, un sergente se non ricordo male, un reduce di quelle battaglie, che era rimasto a vivere dalle nostre parti. Si era sposato con una giovane maceratese ed aveva finito per restare, mettendo in piedi un’azienda agricola dalle parti di Montecassiano. Parlava ancora male la nostra lingua ma aveva deciso di fare dell’Italia la sua seconda patria. Non ricordo quando e perché si era conosciuto con la mia famiglia. So solo che erano diventati amici. Ho sempre pensato che a mio padre lo accomunava il fatto che da giovanissimi, una guerra rovinosa e sciagurata, aveva rubato loro gli anni più belli della giovinezza (mio padre rimase per anni prigioniero degli inglesi in Libia). Il polacco, purtroppo non ne ricordo il nome, dopo aver combattuto per la libertà in terra straniera, si era fermato nel Maceratese, aveva trovato accoglienza e ospitalità nella nostra regione, aveva messo su famiglia, trovato nuovi, inaspettati,


La storia

amici. Aveva preferito restare che tornare in una Patria che doveva ancora attendere purtroppo decenni prima di ritrovare l’agognata libertà. E lui non è stato certo l’unico che ha seguito questa strada e ad aver fatto questa scelta di vita. Mantenere vivo il ricordo “La libertà è un sogno e l’indipendenza è un dono”. Sono le parole pronunciate dal ministro Jan Jozef Kasprzyk, capo dell’Ufficio per i veterani e le vittime dell’Oppressione di Guerra, in occasione delle celebrazioni del 18 luglio di tre anni fa per ricordare la liberazione della città e del porto di Ancona, che più di ogni altro spiegano i motivi della vicinanza del popolo polacco alla gente marchigiana. Sono tante e si rinnovano tutti gli anni le manifestazioni e le cerimonie di solidarietà e di amicizia tra i due popoli che si tengono per iniziativa dell’Associazione Italo-Polacca delle Marche, in stretta collaborazione con il Consolato Onorario di Ancona della Re-

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pubblica di Polonia. Ricordiamo quelle di Loreto e Ancona. Il 17 luglio a Loreto, la commemorazione ha luogo nel Cimitero Militare all’ombra della Basilica che custodisce la Casa della Santa Famiglia di Nazareth, con la Madonna gemella di quella polacca di Chestochowa. Nel capoluogo invece, si tiene forse quella più solenne: al Corpo di spedizione polacco è stata intitolata la porta Santo Stefano e dal 2007 il Consiglio Comunale ha deliberato di riconoscere il 18 luglio Giornata della Liberazione di Ancona. Anche quest’anno alla manifestazione è intervenuta oltre al ministro Kasprzyk, Anna Maria Anders, figlia del generale che liberò la città e plenipotenziaria del Presidente per il Dialogo Internazionale. Presenti oltre al Prefetto, numerose Autorità civili, militari e religiose. E poi, ancora, a Potenza Picena, Filottrano, Offagna (che ospita il Museo della Battaglia) Civitanova Marche, Senigallia fino a Colli al Metauro. E poi, convegni, mostre fotografiche, incontri, spettacoli teatrali e concerti. Dal

Gli uomini del generale Anders trovarono con i marchigiani momenti di vicinanza umana e molti si fermarono qui


La storia

Molte le cerimonie di amicizia tra i due popoli Alla spedizione polacca intitolata ad Ancona la Porta Santo Stefano

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2015 operano anche le aule ‘Anders’ di lingua e cultura polacca, diventate nel frattempo tre (a Macerata, Perugia e Ancona) frequentate da più di 90 alunni (di età compresa fra i 3 e i 18 anni) con 11 insegnanti qualificate. “Perché una nazione che perde la memoria non è una nazione, ma solo un gruppo di persone. E’ su questo ricordo – ha concluso il suo intervento il ministro Kasprzyk riprendendo e condividendo le parole pronunciate dal sindaco Valeria Mancinelli alla cerimonia di Porta Santo Stefano – che stiamo costruendo le basi del futuro”. Nel 2023, in occasione dell’80esimo Anniversario della liberazione di Ancona e delle Marche, sono previste cerimonie particolarmente solenni. L’Ambasciatrice cresciuta in esilio

Due immagini d'epoca della presenza polacca durante la liberazione

A proposito delle celebrazioni, ci piace riportare l’intervento dell’Ambasciatrice della Polonia in Italia, Anna Maria Anders, figlia di quello stesso generale che contribuì alla liberazione delle Marche, intervento pronunciato proprio ad Ancona. Le sue parole, più di ogni altre, raccontano il senso della presenza dei polacchi nella nostra regione. “Nei combattimenti sul fronte adriatico, la fratellanza d’armi italo-polacca raggiunse la massima espressione. E quella stima e la reciproca riconoscenza sono vive anche oggi. Voglio ricordare che tra le strutture del II Corpo d’Armata Polacco vi erano settori per l’istruzione, stampa, cultura e teatro. Di quest’ultimo faceva parte mia madre Irena. Il lungimirante progetto

del generale Anders, voleva offrire ai soldati le possibilità per un futuro dopo la Guerra. Sappiamo anche, che la sorte riservata ai combattenti del II Corpo d’Armata Polacco li aveva privati del ritorno in Patria e condannati all’esilio. Io sono cresciuta tra di loro. Pertanto, ribadisco l’importanza della Memoria, e della forza che ne deriva per costruire un futuro di pace. Forte della amicizia che unisce i nostri popoli, auguro ogni prosperità alle nostre nazioni sorelle”. Le fonti storiche Per ricordare le imprese e le gesta del II Corpo d’Armata polacco ci siamo avvalsi, necessariamente, di testi e di ricerche storiche. La documentazione per approfondire gli eventi che hanno riguardato le Marche nel periodo 194347 sono state portate avanti dall’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione delle Marche. Fondamentale la ricerca compiuta dallo storico Giuseppe Campana autore di due Quaderni del Museo della Liberazione di Ancona. Le memorie del generale Wladyslaw Anders (“Memorie 1939-1946. La storia del II Corpo polacco” Bacchilega Editore. Un bellissimo volume di storia e non solo), insieme ad altri libri in italiano e in inglese circolano capillarmente specie dopo l’ingresso della Polonia nell’Unione Europea avvenuto il 1° maggio 2004. Per ulteriori approfondimenti sul territorio, opera l’Associazione regionale aipmarche@gmail.com in collaborazione con il Consolato Onorario di Ancona. consolatopoloniamarche@ gmail.com. ¤


Fondazione Guazzugli Marini

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Biblioteca di Pergola di eccezionale interesse LA PRIMA NELLE MARCHE CON QUESTO RICONOSCIMENTO

L di Rosangela Guerra

Un patrimonio di 6.500 volumi di cui oltre 4.000 ceduti al Comune dal monastero di Fonte Avellana

a Fondazione Biblioteca Guazzugli Marini di Pergola è un ente morale riconosciuto con Decreto del Presidente della Repubblica n. 1624 del 22 ottobre 1964, iscritto al n. 22 del Registro delle Persone giuridiche tenuto dalla Prefettura di Pesaro e Urbino che espleta attività di monitoraggio e vigilanza su di essa, come previsto dallo Statuto dell’Ente. Con Decreto Prefettizio del 14.05.2020, prot. n. 35842, la Prefettura, visto che la Fondazione risultava priva di regolare e formale compagine gestionale, ha decretato la costituzione del nuovo Consiglio di Amministrazione di cui fa parte anche la Soprintendenza archivistica e bibliografica delle Marche. La biblioteca, di proprietà della Fondazione, è costituita da un patrimonio di 6500 volumi circa, di cui oltre 4000 circa già appartenenti al monastero di Fonte Avellana e ceduti al Comune con tutti quelli degli altri vicini monasteri, oltre che di 500 incunaboli e cinquecentine circa, che copre un arco cronologico che va dalla fine del XV secolo al XX secolo, con 3000 volumi circa di periodo precedente al 1831, e altri 3000 volumi circa di epoca successiva, conservato all’interno del palazzo nobiliare Guazzugli Tarducci, sito in Corso Matteotti n. 39 a Pergola (PU). Si tratta di una raccolta bibliografica di grande rilevanza per la storia locale, nazionale e internazionale, in quanto al suo interno annovera diverse edizioni rare e poco censite, soprattutto

di incunaboli, rilevanti dal punto di vista filologico, oltre che per gli ambiti tematici trattati, quali il diritto e la medicina, quindi importanti per la storia dell’editoria, della cultura e della scienza medica, per questo la Soprintendenza archivistica e bibliografica delle Marche, nella persona del Soprintendente, dott.ssa Maula Sciri, l’ha dichiarata di eccezionale interesse culturale, con decreto n. 5/2021, ai sensi degli artt. 13 e 14 del decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 ss.mm.ii. E’ il primo provvedimento di questa natura che riguarda una biblioteca marchigiana. La biblioteca Guazzugli Marini prende origine dall’importante libreria donata alla città di Pergola, dal cavaliere Alessandro Marini “nel desiderio che la volontà dello studio non trovasse mai ostacolo nella mancanza di libri ” con testamento del 13 giugno 1718, redatto dal Notaio Fulgenzio Merlina. Il cavaliere Marini ordina, quindi, che con i suoi libri venga realizzata una biblioteca ad uso pubblico concedendo a tal proposito un locale provvisto di scaffali, e assegnando una somma annua per affrontare le spese necessarie. La biblioteca fu aperta la pubblico nel 1737 con il bibliotecario Carlo Guazzugli Marini. Il patrimonio bibliografico più numeroso è costituito da testi editi nei secoli XVI-XVIII, ed è composto per la maggiorparte da cinquecentine, consistenti in numerose collezioni soprattutto negli ambiti tematici di di-


Fondazione Guazzugli Marini

La biblioteca prende origine dall’importante libreria donata alla città di Pergola dal cavaliere Alessandro Marini

Nella pagina precedente l'ingresso della biblioteca Guazzugli Marini e in alto la targa segnaletica Sopra, due immagini degli interni

ritto e medicina, con una vastissima scelta di autori e commentatori italiani e internazionali, in edizioni di pregio di tipografie italiane ed europee. Numerosi sono anche gli incunaboli, che sul piano filologico costituiscono la parte più preziosa del patrimonio, in quanto si tratta di edizioni spesso rare e poco censite. Ben presenti sono anche gli ambienti tematici di letteratura e storia. Da segnalare la collezione di opere di poesia “Il Parnaso italiano”, pubblicata a fine Settecento da Zatta a Venezia, che fu, prima dell’Ottocento romantico che sancì la perdita di centralità della letteratura italiana nei confronti di quelle europee, il grande e riuscito tentativo di una summa dello splendore letterario italiano che dominò il mondo, dalle origini dantesche sino all’Arcadia settecentesca dei libretti d’Opera di Metastasio. Di grande interesse, inoltre, sono i volumi di Ludovico Antonio Muratori, massimo storico ed erudito italiano vissuto nel periodo di fondazione della biblioteca, in edizioni originali dell’epoca. Sono altresì presenti numerose altre monografie come gli Annales Ordini Sancti Benedicti di Jean Mabillon e la Storia dell’augusta abbazia di San Silvestro di Nonantola di Girolamo Tiraboschi. La biblioteca comprende anche gli originali unici di Storia locale, come Memorie istoriche di Pergola e degli uomini illustri di essa di Egidio Giannini, nonché la

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successiva diatriba con l’eugubino Luca Antonio Gentili. Di grande importanza didattica anche l’Encyclopedie di Diderot e d’Alembert, l’opera fondamentale dell’Illuminismo, posseduta dalla biblioteca non nella prima edizione, ma in una ristampa delle Società Tipografiche di Berna e Losanna di un anno posteriore a quello della conclusione dell’opera originale. Notevoli, infine, gli atlanti e il patrimonio cartografico antico che, al pari delle antiche illustrazioni anatomiche contenute nei libri di medicina, hanno un forte valore didattico in una prospettiva di Storia della cultura e della scienza. La ricca collezione libraria, mai catalogata, rappresenta per gli studiosi un punto di riferimento importante con riflessi culturali sulla vita della stessa città, rappresentando un‘importantissima testimonianza storica e culturale locale, considerati anche i numerosi libri antichi, che le conferiscono e ne accrescono rarità e pregio. Grazie alla dichiarazione di eccezionale interesse culturale, infine, la fondazione può accedere ai finanziamenti pubblici dedicati ai beni culturali; entro il 2021, infatti, saranno stanziati dalla Direzione Generale Biblioteche e Diritto d’Autore fondi per un intervento di depolveratura e legatura, che si auspica possa essere foriero di ulteriori interventi, che vedano coinvolte tutte le istituzioni interessate, al fine di rendere fruibile e valorizzare adeguatamente questo notevole patrimonio. ¤


L’aneddoto

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La pelliccia di lupo e Anna Magnani DOPO IL TEATRO L'ATTRICE CHIESE AIUTO A VALENTINI

B di Walter Valentini

L’attrice indossava un abito di scena: “Aò Waltere accompagnami in albergo così mi piano per una battona”

Anna Magnani la famosa attrice premio Oscar

ina Cardile era una donna eccezionale. Spiritosa, intelligente, ironica, esuberante, grande giocatrice di poker. Come tale aveva un sacco di amicizie, e anche io ho avuto la fortuna di farne parte. Bina era una grande appassionata di teatro e anche in questo ambiente conosceva tanti, se non tutti, tra cui anche Anna, Anna Magnani. Quando si esibiva in teatro, a Milano, Bina la seguiva ovunque. E Anna chiedeva a lei tanti consigli, soprattutto per i costumi di scena. In occasione della rappresentazione della “Lupa”, tratta da una novella di Giovanni Verga, la scelta cadde su una imponente pelliccia di lupo nera, lunga fino ai piedi. Lo spettacolo era al Teatro Manzoni, e la Magnani recitò quasi un monologo che durò poco meno di due ore. Era un testo molto impegnativo ma adattissimo all’attrice romana che interpretò con tutta se stessa. Fu un successo, e le repliche dello spettacolo si protrassero nel tempo. Dopo lo spettacolo, la troupe degli attori era abituata ad andare a cena in un pic-

colo ristorante, non lontano dal teatro. Una sera, insieme a Bina, c’ero anch’io e per buona parte della serata parlai con Anna, anche lei spiritosissima, intensa e acuta. Dopo un’ottima cena, le ore si erano fatte quasi piccole e Anna, per la fame, era uscita dal teatro senza nemmeno cambiarsi, con addosso la sua pelliccia di lupo. A un certo punto, mi fissò negli occhi e con la mano mi fece cenno di avvicinarsi a lei. Poi, mi sussurrò all’orecchio: “Aò Waltere, nun è che mi accompagni all’albergo qua vicino? Perché se mi vedono accusì, mi piano per una battona!”. Io la guardai da capo a piedi, feci un sì con la testa, accompagnato da un timido sorriso. Le feci un piccolo inchino e con la mano indicai la porta del ristorante. Arrivammo tranquilli, senza nessun commento da parte di alcuno, a parte grandi e incuriosite occhiate. La Lupa ritornò nella sua tana e, poco dopo, fu la prima interprete italiana, nella storia degli Academy Awards, a vincere il Premio Oscar come migliore attrice protagonista. Che grande persona! ¤


Il progetto

I portici de j’archi riò di storie e di storia IL QUARTIERE DI ANCONA AFFACCIATO SUL PORTO È IN FASE DI RISANAMENTO

S di Roberto Petrucci

Sorto agli inizi dell’800 si è sviluppato nel tempo come realtà popolare e multietnica

ergio Anselmi e Pierre Cabanes si sono posti il problema di quale siano state le caratteristiche dell’uomo dell’Adriatico, di quali valori e di quali culture fosse portatore. Pierre Cabanes nella sua “Storia dell’Adriatico” sostiene che il nostro mare per alcuni secoli fu l’incontro di diverse culture: Cattolici, Ortodossi, Mussulmani, Ebrei e di diverse etnie: Greci, Albanesi, Slavi, Italiani. Secondo lo storico francese la città di Ragusa era il miglior esempio di questo rapporto. Anselmi in “Storie di Adriatico” ce ne dà un esempio nell’elenco dei mercanti che vengono a rendere omaggio a Selim Mustafa a bordo del “Mehemed Ali”, giunto a Senigallia dalla costa Dalmata per la fiera della Maddalena: ebrei, greci, siriani, turchi e ragusani. In “Storie di Adriatico” Anselmi ci offre un vivace quadro della gente dell’Adriatico. In “Ultime storie di

Adriatico” avanza l’ipotesi che l’Adriatico come luogo di incontro di etnie e di culture, non esiste più. Il pessimismo del grande storico di Senigallia acquista una luce diversa se lo osserviamo da Ancona seduti in uno dei tavolini dei bar sotto “j’archi” di via Marconi. Il quartiere, che si caratterizza per la facciata di edifici contornati da eleganti porticati, è sorto agli inizi dell’800 e, per la sua vicinanza al porto, è cresciuto come quartiere popolare e multietnico. Un quartiere, giovane, multietnico, di gente che lavora sul mare Oggi le vecchie famiglie giunte da ogni parte dell’Adriatico sono affiancate da quelle arrivate da ogni parte del mondo ampliando le genti e le culture che da sempre confluiscono in quel crogiolo. Gli immigrati costituiscono il 68 per cento degli abitanti. Per capire che si tratti di famiglie definitivamente


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insediate basta andare di fronte ad una delle scuole del quartiere. Più della metà degli iscritti sono figli di immigrati nati in Italia. Il quartiere si caratterizza anche per una rilevante presenza giovanile. Il secondo aspetto riguarda il legame con il porto. Il “Riò” è prospiciente il molo del Mandracchio dove attraccano i pescherecci e dove si svolge l’asta del pescato; ciò ne aveva fatto da sempre il quartiere di “portuloti”. I nuovi venuti continuano a lavorare sul mare. I Senegalesi salpano sui pescherecci che, secondo la tradizione anconetana, sono condotti dallo stesso armatore. I Tunisini hanno sostituito i pescatori anconetani anche nella piccola pesca che ormeggia attorno al Lazzaretto e sono attivi nella vendita del pesce. I Bengalesi si dedicano alla manutenzione delle reti con una abilità che da noi si è persa. Molti di loro lavorano alla

Fincantieri alla costruzione degli scafi. Gli Albanesi caricano e scaricano i rimorchi dai traghetti. Sono presenti anche comunità di Cingalesi, Nigeriani, Cinesi, Peruviani e Rumeni anche negli esercizi commerciali del quartiere. Una comunità di Lampedusani si è affiancata ai Civitanovesi giunti nel quartiere fin dai primi decenni del secolo scorso Non mancano figli di pescatori anconetani che, allontanatisi dal quartiere, tornano a vivere nei luoghi della loro infanzia per lavorare nelle attività legate alla pesca ed al mercato ittico. E’ questo uno dei pochi porti della costa marchigiana e romagnola in cui culture marinare di diversissima origine vengono a contatto e si mescolano sui luoghi di lavoro e nella residenza dando vita ad una comunità di oltre 2000 abitanti. In altre città, Pesaro e Senigallia per esempio, le aree vicine


Il progetto

84 al porto sono diventate aree di pregio ed i lavoratori del mare sono stati spinti verso le periferie. Un quartiere “degradato”

In questa realtà convivono e lavorano tante comunità: senegalesi, tunisini bengalesi, albanesi cinesi, nigeriani peruviani e rumeni

Il termine degrado non rappresenta la complessità della situazione. E’ la sintetica descrizione di uno stato di fatto che utilizza i parametri dall’Istituto Nazionale di Statistica sulla cui base sono state valutate le priorità del piano nazionale per il risanamento delle periferie. Il degrado è strutturale: gli edifici pubblici e privati sono in cattivo stato. A questo si affiancano fenomeni di disagio sociale. E’ una situazione difficile ma ricca di potenzialità che può evolvere nella migliore tradizione del “riò” o restare marginale rispetto il resto della città. Alloggi migliori e nuovi servizi

Nella Pagina precedente gli archi che da cui deriva il nome del “riò”. (Foto di Giandomenico Papa) Sopra, vercchie e nuove insegne la taverna greca, a destra, la fuga degli archi (Foto dell’autore) In alto, nella foto grande pescherecci al Mandracchio (Foto di Giandomenico Papa)

Per capire cosa si stia facendo vi devo annoiare con cifre e progetti. Il piano, predisposto dal Comune, è parte di un progetto che si sviluppa sul fronte mare della città denominato “Ancona: da città sul mare a città di mare”. Il progetto riguarda tutto il “fronte mare” della città. La parte centrale di questo progetto è il risanamento del “riò de J’Archi” alla cui realizzazione collaborano il Comune, l’Ente Regionale per l’Edilizia Residenziale pubblica e i privati che vivono negli edifici oggetto del risanamento. Alla fine il quartiere disporrà di 130 alloggi di edilizia residenziale pubblica “risanati” di proprietà del Comune, di ex assegnatari e dell’ERAP, di questi 20 sono liberi e verranno assegnati dando la priorità a giovani

coppie. Sono da realizzare anche 6 nuovi alloggi riservati alle categorie svantaggiate, un centro sociale di 650 mq., una palestra di 1.100 mq. e un parco urbano sulle pendici della collina che sovrasta il “riò”. I portici che danno il nome al quartiere verranno restaurati. I lavori, che sono cominciati con la demolizione di una vecchia palestra, termineranno nel 2022. Il piccolo commercio Le botteghe ed i bar sotto i portici sono stati un elemento di vitalità e coesione sociale del “riò”. In questi ultimi anni i negozi ed i servizi legati alla pesca ed alle attività marinare sono stati in parte sostituiti da quelli di alimenti e servizi rivolti ai nuovi arrivati ma molti sono gli esercizi commerciali che hanno definitivamente chiuso. La zona vanta anche alcu-


Il progetto

ni “storici” ristoranti di pesce a cui si sono aggiunti locali gestiti da cingalesi, greci e albanesi. Vale la pena di ricordare quello che scriveva Piovene a proposito delle trattorie di pesce d’Ancona: “Un piacere di Ancona è pranzare la sera nelle osterie, quasi spacci di pescatori, che si protendono nelle acque, tra le luci del porto. Vi si mangia il migliore pesce di questi mari” Vitalità associativa e intervento pubblico Ancona vanta una consolidata esperienza in materia di recupero urbanistico che risale alla ricostruzione successiva al terremoto del 1972. In quel caso la ricostruzione delle case e degli edifici pubblici fu esemplare. Ne potete avere una idea risalendo le colline del Guasco e Capodimonte che fronteggiano il porto ma, nonostante si sia riusciti a riportare le fami-

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glie negli alloggi restaurati, non si riuscì se non in parte, a ricostruire il tessuto sociale del centro storico. I funzionari e gli operatori sociali che seguono il progetto di risanamento del “Riò” hanno ben presente la necessità che questo non si limiti agli aspetti strutturali ma affronti anche gli aspetti sociali del “degrado” e abbia tra i suoi fini il mantenimento delle caratteristiche “popolari” del quartiere. Il progetto di risanamento e stato discusso in assemblee che sono state anche l’occasione per fugare i dubbi ed i timori legati alla presenza di situazioni di marginalità. I 4 milioni euro di interventi di risanamento degli alloggi di edilizia residenziale pubblica sono gestiti da una sorta di grande assemblea di condominio a cui partecipano gli assegnatari ed i proprietari degli alloggi di edilizia residenziale pubblica. Nessuno si nasconde le dif-

In altre città come Pesaro e Senigallia le aree vicine al porto sono diventate di pregio


Il progetto

Il progetto riguarda il “fronte mare” della città dorica e prevede il restauro dei portici che danno il nome al rione

86 ficoltà che sono tipiche di tutti gli angiporti. Padre Davide che regge la locale parrocchia e l’Ing Maurizio Urbinati che segue la situazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica danno la stessa lettura della situazione. Negli ultimi tre anni il clima sociale è migliorato anche per effetto di un intervento pubblico intelligente che ha operato per recuperare le famiglie in difficoltà ed ha evitato di concentrare nell’area altre situazioni di crisi. Il problema della lingua è importante soprattutto per gli alunni nuovi arrivati. Alcuni di loro, per le vicissitudini proprie dell’emigrazione, sono costretti a lunghe assenze dai

la separatezza può essere percepita anche come una difesa. Il fatto che la ciurma magrebina possa usare una lingua comune che il comandante non conosce o conosce male può essere un punto di forza nei rapporti a bordo del peschereccio. Gli immigrati si muovono sui moli come a casa loro e considereranno anche “il Riò” casa loro come hanno fatto i Civitanovesi ed i Lampedusani giunti al Mandracchio spinti dalla ricerca di un buon porto e di migliori occasioni di lavoro. A dimostrazione di questa capacità di accoglienza rispettosa delle culture di provenienza in una delle cappelle della chiesa del SS sacramento trovate un grande bassorilievo dedicato a Santo Marone, protettore dei pescatori civitanovesi la cui immagine vi accoglie anche vicino al fanale verde del porto di quella città. Accanto a “Santo Maro” una immagine della Maria Santissima di Porto Salvo patrona di Lampedusa è accompagnata da una preghiera in cui la comunità lampedusana afferma di voler “vivere sempre più unita alla comunità delle altre famiglie anconetane”. Rapper e Arcaroli

corsi scolastici. La scuola utilizza finanziamenti comunali per un “doposcuola” che aiuti nella preparazione dei compiti e nell’apprendimento della lingua. Questi ultimi sono aperti anche alle mamme. Purtroppo la pandemia ha fermato questa attività. Da sempre il “Riò” accoglie e integra Sopra e a destra, operai alla Fincantieri (Foto archivio della Fincantieri) In alto, Pescherecci al Mandracchio (Foto di Giandomenico Papa)

Il senso di appartenenza ad una unica comunità è in parte da costruire perché

Il “Riò” è sempre stato animato da importanti attività associative. Nel 2019 nei locali del centro H (quello che oggi viene ricostruito) vecchi “arcaroli” assieme a ragazzi tunisini, albanesi e senegalesi hanno dato vita alla associazione “Arcopolis. A due anni da quel giorno è possibile fare un primo consuntivo delle cose fatte: sport, ballo, musica, (persino un rapper). La quantità di attività portate avanti con il contributo di appartenenti alle diverse comunità è rilevante. Il sito di facebook del gruppo ne offre


Il progetto

una fedele rappresentazione. Silvio Boldrini, il portuale che anima il gruppo, ci racconta il quartiere. Le famiglie arrivano condizionate dalla cultura di provenienza e dalle abilità lavorative che determinano il ruolo all’interno del porto e del quartiere. Chi viene da zone rurali è costretto a cominciare dalle mansioni più semplici. Chi viene da realtà urbane ha maggiori opportunità, trova lavori migliori e riesce persino ad ampliare la attività. Esemplare il caso del ristoratore cingalese che ha aperto un secondo ristorante a Senigallia. Arcopolis fornisce la occasione per incontri che non siano solo quelli che derivano dalle necessità di affittare un appartamento o trovare un lavoro. Lo sport, la musica, la danza o le feste di compleanno sono occasioni per confrontare i diversi vissuti e ridurre le distanze. Non esistono ricette e non ci sono verità assolute. Ciò che conta è

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la capacità di ascoltare e raccontare. E’ il “Riò” di sempre che non chiede ma raccoglie e mescola le storie e le vite e si prepara a sfruttare le nuove opportunità. Ancona città di storia e di storie Nel suo libro “Storia dell’Adriatico” Egidio Ivetic ricorda il carattere di Ancona con l’aggettivo “indomita”. Il popolo anconetano e la gente del porto in particolare ha interpretato questa verità con una ricchezza di storie ed aneddoti che non ha confronti negli altri porti marchigiani. Tutti i quartieri a ridosso dei porti ne hanno prodotte: Il pelourinho di Salvador di Bahia, il Panier di Marsiglia, via Prè di Genova, i quartieri spagnoli a Napoli. Se vi ho annoiato con i numeri ed i progetti del quartiere de “J’Archi” è anche per essere sicuro che ci sia qualcosa da raccontare negli anni a venire. ¤

Lo scalo dorico è uno dei pochi in cui culture marinare di diversa origine vengono a contatto e si mescolano



L’associazione

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LE CENTO CITTA’ Associazione per le Marche Fondata nel 1995 “L’Associazione si pone lo scopo di promuovere e coordinare studi ed azioni finalizzati a rafforzare l’identità culturale della Regione Marche e a favorirne lo sviluppo economico e sociale attraverso la conoscenza e la valorizzazione delle realtà esistenti, il recupero e la tutela del passato, la collaborazione tra soggetti pubblici e privati, la partecipazione al dialogo culturale interregionale ed europeo, nonché con le comunità marchigiane all’estero.” (Art.3 dello Statuto)

Presidenti

Giovanni Danieli

(marzo 1995 – dicembre 1996)

Catervo Cangiotti

(gennaio 1996 – dicembre 1997)

Folco Di Santo

(gennaio 1998 – dicembre 1999)

Alberto Berardi

(gennaio 2000 – dicembre 2001)

Evio Hermas Ercoli

(gennaio 2002 – dicembre 2003)

Mario Canti

(gennaio 2004 – luglio 2005)

Enrico Paciaroni

(agosto 2005 – dicembre 2006)

Tullio Tonnini

(gennaio 2007 – dicembre 2007)

Bruno Brandoni

(gennaio 2008 – luglio 2008)

Alberto Pellegrino

(agosto 2008 – luglio 2009)

Walter Scotucci

(agosto 2009 – luglio 2010)

Maria Luisa Polichetti (agosto 2010 – luglio 2011)

Ettore Franca

(agosto 2011 – luglio 2012)

Natale Frega

(agosto 2012 – luglio 2013)

Maurizio Cinelli

(agosto 2013 – luglio 2014)

Giovanni Danieli

(agosto 2014 – luglio 2015)

Luciano Capodaglio

(agosto 2015 – luglio 2016)

Marco Belogi

(agosto 2016 – luglio 2017)

Giorgio Rossi

(agosto 2017 – luglio 2018)

Mara Silvestrini

(agosto 2018 – luglio 2019)

Donatella Menchetti

(agosto 2019 – luglio 2020)

Filiberto Bracalente

(agosto 2020 – luglio 2021)

Le Cento Città Direttore responsabile Franco Elisei Direttore editoriale Maurizio Cinelli Comitato scientifico Marco Belogi Fabio Brisighelli Paola Cimarelli Claudio Desideri Federica Facchini Rosangela Guerra Giordano Pierlorenzi Claudio Sargenti

Anno XXVI

Coordinamento progetto grafico e impaginazione Prof. Sergio Giantomassi

Progetto grafico Poliarte Accademia di Belle Arti e Design di Ancona Direzione, redazione amministrazione Associazione Le Cento Città redazionecentocitta@ gmail.com Rivista riconosciuta come bene culturale di interesse storico dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali

Presidente Le Cento Città Fernando Piazzolla Stampa Errebi Grafiche Ripesi Falconara M.ma Sede Via Asiago 12 60124, Ancona Poste Italiane Spa spedizione in abbonamento postale 70% CN AN Reg. del Tribunale di Ancona n.20 del 10/7/1995




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