L'andar curioso

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L’andar curioso

Viaggio nelle Marche sconosciute


Supplemento realizzato con il contributo della Regione Marche Questa pubblicazione é stata edita in occasione dei XXV anni della rivista Le Centocittà con un testo di Nando Cecini, illustrazioni di Sergio Giantomassi in mille copie dalla litografia Errebi Grafiche Ripesi nel luglio 2020. Supplemento a leCentocittà Numero 70/71 luglio 2020


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opo aver raccontato per venticinque anni le Marche con le più varie iniziative culturali volte a promuovere la conoscenza e la valorizzazione di questa terra troppo spesso messa ai margini, al termine della mia presidenza e in occasione di questa importante ricorrenza, sono lieta di offrire a socie, soci, amici e sostenitori de Le Cento Città una piccola raccolta, composta da venticinque centri marchigiani poco conosciuti, presentata attraverso la memoria letteraria che il nostro Nando Cecini, da profondo conoscitore, ha così mirabilmente sintetizzato. Iniziativa che, in questo tempo di pandemia, vuol essere anche un invito ad un turismo di prossimità con il quale “curiosando” si possono riscoprire antichi borghi, carichi di storia e di tradizioni, oggi quasi spopolati e dimenticati. Donatella Menchetti



L’andar curioso

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necessaria una piccola premessa. Sulla catalogazione dei centri delle Marche esiste una lunga bibliografia che parte da Plinio il Vecchio (I sec. d.C.) e arriva ai nostri giorni. Non tengo conto, per esempio, dei testi geografici, delle compilazioni storiche, né delle enciclopedie edite e on-line. Non tendo conto neanche dei testi fondamentali rappresentati dalle “guide” a partire dal Settecento a quelle del Baedeker (sec. XIX) fino alle “rosse” del Touring Club Italiano (sec XX) a quella di Planet (2020). Non intendo riferirmi neppure alla depliantistica che la Regione Marche, a partire dal 1970 ha dedicato all’illustrazione dei centri maggiori e minori corredandola con un ricco apparato fotografico. Nello spirito di questa pubblicazione possono rientrare due raccolte piuttosto dimenticate:

i Paesi Marchigiani (1910) di Enrico Deho, e Marche. Incontri con cento paesi (1976) di Gilberto Lisotti. Città e paesi proposti tra impegno illustrativo e sensazioni personali. Questa piccola raccolta, venticinque centri sulle Cento Città delle Marche, vuole semplicemente ricordare alcuni centri, presentandoli attraverso la memoria letteraria. Si tratta di brevi stralci antologici di svariati autori e di diverso valore che si aggiungono alle notizie storicoartistiche delle precedenti pubblicazioni per dare un ulteriore sapore al “genius loci” racchiuso in ogni località. Ringrazio Donatella, Marco, Franco, che mi hanno permesso un “divertissement” da offrire agli amici che amano le Marche. Nando Cecini


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Chiaravalle

Nell’abbazia di Castagnola esempi di stile gotico-francese Prima benedettina poi francescana e infine cistercense

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e tombe della regina longobarda Teodolinda (sec. VII) e della contessa Matilde di Canossa (sec. XII) vegliano ancora sull’abbazia di Santa Maria di Castagnola a Chiaravalle, prima benedettina poi cistercense, poi francescana e poi dal 1564 ancora cistercense. Come spesso accade, intorno all’abbazia si è andato sviluppando un florido centro abitato assunto oggi all’importanza di Chiaravalle con i suoi 14.000 abitanti, attività agricola e industriali. Ma il cuore resta l’abbazia così descritta: “I riferimenti di stile rimandano per l’abbazia di Castagnola ad un modello lombardo nella cui area va ricercata l’abbazia madre, secondo quello schema di penetrazione per filiazione tipica del sistema cistercense. Nell’abbazia di Castagnola si manifestano in forma compiuta gli stili dell’architettura gotica francese di cui anzi la chiesa costituisce uno dei primi esempi italiani”.

(Re, Montironi, Mozzoni, Le abbazie. Architettura abbaziale nelle Marche, 1987). Sopra il nartece a cinque arcate si affaccia il grande rosone vetrato, quasi un occhio vigile sull’antistante paesaggio marchigiano. In questo breve excursus bibliografico voglio ricordare anche una lettera appassionata dello studioso Giuseppe Bevilacqua diretta ad Anselmo Anselmi che la pubblicò nella sua rivistina personale, Nuova Rivista Misena (Arcevia, anno III, num. 4, 1890) nella quale auspicava che “Vorrei che questi pochi Cenni Storico-Artistici sulla Chiesa dell’Abbazia di Chiaravalle invogliassero qualcuno a rilevare e illustrare come si conviene il degno monumento”. Fatto che si è venuto realizzando in diverse pubblicazioni.

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Genga

Luogo natale di Papa Leone XII Meraviglia della natura con le Grotte di Frasassi

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enga deve la sua fama per gli storici, in quanto luogo natale di Annibale della Genga, eletto papa con il nome di Leone XII nel 1823; per gli studiosi d’arte per essere il comune nel cui territorio sorge la chiesa di San Vittore delle Chiuse, uno dei più interessanti monumenti dell’architettura romanica nelle Marche. A livello turistico invece Genga è collegata alle Grotte di Frasassi. Una guida radical-chic dell’Italia, pubblicata a cura della rivista economica Capital, sul finire degli anni ottanta, mentre trascura completamente un centro religioso come Loreto di rilevanza internazionale, dedica ben due colonne del suo prezioso spazio al “sublime” delle Grotte di Frasassi in termini di stupefacente ammirazione: “Qui vi aspetta uno spettacolo straordinario … Col nome suggestivo di Grotta Grande del Vento oggi si designa questo magico mondo sotterraneo dove

stalattiti e stalagmiti cresciute nel corso di migliaia di anni hanno creato una fantasia di forme sorprendenti. In delicate sfumature di bianco, di miele, di rosa, ghirlande marmoree pendono dal soffitto o candelabri barocchi salgono dal suolo. In una successione senza fine, quasi giochi fantastici d’ambra che disegnano figure tormentate e fantastiche”. In una delle numerose e ripetitive pubblicazioni, anche se in vero sono sempre utili, curate dalla Regione Marche, alla scheda dedicata al comune di Genga sotto la voce “da visitare” si legge, “Rappresentano una vera meraviglia della natura le Grotte di Frasassi, scoperte nel 1971, che si snodano nella montagna oltre 20 Km, rappresentano uno dei complessi carsici più interessanti e noti d’Italia”.

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Monterado

Meta preferita dalla nipote dello zar di Russia Come “appannaggio italico” fu assegnata da Napoleone a Eugenio di Beauharnais

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“Appannaggio italico” era una dotazione economica assegnata da Napoleone a Eugenio di Beauharnais, suo figliastro e viceré d’Italia. Si trattava di 2.038 fondi rustici, pari a 28.708 ettari, oltre a palazzi e case nei principali centri delle Marche. Il Congresso di Vienna (1814-1815), malgrado la ferma opposizione della Santa Sede, riconfermò la proprietà privata di tutti i beni in territorio marchigiano, ad Eugenio di Beauharnais. Divenuto nel frattempo Duca di Leutchtemberg. La Camera Apostolica li riscatterà nel 1845 per la somma di 3.750.000 scudi romani, anticipata dai banchieri parigini Rotschild. A vendere era stato il figlio di Eugenio, Massimiliano di Leutchtemberg che aveva sposato la granduchessa Maria Nicolajewna, nipote dello zar Alessandro di Russia. Nei viaggi che la coppia ducale compiva nelle Marche, una delle mete preferite era la residenza di Monterado,

un palazzo costruito nel Seicento sui resti di un castello quattrocentesco e circondato da un fitto bosco, ancora oggi esistente. Quando Massimiliano e Maria Nicolajewna si erano sposati nel 1839, i funzionari della “Ducal Casa di Leutchtemberg” nelle Marche fecero pubblicare una plaquette nunziale con il titolo Versi per nozze imperiali, stampata dalla tipografia Nobili di Pesaro a cura di Giuseppe Ignazio Montanari, che per l’occasione compose un poemetto in ottave descrivendo i vari possedimenti. Questi sono i brutti versi riferiti alla zona di Monterado e dintorni: “La quarta (si intende l’agenzia del distretto di Senigallia) cole il pingue e lieto piano/ Cui dall’un lato il piccolo Misa irriga/ Dall’altro morde l’onda del Cesano/ Che scende dà sui monti in larga riga./ Vé ch’ella d’uve il crin cinta, fra mano/ Porta manipol di dorata spiga;/ E in grembo i frutti più soavi accoglie,/ Che april promette, e 10 11 ottobre raccoglie.”


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Monte San Vito

Paesaggio sospeso tra il mare e le colline Paese natio di Vito Procaccini Ricci geologo e naturalista

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n una guida dei primi anni del Novecento trovo scritto: “Monsanvito ha grazioso aspetto: comode vie e qualche buon edificio; il palazzo comunale fu eretto dai Malatesta; la chiesa parrocchiale è di architettura vanvitelliana”. Tutto qui, con qualche inesattezza e forzatura di troppo. Ma a Monte San Vito è nato nel corso del Settecento un grande geologo e naturalista, Vito Procaccini Ricci. Nel libro Viaggi ai vulcani spenti d’Italia nello Stato Romano verso il Mediterraneo (Firenze 1814), nel capitolo primo, dove tratteggia la situazione dalla Valle Dell’Esio, così descrive il paesaggio visto dalle finestre del paese natale: “L’Esio piccol fiumicello, che tra i più bassi Appennini muove la scaturigine sua, dopo 50 miglia all’incirca si scarica nell’Adriatico poco men di una posta lontano di Ancona. Le di lui onde limpide alpari che rapide, serpeggiando per ampla pianura, vanno qua e là componendo vaghi punti di

vista graditissimi al dipintor di campagne particolarmente; poiché gli albbucci i pioppi i bidolli le roveri maestose si aggruppano in più siti con leggiadria, frammischiando le variate tinte dei loro rami, e tra quelle acque in vasti piani popolati d’armenti presentano geniali scene, che le remote colline, o l’azzurro del mare chiudono con indicibil grazia e vaghezza”. E’ un testo superlativo; coglie veramente il “genius loci” del paesaggio marchigiano sospeso tra il mare e le colline.

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Numana

Ammirata da Stendhal nel suo passeggiare lungo il golfo adriatico Centro di rilevanza archeologica Alcuni suoi reperti esposti al Metropolitan Museum

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umana oggi è una conosciuta stazione balneare, la piccola capitale della Riviera del Conero. E’ stato un centro di rilevanza storica e archeologica. Alcuni reperti provenienti dal territorio di Numana, sono esposti al Metropolitan Museum di New York. Ma oltre al turismo e all’archeologia, Numana affida le sue fortune ad uno dei più incantevoli paesaggi di tutta la costa adriatica. Stendhal, che di cose belle se ne intendeva, nella prima stesura di Roma Napoli e Firenze nel 1817 (Parigi 1817) scrive: “Andiamo a passeggio lungo il golfo Adriatico, su per queste strane colline coperte di verde, da cui, per una delle più curiose bizzarrie della natura che abbia mai visto, il suolo precipita a picco sul mare. La strada ora segue per due o tre miglia la cresta di una montagna, e a destra e a sinistra il terreno scende ripido verso il golfo; ora sprofonda in una valle incassata, e ci si

crede a cento leghe dal mare, perché le sue rive non hanno nulla dell’aspetto desolato che presentano nel nord”. L’abate Giuseppe Colucci (1752-1809) benemerito storico delle Marche, nel X tomo delle sue Antichità Picena (1791), dedica un intero capitolo a Delle Antichità di Numana. Anzi tutto discetta come deve essere chiamato: Numana, Humana o Umana. Ovviamente seguendo alla lettera gli antichi geografi, Plinio, Mela, Tolomeo, il Colucci propende per Numana come continua ai nostri tempi. L’antica Numana non fu distrutta dai Barbari, annota il Colucci: “Avanzatosi il mare … verso la spiaggia, è fama comune che l’abbia in gran parte assorbita … di Numana si veggono fra le onde i miseri avanzi, i quali hanno saputo fin’ora resistere al furore dell’onde per attestarci che l’Adriatico ne fu il micidiale distruggitore”. Ma il “geniu loci” di Numana si è perpetuato nella moderna 14 località sulle rive del Conero. 15


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Acquasanta Terme

Ventisette frazioni incastonate nel paesaggio appenninico Il fascino del paese nei racconti di Gide scrittore francese

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ul finire dell’Ottocento giunse ad Acquasanta Terme, con il pretesto di passare le acque, un importante scrittore francese, André Gide, dopo aver sostato qualche giorno a San Benedetto del Tronto al termine della stagione estiva. In uno dei suoi ultimi libri, Foglietti d’autunno (Parigi 1949), Gide raccoglie memorie sparse che non aveva inserito nel più importante Diario. Sono pagine molto personali, intime, dove emerge senza falsi pudori la ben mimetizzata omosessualità. Ma in questa sede interessa sottolineare la percezione paesaggistica del romanziere francese. “… Il paese era meraviglioso. Quando penso all’Italia, immediatamente mi sembra che non ci sia posto al mondo che preferisca; ma mai mi era sembrata di una grazia così accattivante. Numerosi sentieri incantevoli si affondano nelle pieghe della montagna, conducendo a villaggi non troppo distanti e ciascuno offre qualche

peculiarità sorprendente”. Infatti nel comune di Acquasanta Terme si contano ben ventisette frazioni incastonate nel paesaggio appenninico. Gide dedica alcuni paragrafi a descrivere la vendemmia in corso, la cordialità dei contadini che gli offrivano i grappoli appena raccolti, l’inebriante profumo del mosto, i giovani che pigiavano l’uva tra risa e canti e gli ricordano un affresco di Benezzo Gozzoli nel Campo Santo di Pisa. Riprende poi la descrizione paesaggistica, “La valle ristretta si riempiva di ombre e nebbia. Al di sopra e senza dubbio per contrasto, sembrava che l’aria diventasse più scura, più limpida, più cristallina e da villaggio a villagio si rispondevano lunghi gioiosi richiami”. Gide non tornò più ad Acquasanta, ma gli restò per sempre l’incanto del paesaggio e il ricordo dell’amore nascosto per un bel giovinetto incontrato per caso.

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Arquata del Tronto

Il fantasma della regina di Napoli tra gli spalti della Rocca Una tragedia sospesa tra storia e leggenda

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mportante nodo stradale tra quattro regioni, Marche, Umbria, Abruzzo e Lazio, Arquata del Tronto è stata un’importante “Statio” romana sulla via Salaria. Fu altrettanto importante castello fortificato nel Medio Evo, di cui restano tracce nel nome Arquata da Arx e nella rocca turrita che domina il paese con torrioni e bastioni di difesa e di offesa. Nella Rassegna Marchigiana per le Arti Figurative e Bellezze naturali. La Musica (anno I, 1922-23), c’è un articolo a firma Mario Battistrada dal titolo Paesaggi marchigiani. Arquata del Tronto, con queste belle impressioni: “La ventosa cittadina appare da lontano solitaria sullo sfondo verde cupo dei boschi, aerea, come sollevata dal solido sforzo di muraglioni a scarpa e ad arcate”. Altrettanto significativa la descrizione di Arquata del Tronto, scritta per il settimanale il Marchigiano (1976) da Gilberto Lisotti, “Ai piedi della Rocca, a tu per tu col roccioso volto del

Vettore, fortemente accigliato di castagni e di faggi, le case di Arquata contemplano un vigoroso panorama romanico … Nel loro seno la nobiltà di qualche arco gotico, e di qualche portale bugnato, la soavità mistica di una Annunciazione, custodita nella Cattedrale, la rigidezza romanica di un Crocifisso, venerato giù in Borgo, nella chiesa di San Salvatore”. La cittadina è dominata dalla Rocca. Ad essa è legata una tragedia tra storia e leggenda. La Rocca (sec. XIII) fu costruita dalla regina di Napoli Giovanna II D’Angiò, dove trascorreva piacevoli soggiorni. Narrano le cronache di tanti giovani amanti, scelti tra i pastori dei Sibillini, e uccisi dai sicari dopo una notte di passione. Anche la Regina Giovanna vi trovò la morte, strozzata dal marito geloso. Pare che nelle notti di luna, sugli spalti più alti della torre, appaia il fantasma dell’irrequieta regina che non riesce a trovare la pace eterna.

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Grottammare

Anche Franz Listz incantato dalle meravigliose spiagge ”...riflette la bellezza e la dolcezza delle Marche...”

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ella contestata Vie de St. Francois D’Assisi (Paris 1893), il pastore calvinista francese, Paul Sabatier, descrivendo i viaggi del Santo nelle Marche, a proposito di Grottammare scrive, “… splendida spiaggia che riflette la bellezza e la dolcezza delle Marche …”. Ed è forse questo il più bell’elogio che si potesse scrivere del centro di Grottammare. Nello stesso torno di tempo, uno sconosciuto poeta di Grottammare, Croce Grucioli, dedicava al suo paese alcuni versi: “Sul colle dorme il caseggiato antico/ dal sol baciato e dalla brezza aulente/ sul piano si dilunga e tocca l’onda/ il bel paese della nuova gente./ Intorno un mareggiar di verde cupo/ e in alto, infranto, sovra un gran dirupo/ un castello. Ampie vie, fresche pinete/ fiori, fontane limpide, scogliere/ mormoranti fra l’onde ampie del mare/ ed una pace immensa, un lontanare/

di voci dolci sovra il colle e il piano.” Spiaggia meravigliosa, non per nulla era piaciuta al grande musicista Franz Liszt che vi soggiornò alcune estati apprezzando anche la musica di Rossini. D’altra parte la bellezza di Grottammare trova già nell’Umanesimo un incantato cultore in Flavio Biondo, il primo coreografo dell’Italia quattrocentesca quando scrive “dopo Sorrento e Gaeta, il luogo più ameno d’Italia“ intendendo proprio Grottammare. Un ulteriore inno lo innalza Enrico Deho (1910) quando scrive, “si vada a Grottammare, si vada a godere delle onde e del verde, di pini, d’aranci, di tigli e d’oleandri che profusi a piene mani dappertutto, danno a questo luogo una veste e una caratteristica tutta sua”.

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Ascoli Piceno Luogo di misteri e di leggende La doppia versione di Ponzio Pilato e del “suo” lago


Montemonaco

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ontemonaco, siamo a 1000 metri sul mare, è la piccola capitale dei Monti Sibillini, definiti da Guido Piovene, “I Monti più misteriosi del Centro Italia”. Per Paolo Rumiz, i Sibillini “indicano l’inizio del grande spartiacque, quello che per millenni ha separato le due Italie con un invalicabile muro di neve: Adriatico e Tirreno”. Gli elementi per creare una vasta letteratura durata ben sette secoli ci sono tutti: una montagna il Vettore, un mistero la Sibilla, la neve un paesaggio invernale pieno di brividi. Sono oltre centinaia i riferimenti bibliografici che si riallacciano alle leggende dei Monti Sibillini e non solo testi di carattere popolare come Guerrin Meschino, ma appassionati studi di illustri scrittori e filologi di mezza Europa. Ma il mistero della Sibilla, del lago di Pilato, del Monte Vettore non sono stati ancora svelati. Questa la sintesi dell’emerito

studioso maceratese Dante Cecchi, “Il mistero rimane. Ed è un mistero che comprende in sé il grande problema testimoniato da pellegrini e soldati, fattucchieri e visitatori, di tutta Europa che salirono su questi due monti: il problema del bene e del male, di Dio e del demonio e dell’eterna salvezza dell’uomo (Tannhauser). E anche la fusione del “ciclo classico” del Medioevo europeo con la lirica del “ciclo cortese” d’Italia, di Francia e di Germania”. Oltre alla grotta della Sibilla, un altro mistero avvolge il Lago di Pilato. Leggenda vuole che vi si inabissasse il procuratore Ponzio Pilato dopo aver condannato a morte Gesù. Una maledizione divina per l’eternità. Ben diversa è l’interpretazione che il romanziere francese Anatole France affida al breve racconto, Il Procuratore di Giudea (Palermo 1990), tradotto e annotato da Leonardo Sciascia, che ci presenta un Pilato pensionato di lusso sulla costa campana

di Baia. Il suo interlocutore, Elio Lamia, personaggio inventato dallo scrittore, innamorato della bellissima Maria Maddalena e lasciato perché aveva seguito il Cristo, chiede espressamente a Pilato, “Si faceva chiamare Gesù Nazzareno e fu crocefisso non ricordo per quale delitto, Ponzio, ti ricordi di quest’uomo? – Ponzio Pilato aggrottò le sopracciglia, si portò la mano alla fronte come chi vuole ritrovare un ricordo. Poi, dopo qualche istante di silenzio: Gesù? Mormorò, Gesù Nazzareno? No, non ricordo”. Quale è il vero Pilato? Quello maledetto della leggenda del lago o il burocrate pensionato che si dimentica del processo più importante della sua vita. Anatole France gioca con sarcasmo con la secolare leggenda.

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Offida

Come un serpente di case dominatore dei campi E sui pendii collinari maturano le uve del Rosso Piceno

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on sto a dire della Offida pelasgica, né dell’Aufidema prope Truentum, mi soffermo sull’Offida medievale e sull’antica collegiata di Santa Maria della Rocca. Chiesa di matrice romanicagotica, ricostruita, nel 1330 da uno sconosciuto maestro Albertino. Il monumento aveva richiamato l’attenzione del pittore e studioso d’arte ascolano, Giulio Cantalamessa che nel saggio Artisti veneti nelle marche, pubblicato nella Nuova Antologia dell’ottobre 1892, gli dedica alcune righe: “…Altro notevole edificio ogivale è la vecchia collegiata di Offida, di cui il Sacconi va’ ora con lodevole zelo proteggendo la conservazione, minacciata dalla corrosione di un torrente …”. La più suggestiva nota paesaggistica su Offida è affidata alla penna di Gilberto Lisotti: “… Lungo tutta una cresta, che si snoda tortuosa da occidente ad oriente … Offida si stende come un serpente, lungo oltre un chilometro,

dominatore dei campi. Un serpente di case, sdraiato in cresta ai pendii collinari su cui maturano le uve del Rosso Piceno …”. In un esemplare guida di Offida curata da Franco Cardarelli (1974), nel frontespizio trovo citati alcuni versi: “Internamente/ a lieti campi/ in mezzo sta/ la nobile Offida/ adorna e forte di rocca e mura/ e che potente fanno/ le sue ricchezze/ e il cittadin valore”. Le ha scritte a mezzo il Cinquecento l’umanista Francesco Panfilo di San Severino Marche nel suo poema latino Picenum, mai tradotto.

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Fermo Suggestivo centro dei Sibillini legato al mandorlo Borgo vivace culturalmente: fin dal 1549 ospitava una tipografia


Amandola

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mandola è un centro significativo dei Sibillini. Questa sua vocazione ha radici lontane nel tempo. Già nell’Italia illustrata (Venezia 1474), Flavio Biondo così definiva Amandola: “… Quattro miglia appresso ne’ primi colli de l’Appennino è Amondula (sic), che è una de le principali terre de la Marca…”. Il Biondo è unanimemente riconosciuto come storico

rigoroso e attendibile, pertanto questo elogio non è puramente encomiastico, ma sottende un effettivo ruolo di primo piano riservato ad Amandola. Sulla scorta del Biondo, anche fra’ Leandro Alberti nella Descritione di tutta Italia (Bologna 1550) dedica due righe ad Amandola, definita ”honorevole castello”. Per restare sempre in ambito erudito bibliografico, ricordo come Amandola abbia avuto fin dal 1549 una tipografia, segno evidente di una circolazione culturale. Giuseppe Fumagalli nel Lexicon Typographicum Italiae (Firenze 1905) sottolinea come “… questo piccolo borgo ebbe per qualche anno, a mezzo il XVI secolo, una tipografia, fondata da un tipografo nomade che girava per tutta l’Italia centrale, Luca Bini …”. Questo tipografo di origine mantovana stampò ad Amandola due soli libri conosciuti e oggi diventati rarissimi, gli Statuti di Patrignone, località presso Montalto, e quelli di Santa

Vittoria in Matenano. Il toponimo di Amandola è legato alla pianta del mandorlo. Un’antica leggenda greca racconta che Fillide si impiccò su quella pianta che si seccò. Il marito Demofonte, commosso, abbracciò il mandorlo che improvvisamente rifiorì. Nella memoria popolare il mandorlo diventò Amandola. Per arrivarci nell’Ottocento, racconta il viaggiatore inglese Edward Hutton nel suo The Cities of Romagna and Marches (London 1913), bisognava prendere la diligenza trainata dai cavalli, ma nelle salite più ripide venivano aggiogati anche un paio di buoi. Hutton scrive, e cito dalla traduzione italiana di Elisabetta Stacchiotti, che Amandola è “Una località piuttosto povera ma piena di gente così ospitale ed affascinante che ogni qualvolta ripenso alle Marche, Amandola mi torna alla mente come la rosa e il cuore di una regione 26 che per calore e fascino non è seconda a nessuno in Italia”. 27


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Fermo Piccola capitale dell’arte Antiche testimonianze e quadri importanti


Montefortino

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mezza costa di fronte al Monte Priora, sorge Montefortino nel cuore dei Sibillini, quei “Monti azzurri” di leopardiana memoria. Come in altri centri del territorio, a Montefortino rimangono tracce e testimonianze romane, gotiche, longobarde, medievale monastiche, del libero Comune, delle Signorie, dello Stato Pontificio. Più della chiesa della Madonna dell’Ambro, raccolta nella quiete dei boschi e luogo di fede popolare, merita un cenno la pieve di Sant’Angelo in Montespino. Un antico inventario del Settecento riporta che “dell’edificatione di questa chiesa non si ha né si può avere notitia dell’anno preciso. Credesi per fabbricata tra il VI e il VII secolo da Logombardi”. Pur con tante ristrutturazioni la chiesa resta una delle più antiche testimonianze dell’architettura romanica nelle Marche. Ma ciò che colpisce

principalmente a Montefortino è la Pinacoteca. Sul finire dell’Ottocento, un viaggiatore inglese, Edward Hutton così ricorda, “Da Amandola feci una escursione a Montefortino, un piccolo castello pittoresco e nobile … oltre che per la sua bellezza Montefortino va visitato per i quadri che possono essere ammirati nel Municipio”. Quadri importanti dal Perugino all’Alemanno, dai fratelli Ghezzi agli artisti fiorentini del Quattrocento. Il miracolo della raccolta è dovuto a un personaggio curioso nato e morto a Montefortino, ma vissuto a Roma, Fortunato Duranti (1787-1863), pittore, incisore, mercante d’arte. Si deve alla sua generosità, oltre i quadri citati, un’importante raccolta delle sue inconfondibili ed impressionanti incisioni, se Montefortino può essere classificata come una piccola capitale dell’arte.

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Fermo


Monte Vidon Corrado

Lo stesso cielo delle Amalasunte Borgo filtro dei pensieri ed emozioni artistiche di Licini

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erto con i suoi 400 metri di altezza e i 700 abitanti, tanto per arrotondare, Monte Vidon Corrado, sarebbe rimasto un piccolo centro ai confini meridionali delle Marche, dimenticato da tutti. Invece ogni studioso e gli appassionati d’arte lo conoscono bene perché ha dato i natali a Osvaldo Licini (18941958) uno dei più grandi pittori del Novecento, uno dei pochi artisti marchigiani riconosciuti a livello europeo nella stagione dell’astrattismo. Dopo le esperienze parigine vissute accanto ai personaggi più conosciuti, da Modigliani a Picasso, Licini decide di tornare al paesello nativo, di cui è stato sindaco per alcuni anni. Un suo amico maceratese, Goffredo Bini ricorda, “Licini che si era ritirato in quel suo piccolo paese natale, era isolato dal mondo delle grandi librerie, manteneva però una corrispondenza fitta con pochi amici, e il poeta Acruto Vitali a cui chiedeva di volta in volta libri che nel piccolo centro non

arrivavano”. Il critico Marco Valsecchi ha scritto, “La solitudine del borgo marchigiano poteva affievolire la sua tensione. Invece divenne per lui il necessario filtro dei pensieri e delle emozioni … Fatti tacere gli echi fatui del mondo, quel silenzio destava le infinite voci musicali della fantasia”. Tra i quadri più fortunati e conosciuti di Licini ci sono le Amalasunte dal nome della regina longobarda. Da notare che i Longobardi operarono per diversi secoli nelle valli dell’Ascolano e nel Fermano. Il cielo blu delle Amalasunte è lo stesso di Monte Vidon Corrado quando quieta vi posa la luna. Lo stesso Licini scriveva che “Amalasunta è la luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità, personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco”. Inutile ricordare come la poesia leopardiana aleggi, presente, eterna nella pittura del riservato inimitabile Licini. 30 31


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Fermo Chiamata Castel Clementino per volere di Papa Clemente XVI Fu luogo di dolore e commozione durante la guerra


Servigliano

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e ci fosse passato, quasi di certo, il paese di Servigliano sarebbe piaciuto al grande Montesquieu. La pianta geometrica di un’urbanistica razionale a mezzo il Seicento, non poteva non colpire lo spirito illuministico di uno dei più illustri personaggi del tempo che giudicava le Marche, malgrado facessero parte dello Stato Pontificio, una delle più belle regioni Italiane. Mentre molti centri marchigiani conservano tracce archeologiche di diverse epoche, e quasi tutti hanno origini medievale, Servigliano nasce da un progetto urbanistico redatto dall’architetto Virginio Bracci su commissione del papa Clemente XIV, che volle chiamare Castel Clementino e tal nome conservò dal 1772 al 1866 quando recuperò l’antico Servigliano. In realtà il toponimo è legato ad un’origine romana ai tempi in cui Pompeo Magno possedeva vasti territori nel

Fermano. Come sempre nei secoli medievali si formò un castello sul fianco di una collina. A seguito di persistenti frane che ne minacciavano la distruzione avvenne il provvidenziale intervento pontificio che ne consacrò la definitiva struttura urbanistica. Per una descrizione dettagliata rimando all’interessante Guida insolita delle Marche (Roma 2002) scritta con passione da Fabio Filippetti ed Elena Ravaglia, che ne sottolineano l’armonia e l’unicità. A Servigliano gli è toccato anche uno strano destino quello di essere un campo di concentramento. Nella prima guerra mondiale (tra il 1916 e il 1918) ospitò i prigionieri austro-ungarici; nella seconda guerra mondiale (dal 1940 al 1943) i prigionieri angloamericani e fatto ancora più grave, nel biennio 1943-44, centinaia di ebrei italiani, deportati poi in Germania nei campi di eliminazione. Tra tanto dolore emerge una voce commovente. Si tratta

dei ricordi pubblicati da un soldato inglese, prigioniero a Servigliano. Certo non conosceva i viaggi di Hutton o le memorie della Collier, eppure resta incantato delle colline marchigiane e della valle del Tenna, ma sopra tutto scrive con commovente partecipazione gli aiuti che la gente del posto gli davano con una rara solidarietà umana a rischio della vita.

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Fermo


Torre San Patrizio

”Terra fertile e ondulata” nelle parole di nobildonna inglese Costumi, abitudini e storie di donne di paese

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Torre San Patrizio viveva la scrittrice Joyce Lussu, la cui ava materna era una nobildonna inglese, Mrgaret Collier, approdata nelle Marche nel 1873 “da una confortevole casa londinese a una diroccata casa di campagna in un angolo oscuro delle Marche meridionali, ancora fortemente pontificie, essendo andata sposa ad un ex ufficiale garibaldino”. Così ci informa la Lussu nella introduzione de La nostra casa sull’Adriatico con il sottotitolo Diario di una scrittrice inglese in Italia (1873-1885) pubblicato dal Lavoro Editoriale di Ancona nel 1981, ma l’originale Our Home by the Adriatic era stato edito in Londra nel 1886. Uno dei tanti titoli che arricchiscono la bibliografia dei viaggiatori inglesi in Italia. Le memorie della Collier, velate da una punta di snobismo tutta britannica, sono essenzialmente di carattere antropologico: signore marchigiane, mezzadri, donne di paese, autorità

amministrative e poi ancora gli interni delle case, i lavori agricoli, i costumi e le abitudini di una terra tradizionalista come le Marche. Ogni tanto c’è spazio per qualche apertura paesaggistica, come questa veduta presumibilmente colta da Torre San Patrizio: “Fra l’Adriatico e i monti della Sibilla nell’Appennino si stende una terra fertile ed ondulata, ricca di cereali, vino ed olio. Campi di grano, grano-duro, di sulla, di lino, di legumi, coprono le valli ed i pendii delle colline … Queste mura, la chiesa di cui si vede il campanile slanciato, e l’arco attraverso il quale si entra nella via principale, dal fondo ineguale e in salita, parlano di Medio Evo …”.

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Macerata


Belforte del Chienti

Sfondo collinare della “Terra del peccato” Paese quieto come il viso e il sorriso delle sue ragazze

G

ià nel nome conserva la sua vocazione militare, che risale al periodo romano quale avamposto difensivo sulla strada per Roma. Analogo discorso vale per il Medio Evo. Poi Bel Forte del Chienti si trasformò in un quieto paese di collina. Come luogo letterario, Bel Forte del Chienti fa da sfondo ad un romanzo, La terra del peccato (Torino 1953) di Tullio Consalvatico, il non dimenticato compilatore dell’antologia Scrittori Piceni (Firenze 1933). Sul romanzo è stato scritto da A. A. Bittarelli: “Tullio Consalvatico ha dedicato pagine appassionate a Belforte nel romanzo migliore d’altre sue opere perché più sobrio, perché alimentato dalla terra e dalla schiettezza Belfortese”. Nella citata antologia il Consalvatico si inserisce con una poesia di sapore crepuscolare, Paese: “Paese che quieto stai/come il viso/e il sorriso/delle tue belle ragazze/Paese dalle piccole strade/ odoranti garofani e timo/ che ogni finestra

possiede/ come per antico diritto/ quale perenne dovere”. Echi crepuscolari, si dirà, ma resta indubbio l’incanto di questi paesi che sanno veramente dare pace e profumano di fiori. A mezza strada tra un fatto di costume e una testimonianza letteraria è legata una quartina di versi in dialetto maceratese dedicata a Belforte del Chienti tra ‘700 e ‘800. Erano tempi di grandi cambiamenti epocali anche nello Stato Pontificio sulla spinta delle innovazioni napoleoniche. A Belforte l’orologio del campanile che segnava le ore secondo il calendario pontificio che partiva dall’Ave Maria alle nostre 18, venne aggiornato “alla francese” segnando il tempo da mezzanotte a mezzanotte. L’anonimo scrittore con sottile ironia annota: “Belforte in cime al monte/sinz’acqua e senza fonte/ci ha lu relogju alla frangese/accidempoli che paese!” Certo era più 36 importante fare l’acquedotto 37 che aggiungere l’orologio.


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Macerata Scenario d’amore tra una nobildonna e il poeta dialettale romano Belli Giudizi divergenti su questa relazione in terra marchigiana


Morrovalle

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uando il terremoto del 1997 tra Marche ed Umbria, ha riportato l’attenzione mondiale sulla basilica di S. Francesco ad Assisi e sugli affreschi di Giotto, dedicati ad illustrare la vita e i miracoli del santo assisiate, tutti hanno parlato di Cimabue, di Giotto, di Piero Cavallini e di altri artisti. Nessuno si è ricordato del committente, il cardinal

Giovanni Minio, natio di Morrovalle e generale dell’odine dei Francescani. Già questo basterebbe a privilegiare Morrovalle tra i centri di grande rilevanza culturale. L’ottocento romantico riporta Morrovalle all’attenzione degli studiosi di letteratura, perché è lo scenario dell’amore tra la nobildonna morrovallese Vincenza Roberti e il più grande poeta dialettale romano, Giuseppe Gioachino Belli. Su questo amore i giudizi sono divergenti; c’è chi ne sottolinea l’aspetto sentimentale e i riflessi sulla produzione poetica del Belli, c’è chi, come Carlo Muscetta, nella introduzione dell’antologia di Giuseppe Gioachino Belli, Lettere Giornali Zibaldone (Torino 1962) liquida la questione con un freddo giudizio: “L’amore per la Roberti era nato dalla provocante iniziativa di una focosa ragazza provinciale conquistata dal fascino ancor giovanile d’un brillante intellettuale conosciuto a

Roma e poi lungamente vagheggiato in un paesino sperduto nelle Marche”. Comunque siano andate le cose, il Belli a Morrovalle si era trovato bene. In una lettera scriveva nel luglio 1831 “Io son qui dopo aver passeggiato per molti giorni la provincia, troppo bello e sfortunato asilo di ladri”. Belli soggiornava spesso anche a Recanati presso i conti Solari, dove aveva frequentato Giacomo Leopardi. In un appunto di viaggio, Belli notava, “Il 19 venerdì (1827), fummo visitati dalla signora Vincenza Perozzi venuta col marito sig. Pirro Perozzi e con la loro bambina di 5 mesi, con la madre di lei sig. marchesa Marianna Roberti e col Padre Domenico Rutili della terra di Serravalle”. C’è da chiedersi se in così cospicua compagnia, il marito, la bambina, la mamma e il frate di Serravalle, i due amanti Vincenza (detta 38 Cencia) e Gioachino si siano 39 almeno baciati.


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San Ginesio

Borgo medievale ben descritto da una tavola quattrocentesca Mura, torri di guardia conventi guerrieri in battaglia

G

ià Tra le tante chiese di San Ginesio ce n’era una dedicata a S. Michele, oggi sconsacrata. Presenta ancora sul fianco un raro portale gotico e nell’interno alcuni affreschi. Ma la chiesa di S. Michele viene ricordata in questa sede, perché il primo documento, in cui ricorre il nome di San Ginesio, risalente all’anno 996, nell’imminenza del fatidico anno mille, riguarda proprio la sua costruzione, “In castello qui dicitur ad Santum Genesium super flumen Flusoris in colle Esculano”. San Ginesio conserva tutt’ora l’impianto urbanistico medievale con tanto di mura, porte, torri di guardia, e un non comune edificio porticato, conosciuto come Ospedale dei Pellegrini (sec. XIII). Ma San Ginesio è circondato anche da un paesaggio incantevole, che un poeta-pittore bolognese, Cesarino Vincenzi ha sintetizzato nei seguenti versi: “A San Ginesio per i verdi olivi/ vorrei vagare, arbitro l’estro mio/ dipinger poggi e

querce e attorti olivi./ Finché l’erba non perde i suoi colori/ e posano farfalle sopra i fiori”. Nella Pinacoteca civica di San Ginesio è custodito un quadro Sant’Andrea e la battaglia tra Ginesini e Fermani (databile 1463) con una veduta medievale della città. Il dipinto trova un riscontro letterario nella prosa della romanziera Dolores Prato: “Guardando da nord, il paese non si distingue bene essendo tutto chiuso nelle sue alte mura medievali che, da quella parte, aiutate dalla configurazione del terreno, nascondono torri e campanili. Da lì quelle mura sembrano la naturale terminazione rocciosa del monte”. Più dettagliata la descrizione di Gilberto Lisotti in chiave di giornalista, “Una bella tavola quattrocentesca evoca e sintetizza tutta San Ginesio medievale, raffigurando mura, tetti, campanili, chiese, conventi, guerrieri fermani e ginesini in battaglia, sormontati da un grande barbuto Sant’Andrea, 40 che tiene fermo in mano il 41 vessillo municipale”.


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Treia

Una piccola Siena medievale nel cuore delle Marche Nei tempi antichi si chiamava Trea

N

ei tempi antichi era Trea, nel Medio Evo divenne Montecchio, nel 1790 papa Pio VI Braschi elevandola al ruolo di città, le rimpose il vecchio nome di Treia che conserva tutt’ora. Sul filo di una atavica nostalgia ha scritto su Treia alcune belle osservazioni Giovanni Spadolini, quando ancora era direttore del Resto del Carlino, nella prefazione al volume di Dario Zanasi, Viaggio nelle Marche (Bologna 1961): “A Treia, la città del nonno, la città che ha voluto onorare la memoria conferendo a me la cittadinanza onoraria che a lui spettava per diritto di sangue, nessun luogo mi parve nuovo, nessun angolo sconosciuto. Non l’Accademia Georgica, la cui stupenda facciata del Valadier aveva sempre rallegrato i lieti soffitti della vecchia casa diventati ora i soffitti della mia biblioteca, il cielo dei miei libri … Non le stradine strette e ripide che dalla piazza della Repubblica si irradiavano verso il basso, quasi frammenti di una Siena

medievale nel pieno cuore delle Marche”. Nel medesimo volume il giornalista Dario Zanasi si dilunga a raccontare Treia come un luogo letterario avendo ispirato una canzone di Giacomo Leopardi A un vincitore di pallone. “Si chiamava Carlo Didimi ed era appunto un nobile uomo fornito da madre matura di eccellenti doti atletiche che a quei tempi suscitavano lo stesso entusiasmo che oggi potrebbe sollevare un ciclista”. Poche pagine prima, Zanesi aveva descritto la piazza principale, “Piazza della Repubblica – il luogo più alto è il palcoscenico e il balcone di questa armoniosa cittadina romana e papale. Una balconata lascia scoperta la piazza a levante permettendo un panorama vasto e incantevole di colli brulicanti di città e di paesi”.

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Macerata Una vocazione guerresca lungo i secoli Le battaglie trovano spazio nei poemi cavallereschi


Visso

L’

origine di Visso è quella del borgo fortificato per controllare uno dei tratturi della transumanza appenninica tra Marche e Umbria. La posizione geografica favorì lo sviluppo del centro, che, a tutt’oggi conserva una dignità architettonica non comune, concentrata nella piazza maggiore, dove si affacciano l’ex chiesa di S. Agostino ora museo-pinacoteca; la collegiata di Santa Maria (sec. XIII) con il portale aperto sulla fiancata prospiciente la piazza; il Palazzetto dei Priori attuale sede del Comune, il Palazzo del Governatore e il Teatro. Nei secoli Visso ha sempre coltivato una sua vocazione guerresca sia con i litigiosi vicini che con i Norcini dell’Umbria, contro i quali ottenne nel luglio 1522 una strepitosa vittoria nella battaglia di Pian Perduto.

Il fatto ha trasceso la cronaca storica per entrare nella leggenda dei poemi cavallereschi con le ottave di due poeti-pastori, un non meglio specificato Berrettaccia e un Torquato Tarragoni. I loro versi venivano recitati dai cantastorie e dai pastori nelle loro transumanze, come questo grido delle milizie vissane “Guerra, guerra, signor, non vogliam pace”. Uno studioso marchigiano Tullio Consalvatico ha dedicato a Visso un’elegante poesia che ne riassume il genius loci: “I secoli circondano la piazza (di Visso);/ le camminano intorno/ con il passo dei loggiati fruscianti/ di penombra e di luci; fiorisce il cielo azzurro/ sullo stelo del vento mattutino. Si colma/ in un attimo di sole il silenzio ghiacciato/ dei canali. Si partono le strade accompagnate/ dal canto delle acque, verso i monti; trottano/ loro accanto fino agli alti pascoli, ove/ il campano degli armenti è un singhiozzare/ lieto d’altri monti. Nella notte si specchiano/ le case nel

chiaro volto della cattedrale:/ trasfigurata è in luce dalla luna/ la sua pietrificata ansia di ascesa”. Nel territorio di Visso c’è anche sullo altipiano appenninico, ai confini con l’Umbria, il santuario di Macereto (sec. XVI) a pianta quadrata studiato da Pietro Zampetti in una monografia del 1957 dove scrive: “Nello sconfinato silenzio della natura, il complesso architettonico costituisce un elemento dominante, ma chiuso in sé; una pausa, quasi, che interrompe la desolata solitudine …”.

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Pesaro Urbino Famosa per la citazione di Montaigne nel 1581 Il verde delle valli e è il colore

delle colline dominante


Borgo Pace

S

ulla penisola formata dalla confluenza dei torrenti Meta e Auro, e da questo punto si forma il glorioso Metauro, sorge il paese di Borgo Pace. Se c’è un colore dominante, questi è il verde; verde è l’Alpe della Luna, verdi sono le valli e le colline che circondano Borgo Pace e i castelli minori, verde è il valico di Bocca Trabaria che da sempre unisce le Marche alla Toscana, verdi sono i boschi della Massa che per secoli hanno fornito Roma di pregevoli travi e legnami in genere, verde in fine è l’acqua del Metauro e dei suoi affluenti che rispecchiano con una luce cangiante il paesaggio d’intorno.

La storia di Borgo Pace è abbastanza recente. Risale alla fine del 1827, quando un papa di origine marchigiana, Leone XII stabilì con un decreto la creazione del nuovo comune di Borgo Pace, che comprendeva anche i castelli appenninici di Lamoli, Castel dei Fabbri, Sompiano, Palazzo dei Mucci, Parchiule e Dese. Piccole frazioni sparse tra le forre delle valli e sullo scrimolo delle colline con le case di pietra e le chiese romaniche, come l’abbazia benedettina di Lamoli dedicata a San Michele Arcangelo e di origine prima del Mille. C’è un lavoro a mezzo tra la selvicoltura e l’artigianato che caratterizza la zona di Borgo Pace e della Massa Trabaria ed è quello dei carbonai. Un mestiere antico fatto di manualità e di intelligenza, attuato quasi attraverso una ritualità che si perpetua nei gesti e nei tempi, e ancora oggi è fonte di lavoro e di reddito. Borgo Pace ha avuto l’isperata fortuna di essere citato nel Viaggio in Italia di Michel

de Montaigne sia pure con termini di supponenza: “… e per una strada che già cominciava a risentir dei monti dell’Appennino venimmo a pranzo a Borgo a Pasci, dieci miglia, villaggetto su un gomito dei monti con una misera osteria adatta al più per una cena …”. Montaigne scriveva queste cose nel 1581. Oggi Borgo Pace non è molto cambiato: è sempre un villaggetto su un gomito degli Appennini, ma per merito del grande umanista francese è entrato come toponimo nella geografia letteraria che conta e per un piccolo villaggio come Borgo Pace non è cosa da poco.

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Pesaro Urbino Una Valle dell’Eden nel cuore del Montefeltro Affascina il sontuoso palazzo comitale nel montuoso paesaggio


Carpegna

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l primo ad avvalorare il mito di una Carpegna terra benedetta da Dio, colma di ogni bene e feconda di abitanti felici e longevi, una valle dell’Eden nel cuore del Montefeltro, è stato il suo storico più illustre, quel Pier Antonio Guerrieri che ne La Carpegna Abbellita et il Montefeltro Illustrato (Urbino 1667), nella ridondante prosa del Seicento, lo ha fissato per sempre come stereotipo paradigmatico. Nella tarda primavera del 1705, una nobile compagnia di gentiluomini, si reca a Carpegna in visita ai Conti, signori di quel territorio. Tra gli altri c’è un dotto medico romano, Giammaria Lancisi, archiatra pontificio che, come in uso in quel tempo, sotto il pretesto letterario di alcune Lettere Inedite (Roma 1841), descrive l’avventuroso viaggio nel Montefeltro e tra le tante vivaci e puntuali osservazioni, dedica questa al palazzo comitale dei Carpegna, edificato nel 1675, vera meraviglia tra quelle

montagne: “Questa fabbrica è ammirabile perché giunge nuova all’immaginativa di chi ha provato la difficoltà delle strade che vi conducono. É parimenti nobile, è maestosa, perché essa è di una struttura, è di una grandezza straordinaria, degna perciò di stare in qualsivoglia metropoli. É isolata, ed è in un piano un tantino inclinato. Ha la facciata davanti, e quella dietro con i risalti ne’ fianchi, che, sporgendo in fuori, ornano ed ingrandiscono l’abitazione”. La descrizione del sontuoso palazzo, veramente inusuale nel montuoso paesaggio montefeltresco, ritorna in una elegante pubblicazione Italian Casteles and Country Seats (London 1911) della nobildonna Tryphosa Bates Batcheller. Sotto forma di lettera ad un’amica scrive del faticoso viaggio da Rimini a Carpegna definita “un sogno tra le nuvole”. Resta colpita dalla grandezza architettonica del palazzo; trova la Principessa di Carpegna in gita verso la

Cantoniera in compagnia della figlia sposata al nobile austriaco Thun-Hohenstein. Dopo un tè nel salone del palazzo, le nobildonne si soffermano ad ammirare il paesaggio che da collinare si trasforma in montuoso tra il Simoncello e la Cantoniera. Certo quel tempo è ben lontano e diverso da quello descritto dal giornalista scrittore Paolo Rumiz in un suo viaggio in Italia negli anni 2000. Salito da Rimini lungo la Val Marecchia si ferma al Passo della Cantoniera. Invece di ammirare il paesaggio, tra l’altro offuscato da un violento temporale estivo, Rumiz resta colpito dalla chiassosa compagnia di alcuni ciclisti belgi attardati dalla pioggia. Tempi diversi. Cento anni prima nobildonne di mezza Europa centellinano il tè ed ammirano il paesaggio. Cento anni dopo il medesimo scenario accompagna l’andare di alcuni giovani ciclisti più attenti alla prestazione sportiva che 48 alla inconsueta bellezza del 49 paesaggio.


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Pesaro Urbino


Mondolfo

Luogo di incroci e di incontri di guerra e di pace Una torre di guardia all’imbocco della valle del Cesano

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ondolfo fu nel secolo XI Castelmarino e dal toponimo si arguisce la funzione militare di guardia all’imbocco della valle del Cesano. Da sempre luogo di incroci e di incontri di guerra e di pace. C’è una testimonianza illustre nello scritto dello storico fiorentino, Francesco Guicciardini, che nell’aprile 1517 partecipò in prima persona all’assedio di Mondolfo con le truppe pontefice al comando di Lorenzino dei Medici, e ne riferisce il fatto nella Historia delle Cose d’Italia ( Firenze 1541). Fino al terremoto del gennaio 1924 esisteva a Marotta una Torre di Guardia (sec XV), popolarmente chiamata “Porta di Ferro”, sulla strada litoranea da Fano a Senigallia. Un rarissimo scritto risalente al primo anno del Settecento e redatto dall’allora ministro della guerra e futuro Cardinal D’Aste per il Papa urbinate Clemente XI, appena salito al soglio, dal titolo Forze e Fortezze pontificie alla fine del

secolo Decimosettimo (Roma 1888), nel paragrafo Torri dell’Adriatico così descrive “la Marotta è una Casa, la quale serve per ricovero di otto Soldati di militia con un Caporale di San Costanzo, Barchi ed Orciano che battono la spiaggia”. Tra Marotta e Mondolfo corrono pochi chilometri e la valle del Cesano si distende in un paesaggio armonico alternato di colori. Il giornalista Dario Zanasi così lo descrive nel suo Viaggio nelle Marche (Bologna 1961), “un viaggio di pochi minuti. Però, mentre si va su quasi senza accorgersene, passando in rivista alberi e poderi poggiati su un cuscino, vien voglia di pensare a quanto dovrebbe esser bello compiere il tragitto su una carrozzella scoperta su uno di questi sottili legni Ottocenteschi”. Una battuta romantica per un paesaggio indimenticabile. 50 51


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Pesaro Urbino Realtà storica apparentemente piccola tra bolle papali e castelli La più suggestiva meta artistica è la chiesetta del Crocefisso


San Giorgio di Pesaro a Marco

S

i chiama così con R. D. del 1862 per distinguerlo dagli altri venti Comuni omonomi sparsi in diverse regioni italiane dal Piemonte alla Calabria. E’ stato notato che nelle Marche non c’è paese pure piccolo, dove non si trovino tracce importanti di civiltà. E’ il caso di San Giorgio: fino a qualche anno fa dimenticato in qualche riferimento di straforo. La scarsa bibliografia si ripeteva nei soliti paradigmi; ameno villaggio di collina tra le valli del Metauro e del Cesano, nessun particolare monumento da segnalare, una cinta muraria in parte sopravvissuta alle intemperie e all’incurie degli uomini, infine un paesaggio agreste per gente buona e gentile. Ma è venuto anche il tempo del riscatto. Per “l’amor loci” di un suo figlio, Marco Belogi, San Giorgio ora può vantare un’ampia monografia raccolta in un volume in quarto, con decine di illustrazioni. Come per tanti castelli minori, le vicende storiche di San

Giorgio restano legate ai poli aggreganti di Fano, della dominazione dei Malatesti, del Vicariato di Mondavio, del Ducato di Urbino con i Della Rovere, dello Stato della Chiesa, infine dell’Italia unita. Un veloce excursus tra registri, pergamene e bolle, raccoglie alcune date essenziali divise tra i centri del Castel di Poggio e di San Giorgio. Il più antico documento è la bolla di Papa Adriano che nel 777 d.C. concede i due castelli all’abate del monastero di San Martino a Fano. Altre bolle confermano i poteri delle signorie dei Malatesti (1347), del Vicariato di Mondavio (1462), per passare poi allo Stato Pontificio (1631). Tra le rare testimonianze letterarie cito l’avvio del breve capitolo dedicato a S. Giorgio, per altro ripreso in parte dal volume geografico, di Gustavo Straforello (1898) e di Enrico Deho, Paesi Marchigiani (1910), “Un piccolo paese su di amene colline, ove abbondano pascoli eccellenti, così che l’industria del bestiame è

molto estesa”. Il primo Repertorio delle opere d’arte della provincia di Pesaro e Urbino risale al 1925 redatto dall’allora sovraintendente Luigi Serra. A S. Giorgio sono dedicate due righe “Chiesa, Cappella del Crocefisso, Arte Marchigiana, sec. XVI, Crocefisso in legno, alt. 1,45”. La chiesa è quella dedicata a San Pasquale e il Crocefisso adesso è collocato nell’abside. Ma la più suggestiva meta artistica resta la chiesetta del Crocefisso che ha incorporata quella dedicata alla Madonna in Castagneto. Tra la base del campanile e la sacrestia sono ancora visibili alcuni affreschi risalenti al XV secolo e oggi restaurati. Una visita suggestiva e piena di religiosità e di incanto.

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Pesaro Urbino In principio furono i “Magistri Comacini” Tra il ‘500 e il ‘600 tantissimi lapicidi lavorano arenaria marmo e scagliola


Sant’Ippolito a Donatella

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ai tempi antichi il destino di Sant’Ippolito resta legato a quello di Fossombrone, il centro aggregante della media valle del Metauro. L’evoluzione storica ricalca il modello stereotipo di tanti altri agglomerati urbani e collinari della provincia pesarese. Un ipotetico insediamento di origini picena; un vicus romano per gli addetti alle cave di arenaria: un luogo di rifugio durante le incursioni barbariche per i profughi di valle data la posizione orografica sul filo dei colli;

durante il medioevo cristiano sede di pieve e di monasteri; indi territorio feudalizzato nel susseguirsi delle famiglie signorili, Malatesti, Montefeltro, Della Rovere; dopo la Devoluzione nel 1631 del Ducato di Urbino, parte integrante dello Stato Pontificio; infine dal 1861 comune dello Stato italiano. Questa, a grandi linee, la griglia entro la quale si è sviluppata la microstoria di Sant’Ippolito, anch’essa similare negli accadimenti e negli uomini a quella dei comuni medio-piccoli dell’attuale provincia di Pesaro-Urbino. Sant’Ippolito può vantare una specificità; in parte dovuta alla presenza in natura di materiale arenario, in parte all’attività artigiana della sua lavorazione, alle volte con implicazioni di vera opera d’arte, realizzata dai lapicidi. Il “logo” dunque che identifica Sant’Ippolito sono i lapicidi di ieri e di oggi. In principio ci furono i “Magistri Comacini”, architetti,

capomastri, scultori, lapicidi, che dalle valli lombarde scesero per l’Italia. Alcuni magistri, dopo aver lavorato a Fano con grande successo, risalirono la valle del Metauro in cerca di nuove committenze e l’antico Forum Sempronii poteva essere il luogo adatto, favorito tra l’altro dagli incarichi artistici e militari dei Montefeltro. Così nel 1479 si trova a Sant’Ippolito, Felice di maestro Alberto “scalpellino de Como” come testimonia l’atto notarile di ser Nicolò. Da allora è un susseguirsi di maestranze locali che, recepite le tecniche manifatturiere, non solo lavorano la pietra arenaria del posto, ma anche il marmo e la scagliola. Sono più di trenta i lapicidi di Sant’Ippolito documentati dalle ricerche di Augusto Vernarecci, attivi nel secolo XVI; più di cinquanta nel XVII; una miriade nel Settecento che lavorano in tutta l’Italia centrale. Altari, pulpiti, sepolcri, portali, 54 55 stipiti, sculture si diffondono


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Pesaro Urbino soprattutto nelle Marche; da Fossombrone a Loreto, da Urbino a Fermo, da Jesi a Fano. Tra una tipologia artigianale così variegata, spicca per originalità una produzione d’arte popolare rappresentata dalla iconografia della Madonna di Loreto. Le semplici statue avevano per lo più la destinazione di finire sulle facciate delle case della campagna marchigiana o nelle piccole edicole agli incroci delle strade. Un segno di arte e di fede oggi tornato di attualità, dopo un lungo periodo di eclisse, grazie all’impegno delle nuove botteghe artigiane di Sant’Ippolito, che ripropongono i modelli degli antichi maestri rivisitati con la stessa passione e il medesimo impegno di una volta. Sant’Ippolito ha avuto la fortuna di essere stato studiato da monsignor Augusto Vernarecci, lo storico per eccellenza di Fossombrone. Il volume Del Comune di Sant’Ippolito e degli scarpellini

e dei marmisti del luogo (Fossombrone 1900) è ancora oggi valido. Cito “il castello di Sant’Ippolito … non è luogo affatto ignoto nell’Italia centrale. Alla dimenticanza, a cui gli abitanti sarebbero stati inevitabilmente condannati dalla piccolezza del luogo, essi sfuggiranno col darsi fino da remota età al lavorio delle pietre da taglio, possedute in copia nei dintorni, e più tardi all’intarsio dei marmi…”. Una preziosa testimonianza letteraria sul paesaggio metaurense che circonda Sant’Ippolito, si legge in una lettera del 1818, scritta dal poeta inglese Percy Bysshe Shelley, il grande amico di Lord Bayron, “Da Fano abbiamo lasciato la costa dell’Adriatico per inoltrarci negli Appennini. … Seguendo il fiume la vallata si restringe, le sponde si fanno ripide e rocciose, le foreste di querce e di lecci che sovrastano il corso d’acqua smeraldo, s’inerpicano ai fianchi dei precipizi scoscesi … la strada corre parallela al fiume”.



BIBLIOGRAFIA A titolo esornativo e per documentare le mie ricerche sulla letteratura descrittiva delle Marche, elenco la bibliografia in materia. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14.

15.

Casanova e altri viaggiatori a Pesaro nei secoli XVII e XVIII (Pesaro 1978) Note sulla letteratura descrittiva della Provincia di Pesaro. Urbino con un saggio bibliografico (Fano 1979) Marche. Un luogo letterario (Pesaro 1979) Gli itinerari dei viaggiatori, in Atlante. Storico del territorio Marchigiano (Ancona 1983) Dove è bello andare (Pesaro 1984) Memoria e mito del Palazzo Ducale di Urbino nei testi letterari dal XV al XX secolo. Appunti per un’antologia (Urbino 1985) Le Marche. Una metafora per i viaggiatori (Torino 1987) La Villa Imperiale come luogo letterario tra XVI e XIX secolo (Roma 1987) Urbino XIX. Mito romantico della città (Urbino 1989) Implicazioni culturali nel “Petit tour” sul filo delle colline Umbro-Marchigiane (Perugia 1991) La Marca di Casanova (Rimini 1991) Rimini nelle descrizioni dei viaggiatori stranieri dal XVI al XX secolo (Rimini 1992) Il Grand Theatro di Pesaro. Guida letteraria alla città (Pesaro 1994) Le città Marchigiane nel mito del “Voyage en Italie” con un primo saggio di bibliografia sui viaggi nelle Marche dal XVI al XX secolo (Ancona 1997) Una sufficiente felicità. La Marca immaginata tra lettere e iconografia dal I al XIX secolo (Camerano 1998)

16. Guida letteraria di Ancona (Ancona 1998) 17. Guida letteraria di Recanati (Ancona 1998) 18. La città descritta. Itinerari e guide dei viaggiatori adriatici (Ancona 2001) 19. Il viaggiatore provveduto. La guida dei Centri Storici della Provincia di Ancona (Ancona 2001) 20. Guida letteraria di Fermo (Ancona 2002) 21. Urbania. Un’arcadia ritrovata con Vernoon Lee (Urbania 2002) 22. La lettera furtiva. Trattati e memorie di viaggi nel Settecento (Modena 2003) 23. Antologia per il Parco letterario Paolo Volponi (Urbino 2004) 24. Loreto e Recanati. Luoghi dell’anima (Loreto 2004) 25. L’ Isaura Esanclito. Il mito letterario del paesaggio e della città di Pesaro (Venezia 2005) 26. Al passar dei Lumi. Essere a Pesaro nel Settecento (Pesaro 2005) 27. La Provincia illuminata, congiunture letterarie nella Provincia di Pesaro-Urbino (Pesaro 2005) 28. “Col pié d’argento”. Note letterarie per Senigallia e le Valli Misa, Nevola e Cesano (Ancona 2009) 29. Le parole e la Città. Guida letteraria delle Marche (Ancona 2010) 30. Le Marche viste e pensate (Firenze 2011) 31. Un profilo di carta. Testi letterari sulla Pesaro dell’Ottocento (Venezia 2013) 32. Scrittori inglesi e americani a Urbino e dintorni (Ancona 2013)



leCentocittà Sede Via Asiago 12 60124, Ancona Poste Italiane Spa spedizione in abbonamento postale 70% CN AN Reg. del Tribunale di Ancona n.20 del 10/7/1995 ISSN 1127-5871 Progetto grafico e impaginazione Sergio Giantomassi Finito di stampare nel luglio 2020 Errebi Grafiche Ripesi Falconara Marittima (AN)




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