Centocittà n. 74

Page 1

Rivista di divulgazione culturale e artistica del territorio marchigiano | Sped. in a.p. - 70% - Filiale di Ancona

ISSN 1127-5871

ARTE | STORIA | ARCHEOLOGIA | LETTERATURA | SOCIETÀ | MUSICA | SCIENZE

Dante l’immortale

NUMERO

74|2021 GIUGNO



Preludio

3

“Dinanzi a me non fuor cose create se non etterne, e io etterno duro. Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate” Inferno canto III - vv. 7-9

“Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona” Inferno canto V - vv. 103-105

«Or ti piaccia gradir la sua venuta: libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta» Purgatorio Canto I - vv. 70-72

“e fanno un gibbo che si chiama Catria, di sotto al quale è consecrato un ermo, che suole esser disposto a sola latria”. Paradiso XXI - vv. 109-111


Editoriale

4


L’editoriale

5

Non l’annus mirabilis forse una ver mirabilis

N di Filiberto Bracalente Presidente de Le Cento Città

Nell’anno attuale ricorrono numerosi anniversari nel panorama culturale nazionale celebrati con iniziative e convegni

on siamo ancora all’auspicato annus mirabilis, ma forse a una ver mirabilis. Le iniziative culturali nella nostra regione in queste ultime settimane sono numerose e molteplici e aumentano al ritmo di un crescendo rossiniano. Stiamo assistendo ad una rinnovata voglia di vivere e di partecipare ad attività ed iniziative culturali che rinascono, coloratissimi fiori in un deserto dopo tanta agognata pioggia. Abbiamo atteso a lungo, navigando a vista in questi interminabili mesi, aspettando che il mare e la tempesta si placassero e finalmente ora le colombe tornano cariche di ramoscelli di ulivo che da tanto attendevamo. Siamo grati a tutti i soci e ai relatori che hanno animato i sette appuntamenti virtuali dei “Dialoghi con l’Arte” che ci hanno accompagnato in questo lungo periodo di forzato distanziamento. Nell’anno in corso ricorrono numerosi anniversari nel panorama culturale nazionale e anche la nostra regione li celebra con iniziative e convegni; fra i molti il VII centenario dalla morte di Dante Alighieri, che in questo numero viene ricordato ampiamente. Per l’anniversario dantesco sono tante le iniziative che risulta difficile enumerarle; grande dinamismo si rileva nella Società Dante Alighieri (vedi articolo) che come noto nel nome del “padre” della nostra lingua ha da sempre l’impegno della diffusione dell’idioma e della cultura italiana nel mondo. La nascita di questo sodalizio, di grande significato identitario nazionale, avviene nelle nostre contrade marchigiane,

in quel clima instauratosi dopo il 1861 con la tanto attesa e desiderata unità d’Italia, allorquando si affermava Abbiamo fatto l'Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani. A Macerata, in Via Crescimbeni, al civico 27, ancora oggi una targa ricorda: Qui / Giacomo Venezian / triestino irredentista / docente nell’ateneo maceratese / caduto nella prima guerra mondiale / ideò e propose nel 1888 / la società Dante Alighieri / il Comitato maceratese della Dante / pose questo ricordo 21 maggio 1950. Torniamo un attimo a quel tempo, era ancora nell’aria l’eco delle celebrazioni a Firenze, in quel momento capitale d’Italia, del VI centenario della nascita di Dante, con l’ultimazione della facciata della Basilica di Santa Croce (su progetto dell’arch. Niccolò Matas di Ancona) e l’inaugurazione della grande statua del poeta, collocata allora, al centro della Piazza antistante, ed erano recenti le grandi celebrazioni per la traslazione delle spoglie di Gioacchino Rossini nella Basilica di Santa Croce Pantheon degli italiani. In questo contesto, il professor Giacomo Venezian (docente di Diritto presso l’Università di Camerino 1885-87 e poi all’Università di Macerata 1887-95) scrive una lettera a Giosuè Carducci in data 21 Novembre 1888 in cui per la prima volta si propone di costituire una società per la tutela e la diffusione della lingua italiana. Il poeta risponde subito all’appello e a lui si deve l’idea di dare alla società il nome di Dante. Nel 1889 viene pubblicato e diffuso il Manifesto agli Italiani, la Società è ormai formata. ¤


Il punto

6

Dante non è morto I suoi versi sono vivi

D di Franco Elisei Direttore de Le Cento Città

Il 2021 anniversario di grandi personaggi ma anche di grandi cambiamenti socio-politici

ante l’immortale. Immortale nei versi e nel messaggio senza tempo. E’ il titolo e il taglio che abbiano voluto dare a questo numero della rivista per celebrare anche noi i 700 anni dalla sua scomparsa, ma non dalla sua morte letteraria, perché le sue terzine sono ancora forti, potenti. Passi della Divina commedia accompagnano ancor oggi momenti della nostra vita e quella dei giovani, conquistati dal carisma del linguaggio dantesco. Il Dante celebrato da “Le Cento città” vuole raccontare quanto sia attuale il padre della lingua italiana, attento osservatore del suo secolo e ardito feditore, non solo poeta, fino a diventare guerriero nei versi. Dall’arme alla poesia. Il suo messaggio universale è risuonato anche nel luogo di morte di Auschwitz, per ricordare che la dignità umana non può essere ridotta brutalmente a numeri. E Dante lo cerchiamo anche nei nostri territori, alla scoperta di testi e testimonianze che avvalorino il suo passaggio nelle Marche. Tanti i riferimenti, certi o dedotti, nella provincia di Pesaro e Urbino. In particolare nell’eremo di Fonte Avellana, citato nel Paradiso. Dante onnipresente: i suoi versi sono sempre stati vivi nell’arte, ispirando la matita sanguigna del marchigiano Federico Zuccari nelle magnifiche scene brulicanti di anime, fino alle rappresentazioni contemporanee di Cucchi. E di arte continuiamo a parlare con una richiesta di contributo lanciata, per la prima volta nella sua storia, dalla Galleria Nazionale delle Marche per restaurare l’altorilievo della Vergine con Bambino di

Luca della Robbia, conservato a Urbino. “It can be done”, si può fare, attraverso l’Art bonus, strumento sempre troppo poco utilizzato da imprenditori e comuni cittadini che si dicono sensibili alla bellezza dell’arte. In campo artistico, la rivista non poteva, infine, dimenticare il tenore Franco Corelli, il mito del teatro d’opera, la “voce”, che accosta la bellezza delle note alla prestanza scenica, nato un secolo fa ad Ancona e protagonista indiscusso di palcoscenici internazionali. Ma il 2021 non è solo l’anniversario di grandi personaggi. Lo è anche del Referendum per la scelta tra monarchia e repubblica cui sono state chiamate ad esprimersi per la prima volta le donne. Sette marchigiani su dieci preferirono la via repubblicana eleggendo anche una donna all’Assemblea Costituente. E marchigiana è anche la prima sindaca eletta in Italia, sempre nel 1946. Al di là della Repubblica, è stato il primo passo verso il riconoscimento di una parità che dieci maestre di Senigallia e Montemarciano avevano provato a conquistare già nel lontano 1906, sulla spinta di Maria Montessori, reclamando il diritto di voto finora concesso solo ai maschi. Un diritto rivendicato anche in altre parti d’Italia ma accolto, allora, solo da un giudice illuminato della Corte d’appello di Ancona. Sentenza, però, subito cancellata dalla Cassazione. Forse per paura di mettere a rischio gli equilibri politici. Bisognerà aspettare quaranta anni per incrinare quel muro di disparità che per molti aspetti resiste ancora. Attaccato a qualche vetusto mattone. ¤


Argomenti

7

Sommario 10

Donne al voto

Dieci marchigiane le prime elettrici DI PAOLA CIMARELLI

16

La nascita della Repubblica

Sette su dieci votarono no alla monarchia nelle Marche DI CLAUDIO DESIDERI

21

Il sogno infranto

Unesco, no di Urbino all’antico ducato DI DINO ZACCHILLI

25

Le sindromi

Sofferenza psicologica provocata dal Covid-19 DI SALVATORE PASSANISI E ROBERTO PANI

28

La “voce”

Franco Corelli, un mito del teatro d’opera DI FABIO BRISIGHELLI

33

70esima rassegna internazionale

Sassoferrato omaggia Mattiacci e le sue opere DI FEDERICA FACCHINI

35

Un giorno con l’artista

“Ho giocato a bocce con le opere di Eliseo” DI CURZIO CICALA


Argomenti

8

Sommario 37

Art bonus a Urbino

Lunetta a rischio Tutti possono salvarla DI FEDERICA FACCHINI

38

Il sommo poeta | 1

Divina Commedia. Nella “sanguigna” di Zuccari la lezione morale DI GRAZIA CALEGARI

45

Il sommo poeta | 2

L’influenza di Dante sull'arte contemporanea DI FEDERICA FACCHINI

48

Il sommo poeta | 3

Il passaggio di Dante nelle Marche tra leggenda e realtà DI NANDO CECINI

54

Il sommo poeta | 4

A ragionare di Dante l’uomo e il suo tempo DI LUIGI BENELLI

55

Il sommo poeta | 5

Messaggio senza tempo Dante ad Auschwitz DI PAOLO ERCOLANI

58

Il sommo poeta | 6

Il carisma del “dantese” conquista anche oggi DI LUCILLA NICCOLINI


Argomenti

9

Sommario 61

Il sommo poeta | 7

Per Dante oltre al Cielo s’è mossa anche la Terra DI GIORDANO PIERLORENZI

63

Il sommo poeta | 8

La presenza di Dante nell’ermo sotto al gibbo DI MARCO BELOGI

67

Il sommo poeta | 9

Dodici mesi d’attualità con il poema di Dante DI CLAUDIO SARGENTI

71

La storia

Io, Gillo e la miniera Tutto sapeva di zolfo DI WALTER VALENTINI

73

Il personaggio

Stelluti, scienziato e raffinato letterato DI EDOARDO BIONDI

78

Il “giallo”

È nato a Fabriano l’inventore del tenente Sheridan DI ALBERTO PELLEGRINO

83

Freschi di stampa

Dialogo con gli autori alla classica ora del tè DI MAURIZIO CINELLI


Donne al voto

D di Paola Cimarelli

Erano di Senigallia e Montemarciano Ispirate dalla Montessori chiesero di essere iscritte nelle liste dei propri Comuni

ieci donne marchigiane sono state ad inizio ‘900, almeno sulla carta, le prime elettrici con diritto al voto in Europa. Antesignane di una facoltà che sarà consacrata nelle urne italiane solo nel 1946, prima con le elezioni amministrative di marzo, di cui si è appena celebrato il 75° anniversario, e poi con il referendum del 2 giugno per scegliere tra Repubblica e Monarchia ed eleggere i deputati dell’Assemblea costituente. Tutte maestre, nove di Senigallia e una di Montemarciano, ad ispirare la loro richiesta di essere iscritte nelle liste elettorali del proprio Comune, fu probabilmente il proclama del 26 febbraio 1906 della scienziata Maria Montessori (numero 70-71 della rivista Lecentocittà). “Donne tutte: sorgete!” scrisse la pedagogista. “Il vostro primo dovere in questo momento sociale è di chiedere il voto politico”. Una richiesta di riconoscimento di un diritto ancora irraggiun-

gibile per le donne italiane che venne certificata nelle Marche da una sentenza storica, quella del 25 luglio 1906 del presidente della Corte di appello di Ancona, Ludovico Mortara. La storia delle senigalliesi Carolina Bacchi, Palmira Bagaioli, Giulia Berna, Adele Capobianchi, Giuseppina Graziola, Iginia Matteucci, Emilia Simoncioni, Enrica Tesei, Dina Tosoni, e di Luigia Mandolini-Matteucci di Montemarciano è venuta alla luce solo nel 2004 in un convegno ad Ancona promosso dall’Associazione nazionale forense su stimolo dell’avvocato Nicola Sbano, già socio de’ Le cento città, scomparso l’anno scorso. La ricerca è stata condotta da Marco Severini, docente di Storia dell’Italia contemporanea all’Universi-


11

Dieci marchigiane le prime elettrici TUTTE GIOVANI MAESTRE, NEL 1906 ANTESIGNANE DEL DIRITTO AL VOTO

tà di Macerata e presidente dell’Associazione di storia contemporanea. Dall’incontro fra i due, nasce anche un libro, “Dieci donne”, scritto nel 2012 da Severini per Liberilibri. “Nessuno sapeva nulla della loro storia, se esistevano dei documenti su queste protolettrici” racconta Severini. Uno studio, all’inizio, difficoltoso perché negli archivi di Stato non erano presenti i fascicoli professionali delle maestre. L’intuizione di Severini è stata di ricordare il passaggio di competenza dell’istruzione elementare, nel 1911, dallo Stato ai Comuni dove sono stati infatti rintracciati i fascicoli professionali consentendo di ricostruire la storia di queste prime elettrici. “trovandoli, ho scoperto le loro vite – racconta Severini – in uno scantinato di un deposito dell’archivio comunale di Senigallia. E lo stesso per Montemarciano. La vicenda era non solo clamorosa, perché fino a quel momento si

pensava che le prime donne elettrici europee fossero state le finlandesi e le norvegesi, che invece sono tutte venute dopo, ma anche perché bisognava trovare la certezza di questo fatto. La prova è consistita nel fatto che, andando in questi due Comuni marchigiani, si trova la dizione elettore politico 1906”. L’invito con cui Montessori esortò le italiane a iscriversi alle liste elettorali politiche, ricorda Severini, “venne pubblicato su tutti i giornali ed è probabile che fu la fonte d’ispirazione per le dieci maestre. In alcune regioni d’Italia, prima dell’Unità d’Italia, Lombardia, Veneto, Toscana, il voto femminile, a livello locale, era consentito per procura. Il legislatore decise, nel 1861, di vietarlo a livello amministrativo inserendo il precetto nel codice civile, che venne poi recepito dalla legge elettorale. Non disse nulla però del voto politico perché le donne, per prassi, non avevamo mai votato, dall’antica

Grecia in poi”. Le dieci maestre mandarono la domanda di iscrizione alle liste elettorali. “In dieci province italiane, fra cui città importanti come Venezia, Firenze, Palermo ma anche Ancona e Imola, le commissioni elettorali provinciali riconobbero questo diritto. Il procuratore del Re di ogni provincia fece però appello dicendo che il voto spettava ai maschi”. L’unica Corte d’Appello che, in secondo grado, respinse il ricorso, riconoscendo questo diritto, fu quella di Ancona, che era presieduta da uno dei più grandi giuristi del tempo, Ludovico Mortara, che in seguito divenne anche senatore e ministro della Giustizia del governo Nitti nel 1919. “Il suo ragionamento si basò sull’interpretazione della legge fondamentale dello Stato che allora era lo Statuto albertino, varato il 4 marzo 1848 quando l’Italia neanche esisteva. All’articolo 24 trova scritto che “tutti i regnicoli sono uguali di fronte alla


Donne al voto

La loro richiesta venne accolta con sentenza storica dal giudice Mortara presidente della Corte d’Appello di Ancona

In alto, la targa con cui la città di Senigallia omaggia le 10 donne marchigiane che nel 1906 hanno rivendicato il diritto al voto Sotto, il giudice Ludovico Mortara presidente della Corte d'Appello che in seguito divenne senatore e ministro della Giustizia Al centro pagina, un'immagine emblematica della partecipazione femminile al voto A destra, la poetessa Alinda Bonacci Brunamonti che nel 1860 si travestì da uomo per votare

12 legge”. Secondo il legislatore subalpino, il termine regnicolo vuol dire “abitante del Regno”. Mortara si chiese se avrà voluto intendere abitante maschio o anche abitante donna? È il primo uomo che si pose con grande onestà intellettuale questa domanda o se qualcuno se l’era posta in precedenza, aveva fatto finta di nulla”. Per dare una risposta a questo interrogativo, verificò gli articoli successivi dello Statuto, dal 26° al 32°, che parlano di tutti i diritti fondamentali di cui godono i cittadini del Regno, la libertà individuale, l’inviolabilità del domicilio, il diritto di riunione pacifica e senza armi. Diritti di carattere politico, come quello al voto. “Se sono riconosciuti tutti, per quale motivo non viene riconosciuto quello di voto politico? si chiese Mortara – spiega Severini -, la legge avrebbe dovuto prevedere un’eccezione, come il voto amministrativo. Non facendolo, il procuratore decise di iscrivere le ricorrenti alle liste elettorali politiche”. Così, da Ancona, “il 25 luglio 1906, per effetto di questa sentenza partirono due telegrammi indirizzati ai sindaci di Senigallia e Montemarciano con l’ordine di iscriverle nelle liste elettorali politiche. Allora votavano 2,5 milioni di elettori maschi. Ma se fosse capitata una crisi di governo, cosa ricorrente perché un esecutivo rimaneva in carica otto mesi circa, il Re, come capo dello Stato, avrebbe convocato i comizi elettorali. Sarebbero stati chiamati quindi a votare 2,5 milioni di maschi più 10 donne della provincia di Ancona. Con chiare possibilità di ricorso perché qualunque altra donna, che godeva dei diritti politici, era alfabeta, e pagava una certa aliquota di tasse, pari a 40 lire, avrebbe potuto presentarlo”. Dopo dieci mesi dalla loro iscrizione, però, intervenne prima la Corte di

cassazione e poi la Corte di appello di Roma ad abolire la sentenza Mortara. “Il mondo politico fece pressione sui magistrati in quanto gli uomini avevano paura dell’ingresso in massa del voto delle donne, di cosa avrebbero potuto votare, con quale orientamento. La cosa incredibile è che per novant’anni questa storia non è mai stata raccontata”. L’anteprima nazionale del libro si è svolta a Palazzo Madama il 22 novembre 2012. Va detto che Mortara non era propriamente d’accordo nel concedere l’iscrizione ma lo fece per applicare la legge. “Personalmente, io non ho entusiasmo per l’estensione del voto politico e amministrativo alle donne – affermò subito dopo la sentenza - poiché mi sembra non ancora matura la preparazione della gran maggioranza di esse a questa importante funzione”. Chiamato “però, come magistrato, a decidere la questione, mi son dovuto spogliare di ogni prevenzione personale per


Donne al voto

esaminare serenamente il testo della legge”. Le dieci maestre, con un’età media di 27 anni, “erano donne con storie normali, del tipo che abbiamo sempre cercato di valorizzare anche come Associazione – sottolinea Severini -, erano ancora precarie e appartenevano a famiglie considerato allora di livelli medio-bassi. Erano figlie di un sagrestano, di piccoli impiegati, di artigiani”. Forse quella che aveva organizzato tutto fu Giulia Berna, figlia di due bidelli, la cui storia Marco Severini l’ha raccontata in “Giulia, la prima donna” per Marsilio (2017). “Il padre Gioacchino aveva reclamato per 35 anni un aumento di stipendio di 100 lire, che non gli avevano mai concesso. In famiglia aveva quindi capito che cosa voleva dire lottare per i propri diritti. Nessuna di loro, dopo questa vicenda, ha mai fatto pubblicità di questo fatto, né scritto memoriali”. Non furono però le uniche

13

che nelle Marche brillarono per spirito d’inventiva nel cercare di esercitare il voto. La poetessa Maria Alinda Bonacci Brunamonti, che nacque a Perugia nel 1841, fu una delle due donne italiane protagoniste del primo voto documentato nel XIX° secolo come riporta il “Dizionario biografico delle donne marchigiane”, curato da Lidia Pupilli e Marco Severini per Il lavoro editoriale. La madre Teresa Tarulli, di Matelica, cattolica fervente, la spinse a scrivere e a comporre versi. Il padre Gratiliano, di Recanati, era insegnante di retorica nel perugino Collegio della Sapienza, curò la sua istruzione con una formazione classica. Mostrando idee troppo innovatrici, fu costretto a trasferire la famiglia nel 1854 prima a Foligno e poi a Recanati. Qui, nel 1860, la poetessa pubblicò i “Canti nazionali”, di spirito patriottico e papalino, e durante il Plebiscito di annessione al Regno di Sardegna, che diverrà poi Regno

La storia, raccolta in un libro di Severini venne alla luce solo 90 anni dopo in un convegno promosso dall’avvocato Sbano


Donne al voto

14 d’Italia, “divenne protagonista di un evento unico” scrive Severini. “Lei va a votare. Probabilmente perché era la figlia di un personaggio abbastanza noto del posto, il presidente del seggio elettorale eccezionalmente glielo concede”. La tradizione popolare, non confermata da documenti che invece certificano il suo voto, narra che “la sua partecipazione in cabina elettorale fosse stata facilitata dal travestimento in abiti maschili”. Una voce che si alzò alta per il diritto al voto delle donne fu quella di Adele Bei, sindacalista e unica politica di origini marchigiane a far parte nel

Ma già nel 1860 a Recanati una poetessa andò a votare per l’annessione al Regno di Sardegna in abiti maschili

1946 delle 21 madri della Costituente. Definì il voto delle donne, nel 1945, “un percorso decisivo verso la democrazia” rimarcando che era necessario “impegnarsi tra le donne specie della campagna”. Terza di undici figli, nacque a Cantiano il 4 maggio 1904. Già a 12 anni venne avviata al lavoro “ricevendo – scrive Federica Brunella nel ‘Dizionario biografico delle donne marchigiane’ – dal padre la prima impronta politica”. Davide “era socialista e il suo credo politico influenzò tutti i

membri della famiglia”. Casa Bei era il luogo di incontro dei giovani del paese che volevano confrontarsi e dibattere le proprie idee così come Adele che mostrò le proprie idee partecipando a manifestazioni operaie. Dopo il matrimonio con Domenico Ciufoli, la famiglia fu costretta nel 1923 a nascondersi all’estero “per sfuggire alle persecuzioni fasciste”. In Francia si iscrisse al Partito comunista d’Italia e da lì costruì i contatti con l’Italia facendo diversi viaggi, compito non facile, come corriere per il partito verso la madre patria, per portare materiali alle nuove leve. In uno di questi, a Roma nel novembre 1933, venne arrestata e in seguito condannata a 18 anni di reclusione da scontare nel carcere di Perugia. Trasferita nel 1941 a Ventotene, riuscì a fuggire alla caduta del regime divenendo staffetta partigiana a Terni. Dopo la guerra, fu nominata responsabile della commissione consultiva femminile della Cgil e partecipò alla fondazione dell’Unione donne italiane. Venne nominata senatrice nel 1948 ed eletta deputata nella seconda e terza legislatura. Fino alla sua scomparsa nel 1976 contribuì a dare voce ai diritti delle persone in particolare delle donne. Una voce che, nelle Marche, ha potuto contare anche su quella della prima sindaca eletta in Italia, Ada Natali, votata nelle stesse amministrative del 1946 che resero concreto il diritto di voto alle donne. Conosciuta come la “maestra Ada”, era nata nel 1898 a Massa Fermana da Giuseppe, sarto e primo sindaco socialista della località, e da Argia Germani, anche lei maestra e fervente cattolica. Natali s’ispirò sia nell’insegnamento sia nella responsabilità di sindaca, come riporta Lidia Pupilli nel “Dizionario biografico delle donne marchigiane”, agli ide-


Donne al voto

ali del padre, che morì vittima di un agguato fascista nel 1922, sia alla fede religiosa della madre. Rivolse sempre la sua attenzione ai più deboli e ai figli dei contadini impegnandosi anche nell’alfabetizzazione degli adulti. Dopo l’8 settembre, entrò nella Resistenza partecipando alle battaglie di Pian di Piega e San Ginesio. Poi nel 1946 l’elezione a prima cittadina, ruolo che ricoprì fino al 1959, con un impegno per la prevenzione delle malattie, per i servizi per i cittadini e per istituire colonie estive per i bambini. Appoggiò le lotte delle operaie che lavoravano nella produzione dei cappelli e per riscaldarle, mentre erano in assemblea permanente, ordinò ai dipendenti comunali di raccogliere legna da ardere. Fatto per il quale venne denunciata, processata e assolta anche grazie alla difesa di Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea costituente. Nel 1948 venne eletta deputata nelle liste del Pci dividendo il suo impegno fra l’amministrazione comunale, l’Udi e il parlamento. Alla fine dei mandati, si ritirò a Massa Fermana fino alla sua scomparsa nel 1990. Vite esemplari per ricordare i 75 anni dal primo suffragio femminile in Italia che, secondo Ines Corti, professore associato di Istituzioni di diritto privato e delegata del Rettore per le politiche di pari opportunità, “è stato un passo importantissimo per il riconoscimento di una parità nei confronti dell’uomo ma anche di una piena soggettività politica femminile che è entrata nella dimensione pubblica oltre a quella sfera privata che aveva nel ruolo della famiglia e dell’educazione”. Un primo passaggio, sottolinea Corti, “a pieno titolo per l’accesso ai luoghi di potere e nel lungo cammino verso la parità anche se nel decreto legislativo del 1945 non era previsto

15 l’elettorato passivo che sarà legiferato l’anno successivo. Viene riconosciuta una cittadinanza politica delle donne che permetterà, con la loro presenza, di incidere nella Costituente e nella redazione del testo costituzionale. Una dimensione e uno sguardo diverso nei luoghi dove nascono le leggi pur appartenendo a forza politiche differenti”. Corti ha coordinato per l’ateneo maceratese, fin dalla sua nascita, il corso “Donne, politica e istituzioni”, promosso a livello nazionale nel 2004 dall’allora ministra per le Pari opportunità, Stefania Prestigiacomo, come azione positiva per favorire l’ingresso delle donne in politica. Ora il corso si è tramutato in “Genere, politica, istituzioni”, diretto con la collega Natascia Mattucci. Da quindici anni un osservatorio su come le donne vivono e pensano la politica che spinge a chiedersi se desiderano esserne protagoniste. “Direi di sì – risponde Corti – anche se essendo state relegate per anni in posti insignificanti, molte si sono stancate e preferiscono investire le loro energie nel lavoro, nella professione. Non è che non vogliano essere partecipi ma, per esempio, nelle liste elettorali sono state spesso messe in posizioni in cui non sarebbe state mai elette. Per anni, c’è stata la caccia alle donne per l’inserimento in lista ma senza una reale volontà dei partiti di sostenerle. Certo, ci sono state grandi donne politiche ma credo che il discorso di genere meriti sempre una forte attenzione. Il Global Gender Gap Report 2020, pubblicato dal World Economic Forum, piazza l’Italia al 76° posto della classifica generale di 153 Paesi per partecipazione economica e opportunità, educazione e istruzione, salute e benessere e rappresentanza politica delle donne. Non c’è proprio da rilassarsi”. ¤

Di Cantiano anche l’unica politica marchigiana nella Costituente e di Massa Fermana la prima sindaca d’Italia nel 1946

Nella pagina a fianco, a sinistra in alto Marco Severini, docente di storia dell'Italia contemporanea all'Università di Macerata In alto, Adele Bei, sindacalista e unica donna politica marchigiana nella Costituente Qui sopra, Ines Corti, docente di Istituzioni di DIritto privato


La nascita della Repubblica

I di Claudio Desideri

l 2 giugno 1946, già dalle prime luci dell’alba, si erano create lunghe file dinnanzi ai seggi elettorali dove uomini e per la prima volta le donne, erano stati chiamati a votare il Referendum per scegliere tra Repubblica e monarchia. Ai seggi si recarono 25 milioni di italiani, di età superiore ai 21 anni, sui 28 milioni aventi diritto, pari all’89,08% della popolazione. Il 10 giugno, nella sala della Lupa, a Montecitorio, il Presidente della Corte di Cassazione, Giuseppe Pagano, comunicò i risultati delle elezioni, 12.718.641 i voti per la

Repubblica e 10.718.502 per la monarchia. Le schede bianche e le nulle ammontarono a 1.509.735. All’appello mancavano ancora alcune sezioni e il Presidente Pagano annunciò che il risultato definitivo, anche dopo la presentazione di eventuali proteste e reclami, sarebbe stato comunicato in seguito. Quello che era certo è che gli italiani avevano scelto la Repubblica. Dopo poche ore si riunì il Consiglio dei Ministri perché secondo quanto previsto dal Decreto Legislativo, riferito alla eventuale vittoria della Repubblica, le funzioni governative sarebbe-


17

Sette su dieci votarono no alla monarchia nelle Marche IL 2 GIUGNO DEL 1946 SI RECARONO AI SEGGI 25 MILIONI DI ITALIANI AD ANCONA IL MAGGIOR NUMERO DI CONSENSI REPUBBLICANI AD ASCOLI le PIù ALTE ASTENSIONI E SCHEDE BIANCHE

ro state esercitate dal Primo Ministro Alcide De Gasperi sino all’elezione del Capo provvisorio dello Stato. De Gasperi, per estrema correttezza, salì al Palazzo del Quirinale per presentare al Re i risultati del Referendum. Umberto II li bollò come non definitivi e illegittima la nascita di un Governo repubblicano. Una opposizione vana. Dopo una settimana, il 18 giugno, esaurita la fase dei ricorsi, fu proclamato l’esito definitivo del Referendum. Alle ore 18, nell’Aula di Montecitorio, Pagano diede lettura del verbale relativo al risultato e

l’Italia diventò una Repubblica. Gli Italiani con quel voto affermarono la loro sfiducia nei confronti della monarchia ritenuta responsabile di aver consentito la dittatura di Benito Mussolini. Non potevano essere dimenticati i comportamenti dei Savoia che avevano di fatto legittimato il dittatore, ratificato la marcia su Roma, accettato l’alleanza con Hitler, permesse le leggi razziali, i vincoli imposti alla libertà di stampa, permesse le scorribande degli squadristi e i loro terribili assassinii. Umberto II, re da sole tre settima-

ne, dopo che il padre Vittorio Emanuele III aveva abdicato, lasciò l’Italia il 13 giugno per raggiungere la sua famiglia che si era già trasferita in Portogallo. I risultati del Referendum istituzionale rendevano chiara e netta la divisione tra le regioni del nord, dove fu alto il voto per la Repubblica, industrializzate e con una forte presenza del proletariato e quelle del sud, più legate alla monarchia, dove la tradizione era prettamente agricola e conservatrice. C’è da sottolineare poi che mentre le regioni del nord e del centro Italia


La nascita della Repubblica

Le Marche con il 70,1 per cento a favore della scelta repubblicana si sono posizionate al quinto posto in Italia

avevano sofferto gli eccidi del fascismo, l’occupazione nazista, la Repubblica di Salò e i molteplici bombardamenti aerei, quelle del sud avevano vissuto una minore pressione del fascismo e sicuramente minori azioni del post fascismo. Nelle Marche votarono per la Repubblica 499.566 elettori, il 70.10% e per la monarchia 212.925, il 29,90%. A livello nazionale la percentuale per la Repubblica fu del 54,27% e per la monarchia il 45,73%. Questi valori rendono chiaro come le Marche si siano posizionate tra le prime regioni nella scelta repubblicana superando di molto i valori nazionali e collocandosi, in base percentuale, al quinto posto in Italia. Una scelta che prevalse anche nelle quattro province con differenze dovute soprattutto alla storia dei territori con le province del sud più arretrate e con un forte sentimento cattolico e quelle del nord più avanzate e progressiste. Ancona fu la provincia con il più alto numero di voti repubblicani, il 79,6% seguita da quella di Pesaro e Urbino con il 70,6% , Macerata con il 61,6%. Fanalino di coda Ascoli Piceno con il 56,4%. Questa fu anche la provincia con il più alto numero di astensioni e schede bianche. Si votò anche per la Costituente

Sopra, il re Umberto II che lasciò l'Italia dopo il voto per trasferirsi in Portogallo A destra, Enrico De Nicola eletto Capo provvisiorio dello Stato dall'Assemblea Costituente Sotto, la scheda elettorale per il Referendum

Il 2 giugno gli Italiani votarono anche i deputati dell’Assemblea Costituente, l’organismo che avrebbe dovuto elaborare la Costituzione repubblicana in sostituzione di quella precedentemente in vigore, lo Statuto Albertino concesso nel 1848 da re Carlo Alberto di Savoia. L’Assemblea Costituente, composta da 556 deputati si riunì per la prima volta il 22 giugno del 1946 e pochi giorni dopo elesse Enrico De Nicola Capo provvisorio dello Stato e scelse Alcide De

18 Gasperi come Capo del Governo. Nelle Marche il dibattito politico attorno al Referendum fu svolto senza troppo accanimento, potremo dire in maniera quasi soft se non nel periodo più vicino alla data delle votazioni. Sicura la scelta per la Repubblica da parte dei partiti di sinistra, comunisti, socialisti, repubblicani e azionisti mentre la scelta della monarchia era, ovviamente, per i liberali, i monarchici e i qualunquistici del commediografo Guglielmo Giannini. Ago della bilancia la Democrazia Cristiana che prese posizione per la scelta repubblicana anche se tra le sue fila molti erano ancora monarchici. De Gasperi, che temeva una spaccatura tra i Cattolici, diede libertà di voto. In un sondaggio che fu svolto all’interno del partito risultarono favorevoli alla Repubblica 503.085 iscritti mentre 146.061 erano per la monarchia, 187.666 gli indifferenti. Nelle Marche, già nel 1945, molte sezioni si erano pronunciate per la via repubblicana. Una scelta portata avanti soprattutto dai giovani democristiani che costituivano la nuova dirigenza del partito. Assai più problematico fu il complesso delle azioni attuate dal Partito d’Azione che mirava a porsi tra la DC e i socialcomunisti. Uno schieramento che non sarà, nel momento delle elezioni della Costituente, ripagato elettoralmente e che porterà il partito a sciogliersi il 20 ottobre del 1947. Ferma comunque la sua posizione nei confronti della Repubblica e nell’abolizione della monarchia per giungere alla formazione di un Paese democratico, con un decentramento amministrativo, statalizzazione delle grandi imprese e libertà per le organizzazioni sindacali, libertà religiosa, formazione di una federazione degli Stati d’Europa. E’ nel periodo pre Refe-


La nascita della Repubblica

19

Furono diciotto i marchigiani presenti nella Costituente Ruoli importanti ricoperti da Conti e Tupini

rendum che si aprì il serrato confronto con coloro che nel Partito d’Azione intendevano ricostituire il Partito Repubblicano. Un partito che nel periodo successivo alla seconda Guerra Mondiale si era notevolmente rafforzato nelle Marche grazie alle azioni di Oliviero Zuccarini e Giovanni Conti. Il Pri, le cui basi ideologiche poggiavano sul pensiero di Giuseppe Mazzini, era da sempre avverso alla monarchia e nelle Marche guardò con attenzione alla cosiddetta classe media anche se tra le sue fila vi erano molti artigiani e operai. Una politica che nel momento delle elezioni per la Costituente lo vide rafforzarsi in regioni storiche come le Marche e la Romagna. Il Pci si apprestò a parlare di scelta repubblicana a ridosso del Referendum privilegiando sempre il dibattito attorno ai temi del lavoro e delle lotte sindacali. Per questo partito era scontato che gli elettori avrebbero scelto quei partiti di sinistra o di centro

da sempre convinti che la Repubblica fosse l’unica forma istituzionale possibile. In questo scenario si formarono le liste elettorali per l’Assemblea Costituente. Tutti gli eletti nei vari partiti I Marchigiani elessero per la Dc Umberto Tupini di Roma, Nicola Ciccolungo di Fermo, Alessandro Arcangeli di Macerata, Fernando Tambroni di Ascoli Piceno e Renato Tozzi Condivi sempre di Ascoli Piceno; per il Psi Alessandro Bocconi di Ancona, Giuseppe Filippini di Pesaro, Luigi Bennani di Fabriano; Guido Molinelli di Chiaravalle, Luigi Ruggeri di Ancona e Adele Bei di Cantiano per il Pci; per il Pri, Oliviero Zuccarini di Cupramontana, Oddo Marinelli di Ancona e Giuseppe Chiostergi di Senigallia. Questi furono gli eletti in quanto investiti del suffragio dei cittadini delle Marche poi vi furono i deputati sempre


La nascita della Repubblica

marchigiani ma eletti in altri collegi come Piero Malvestiti,Dc, eletto a Milano, Enrico Medi, Dc, eletto a Palermo, Giuseppe, Ricci Pci, eletto a Bologna e Giovanni Conti, Pri, eletto a Roma. In totale i marchigiani alla Costituente furono diciotto. Gli eletti delle Marche formeranno poi un gruppo parlamentare marchigiano con la volontà di promuovere gli interessi della regione nelle varie sedi istituzionali. Dai

20

il Pci che invece supera in regione la media nazionale mentre l’elettorato socialista si ferma due punti sotto il dato nazionale. Il Pri addirittura Gli eletti quadrupla la percentuale riformeranno poi scontrata in Italia. I tre partiti maggiori ottennero il 75% dei un gruppo voti. Ad affermarsi furono le parlamentare forze politiche legate al moncon la volontà do cattolico e socialista. Il voto per la Costituente evidenziò di promuovere anche un notevole ridimengli interessi regionali sionamento delle forze liberali che sin dall’inizio del periodo fascista avevano dominato la scena politica del Paese. Marche Italia L’Assemblea Costituente, DC 213.798 8.680.665 eletta il 2 giugno, si riunì la PCI 152.674 4.356.686 prima volta il 25 giugno del PSI 131.651 4.758.129 1946 e il 15 luglio deliberò l’iPRI 114.867 1.003.007 stituzione della Commissione per la Costituzione composta PdA 18.774 334.747 da 75 deputati , detta anche U.q. 36.898 1.211.956 Commissione dei 75, che fu Udn 21.193 1.560.638 incaricata di elaborare il pro Valori percentuali getto di Costituzione. Il 22 dicembre 1947 il testo DC 30,60 35,20 definitivo della CostituzioPCI 21,80 19,00 ne della Repubblica Italiana PSI 18,80 20,70 venne approvato a scrutinio PRI 16,14 4,40 segreto ed approvato con 453 voti favorevoli e 62 contrati. Il PdA 5,30 5,30 27 dicembre Enrico De Nicola, U.q. 2,70 1,4 Capo provvisorio dello Stato, Udn 3,00 6,8 promulgò la Costituzione che entrò in vigore il 1 gennaio giornali dell’epoca sappiamo del 1948. I deputati marchiche l’Arcivescovo di Ancona giani che ricoprirono ruoli Monsignor Egidio Bignamini importanti all’interno dell’Ascelebrò una messa per chiede- semblea Costituente furono re la protezione di Dio su tutti Giovanni Conti che fece pari deputati marchigiani eletti. te dell’Ufficio di Presidenza Nella tabella sono visibili i come Vice Presidente e Umvoti riportati dai vari partiti berto Tupini, eletto Vice Presidove la prima cifra è riferita dente della Commissione dei alle Marche e la seconda al 75. Anche gli altri marchigiadato nazionale. ni diedero un forte contributo Queste cifre affermano la alla redazione della nostra Dc come primo partito a livel- Carta fondamentale per fare lo nazionale e regionale anche delle Marche una delle regioni se va notata la flessione avuta protagoniste della storia renella regione; secondo partito pubblicana del nostro Paese. ¤


Il sogno infranto

21

Unesco, no di Urbino all’antico ducato TUTTI D’ACCORDO A ESTENDERE IL SITO MA NON LA CITTÀ

I di Dino Zacchilli

Sopra, la caratteristica forma a tartaruga della rocca martiniana a Sassocorvaro

siti Unesco italiani sono, ad oggi, ben 55. L’Italia è prima nella World Heritage List, con il maggior numero di beni patrimonio dell’umanità, insieme alla Cina anch’essa con 55 siti. Seguono Spagna con 48, Germania con 46, Francia con 45, India con 38, Messico con 35, Regno Unito con 32, Russia con 29, Stati Uniti e Iran con 24. Si tratta, quasi sempre, di beni articolati. Non tanto singoli monumenti (come nel caso di Castel del Monte), piuttosto beni complessi (come i monumenti paleocristiani di Ravenna) o interi centri storici (come Urbino o Firenze), ma sempre più spesso sono complessi ancor più ampi e coerenti di patrimonio culturale e ambientale (come Vicenza e le ville venete del Palladio, Ferrara e il delta del Po, le opere difensive della Serenissima dislocate

tra Italia, Croazia e Montenegro), per arrivare poi ad intere parti di territorio (come la Val d’Orcia, le Dolomiti o le Colline del prosecco… tanto per brindare). L’agenzia parigina, giustamente, è orientata a riconoscere sempre più veri e propri “sistemi” di beni cul-

turali e ambientali, dove le specifiche tipologie a volte si mescolano integrandosi, rimandando la mente a quella prima, ampia definizione di bene culturale, concettuale e giuridica insieme, quale “testimonianza materiale avente valore di civiltà”, che in Italia la commissione Franceschini dettò già nel 1967. Questa piccola premessa per ricordare che tra la fine del 2007 e gli inizi del 2011, su impulso della Provincia di Pesaro e Urbino, si lavorò al progetto di estensione del sito Unesco di Urbino al sistema difensivo dell’antico ducato, alle rocche di Francesco di Giorgio Martini, architetto “vitruviano” tra i primi del nostro Rinascimento. Fu l’allora presidente Palmiro Ucchielli a lanciare l’idea, con grande enfasi, parlando delle rocche martiniane come dei nostri “castelli della Loira”, con l’evidente obiettivo di promuovere unitariamente, insieme a Urbino, il territorio storico del ducato, ricco di beni culturali che sono pezzi unici dell’architettura signorile e militare. La proposta fu presentata con una lettera al ministro dell’epoca Francesco Rutelli e la risposta non si fece attendere. Il ministro, tramite il segretario generale del Mibac, Giuseppe Proietti, espresse subito il gradimento e la disponibilità del Ministero, dando anche disposizioni alla Direzione Regionale per i Beni Culturali delle Marche di farsi carico delle modalità operative, necessarie per preparare


Il sogno infranto

L’idea sviluppata tra il 2007 e 2011 era di ampliare il sito Unesco alle rocche di Francesco di Giorgio Martini

22 il dossier di candidatura. La posizione del Mibac diede così corpo e slancio al progetto e si avviarono diversi incontri con i sindaci ed assessori dei comuni interessati, incontrando un forte consenso generale. Anche la Regione Marche condivise e sostenne l’idea. Nell’aprile 2009 l’istanza venne ripresentata al nuovo Ministro della Cultura Sandro Bondi e il direttore generale arch. Antonia Pasqua Recchia, nel dar conto delle attività già avviate, confermò l’impegno del Ministero, sollecitò la partecipazione di tutti gli enti interessati, precisando che “si coglie l’occasione per rinnovare il giudizio assolutamente positivo del progetto che, se portato a conclusione, andrebbe a completare e ad arricchire il valore culturale del bene già iscritto nella lista del Patrimonio Mondiale”. La Direzione Regionale per i Beni Culturali, guidata dall’arch. Paolo Scarpellini, avviò così la fase di

ricognizione dello stato di tutela e conservazione delle architetture di Francesco di Giorgio Martini redigendo le schede dei singoli monumenti da inserire nel dossier e a metà novembre 2009 si tenne la prima riunione tecnica al Ministero. Il direttore dell’ufficio Unesco del Mibac, arch. Roberto Manuel Guido spiegò che era sempre più difficile, per l’Italia, ottenere nuovi riconoscimenti per singoli beni materiali ma l’estensione dei siti esistenti a sistemi culturali coerenti e diffusi sul territorio era una linea già praticata dall’Unesco e, quindi, un obiettivo a portata di mano. Nel frattempo però (luglio 2009) un pezzo importante del Montefeltro (ben sette comuni dell’Alta Val Marecchia) scivolava, ahimè, verso la Romagna e bisognava tenerne conto. La Provincia di Rimini, unitamente al Comune, stava allora pensando di candidare il bellissimo Tempio Malatestiano e tuttavia,

Dalle rocche ai cammini dei consoli

O

gni tanto, ripetutamente, da sud a nord, si sentono proposte di candidatura a patrimonio dell’umanità di beni i più diversi, di cui la nostra regione è ricca. Anche Fano si agita sul tema, dal Carnevale all’Arco d’Augusto, dalle mura augustee alla via Flaminia… Personalmente credo, ad esempio, che la candidatura della via Flaminia avrebbe certamente ragioni e chances più oggettive e concrete di altre. Tanto più se per Fano la scelta di qualificarsi come città di Vitruvio resta un punto fermo in prospettiva. Un legame in fondo c’è. Il bel rettifilo della nostra Flaminia che da

Forcole conduceva e conduce ancor oggi alla Porta d’Augusto si deve anch’esso ad Ottaviano Augusto che diede a Fanum Fortunae il rango di Colonia Julia Fanestris, dotandola di monumenti e mura (murum dedit, si legge ancora sull’Arco) e restaurando anche la consolare. In quegli anni Vitruvio era a Fano e si può ragionevolmente ritenere che abbia dato un diretto contributo alla monumentalizzazione della città. Sarebbe una candidatura forte, un modo per riconoscere, insieme a tutti i beni storici lungo la via Flaminia da Roma a Rimini, anche la particolarità e il valore del grande patri-

monio archeologico, vitruviano e augusteo, di Fano. Una candidatura che non avrebbe nulla da invidiare a quelle oggi in itinere (dall’Aspromonte ai Portici di Bologna, dai Nuraghi alla via Francigena, dal Montegrappa alla Maiella). E tuttavia, per quanto rilevante, forse anche la candidatura della sola via Flaminia potrebbe rivelarsi ancor troppo puntuale per sperare di ottenere il riconoscimento Unesco. Analogo status infatti potrebbero giustamente rivendicare anche le altre sorelle consolari. E allora penso


Il sogno infranto

intelligentemente, dichiarò di voler “garantire la propria disponibilità a collaborare alla realizzazione del percorso volto ad ottenere l’estensione del sito Unesco di Urbino alle rocche di Francesco di Giorgio Martini”. Per Rimini era anche un’ottima occasione per dimostrare la propria attenzione e vicinanza ai nuovi arrivati, tra cui San Leo e Sant’Agata Feltria. Si entrò così nel vivo del dossier. Alla fine di ottobre 2010 si tenne a Pesaro una grande riunione tra comuni ed enti interessati, durante la quale il Direttore Regionale del Mibac, arch. Paolo Scarpellini, illustrò il lavoro di ricognizione sul patrimonio martiniano e sulle fortificazioni del ducato, lavoro che sarebbe stato completato entro il mese di febbraio 2011, in vista di un nuovo incontro già programmato al Ministero. Fu evidente l’entusiasmo dei presenti, smorzato però da alcune perplessità sul progetto, vagamente espres-

che Fano, nel nome di Vitruvio, potrebbe farsi promotore della candidatura a patrimonio dell’umanità delle vie consolari romane, le autostrade dell’antichità, motori e ancor oggi testimoni di una civiltà che ha segnato il carattere e la storia dell’Italia,

23 se dal sindaco di Urbino, Franco Corbucci. Alla fine di febbraio 2011 la Direzione Regionale per i Beni Culturali concluse il lavoro tecnico. Il 9 marzo era prevista in Ancona una riunione per l’illustrazione, da parte dell’arch. Paolo Scarpellini, della relazione da presentare il giorno dopo a Roma, al Mibac, nell’incontro in agenda con il responsabile dell’Ufficio Unesco arch. Roberto Manuel Guido, incontro fondamentale per far procedere il dossier. Ma entrambe le riunioni vennero, purtroppo, rinviate. Qualche giorno prima era arrivata infatti una lettera del sindaco di Urbino. Lamentava che quelle riunioni non erano state preventivamente concordate e informava che Urbino non sarebbe stata presente. La delusione e l’amarezza di tutti fu fortissima. La motivazione formale, quasi un pretesto, rendeva palese che Urbino non era d’accordo, non condivideva l’obiettivo. Sia pure a malincuore se ne

Nella pagina a sinistra il torrione martiniano a Cagli e la rocca di Frontone Sopra, un particolare della rocca di Mondavio e di Sant'Agata Feltria Sotto, un tratto della via Flaminia a Forum Sempronii

dell’Europa, e anche di parte dell’Africa e del medio oriente. Un progetto che chiamerei "I Cammini dei Consoli" e che unirebbe l’Italia e diversi altri paesi, europei e non, suscitando, credo, l’attenzione e il favore dell’Unesco. Che siano allora Urbino e le

Rocche Martiniane del suo antico ducato, che siano i Cammini dei Consoli servirebbe, in ogni caso, uno sguardo lungo e aperto, determinazione e coraggio, capacità di ascoltare il suono delle campane altrui e di mettere il proprio campanile in sintonia con quello degli altri, con il mondo che ci circonda. Servirebbe poi anche un’azione politica che includa e non escluda, che non viva l’affanno dei tweet e dei like quotidiani ma che abbia invece il respiro tranquillo e profondo della cultura e della storia. Sarebbe davvero bello poterci contare. Chissà!... d.z.


Il sogno infranto

Per il Mibac l’idea poteva arricchire il valore del sito Sarebbe possibile oggi il rilancio del progetto in omaggio a Federico

In alto, una veduta della rocca di Sassocorvaro e subito sotto uno scorcio del sistema difensivo ideato da Francesco di Giorgio Martini a San Leo

24

dovette prendere atto. Così tutto si fermò e non se ne fece più nulla. Eppure quel progetto era l’occasione imperdibile per mantenere saldamente in capo a Urbino l’unità del Montefeltro storico, proprio nel momento in cui il Montefeltro, un tempo così strenuamente difeso da Federico, era stato strappato dalla politica, scivolando, quasi fosse una guerra postuma, in braccio ai nuovi Malatesta. Urbino aveva tutto da guadagnarci ma prevalse uno sguardo corto. Invece di voler essere la brillantissima stella di una costellazione unica al mondo, scelse di continuare a voler splendere da sola, quasi sdegnosa e chiusa nel ricordo del passato splendore, dell’antico ducato senza più ducato. Se la regina avesse invece aperto le braccia, con un bel sorriso, e avesse scelto di mettersi al fianco i suoi magnifici paggi martiniani, da Mondavio a San Leo, da Cagli a Sant’Agata Feltria, da Mondolfo a Sassocorvaro, da Fossombrone a Montecerignone, da Urbania a Frontone e altro ancora, senza dimenticare Gubbio, poteva far rinascere il suo regno unitario, non più politico, certo, ma culturale e turistico, agli occhi del mondo. Più radiosa e seducente lei, più belli e attraenti loro. E la comunicazione e promozione unitaria di Urbino e del suo antico ducato, targati Unesco, avrebbe portato straordinari risultati d’immagine e benefici maggiori per tutti!

Un grande peccato! Davvero. Ma sarebbe possibile oggi un rilancio del progetto? Da un punto di vista teorico, storico e culturale, senza dubbio, sì. Le superbe architetture che Francesco di Giorgio Martini realizzò per Federico e il ducato di Urbino sono un unicum, inscindibilmente connesso con il cuore stesso della città feltresca, la sontuosa dimora ducale dai celebri torricini. Mi chiedo, Federico avrebbe mai potuto concepire la sua straordinaria “città in forma di palazzo”, per citare la celebre definizione di Badassarre Castiglione, senza aver pensato anche a quelle formidabili postazioni di controllo e difesa del territorio che erano e sono, appunto, le rocche martiniane? Sul piano pratico e politico, invece, non saprei dirlo. Senza più la Provincia, dovrebbe essere Urbino stessa a rilanciare con forza l’idea. Ma la divisione amministrativa del Montefeltro, ormai consolidata, certo non aiuta. Tanto più che il quadro rischia di aggravarsi. Se anche Montecopiolo finisse in Romagna (l’iter legislativo è in corso), anche il luogo d’origine dei Montefeltro sarebbe, ahimè, perduto. Di quel progetto, a mio avviso, Urbino ne avrebbe ancor più bisogno oggi ma ne ha la volontà e il coraggio? Chissà! Nel 2022 cade il sesto centenario della nascita di Federico da Montefeltro. E non sarebbe forse questo il miglior modo per celebrare il Duca, al quale Urbino deve tutto, riconsegnandogli idealmente l’intero ducato? ¤


Le sindromi

25

Sofferenza psicologica provocata dal Covid-19 UNA PANDEMIA PSICHICA NON VA MAI SOTTOVALUTATA

Q

uali sono, dopo parecchi mesi di chiusura sociale, sia totale, sia parziale i sintomi di insofferenza che possono insorgere in misura ora lieve ora importante ? La sindrome del sequestro Originariamente questo quadro clinico si riferisce al sequestro vero e proprio, quando cioè una o più persone sono rapite e nascoste in un posto segreto e introvabile, ma anche nelle situazioni di ritiro sociale auto-etero imposto si possono ritrovare sintomi simili:

di Salvatore Passanisi e Roberto Pani

• Le vittime si sentono murate in spazi ristretti, sepolte vive. • La sofferenza è immaginabile ma variabile a seconda degli individui. • L’angoscia che emerge riguarda un vissuto reale di isolamento e senso di minaccia per la propria vita.

• Abbandono e claustrofobia attivano poi in queste persone senso di panico e soffocamento. Tutti questi sintomi sono collegati ad un senso psichico di impotenza ad affrontare la situazione che è vissuta come mortifera. La sindrome della capanna Si tratta di un comportamento ritroso, titubante che induce la persona a racchiudersi e a restringersi in un luogo piccolo, chiuso e, di fondo, virtualmente protetto. Nell’Inconscio la capanna è simile ad un guscio che contiene il pulcino: chi soffre di questa patologia si comporta come se fosse anestetizzato e sperimenta un cluster, un insieme di emozioni non decodificabili e una sorta di passività e di sonno continuo e persistente. Tuttavia questo spazio protetto finisce spesso per essere vissuto come soffocante. La costrizione di stare chiusi in casa, imposta dall’esterno, può indurre una sorta di reazione emotiva che può sfociare nella protesta. Le prescrizioni sono sentite come una violenza esercitata su di loro e, dovendole subire, si può arrivare a ribellarsi e ad inventarsi meccanismi svalutativi che negano la pericolosità del virus. In altre parole, queste persone per difendersi dalla rinuncia alla libertà reagiscono in eccesso con un atto inconscio di negazione generalizzato che si esprime con la loro stessa letargia, col loro “lasciarsi andare”. Eppure la capanna rappresenta comun-


Le sindromi

26 que un simbolo di protezione e questi individui arrivano a concepire la vita come possibile solo all’interno del “loro” luogo protetto. Si tratta verosimilmente di una regressione a stati infantili che inducono l’individuo a negare inconsciamente la realtà esterna.

Dopo mesi di “chiusura” alcuni sintomi possono insorgere in maniera lieve o in misura importante

La sindrome del nido pieno Originariamente il termine “nido pieno”, si riferisce alla situazione nella quale la famiglia si accorge che con il passar del tempo i figli sono diventati adolescenti e adulti ma non decidono di organizzarsi in un nuova famiglia. Questi giovani adulti permangono a tempo indeterminato nella famiglia d’origine e tale convivenza senza tempo con i genitori genera un senso di fatto depressivo: si tratta di un senso di inadeguatezza da parte dei genitori che pensano: se i figli non sono indipendenti non siamo stati in grado di farli crescere bene, quindi in qualche modo abbiamo fallito. Inoltre con l’aumentare delle continue nuove esigenze dei figli adulti, lo spazio familiare diventa sempre più stretto. Il senso di pienezza familiare diventa dominante e ossessionante. Con la pandemia e le costrizioni, sentite come una vera e propria prigionia imposta senza colpa personale, questa situazione si riproduce con tutti i membri familiari, sempre e, tutti insieme appassionatamente e non, a casa. Viene a mancare quindi lo spazio individuale e il senso di compressione e di deprivazione può dar luogo, in alcuni soggetti, a sintomi psicosomatici come dermatiti, disturbi digestivi e cefalee. Nelle città, certamente risentono molto meno di questi sintomi le persone di ceto elevato probabilmente perché possono godere di spazi abitativi ampi e possono

magari usufruire dei vantaggi che offrono i giardini privati. Per chi vive in piccoli paesi e in campagna la situazione dovrebbe essere certamente migliore per via di uno spazio meno sotto controllo e quindi vissuto come più libero rispetto a chi vive nelle grandi città anche se i movimenti a corto-medio raggio, per raggiungere ad esempio centri “più vivi” sono pur sempre limitati dal “coprifuoco” imposto. Depressione da senso di impotenza Il vissuto di mancanza di libertà per un periodo di tempo prolungato può causare sintomi depressivi influendo, in particolare, sull’impotenza negli anziani e in quella dei bambini e degli adolescenti. Negli anziani, specialmente pensionati e inattivi si può verificare un senso di fine vita anticipata perché il vissuto prevalente è quello di essere entrati in un tunnel che non vede mai il fondo luminoso.


Le sindromi

Poiché nell’anziano il senso della fine, per quanto coscientemente tenuto il più possibile nell’ombra, è ugualmente presente a livello subconscio, la mancanza di libertà nel muoversi fa riemergere ed attiva il fantasma mortifero della fine vita: la costrizione è vissuta quindi come una sottrazione del tempo di vita ed una accelerazione inaspettata verso la propria scomparsa. Le statistiche già annunciano alte percentuali di aggravamento psichico e si rilevano aumentate quantità di prescrizioni di psicofarmaci. Per i bambini, vivere con i genitori senza andare a scuola e giocare all’esterno modifica la loro percezione del mondo. I primi tempi di costrizione a casa possono anche essere vissuti come un diversivo ed una fuga autorizzata e divertente dalla scuola, ma dopo mesi di questo vissuto, la realtà dell’imposizione assume una dimensione sempre più surreale, fantasmatica, e per i più piccoli addirittura persecuto-

27

ria, pericolosa. I più grandi e adolescenti hanno bisogno di socializzare e così la scuola rappresenta la risposta di un ambiente che attraverso disciplina, conoscenza, cultura e elaborazione civica permette una giusta mediazione tra fantasia e realtà. La sottrazione di una tale risposta genera non solo un ulteriore aggravamento del senso di vuoto e smarrimento, vissuti che già devastano molti giovani, ma peggiorano l’aggressività sia passiva, sia attiva. Non sono rari disturbi quali autolesioni attraverso tagli con lamette da barba per richiamare l’attenzione su di sé, per lenire l’angoscia del nulla, o anche disturbi antisociali come devastazioni di aree pubbliche e private, incendi dolosi e graffiti vandalici ovunque. Bisogna quindi riconoscere che non solo esiste la pandemia virale, ed una conseguente, devastante, pandemia economica ma anche una pandemia psichica assolutamente da non sottovalutare. ¤

Per molti le prescrizioni sono sentite come una violenza che può sfociare in protesta o in atti di negazione


La “voce”

I di Fabio Brisighelli

Il grande tenore nasceva ad Ancona 100 anni fa Capace di misurarsi con un ampio repertorio lirico

l nome di Franco Corelli è indissolubilmente legato al mito della voce tenorile. E questo vale sia con riferimento agli anni indimenticabili della sua prestigiosa carriera, protrattasi sul palcoscenico oltre la metà degli anni ’70, sia - e ancor più forse - all’oggi, posto che in un presente come il nostro avaro di grandi ugole maschili per il teatro lirico il ricordo delle splendide prestazioni che furono del Nostro si colora dei connotati vividi del desiderio (nel significato latino di “nostalgia”) di ascolti che è possibile solo rimpiangere. Di voci del suo calibro si è persa purtroppo la memoria: quella di lui nelle vesti di prim’attore nell’opera resta e resterà indelebile: per la vibrante bellezza delle note sposata alla prestanza, al “fisico del ruolo” dei personaggi, nell’arco di una carriera iniziata nel 1951 (con Carmen, debutto “profetico”) e proseguita fino all’ultima recita in Bohème nel 1976 a Torre del

Lago, nell’ambito del tradizionale Festival pucciniano. Nello straordinario cursus honorum di quei venticinque anni, rifulgono tra le tante presenze nei palcoscenici del mondo quelle alla Scala di Milano (tra il ’60 e il ’64, protagonista di ben cinque inaugurazioni consecutive di stagione, nel consueto 7 dicembre) e quelle al Metropolitan di New York, per ben quindici successive stagioni. Sfidano il tempo, scolpiti in un palpitante monumento vocale “aere perennius”, più duraturo del bronzo (per dirla con il poeta latino Orazio) i suoi don José e Calaf, Andrea Chénier e Radamès, Manrico e don Alvaro, Mario Cavaradossi e Ernani, Poliuto e Raoul de Nangis (degli Ugonotti): tutti percorsi dallo stesso fremito espressivo, dall’ineguagliabile generosità del canto, dalla luminosa bellezza dell’acuto lanciato ad sidera, verso e oltre le più alte vette del pentagramma; ma serviti al pari, nei mo-


29

Franco Corelli, un mito del teatro d’opera UNA VIBRANTE BELLEZZA DELLE NOTE SPOSATA ALLA PRESTANZA FISICA

menti di raccoglimento lirico più intenso, da una duttilità e intensità di mezze voci, di smorzature ricondotte a incredibili filature terminali frutto di una tecnica sopraffina, conseguita con studio “impietoso” (per la severità della personale applicazione) e continuo nel tempo. Franco se n’è andato da tempo, il 29 ottobre 2003: eppure resta indelebile il ricordo di lui nelle vesti di prim’attore vocale e dei suoi spettacoli memorabili, quando campeggiava da solo sul palcoscenico come una forza sonora della natura e quando duettava con Maria Callas e con Renata Tebaldi, con Birgit Nilsson, con Leontyne Price e con Mirella Freni, con le altre primedonne sue partners sulle ali di note impagabili, di melodrammi conosciuti e meno conosciuti vivificati dalla sua presenza, oltreché dalla voce. Chi può dimenticare quell’appassionato, ineguagliabile suo dragone, creato dal genio di Bizet, il più bel

don José a cui Carmen abbia mai gettato un fiore? O quel momento magico, nella stessa opera, del duetto con Micaela, la delicata fanciulla dalle trecce bionde ( “Et tu lui dirà que son fils l’aime et la venère”… col pensiero rivolto alla madre lontana)? E’ questo, più di altri, il ricordo legato a lui e alla Freni insieme, con Herbert von Karajan a dirigere, all’insegna del “così mai più nessuno”. E così per le ultime, intense espressioni di Pollione e di Norma (“Quel cor tradisti, quel cor perdesti”), uniti nella vita e nella morte nella scena finale dell’opera belliniana: lui e Maria (Callas) mettevano e mettono, grazie alla provvida testimonianza del disco, i brividi in chi ascolta. Mirava a conseguire la perfezione nel canto Corelli ha saputo sostenere nel corso di una carriera condotta all’insegna di una volontà indefessa e di uno

studio costante e pervicace, mirati entrambi a conseguire la perfezione tecnica ed espressiva del canto (e che andavano di pari passo con i successi puntualmente conseguiti ad ogni latitudine teatrale), un repertorio ampio e “trasversale”, che racchiudeva i ruoli salienti del Verismo, come Canio dei Pagliacci, Chénier o lo stesso Loris della Fedora (personaggi, entrambi, di Giordano); protagonisti scopertamente romantici come Ernani o Manrico, come Poliuto e Raoul de Nangis degli Ugonotti di Meyerber, (il pregevole “sconfinamento” francese del nostro tenore, ascritto nelle recite del ’62 alla Scala alla storia dell’interpretazione dell’impervia parte), con gli approdi al Verdi maturo di Alvaro e di Radamès; a cui vanno affiancati quali imprescindibili saggi interpretativi di riferimento i passaggi pucciniani di Tosca, de La fanciulla del West e di Turandot (Cavaradossi, Dick Johnson e Calaf), e bizetiani


La “voce”

30

Iniziò la carriera con Carmen nel 1951 a Spoleto poi venticinque anni di successi sui palcoscenici del mondo

Nella pagina precedente Corelli insieme alla Callas e in alto in "Carmen" Qui sopra, un intenso primo piano del tenore nelle vesti di don José e di seguito con Maria Callas sua partner di riferimento alla Scala A destra in alto, Franco Corelli nei panni di Enzo Grimaldo ne "La Gioconda" sotto, Franco Corelli con Renata Tebaldi

di Carmen (don José): ruoli, questi, da ascriversi ai vertici assoluti dell’interpretazione del secolo scorso. Corelli le faceva proprie, queste indimenticabili figure dell’opera, connotandole della sua spiccata personalità artistica: lui che del tenore espada le cui caratteristiche vocali gli vennero comunemente associate, così come percepite nelle sue esibizioni, seppe comunque dare una versione propria, smussandone gli eccessi alla luce di un’espressività più compiuta e di classe superiore. E’ necessario precisare che questo tipo di tenore di scuola italo-spagnola, già attivo a fine Ottocento come evoluzione del tenore di forza eroico e romantico di quel secolo, possedeva ed esibiva gli acuti con straordinaria esuberanza: con essi “infilzava” il suo pubblico in guisa di matador dell’ugola. Tutto questo andava di pari passo “in corso d’opera” (è il caso di dirlo) con l’operazione di affinamento in

progress delle sue naturali, straordinarie capacità vocali, tese all’eccellenza del canto (non scevre peraltro da dubbi e sofferenze, anche all’atto di entrare in scena, ma con l’ansia che si scioglieva da subito in un’energia dinamica di elettrizzante spessore, come ebbero a notare anche alcuni suoi colleghi); un’operazione che lo stesso condusse per un periodo anche con il contributo “didattico” di un celebre suo precedente sodale di registro, il tenore Giacomo Lauri Volpi, i cui suggerimenti sicuramente di valore vanno nondimeno coniugati, riteniamo, con un processo di maturazione da Corelli portato avanti sostanzialmente in proprio. A completare l’informazione circa l’ impegno di repertorio affrontato dal Nostro, a parte la predisposizione per il genere lirique francese, attestato dalle sue prove di rilievo in titoli quali Faust e Roméo et Juliette di Gounod e Werther di Massenet, van-


La “voce”

no comunque ricordate le sue interpretazioni ad inizio carriera (anni ’50) di rarità operistiche, non usuali (per lui) e in parte almeno fuori dalla circuitazione corrente, quali Enea di Guido Guerrini o Romulus di Salvatore Allegra, affiancate dalla maggiore rilevanza di Gluck (Ifigenia in Aulide) e di Händel (Giulio Cesare e Eracle) - pur non essendo Corelli certamente un interprete ‘belcantista’ nel senso specifico del melodramma barocco, terreno virtuosistico per gli evirati cantori del ‘belcanto’ delle origini -, o di un Musorgskij (Boris Godunov e Kovàncina) e di un Prokofiev (Guerra e pace). Discorso a parte merita il marchigiano Gaspare Spontini e le maiuscole prove che in Agnese di Hohenstaufen e ne La vestale il cantante seppe offrire nel 1954, con la prima a Firenze, con la seconda alla Scala, quale spettacolo di apertura di stagione (7 dicembre), con Maria Callas. E come riepilogò tutto questo il nostro Franco, in un’ intervista del 1970 a un giornalista del settimanale Epoca? “Se vuole farmi un piacere, scriva che io non sono né un tenore drammatico, né un tenore lirico. Sono una voce”. Lungo i sentieri della memoria Corelli e i teatri delle Marche, Corelli e la sua città, Ancona: ricordi incancellabili che ci riconducono lungo i sentieri di una memoria documentata dalle cronache del tempo e anche condivisa da chi scrive, segnatamente nei momenti “pubblici” del tenore nella sua città, quelli più recenti e più vivi. Si contano due presenze giovanili di lui in regione: al Teatro dell’Aquila di Fermo nell’agosto del 1954, per una Tosca assieme al soprano Maria Caniglia, e al Palazzo dello Sport di Pesaro nel lu-

31 glio del 1957, per una Carmen con il mezzosoprano Miriam Pirazzini. Tre straordinarie presenze allo Sferisterio Ma i melomani marchigiani ricordano di lui soprattutto le tre straordinarie presenze allo Sferisterio di Macerata, nel 1970 in una memorabile Turandot con la Nilsson (coppia ineguagliabile, la loro, in quest’opera) in cui il nostro cantante volle nelle tre recite, nel ruolo della maschera Ping, l’amico anconetano suo più caro, colui che lo spronò nella carriera e che sempre gli è stato prodigo di preziosi consigli di canto, il baritono Carlo Scaravelli, artista appunto e valido docente nel settore lirico, una persona aperta e solare, pronto sempre a fugare i dubbi del momento e le incertezze improvvise dell’amico Franco anche nel corso di telefonate in piena notte dall’America (complice il fuso orario), magari solo pochi momenti prima di entrare in scena; e poi ancora nel 1971 ne La bohème con il soprano Luisa Maragliano e nel 1974 nella Carmen con il mezzosoprano Grace Bumbry, anche lei una partner di riferimento. Ancona, la città che gli ha dato i natali, gli ha reso omaggio in diverse occasioni (anche con il conferimento della tradizionale benemerenza civica del Comune: il Ciriachino d’oro), lui ormai non più in carriera da anni e soprattutto nei suoi ultimi ritorni in città. Per la verità una prima celebrazione pubblica c’era stata nell’ottobre del 1981 presso il nostro Teatro Sperimentale: una serata in suo onore con l’intervento di tutte le istituzioni locali promossa dall’Associazione degli Amici della Lirica e orchestrata come un’intervista al cantante sul palco (condotta dall’avvocato Mario Panzini, che lo cono-

Duettò con Callas Tebaldi, Nilsson Price e Freni sulle ali di note impagabili


La “voce”

32

A un giornalista disse: “Scriva che non sono né un tenore drammatico né lirico Sono una voce”

Corelli con Maria Callas nel "Poliuto" e qui sopra nelle vesti di Mario Cavaradossi nella Tosca

sceva profondamente), mentre sullo sfondo scorrevano le immagini e le note legate ai personaggi indimenticabili a cui aveva dato vita in teatro. (Era noto peraltro che mesi prima, nel corso di quell’anno, Corelli aveva tenuto due ultimi concerti straordinari nel New Jersey (U.S.A.), e qualcuno in sala pensò addirittura al “miracolo” di un’esibizione dal vivo del momento: obiettivamente, non c’erano le condizioni per un’improvvisazione di tal genere). C’è stato invece in seguito, per tre anni consecutivi (1998-2000), auspici il Comune e ancora gli Amici della Lirica, l’importante Concorso di canto intestato all’artista, che presiedeva personalmente la Commissione giudicatrice composta di volta in volta da cantanti celebri suoi colleghi del passato, da direttori d’orchestra, da direttori artistici teatrali e da critici musicali di tutto rilievo. Nei primi, prestigiosi anni delle rinate Muse, lui già scomparso, la Fondazione del Teatro ha dato vita per qualche stagione al “Premio Franco Corelli”, assegnato ogni volta all’artista migliore al debutto in un’opera data sulla nostra

scena cittadina. Va ricordata infine la bellissima Mostra multimediale all’interno del Teatro (“Franco Corelli in mostra”), nel 2006, su iniziativa dell’Università Politecnica delle Marche, coordinata dal professor Fausto Pugnaloni. Che pare certo verrà ripresa alla Mole Vanvitelliana tra agosto e settembre in concomitanza con le celebrazioni per il centenario, auspice il Museo Omero. Gli ho chiesto una volta, passeggiando con lui per le vie del centro: perché non si trovano più i Corelli, i Del Monaco i Bergonzi, così come i Pavarotti, i Domingo, i Carreras? Mi ha risposto con una frase di Beniamino Gigli: “Eravamo entrati al conservatorio in più di cento, e ne siamo usciti che ci contavamo sulle dita di una mano”. E commentò in proposito che il canto lirico richiede impegno e sacrificio, che non sempre i giovani hanno, specie se attratti da facili guadagni. Franco Corelli dell’impegno e del sacrificio personali ha fatto una ragione di vita, per diventare quello che è stato: “il” tenore. Il giorno della riapertura delle Muse (quel 13 di ottobre 2002 che ci riempie ancora di gioia solo a ripensarci), Corelli era presente alla cerimonia e al taglio del nastro. Quando i tanti anconetani che si erano riversati nella sala per vivere l’intensa emozione di quella prima visita cominciarono a scemare all’esterno, mi sono ritrovato con Franco in platea sotto il palcoscenico. “Allora” - gli ho chiesto -? Mi ha risposto accennando a un sorriso, non facile a decifrarsi. E’ stato il nostro ultimo incontro. ¤


70esima rassegna internazionale

33

Sassoferrato omaggia Mattiacci e le sue opere IL PREMIO SALVI DEDICA UNA SEZIONE ALL‘ ARTISTA

di Federica Facchini

La mostra a palazzo degli Scalzi si sviluppa in tre direttrici con sculture video storici chine e acquarelli

L’

esperienza digitale messa in moto nell’ultimo anno dalla pandemia ha cambiato il modo di comunicare e ha cambiato anche il modo di partecipare agli eventi che sempre più spesso avvengono sulle varie piattaforme virtuali. È avvenuto così anche per la ormai consolidata “Rassegna Internazionale d’arte / Premio G. B. Salvi” di Sassoferrato, giunta quest’anno alla sua 70esima edizione e dedicata alla figura di Eliseo Mattiacci (scomparso nel 2019), che ha inaugurato in diretta streaming lo scorso 10 aprile. La manifestazione ospitata a Palazzo degli Scalzi e al Palazzo della Pretura (fino al 13 giugno), risponde alla storica finalità di omaggiare in una sezione, un artista affermato e storicizzato e nell’altra di valorizzare artisti delle nuove tendenze e dei nuovi linguaggi artistici contemporanei, sempre con un alto livello qualitativo. Per questo il curatore Ric-

cardo Tonti Bandini ha selezionato 23 giovani artisti in perfetto equilibrio di genere legati eterogeneamente con la nostra regione e il cui lavoro ha già avuto riconoscimenti in Italia e all’estero. Questi sono: Paola Angelini, Gabriele Arruzzo, Clarissa Baldassarri, Andrea Barzaghi, Simone Cametti, Fabrizio Cotognini, Giulia Crispiani, Luca de Angelis, Cleo Fariselli, Matteo Fato, Alessandro Fogo, Corinna Gosmaro, Luisa Me, Davide Mancini Zanchi, Silvia Mariotti, Elena Mazzi, Davide Monaldi, Andrea Nacciarriti, Raffaella Naldi Rossano, Nazzarena Poli Maramotti, Caterina Silva, Marco Strappato, Alice Visentin. «Un’ambiziosa istantanea su questo gruppo di artisti, per fare il punto della situazione e a testimonianza della fertilità di un territorio». Ricordando le parole dello stesso Mattiacci che disse che nelle Marche ci sono molti artisti, in proporzione più che nelle grandi città. La mostra di Mattiacci a Palazzo degli Scalzi (grazie alla collaborazione dello Studio Mattiacci e della figlia dell’artista Cornelia), ha spiegato il curatore: «si sviluppa secondo tre direttrici principali: nel cortile Seicentesco immerse in un dialogo privo di tempo, si possono ammirare la Porta del Sole e la Porta della Luna la prima eseguita tra il 1990 – ‘92 e la seconda tra il ‘92-‘93, ovvero una dopo l’altra come il susseguirsi del giorno e della notte nella rotazione terrestre. Entrambe in acciaio corten sono larghe 1,80 mt e alte 2. La scelta del materia-


70esima rassegna internazionale

In un’altra sezione sono valorizzati invece 23 artisti contemporanei espressione di nuove tendenze e linguaggi

Nella pagina precedente Eliseo Mattiacci recentemente scomparso Qui sopra, una giovane artista tra i selezionati per la mostra a Palazzo degli Scalzi

le è fondamentale per questa generazione di artisti, non è una mera questione tecnica o estetica ma è importante per le tensioni, per l’energia che possono esprimere i materiali stessi. Opere che appartengono alla celebre iconografia di Mattiacci, poggiano rigorosamente sui punti cardinali est e ovest e delineano una soglia, narrano un confine tra il mito scritto dall’uomo e dal mito cosmogonico scritto dalla natura». La seconda direttrice la si rintraccia nella seconda sala, dove sono presenti 15 disegni a china ed acquerello: sono frammenti di meteoriti, corpi celesti, sono orbite ellittiche che descrivono le relazioni gravitazionali degli oggetti che appartengono al macro cosmo cosmico e al micro cosmo atomico.

34

Non disegni preparatori di opere scultoree, ma opere in sé compiute che esprimono attraverso il colore, il dinamismo del segno e la sensibilità pittorica la stessa carica plastica dell’indole di Mattiacci. La terza direttrice nella terza sala dedicata al maestro è invece proiettato un video storico girato il 31 ottobre 1992 nella cava di sant’Anna della Gola del Furlo, in occasione di “Un ascolto di vuoto” a cura di Bruno Corà. Mattiacci in quell’occasione fece esplodere una piccola carica esplosiva, seguita da un colpo di gong, sospeso sopra la cava che in quel momento diveniva scena di un teatro arcaico. Ci saranno altri appuntamenti in streaming come quello di sabato 24 aprile dedicato alla presentazione del nuovo sito e brand e sabato 12 giugno la presentazione del catalogo edito da Magonza Editore. La Rassegna è organizzata dal Comune di Sassoferrato con il contributo della Regione Marche, con il patrocinio dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana. Anche le ormai consolidate collaborazioni con la FIAF (Face Photo News) e il Premio Mannucci di Arcevia, in questo particolare anno, segnato dall’emergenza pandemica, si articoleranno in modalità telematica; sarà infatti data ampia valorizzazione, sui canali social alle opere vincitrici del premio FIAF 2019/2020 e del Premio Internazionale di Scultura Edgardo Mannucci 2020. ¤


Un giorno con l’artista

35

“Ho giocato a bocce con le opere di Eliseo” per MATTIACCI LE sculture erano OGGETTI QUOTIDIANI

I di Curzio Cicala

l 25 agosto 2019 a Fossombrone è morto Eliseo Mattiacci, scultore. Su Mattiacci è stato scritto tanto. Come amante del suo lavoro, oltre che appassionato d’arte contemporanea, mi limiterò, pertanto, a raccontare alcuni miei ricordi personali, nella speranza di cogliere elementi meno conosciuti dell’artista e, in tal modo, di contribuire al racconto dell’esperienza di una vita consacrata alla scultura. Ho incontrato Eliseo Mattiacci tre volte. La prima volta fu a Montecerignone, non lontano da Pesaro, nella bellissima casa di Franca Man-

cini, appoggiata sulle colline del Montefeltro. Quando mi venne presentato Eliseo, il viso aspro e dolce come le pietre e i materiali delle sue opere, rimasi colpito dalla sua forza bonaria. Collegai certamente quei tratti a un carattere schietto, ma non ne colsi, allora, l’intima essenza con gli aspetti del suo lavoro. Lo avrei fatto negli anni a seguire, sempre più intrigato

dalla personalità “scolpita” dell’artista. Infatti, ben più significativi furono i due incontri successivi una volta studiata e, ovviamente, apprezzata l’opera di Mattiacci. In entrambi i casi ebbi l’onore di essere ammesso (con mia moglie) nel suo studio in Pesaro. Era un immenso capannone ove, all’interno, vi erano macchinari industriali. Ricordo di essere rimasto impressionato da un immenso carro-ponte, che si muoveva lento, come se fosse vivo, e veniva usato per spostare le pesantissime lastre di metallo che Eliseo tagliava e trasformava per plasmare le sue sculture: veri e propri frammenti di quelle costellazioni e dei giochi di corpi celesti che Mattiacci amava raccontare, affascinando con la sua naturalezza e la semplicità del suo sapere chi, come me, amava ascoltarlo. Naturale nelle parole, Eliseo era altrettanto informale nelle relazioni. Così fummo da subito accolti come vecchi amici, nonostante, per lui, artista affermato, mia moglie ed io fossimo perfetti sconosciuti. Ci aprì il suo studio consentendoci di girare, vedere, toccare e muovere tutte le sue sculture, anche quelle non ancora completate; anzi, ci accompagnò, spiegandoci i movimenti ed il significato di ogni scultura. Eravamo come dei bambini al parco giochi. Acquistare i suoi lavori, non fu un atto di collezionismo, ma un’emozione; significò condividere il piacere e il gioco dell’arte con un grande artista. Nei confronti della sua arte Eliseo aveva un approccio assolutamente non formale o


Un giorno con l’artista

Interagiva con le sue creazioni in modo da viverle nella sua interezza Non le considerava monumenti statici da museo

Nella pagina precedente e qui sopra alcune immagini di Eliseo Mattiacci nel suo studio in momenti di creazione

36

sacramentale, anzi direi dissacratorio. Le sue sculture, per essere fruite nella loro interezza, dovevano essere non solo guardate, ma anche toccate con le mani ed in certi casi anche, letteralmente, calcate. Niente di più lontano dalla venerazione museale di un’opera d’arte. Negli spazi esterni del capannone vi erano gigantesche sculture in ferro del peso di diverse tonnellate (simili, per dimensioni e tipo, a quella posta all’imboccatura del porto di Pesaro, che fra l’altro ha voluto farci vedere dal vivo), una delle quali era costituita da un lastrone di ferro inciso con, al centro, una palla, di modo che essa fungesse da fulcro, dato che la scultura era poggiata per terra in orizzontale. Immediatamente lui iniziò ad interagire fisicamente con la scultura, invitandoci a fare altrettanto. Solo poi, rivedendo le foto, ne capii il significato; il montarla, toccarla, circondarla, costituiva un modo per godere appieno dell’opera d’arte, per farla propria, per viverla nella sua interezza e per provare determinate sensazioni che la semplice e distaccata osservazione da lontano non avrebbe comportato. Insomma, forse, io credo, voleva cercare di farci rivivere in qualche modo l’emozione che lui aveva provato nel manipolare la materia e nel crearla. Non meno emozionante è stato il successivo incontro di circa tre anni fa, sempre presso il suo studio. Ricordo che v’era una scultura composta da una sorta di putrella di ferro, sulla quale erano poggiate due sfere, due bocce da gioco; improvvisamente, senza dire una

parola, lui ne prese una, mi consegnò l’altra e … ho giocato a bocce con Eliseo Mattiacci e, incredibile, con una sua scultura! Era ancora una volta, se pure ce ne fosse stato bisogno, la dimostrazione che Mattiacci considerava le sue sculture non come opere statiche, monumenti museali, ma come oggetti da vivere nel quotidiano: toccandole, annusandole e fruendone nel modo più appagante per ognuno (soprattutto quindi giocandoci, come ragazzini). Del resto, i materiali utilizzati da Eliseo sono forti, impossibili a modificarsi con una semplice interazione simile, sicché il gioco comportava, una dissacrazione ideale, giammai plastica. Mi innamorai, fra le tante, di una sua piccola scultura in ferro composta da una superficie curva attraversata da una freccia che lui conservava su un tavolino dedicato, credo, ai prototipi. L’opera, come lui mi disse, era stata creata, di getto, il giorno stesso della notizia del crollo del muro di Berlino - e in effetti la freccia sembra rappresentare la forza della libertà ritrovata, della democrazia e della fratellanza contro ogni pretesa di alzare muri tra le persone. Ovviamente, entrambi gli incontri si sono conclusi in trattoria. Del pranzo conservo il ricordo più bello. Chiesi a Eliseo in che cosa consistevano le sue famose spirali: lui mi guardò, prese una penna, mi chiese la mia tovaglietta di carta, si mise a disegnare varie spirali sul retro, circondando qualche macchia d’olio, firmò l’opera Eliseo Mattiacci autentico e me ne fece dono. Mattiacci era davvero autentico. ¤


Art bonus a Urbino

37

Lunetta a rischio Tutti possono salvarla INIZIATIVA DELLA GALLERIA NAZIONALE DELLE MARCHE

I Ogni cittadino o azienda può donare contributi detraibili per restaurare l’opera di Luca della Robbia Servono 23 mila euro

Sopra, immagini della lunetta di San Domenico, altorilievo di Luca della Robbia

n questi tempi di grandi ristrettezze, anche la Galleria Nazionale delle Marche fa la sua chiamata alle arti, lanciando l’Art Bonus per contribuire ad iniziative culturali, quali interventi di manutenzione, protezione e restauro di beni culturali o anche sostegno ad alcune iniziative espositive. Sì perché come ha espresso il neo direttore Luigi Gallo, anche i musei hanno sofferto molto la mancata bigliettazione per quasi un anno e diventa fondamentale cercare di sensibilizzare il pubblico ad un’appartenenza culturale profonda e identitaria. «Il Palazzo Ducale è il Salotto delle Marche, unico Patrimonio Unesco della Regione, ed è importante il senso di collaborazione fattiva nel recupero o valorizzazione del patrimonio artistico culturale. La Galleria Nazionale delle Marche – ha continuato - è un bene di tutti, ecco perché abbiamo deciso di iniziare con il Restauro della Lunetta di san Domenico». Le complesse operazioni saranno eseguite grazie alla collaborazione con l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, istituto d’eccellenza nel campo del restauro afferente al Ministero della Cultura. Nonostante ciò, restano da affrontare molte spese vive, per un importo stimato di almeno ventitremila euro. Grazie alla legge 106/2014 conosciuta come Art Bonus, ogni cittadino o azienda potrà dare un contributo a questo progetto, fruendo di benefici fiscali sotto forma di credito d’imposta. Si può consultare il sito www.artbonus.gov.it e, in particolare, https://artbonus. gov.it/1958-galleria-nazionale-delle-marche.html L’elegante altorilievo, in

terracotta invetriata di Luca della Robbia, proveniente dal portale della chiesa di S. Domenico, prospicente il Palazzo Ducale di Urbino, venne spostata all’interno del Museo nel 1973 quando – in seguito al restauro del portale quattrocentesco – si comprese l’impossibilità di garantirne la conservazione con l’esposizione alle intemperie. Da allora, la terracotta robbiana accoglie i visitatori nella Sala della Jole, il primo ambiente che si incontra visitando le collezioni della Galleria Nazionale delle Marche. La nuova collocazione dell’opera e il restauro fatto allora, non hanno impedito però che, dopo cinquant’anni, si manifestassero ulteriori problemi conservativi. Le lacune, particolarmente evidenti sulle figure della Vergine e del Bambino, maggiormente esposte agli agenti atmosferici, sono state causate dalla migrazione e ricristallizzazione di sali minerali al disotto dello strato di smalto che, spinto dalla pressione dei cristalli, si è staccato dal corpo ceramico. Questo fenomeno che, nel corso dei secoli, ha prodotto le cadute dello strato di finitura che oggi vediamo deturpare il pregevole manufatto, seppur notevolmente rallentato, non si è fermato e, per evitare ulteriori perdite, si è deciso di intervenire per rimuovere definitivamente questi sali dannosi dal corpo ceramico. Una complessa operazione che porterà la lunetta a Firenze per sei mesi circa, mentre la conclusione dei lavori, come il consolidamento delle parti distaccate ed un trattamento pittorico delle lacune, sarà effettuata a Urbino. ¤ fede. facc.


Il sommo poeta | 1

di Grazia Calegari

“A

riveder le stelle” è il titolo della mostra visitabile sul sito web della Galleria degli Uffizi, che intende così celebrare il settecentenario dalla morte di Dante Alighieri con i disegni sulla Divina Commedia di Federico Zuccari, per la prima volta digitalizzati in alta definizione. Come tutte le opere su carta, i fogli sono normalmente custoditi in ambienti protetti, termoregolati, senza luce, e possono essere esposti ogni cinque anni Da qui deriva la scelta degli Uffizi di digitalizzare nella sua completezza questo nucleo di carte fisicamente fragili e non adatte a essere consultate. L’apparato didattico che

Si tratta della più grandiosa compagine illustrativa del poema realizzata prima dell’800

completa la mostra è scritto da Donatella Fratini, curatrice dei disegni dal Cinquecento al Settecento nella Galleria fiorentina. I disegni erano anticamente rilegati in un volume che, una volta aperto, all’illustrazione sulla pagina destra mostrava, a sinistra, la trascrizione dei versi del poema e un breve commento curato dallo stesso Federico che, una volta completati, li volle tenere di sua proprietà. Furono poi offerti in vendita dal figlio Ottaviano Zuccari e, dopo vari successivi passaggi, arrivarono in possesso del cardinale Leopoldo de’ Medici. Sono entrati alla Galleria degli Uffizi grazie alla donazione di Anna Maria Luisa de’Medici (Firenze 16671743), l’ultima erede della dinastia fiorentina, sposata a Giovanni Guglielmo Elettore del Palatinato, regione della Germania occidentale. A lei si deve il dono per testamento di tutti i beni medicei, cioè delle enormi svariatissime collezioni, divise tra i musei fiorentini col cosiddetto ‘patto di famiglia’ nel 1753. Sono 88 tavole, in parte esposte nel 1865 a Firenze in palazzo Medici Riccardi in occasione dei festeggiamenti per l’Unità d’Italia, quando Dante veniva celebrato come grande padre della cultura italiana nel sesto centenario della nascita, perchè l’opera sua ci conducesse ancora una volta dalla ‘selva oscura’ dello smarrimento fino alle alte sfere del Paradiso. E ancora, in parte, si sono potuti vedere in una piccola mostra a Torre de’Passeri, Casa di Dante, in Abruzzo, dal


39

Divina Commedia Nella “sanguigna” di Zuccari la lezione morale L’ARTISTA DEDICA 28 TAVOLE ALL’INFERNO, 49 AL PURGATORIO E 11 AL PARADISO IN ESPOSIZIONE DIGITALE AGLI UFFIZI DI FIRENZE PER CELEBRARE I 700 ANNI DELLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI


Il sommo poeta | 1

26 settembre al 30 novembre 1993. Oggi il direttore degli Uffizi Eike Schmidt contribuisce con quest’iniziativa alle numerose celebrazioni che si dipaneranno lungo il 2021 nelle località coinvolte con la biografia e le attività di Dante, sia in modo virtuale che, speriamo, anche ‘in presenza’, se l’attuale terribile situazione pandemica ce lo consentirà. Il volume Dante historiato da Federico Zuccaro è stato in parte pubblicato nel 2005 dalla Salerno Editrice, Roma, che in un prezioso libro ha analizzato le illustrazioni e oggi ci stimola all’analisi di questo vero ‘commento figurato’ del ‘romanzo teologico’ dantesco ad opera di Federico Zuccari, inquieto e attivissimo intellettuale e pittore. Nel codice di Firenze lo Zuccari dedica 28 tavole all’Inferno, 49 al Purgatorio, e 11 al Paradiso: si tratta della più grandiosa compagine illustrativa della Commedia realizzata prima dell’800, quando l’opera di Dante ha attratto sensibilità romantiche come quella dell’inglese William Blake, e ha conosciuto la più popolare, canonica illustrazione del francese Gustave Dorè. I disegni relativi alla prima cantica sono eseguiti a matita rossa (la sanguigna) e a matita nera; quelli che illustrano il Purgatorio sono monocromi a penna e a bistro nero, (tranne gli ultimi cinque in cui si utilizza la matita rossa e nera per raffigurare il Paradiso terrestre); l’ultima cantica è illustrata prevalentemente a matita rossa. Ci sono variazioni di luce tra l’Inferno, dove la matita rossa consente chiaroscuri movimentati e drammatici; il Purgatorio (che ha sicuramente i canti più numerosi e atteggiamenti realistici, come condizione prevalente della vita di tutti); il Paradiso, estrema speranza di salvezza nella Luce di Dio.

Il formato medio dei disegni è di cm.42/44 x 58/60, ma alcune tavole presentano qualche variazione. Il protagonista Zuccari artista e intellettuale (Cfr. Per Taddeo e Federico Zuccari nelle Marche, a cura di Bonita Cleri, Sant’Angelo in Vado 1993; Federico Zuccari-Le idee, gli scritti, atti del convegno di sant’Angelo in Vado, a cura di Bonita Cleri, Milano 1997). Nato a Sant’Angelo in Vado probabilmente nel 1539, (il pittore stesso dà, per civetteria o sbadataggine, date diverse sulla sua età), scompare nel 1609 ad Ancona dove, nel viaggio di ritorno da Loreto a Urbino, viene colto da febbre e dopo pochi giorni muore. E’ sepolto nella chiesa di Sant’Agostino in Ancona ma, a causa delle trasformazioni subite dall’edificio, non è stato possibile ritrovarne la tomba. La carriera di Federico comincia ben presto come allievo del fratello maggiore Taddeo, pittore anche lui molto noto: gli Zuccari sono rappresentanti del tardo manierismo, divulgatori instancabili e famosi a livello europeo. Federico svolge le sue prime attività in giro per l’Italia e per l’Europa, soprattutto tra Francia, Paesi Bassi, Spagna e Inghilterra. In Italia si divide tra Venezia, (per opere varie dal 1563 al 1565, nel 1582 a Palazzo Ducale, poi dal 1603 al 1604); Firenze, dove è chiamato a completare il Giudizio Universale nella cavità della cupola del Duomo lasciato incompiuto per la morte improvvisa di Giorgio Vasari, dal 1575 al 1579; Bologna, intorno al 1580, quando incontra dure critiche per lo stile troppo manierista del suo quadro per Santa Maria del Baraccano. Reagisce con un enorme cartone colorato andato perduto, la ‘Porta Virtutis’, affisso sulla



Il sommo poeta | 1

Le scene sono sempre collettive, brulicanti di piccole figure nude in movimento esagitato

Nella doppia pagina precedente Minosse, giudice infernale che assegna le pene ai lussuriosi e al centro dell'immagine emerge la grande roccia con un profilo umano grottesco (canto V dell'Inferno) In alto, Caronte il traghettatore dei dannati nel fiume Acheronte (canto III dell'Inferno) Sotto, Dante e Virgilio camminano con i diavoli (canto XXII dell'Inferno) Nella pagina a destra la Porta dell'Inferno che Zuccari decora con simboli di morte. Di seguito l'autoritratto di Federico Zuccari con la moglie Franscesca Genga

42 facciata della chiesa della corporazione dei pittori, in difesa della “libertà d’espressione dell’artista”, per il quale venne processato, espulso da Roma da papa Gregorio XIII e mandato in esilio. Fu Francesco Maria II Della Rovere signore di Urbino a revocare il bando e a consentire a Federico di poter soggiornare a Loreto nel 1583 per decorare la Cappella dei duchi di Urbino che comprendeva anche l’’Annunciazione’ di Federico Barocci all’altare maggiore e i ricchissimi stucchi del Brandani. “L’assieme più qualificato nella veste tardocinquentesca che la Basilica andava assumendo, acquistando il carattere di immagine, elettissima, di rappresentanza del Ducato roveresco nel cuore del più prestigioso tempio dell’Italia adriatica e di uno dei punti di forza del dominio pontificio nelle Marche”, oltre che “uno dei complessi più rappresentativi dell’arte della Controriforma nell’ultimo quarto del Cinquecento”: così Luciano Arcangeli definiva la cappella lauretana. (L. Arcangeli, Pittori nelle Marche tra ‘500 e ‘600, Urbino 1979). Federico continua poi la sua carriera di pittore irrequieto e cosmopolita: tra il 1586 e il 1588 è a Madrid al servizio di re Filippo II di Spagna, esegue all’Escorial il grande ‘Retablo mayor’ e alcune tele per la chiesa di San Lorenzo che non incontrano troppo il favore dei committenti. In questo periodo disegna gran parte delle illustrazioni sulla la Divina Commedia. Rientrato a Roma nel 1590 circa, fa iniziare i lavori della particolare casa di famiglia sul Pincio, tra via Sistina e via Gregoriana presso Trinità dei Monti, il Palazzetto Zuccari, ora sede della Biblioteca Hertziana (la massima biblioteca d’arte di Roma), decorata secondo la sua visione del ruolo del pittore, di cui egli stesso parlerà

in alcuni libri, come il trattato L’idea de’ Pittori, Scultori ed Architetti pubblicato del 1607. Nel palazzetto doveva alloggiare la sua numerosa famiglia, raffigurata con precisione realistica; dovevano servirsene i giovani artisti poveri e forestieri, nei quali Federico rivedeva la storia del fratello Taddeo. Nel suo testamento, redatto nel 1603, stabilisce di lasciare la casa romana all’Accademia di san Luca come asilo per i giovani pittori stranieri. Anche l’Accademia venne fondata nel 1593 da Federico e aveva la funzione di formare i giovani artisti attraverso il Disegno, esercizio intellettuale e morale. All’interno, Federico con alcuni assistenti affrescò le volte con la raffigurazione della sua stessa vita, tutta dedita al lavoro e agli affetti famigliari. Dalla moglie Francesca Genga ebbe sette figli, Isabella, Cynthia, Laura, Alessandro, Ottaviano, Taddeo, Orazio e Girolamo : l’affettuosa galleria è rappresentata nella ‘sala terrena’ del palazzetto romano. (Per un’analisi esauriente della figura di Federico si veda : Maria Rosaria Valazzi, voce in Le arti nelle Marche al tempo di Sisto V, a cura di Paolo Dal Poggetto, Milano 1992). E i figli saranno raffigurati di nuovo nella città natale, per rafforzare i legami di famiglia e il culto delle origini tra tante attività cosmopolite, nella tela con ‘Madonna col Bambino, i Santi Caterina, Francesco, Antonio, Taddeo, Lucia e la famiglia Zuccari’, oggi conservata nel municipio di sant’Angelo in Vado. L’impresa del palazzo romano assorbì tanto tempo e denaro da costringere Federico a riprendere un’intensa attività anche per ragioni economiche. Nel 1603, vedovo, partì per una serie di visite a città e corti non solo per dipingere ma anche per tenere conferenze. Venezia, Pavia, Torino, l’E-


Il sommo poeta | 1

milia Romagna sono le tappe di quest’affannoso itinerario finale, compiuto anche per saldare la quantità impressionante di debiti, e culminato con la vendita del palazzetto sul Pincio. “In una sconcertante mistura di piacevolezza cortigiana e di suscettibilità litigiosa, lo Zuccari mosse da una corte all’altra in apparenza onorato ma in realtà scomodo e spesso rapidamente congedato.” (Cristina Acidini Luchinat, Taddeo e Federico Zuccari fratelli pittori del Cinquecento, 2 voll.,Milano-Roma , 1998-99) Nella sala del Disegno della casa romana sono invece esaltati alcuni suoi concetti preferiti: dal Disegno derivano non solo le arti visive, ma anche le altre discipline come la musica, la scienza, la medicina, l’arte della guerra. Al disegno come attività intellettuale, padre di tutte le operazioni creative, dedicò i suoi scritti teorici e molti discorsi nell’ambito dell’Accademia di San Luca: sul valore

43

del disegno mi piace quindi insistere prima di riprendere il discorso sulle illustrazioni della Divina Commedia. ll personaggio Dante è proposto dallo Zuccari “come exemplum della gioventù ‘male incamminata’ a cui gli allettamenti del peccato impediscono di raggiungere il monte della virtù, inscrive dunque il poema in una prospettiva morale e pedagogica. (….). Il romanzo teologico dantesco viene ricondotto alle dimensioni di un’avventura reale, autobiografica, pur nella sua esemplarità. La parabola della conversione dantesca diviene cioè testimonianza’ ripetibile e adattabile a ogni singola esperienza, risultando così pedagogicamente proponibile.” (Andrea Mazzucchi, in Dante historiato da Federico Zuccaro - Commentario, Salerno editrice, Roma 2005). Del resto anche nelle sue lezioni sul Disegno all’Accademia di San Luca lo Zuccari insisteva sull’educazione morale degli apprendisti, dei giovani,

A Federico Zuccari interessa l’insieme e la lezione morale Simbolica è l’illustrazione della Porta dell’Inferno


Il sommo poeta | 1

Le 88 tavole di Zuccari furono in parte già esposte nel 1865 in occasione dei festeggiamenti per l’unità d’Italia

In alto, la Selva oscura dove Dante inizia il suo viaggio Qui sopra, una rappresentazione dell'Inferno dell'allievo Giovan Giacomo Pandolfi

44

perchè imparassero non solo tecniche per il disegno, ma soprattutto insegnamenti morali. La Commedia è insomma una formulazione etico-religiosa, va letta e illustrata in termini moralistici. Le scene sono sempre collettive, brulicanti di piccole figure nude in movimento esagitato ma in scene equilibrate e composte, che ricordano quelle già dipinte nella cupola del duomo di Firenze. Si veda, come solo esempio, l’illustrazione del V canto dell’Inferno: Minosse, Giudice infernale, assegna le pene ai lussuriosi, dannati gesticolanti e disperati, che continuano a sciamare dal fondo, mentre Dante e Virgilio assistono sul lato destro, spettatori coinvolti e immobili. La grande roccia al centro ha assunto un grottesco profilo umano, dal quale spira un vento forte che condanna i lussuriosi per l’eternità, travolti dalla stessa loro passione. Ci sono anche gli amanti Paolo e Francesca ancora abbracciati, in quel tumulto di disperazione, ma dobbiamo cercarli, sono protagonisti laterali. A Federico interessa l’insieme, la lezione morale e didattica ispirata dalla religiosità

controriformistica sua e della Spagna di Filippo II dove i disegni sono stati in gran parte eseguiti. Simbolica e riassuntiva è l’illustrazione della Porta dell’Inferno dove Federico mette in scena la centralità dell’ingresso di Dante e Virgilio da una Porta terribilmente decorata con simboli di morte, mentre avanzano verso di noi i dannati disperati nel caos delle urla e delle cadute senza fine. Fede e sgomento, paura della pena nella cantica dell’Inferno e speranza di salvezza in quella del Purgatorio: dal messaggio artistico e morale dello Zuccari deriveranno dopo pochi anni alcune suggestioni anche nel ducato roveresco di Pesaro e Urbino. Una per tutte, nel soffitto della chiesa del Nome di Dio a Pesaro dove il suo allievo Giovan Giacomo Pandolfi eseguirà dal 1617 al ’19 un ‘Inferno’ derivato letteralmente da un affresco di Federico Zuccari nella cappella degli Angeli alla chiesa del Gesù a Roma del 1594-95, raffigurante ‘L’arcangelo Michele scaccia gli angeli ribelli con diavoli pipistrelli e asini in discesa a braccia aperte.’ Così il Pandolfi mette in scena il suo ‘Inferno’ nel ricchissimo soffitto della chiesa del Nome di Dio. Altro influsso spagnolo, per finire questo sintetico accostamento, è stato quello vissuto direttamente dal duca Francesco Maria II della Rovere, cresciuto in gioventù alla corte di Filippo II di Spagna e signore del ducato fino al 1631, quando lo Stato Pontificio metterà fine per sempre alla nostra autonomia. (cfr. Grazia Calegari, La chiesa del Nome di Dio a Pesaro, Pesaro 2009). ¤


Il sommo poeta | 2

45

L’influenza di Dante sull’arte contemporanea ANCHE IL MARCHIGIANO CUCCHI GLI HA DEDICATO OPERE

S di Federica Facchini

icuramente la Divina Commedia è tra le opere letterarie che hanno avuto maggior impatto sull’arte figurativa conquistando grande rilievo nella produzione di pittori e scultori, per la portata di un immaginario iconografico vastissimo che ha saputo stimolare una visionarietà dai contenuti tanto tragici e drammatici quanto idilliaci e di celestiale bellezza. La Divina Commedia infatti non si può considerare un semplice poema ma una vera e propria architettura letteraria che grazie alla Poesia si fa portavoce di una coscienza individuale che diviene collettiva e universale. Versi ricchi di allegorie, simbologie e visioni, attraverso cui si riesce a scorgere il senso del viaggio dell’uomo sulla Terra. Le molte sollecitazioni della Divina Commedia Un’influenza che ha attraversato i secoli e i gli artisti che si sono messi alla prova con l’inesauribile catalogo di sollecitazioni spirituali, emozionali, visionarie e visuali

Le quattro litografie di Cucchi che rappresentano Caronte Paolo e Francesca i Piangenti e il Paradiso

dell’imponente opera. Ogni volta riscoprendone l’inesauribile contemporaneità. Da Sandro Botticelli a Federico Zuccari, da Wiliam Blake ad Ary Sheffer da Eugène Delacroix a Auguste Rodin da Gaetano Previati al grande grafico e illustratore americano Milton Glaser. Un’influenza che diventa più capillare ed evidente a partire dall’Ottocento, un secolo in cui, grazie alla cultura romantica e alla sua estetica del sublime, puntava a far emergere sensazioni forti e sconvolgenti. Non a caso appartengono a questo periodo le 136 illustrazioni che Gustave Doré realizzò tra il 1861 e il ‘68 e che contribuirono tantissimo a fomentare un immaginario epico e drammatico sul tema e a creare un vero e proprio microcosmo visivo. E sempre nell’Ottocento vennero pubblicati per la prima volta (1887) anche i 92 disegni superstiti di Sandro Botticelli, a cui appartiene il primo vero ciclo illustrativo della Divina Commedia. Fino agli artisti del Novecento come Salvador Dalì


Il sommo poeta | 2

La Divina commedia è tra le opere che hanno avuto maggior impatto sull’arte figurativa attraverso i secoli

Sopra, Anteporta di Emilio Isgro A destra in alto Mimmo Paladino, Paradiso a fianco, Enzo Cucchi, Purgatorio

46 che nel 1965 fu individuato dall’Istituto Poligrafico dello Stato italiano per illustrare la Commedia in occasione del 700° anniversario della nascita di Dante. Tuttavia, il polverone sollevato dal fatto che l’opera fosse stata affidata a un artista non italiano spinse il governo italiano a non realizzare più il volume così la pubblicazione venne presa in mano dalla casa editrice Adriano Salani di Firenze e le stampe entrarono nel circuito commerciale. Le 100 tavole ad acquarello su cui Dalì lavorò per nove anni per tradurle poi in xilografie, fondendo simboli, magie e allegorie, sono state allestite scenograficamente nello spazio dodecagonale della chiesa del Suffragio del Centro Arti visive di Pesaro nella mostra Light My Fire. Dante e l’arte: una lunga storia d’amore (visitabile fino al 31 maggio) che mette a confronto il genio catalano con quello americano di Robert Rauschenberg, precursore della Pop Art di cui è visibile nel Loggiato, l’interpretazione dell’Inferno con 34 litografie in cui viene usata la tecnica del Transfer Drawing; un lavoro complesso che venne presentato per la prima volta nel 1960 alla Galleria Leo Castelli di New York. L’appuntamento con l’iconografia dantesca più contemporanea è però quello di Foligno. Bisogna sapere infatti che qui nel 1472, venne realizzata la prima edizione a stampa della Divina Commedia. E proprio per celebrare questa editio princeps, dal 2006 il Comitato Dantesco di Foligno ha avviato un progetto sostenuto dal Comune con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Foligno, commissionando ogni anno ad un artista contemporaneo di fama internazionale una serie di incisioni, ispirate alle cantiche del ca-

polavoro letterario. Ne è nata una collezione unica nel suo genere, conservata presso la biblioteca cittadina. Nel tempo ogni artista ha creato una particolare copertina per l’opera e il frontespizio delle tre cantiche, seguendo il proprio linguaggio e la propria personale espressività. E ogni anno le incisioni vengono inserite in una copia identica dell’editio princeps, preziosamente rilegata per l’occasione. A Foligno la prima esposizione Le prime dieci edizioni realizzate furono esposte presso il CIAC (Centro Italiano Arte Contemporanea) di Foligno nell’occasione del 750° della nascita di Dante (2015) a realizzarle furono Omar Galliani (tre incisioni su lastra di zinco: Inferno, Purgatorio, Paradiso), Ivan Theimer (quattro acqueforti), Bruno Ceccobelli (tre acqueforti), Mimmo Paladino (quattro litografie: Frontespizio, Conte Ugolino, Ulisse, Beatrice), Giuseppe Gallo (quattro xilografie: Dante, Minosse, Oderisio da Gubbio, Paradiso), Enzo Cucchi (quattro litografie: Caronte, Paolo e Francesca, I piangenti, Paradiso), Piero Pizzi Cannella (quattro litografie: Frontespizio, Inferno, Purgatorio, Paradiso), Stefano Di Stasio (quattro litografie: Frontespizio, Inferno, Canto 21, Purgatorio, Canto 4, Paradiso, Canto 22), Marco Tirelli (quattro litografie: Frontespizio, Inferno, Purgatorio, Paradiso), Sandro Chia (quattro litografie: Frontespizio, Inferno, Purgatorio, Paradiso). Una collezione che nel tempo è arrivata a contare oltre 50 opere grafiche, di ben quindici artisti, esponenti della Transavanguardia, della Scuola di San Lorenzo, dell’Anacronismo e dell’Ipermanierismo: oltre ai 10 citati


Il sommo poeta | 2

prima si sono aggiunti: Gianni Dessì (quattro litografie: Copertina, Inferno, Purgatorio, Paradiso), Nunzio Di Stefano (tre xilografie: Inferno, Purgatorio, Paradiso, una litografia di apertura dell’opera), Emilio Isgrò (quattro illustrazioni: Apertura, Inferno, Purgatorio, Paradiso), Giuseppe Stampone (quattro litografie: Anteporta, Inferno, Purgatorio, Paradiso), e Roberto Barni (quattro litografie: Anteporta, Inferno, Purgatorio, Paradiso). Gli artisti danno forma e parola a Dante Questa preziosa raccolta di divagazioni estetiche e profonde riflessioni di artisti contemporanei internazionali è stata presentata a Roma, nella recente mostra Verso il 2021. Dante nell’arte contemporanea italiana, curata dal critico Italo Tomassoni (Ancona, 1938), a Palazzo Firenze (negli spazi espositivi nella Sede centrale della

47

Società Dante Alighieri) per iniziativa della Società Dante Alighieri, con il patrocinio del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo in collaborazione con il Comune e il Comitato Dantesco di Foligno. “L’idea di affidare ad artisti contemporanei il compito di dare forma alle parole di Dante non ha mai significato immaginare una “illustrazione” della Divina Commedia – ha affermato Italo Tomassoni, curatore della mostra – “Ci si è posti il problema, meno ovvio, di esplorare con quali modalità il rapporto poteva svilupparsi mantenendo intatta l’identità dell’artista, e quale influenza avrebbe esercitato sugli artisti contemporanei l’immaginario dantesco”. Una doppia riflessione, dunque, quella proposta in occasione dell’evento: sugli eterni temi del Poema e sulle suggestioni potenzialmente infinite che gli artisti di oggi ne possono ricevere. ¤

Da Dorè a Dalì fino a Isgrò e Paladino come gli artisti hanno interpretato nel tempo le suggestioni della Commedia


Il sommo poeta | 3

N di Nando Cecini

Nessun documento o testimonianze certe ma esiste una tradizione consolidata del suo passaggio nel territorio

on ci sono documenti né testimonianze contemporanee, che attestino un passaggio o un soggiorno di Dante nelle Marche. Tuttavia esiste una tradizione consolidata e oggi pacificamente accolta da tutta la critica, che Dante sia veramente passato nella regione marchigiana. Per chi volesse approfondire l’argomento e considerare le annose polemiche Dante si o no nelle Marche e la sua presenza nei luoghi citati nella Commedia, rimando alle pagine esemplari dello storico anconetano Mario Natalucci nel volume Dante e le Marche (Bologna 1967). Si accetta così per scontato che Dante l’abbia attraversata, descritto i paesaggi, citato famiglie e personaggi più o meno illustri, identificato i confini (quel paese/ che siede tra Romagna e quel di Carlo (Purgatorio, V, 68-69) indicato toponimi precisi di città, monti, fiumi e monasteri. Per una lettura approfondita della geografia dantesca è

tuttora valido il vecchio testo del filologo tedesco Alfredo Bassermann Orme di Dante in Italia (Bologna 1902). Per capirne lo spirito basta leggere i due versi del grande Wolfgang Goethe, in esergo che recitano, “Chi vuole intendere un poeta deve recarsi a visitare il paese”. Bassermann è venuto in Italia sul finire dell’Ottocento, in pieno clima della rivalutazione dantesca, ha percorso in carrozza e a piedi ogni territorio con amorosa sollecitudine, dandoci ogni più attenta lettura tra poesia e ambiente, così anche per la provincia pesarese-urbinate. Altra fonte da citare è il recente volume di Giulio Ferroni, L’Italia di Dante. Viaggio nel paese della Commedia (Milano 2019). Un diario personale e scrupoloso che illumina i luoghi e i personaggi raccontati da Dante nell’incanto della poesia. Mi piace anche sottolineare le partecipi e affettuose parole dedicate alle Marche.


49

Il passaggio di Dante nelle Marche tra leggenda e realtà I LUOGHI DELLA NOSTRA REGIONE NELLA DIVINA COMMEDIA

Il 4 ottobre 1301 a Città della Pieve, in provincia di Perugia, si incontrano Carlo di Valois, fratello del re di Francia Filippo il bello, incaricato da papa Bonifacio VIII di rappacificare le fazioni fiorentine, in realtà per allargare il potere dello Stato Pontificio, e Corso Donati, rappresentate dei Guelfi Neri per conquistare il comune di Firenze. Ora una inspiegabile tradizione vuole che questo incontro sia avvenuto non a Città della Pieve, ma a Castello della Pieve, nel Comune di Mercatello sul Metauro, provincia di Pesaro-Urbino. A eternare la memoria è stata posta sulla facciata del castello una lapide che dice “Carlo di Valois e Corso Donati, il 4 ottobre, decisero l’esilio di Dante Alighieri”. Purtroppo si tratta di un evidente errore topografico, dovuto alla somiglianza dei nomi e alla diversa situazione storica. Infatti Dante in quella data era a Roma ambasciatore del comune di Firenze

presso papa Bonifacio VIII ed era un autorevole esponente dei Guelfi Bianchi. Tutto comincia il 27 gennaio 1302. Ispirato da Carlo di Valois e da Corso Donati, il podestà di Firenze, Conte dè Gabrielli di Gubbio, dopo un processo farsa, condanna Dante Alighieri per baratteria, oggi diremmo per peculato e interessi privati. La sentenza è pesante: interdizione dei pubblici uffici (quindi decade immediatamente dalla qualifica di ambasciatore a Roma); due anni di confino, una multa di 5000 fiorini d’oro. Se non verrà versata, la confisca dei beni in città e la distruzione dei possedimenti terrieri. Dante in quei mesi era ancora a Roma, trattenuto da Bonifacio VIII, quindi da contumace non poteva ottemperare alle disposizioni della sentenza. Così il 10 marzo 1302 sarà condannato all’esilio perpetuo e alla pena di morte qualora fosse stato sorpreso dai militi del comune fiorentino. Da questa data inizia l’esi-

lio e Dante non vedrà più Firenze. Dove sia stata notificata la sentenza a Dante non si sa di preciso. Alcuni studiosi pensano a Siena, importante comune sulla via Francigena. Di certo Dante interruppe subito il viaggio per Firenze e si indirizzò verso Arezzo, dove soggiornò qualche settimana in attesa dello svolgersi degli avvenimenti. Il punto di riferimento dei Guelfi bianchi era la città di Forlì dove era signore Scarpetta degli Ordelaffi. Ritenendo troppo rischioso percorrere la via Francigena e il Casentino per raggiungere Forlì, Dante scelse la via Flaminia verso l’Adriatico. Percorso ipotizzato anche nel prospetto cartografico del prestigioso Atlante della Letteratura Italiana (vol. I, Torino 2010). Fu così che le Marche sono entrate nella geografia dantesca. Sei sono i toponimi della provincia di Pesaro e Urbino ricordati nella Commedia: Urbino, “Ch’io fui d’i monti


Il sommo poeta | 3

Dante nei suoi versi ha descritto paesaggi citato famiglie e personaggi Tutti elementi che fanno intuire la sua presenza

Nelle pagine precedenti Raffaello Sanzio, un particolare della "Disputa del Santo Sacramento" in cui è rappresentato il volto di Dante Sopra, quattro raffigurazioni dell'inferno nella Divina Commedia conservate nella Biblioteca Apostolica (Dante, Virgilio e Cerbero; I barattieri e il diavolo Malacoda; Dante, Virgilio e i bestemmiatori; L'incontro con Guido da Montefeltro) A destra, l'inizio"Il Dante dei Montefeltro", scritto nel 1352

50

là intra Orbino/ e ‘l giogo che di Tever si diserra” (Inferno, XXVII, 29-30); Montefeltro, “Io fui da Montefeltro, io son Bonconte” (Purgatorio, V, 88); Carpegna, “Pier Traversaro e Guido di Carpigna” (Purgatorio, XIV, 98); Fano, “E fa’ saper a’ due miglior da Fano”, (Inferno, XXVIII, 76) e una seconda volta “che tu mi sie di tuoi prieghi cortese/ in Fano…”(Purgatorio, V, 71); Focara, “poi farà sì, ch’al vento Focara” (Inferno, XXVIII, 89); Catria, “E fanno un gibbo che si chiama Catria” (Paradiso, XXI, 109). Sette sono i personaggi se vi aggiungiamo San Pier Damiani che visse a Fonte Avellana. Due appartengono alla famiglia dei Montefeltro d’Urbino, Guido e Buonconte; Guido di Carpegna è appena citato; infine tre fanesi Guido e Jacopo del Cassero, Angiolello da Carignano. Per tanti motivi l’interes-

se di Dante si rivolge ai due Montefeltro, attingendo i vertici della grande poesia. “Più tardi – nota il Michelini Tocci – la gloria militare dei Montefeltro sarà consacrata all’eternità della poesia. Dante, il poeta che gli uomini attendevano da più di un millennio, crea un monumento imperituro a Guido il Vecchio, che sembra presentarsi ancora catafratto d’acciaio entro la fiamma che si dimena e rugghia: “Io fui uom d’arme…” (Inferno, XXVII, 67). Il capitano vittorioso di tante Battaglie, quegli che a Forlì aveva fatto “ di Franceschi sanguinoso mucchio” (Inferno, XXVII, 44), l’ulisside dalle mille arti, famoso fino ai confini del mondo, “ch’al fine della terra il suono uscie” (Inferno, XXVII, 78), è protagonista di uno degli episodi più belli della prima cantica. In quel verso “Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero” (Inferno, XXVII,67), un verso di risonanza e di echi infiniti, dove è racchiuso tutto il mistero di una vita, ci sono i due motivi che, come si è già detto, distinguono la personalità di quei guerrieri: le armi e la religione. Del ritorno totale a Dio, alle promesse dei sacramenti, dopo una vita tempestosa, quando gli anni declinano, Dante aveva già scritto da par suo nel Convivio, proponendo proprio l’esempio di Guido di Montefeltro, insieme con quello di Lancillotto ...” (Michelini Tocci 1965). Quasi autobiografico il canto quinto del Purgatorio, dedicato in parte alla descrizione della battaglia di Campaldino, 11 giugno 1289, che vide attori in campi avversi sia Dante che Buonconte da Montefeltro. E’ possibile che Dante “feditore” a cavallo nell’esercito fiorentino, abbia visto passare il celebre capitano urbinate, che si batteva per Arezzo, andare a morire nel nome di Maria, con la gola squarciata, sulla riva dell’Archiano.


Il sommo poeta | 3

Un tragico destino di morte violenta accomuna i tre personaggi fanesi ai quali Dante dedica attenzione nel V canto del Purgatorio e nel XXVIII dell’Inferno. Jacopo del Cassero fu forse conosciuto da Dante nella battaglia di Campaldino nella quale combatterono sotto le stesse insegne. In seguito Jacopo fu podestà di Bologna e mortale nemico di Azzo VII d’Este. Sulla strada che lo portava a Milano per diventare il podestà fu ucciso a tradimento dai sicari di Azzo, aiutato nell’impresa anche da Malatestino Malatesta. Dante accomuna Jacopo del Cassero con Buonconte da Montefeltro nel destino eterno, nella nostalgia dalla lontana terra natale e li presenta entrambi come personaggi emblematici, il valoroso soldato e l’accorto amministratore nel tempo dei liberi comuni. Guido del Cassero e Angiolello da Carignano furono uccisi a tradimento presso Cattolica e i loro corpi buttati in mare. L’organizzatore del duplice delitto fu il solito Malatestino Malatesta, che voleva sgomberare ad ogni costo il campo del comune di Fano per diventare l’incontrastato signore. Un delitto di precisa matrice politica. “Il Mastin nuovo, con il tradimento e con il sangue andava costruendo l’edifico della signoria della sua famiglia nella Marca” ((Natalucci 1967). Sia a Guido che ad Angiolello, Dante riserva una partecipe solidarietà per la dedizione e la dignità con le quali hanno servito la loro città, fino al sacrificio finale. I due nobili fanesi furono uccisi di fronte al colle San Bartolo all’altezza di Fiorenzuola di Focara, il vento ben conosciuto dai marinai, così violento e tempestoso. Questo dettaglio particolareggiato è uno dei tanti motivi che giustificano una conoscenza diretta, una presenza de visu

51 del poeta nelle Marche. Non per nulla il citato studioso Alfred Bassermann poteva scrivere, dopo aver visitato la Romagna, sulle Marche, “Ma i punti di cui Dante viene a parlare sono quei di nuovo quasi del tutto disegnati con accenti veramente concreti, i quali può il Poeta aver raccolti solamente in persona sul luogo”. La medesima tesi la si può applicare al toponimo Catria a San Pier Damiani nel cielo di Saturno, lungo la Scala d’Oro. Dante per questa descrizione, fece parlare direttamente San Pier Damiani, con un’attenta collocazione del Catria e senza nominarlo, l’eremo di Fonte Avellana, “…Tra due liti d’Italia (Adriatico e Tirreno) surgon sassi, (l’Appennino)/ e non molto distanti a la tua patria (Firenze)/ tanto che’ troni assai suonan più bassi/ e fanno un gibbo che si chiama Catria/ di sotto al quale è consecrato un ermo (Fonte Avellana)/ che suole essere disposto a sola latria/” (Paradiso XXI, 106-111). Anticipa poi con rammarico la decadenza dell’eremo nel corso dei secoli, siamo ormai al tempo di Dante nel XIV secolo, dovuto alla trasgressione della regola benedettina da parte dei monaci diventati troppo ricchi e mondani. Tema questo della dissolutezza del clero, dei papi, dei vescovi, degli ordini monastici, tanto caro a Danti che non manca di denunciarlo con termini di condanna in numerosi canti della Commedia. Nel segno della grande tradizione bibliografica del monastero, l’attuale biblioteca rinnovata, porta il nome di Dante Alighieri. Legata allo stesso Dante e a Giovanni Boccaccio è la vicenda di Uguccione della Faggiola personaggio celebre in tutta l’Italia centrale, per un lasso di tempo capo carismatico dei ghibellini toscani e romagnoli. Dante e Uguccione della Faggiola si sono certamente

Sei sono i toponimi della provincia di Pesaro e Urbino ricordati nella Divina Commedia e sette sono i personaggi


Il sommo poeta | 3

Quasi autobiografico il quinto canto del Purgatorio che vede in campi avversi Dante e Buonconte da Montefeltro

Sopra, Franco De Russi: Inizio del codice urbinate delle Canzoni di Dante In alto a destra, Ritratto di Dante già nello "studiolo" di Urbino e Miniatura nel Cecco d'Ascoli Sotto, frontespizio del volume Orme di Dante in Italia di Alfredo Basserman filologo tedesco

52 conosciuti e frequentati, tanto che nel 1302 il primo fu ospite del secondo in Arezzo. Paolo e Francesca, attorno a questo fatto, che poteva restare uno dei tanti episodi delittuosi del Medioevo tra faide familiari, si è creato un mito letterario che dura da otto secoli. I dati storici sono questi; tre protagonisti, Gianciotto e Paolo Malatesti, Francesca da Polenta; un fatto di sangue, uxoricidio e omicidio per infedeltà e gelosia; incerta la data dell’avvenimento, forse negli anni tra il 1283 e il 1289; dubbio il luogo, ma da restringersi tra i palazzi malatestiani di Rimini e la rocca di Gradara. Caso più unico che raro, un fatto tutto sommato di cronaca, invece di trovare posto nelle sedi adeguate, ai tempi del tardo Medioevo, un cronicon municipale o una lettera di cancelleria tra residenti ambasciatori, è rimbalzato da subito nell’empireo della più alta poesia. Infatti il primo a raccontare la storia di Paolo e Francesca è stato Dante Alighieri nel canto quinto dell’Inferno. Sembra assurdo che nessuna fonte contemporanea riporti la narrativa del fatto di sangue. La spiegazione più corrente è che la famiglia Malatesti era così potente da essere riuscita a mettere l’episodio in sordina, certamente nocivo all’immagine politica della stessa. Per tanto il primato di Dante resta inequivocabile. Probabilmente viene a conoscenza del delitto nei primissimi tempi dell’esilio, nell’autunno del 1302, ospite di Scarpetta Ordelaffi a Forlì. Sono passati più o meno una quindicina d’anni, ma il fatto suscita ancora attenzione e non può non colpire la sensibilità di Dante che forse a Firenze aveva conosciuto una delle vittime, Paolo Malatesti. Quando, intorno al 1307, scrive le terzine dell’Inferno, il poeta, così attento alle vicende tra Marche e Romagna e ai

protagonisti dei Montefeltro e dei Malatesti, non può non ricordarsi dell’episodio dandogli una dignità letteraria fino a trasformarlo in una delle più intriganti storie d’amore di tutti i tempi. Pur basandosi su dati oggettivi, i tre protagonisti, la tresca, il delitto, Dante non sviluppa le modalità storiche, tralascia infatti i luoghi e date, trasfigurando il tutto in una metafora poetica percorsa da un alto senso di “pietas”. Francesca interviene per prima; proclama il suo amore eterno per Paolo e nel contempo maledice il marito Gianciotto. Dante si rivolge allora a Francesca dimostrando di non conoscere la loro storia e le chiede di raccontare le fasi dell’innamoramento. Ne vien fuori un racconto trabadorico-cavalleresco nello sviluppo strutturale: il ricordo doloroso del tempo felice, il pretesto offerto dalla lettura del romanzo d’amore tra Lancillotto e Ginevra, il primo bacio racchiuso in un verso immortale, “la bocca mi baciò tutto tremante”, la consapevolezza dell’errore, ma nel contempo l’affermazione di un amore che dura ancora, malgrado la condanna, in un vincolo indissolubile. Dante non racconta le fasi del delitto. Attraverso le parole di Francesca fissa una storia universale, tragicamente conclusa, e come uomo e come poeta esprime tutta la sua partecipazione fino al punto da svenire. Oggi, il mito di Paolo e Francesca è affidato all’immaginario turistico. La somma di alcune componenti realistiche: l’ambientazione paesaggistica, la struttura castellare e l’inserimento urbanistico della rocca, l’abbondante letteratura e la relativa iconografia, le note musicali delle opere liriche e sinfoniche, una sapiente orchestrazione mediatica, la diffusa proposta turistica in ambito europeo, concorrono tutti insieme a stratificare la


Il sommo poeta | 3

storia dei due amanti con il centro storico di Gradara e a proporlo così come “topos” di un laico pellegrinaggio amoroso tra una parentesi vacanziera o una gita scolastica o aziendale. L’attenzione che Dante aveva prestato ai personaggi e ai luoghi delle Marche settentrionali, fu ricambiata in un certo senso, con culto secolare per la memoria e per le opere del grande poeta nei centri di Urbino, Pesaro e Fano. Tra l’altro, nella Biblioteca comunale di Urbania esiste un incunabolo della Commedia (Venezia 1491) con preziose xilografie, appartenute alla famiglia dei conti Ubaldini. Nel 1952 su una delle più autorevoli riviste storiche della letteratura italiana, nella rubrica Comunicazioni e appunti, venivano pubblicate tre pagine sotto il titolo, invero un po' ampolloso, Il Dante di Monte Cerignone, a firma del gesuita Natale Fabrini, non a caso nativo di Montecerignone. Sulla scorta di Guerrieri, che a sua volta si rifaceva a Clementini, il Fabrini rivela come a Montecerignone all’inizio del XVI secolo esistesse una copia della Commedia. I due autori seicenteschi parlavano di “un libro manascritto”. In realtà si trattava di un incunabolo, edito a Venezia da Vindelino da Spira nel 1477, con notazioni manoscritte aggiunte sui margini bianchi. L’incunabolo apparteneva a Dioniso Oddi, che ricopriva la carica di commissario feretrano per conto dei duchi di Urbino. Dal magistrato di Montecerignone, il prezioso incunabolo con la lunga postilla sulla genealogia della casata dei Montefeltro a compimento del XXVII canto dell’Inferno, dedicato appunto a Guido da Montefeltro, era passato nella biblioteca dei duchi Della Rovere ad Urbania e da qui, dopo la devoluzione dello stato nel 1631, aveva preso la via di

53

Roma per finire nella Biblioteca Alessandrina. Al Fabrini sembrò di identificare, nelle glosse marginali dell’incunabolo veneziano una parte del perduto commento alla Commedia del frate francescano e vescovo di Fano Giovanni de Tonsis o Tonsi. Resta comunque documentato il fatto che un oscuro funzionario ducale in un romito centro del Montefeltro, all’inizio del Cinquecento, possedesse un testo della Commedia e forse, tra una sentenza e un decreto, trovasse il tempo di leggere qualche canto dell’importante poema. Tra i commentatori di Dante si devono ricordare due vescovi di Fano. Giovanni Bertoldo da Serravalle, partecipò al concilio di Costanza e per i padri conciliari tradusse in un latino vigoroso la Commedia di Dante e Giovanni de Tonsis, frate francescano, fu anch’egli vescovo di Fano, scrisse un commento alla Divina Commedia purtroppo smarrito all’inizio dell’Ottocento dal letterato sanmarinese Melchiorre Delfico e mai più ritrovato. “A noi niente altro resta dell’opera sua all’infuori della calda approvazione di tutti i letterati di quell’epoca”. Con molta probabilità, secondo la critica moderna, non è mai stato scritto. ¤

Dettagli sull’uccisione dei nobili fanesi Guido del Cassero e Angiolello danno l’idea di una conoscenza diretta delle Marche


Il sommo poeta | 4

54

A ragionare di Dante l’uomo e il suo tempo

C’ Sebastiani presidente dell’Università dell’età libera di Pesaro: «Un ciclo di incontri sulla sua vita e le sue opere»

è un legame profondo tra Dante e il territorio pesarese. Due borghi citati nella Divina Commedia, ma un intero territorio che in occasione del 700esimo anniversario della morte vuole rendere omaggio al poeta. L’Università dell’età libera di Pesaro ha dedicato un ciclo di incontri dal tema “A Ragionar di Dante”. A spiegare il filo conduttore è il presidente Maurizio Sebastiani: «E’ una iniziativa che volevamo fare per il 700esimo anniversario. Purtroppo il covid ha rallentato le nostre attività, ma volevamo concentrare i nostri sforzi in quest programma reso possibile anche grazie alla Regione, al Comune e a Lucia Ferrati. Dante è un patrimonio nazionale, ma la memoria del poeta è più che mai viva nel territorio citato nella Divina Commedia grazie a borghi di Gradara e Fiorenzuola. Non vogliono essere seminari per pochi intimi e intellettuali ma popolari ». Gran finale «con la lectio magistralis di Luciano Canfora a ottobre che ci parlerà di Dante uomo e politico. Un ciclo di incontri in presenza, con posti contingentati. Tutte le iniziative sono riprese registrate e sono fruibili sul canale Youtube dell’università libera». Ecco allora gli appuntamenti da giugno: Mercoledì 23 giugno ore 18 agli Orti Giuli Chiara Agostinelli con “Il miracolo della commedia, una lingua che riscopre il mondo”. Mercoledì 30 giugno ore 18 alla corte della Oliveriana Elisa Baggiarini e Deborah Marinelli “La tradizione della lectura dantis da Boccaccio ai giorni nostri”. Mercoledì 7 luglio ore 21 al giardino della biblioteca San Giovanni “L’albero del paradiso, il comune immaginario cristiano e islamico nella divina commedia” con interventi di Alessandro Pertosa. Mercoledì 14 luglio ore 21 alla corte di palazzo Mosca Claudia Rondolini “Lo viso mostra lo color del core, la vita nova di Dante”. Mercoledì 21 luglio ore 18 a Novilara, al piccolo teatro del castello Nicoletta Tagliabracci propone “Il cibo al tempo di Dante”. Mercoledì 28 luglio ore 21 alla corte di palazzo Mazzolari Mosca Antonella Micaletti e Settimio Perlini in “Dante nelle Marche, walkscape virtuale”. Mercoledì 4 agosto ore 21 alla corte di palazzo Antaldi Rodolfo Battistini in “La commedia dipinta, pittori e illustratori della divina commedia”. Mercoledì 25 agosto ore 18 a Fiorenzuola di Focara, nel giardino del campanile di Sant’Andrea Ilaria Narici e Daniele Carnini con “Farò come colui che piange e dice”, citazioni e suggestioni dantesche nell’opera di Rossini. Infine a ottobre la lectio magistralis di Luciano Canfora (luogo e giorno da definire). Luigi Benelli


Il sommo poeta | 5

55

Messaggio senza tempo Dante ad Auschwitz PRIMO LEVI RIPORTA IN VITA IL POETA NEL LAGER NAZISTA

D di Paolo Ercolani

Primo Levi, nel suo Se questo è un uomo improvvisa una lezione su Dante per il giovane Pikolo nel campo di sterminio di Auschwitz

urante Alighieri, in arte Dante, nacque a Firenze nel 1265, da una famiglia della piccola nobiltà cittadina decaduta in seguito all’arrivo dei «nuovi ricchi» (banchieri, magnati, commercianti). Della nascita, di preciso, si sa soltanto che avvenne sotto il segno dei Gemelli (fra il 14 maggio e il 13 giugno, secondo il calendario dell’epoca), mentre è certo che a partire da quella data il «Padre» della poesia e della lingua italiana non sarebbe mai morto. Biologicamente sì, certo (il 14 settembre del 1321, in quel di Ravenna), ma letterariamente, simbolicamente e perfino filosoficamente quell’uomo è rimasto immortale da quando mise se stesso «per l’alto mare aperto» della conoscenza, della libertà e della giustizia, come ebbe modo di descriversi nel celebre canto XXVI dell’Inferno. In un certo senso è stato ben vivo anche in uno dei momenti più tragici e sanguinosi della tormentata vicenda umana, quando dopo sei secoli dalla sua morte biologica, Primo Levi lo riportava

in vita non proprio in un luogo qualunque. Bensì proprio lì dove il male radicale che alberga nella natura umana si era espresso con la forza più atroce. Per la precisione nel lager di Auschwitz, racconta lo scrittore che vi è stato prigioniero in un capitolo intenso di Se questo è un uomo, Primo Levi improvvisava una lezione su Dante per il giovane Jean Samuel, una specie di factotum del campo soprannominato «Pikolo», a cui voleva insegnare l’italiano. Che poi, a dirla tutta, tanto Primo Levi quanto Pikolo erano ben consapevoli del fatto che la questione non fosse quella di insegnare o imparare l’italiano, bensì, come avrebbe ricordato Samuel in un memoriale di molti anni dopo, di aggrapparsi al messaggio universale e senza tempo contenuto in quel canto straordinario della Divina commedia, per riuscire a difendere la dignità umana da chi la stava calpestando nel modo più brutale. Il grande poeta immortale, insomma, con i suoi versi im-


Il sommo poeta | 5

56

I versi della Commedia venivano in soccorso di due prigionieri per difenderne la dignità di esseri umani perituri veniva in soccorso ai due prigionieri che dovevano difendere la propria dignità di esseri umani di fronte a coloro che li volevano ridurre a numeri. Progressivi, anonimi, impersonali. Basterebbe pensare a questo per cogliere ora, sentire anche adesso la potenza evocativa del messaggio dantesco: «Considerate la vostra semenza: Fatti non foste a viver come bruti Ma per seguir virtute e canoscenza». È in questo modo che Primo e Pikolo, condividendo il messaggio del poeta immortale mentre tutto intorno riluceva e puzzava di morte, riuscivano a rifugiarsi in quel luogo di inattaccabile libertà che è la dimensione poetica e filosofica. L’unica, forse, a infrangere le barriere umane dello spazio e del tempo, rendendo il poeta medioevale idealmente compagno di sventura dei due deportati, fino a farci di-

ventare tutti consapevoli di un destino che accomuna il genere umano di ogni tempo e luogo: quello di dover lottare per la conoscenza, la libertà e la giustizia. Le tre colonne del grande edificio umano rese costantemente traballanti dalla comunque umana inclinazione all’ ignoranza, al dominio, all’ingiustizia. Sarebbe troppo lunga la lista di coloro che, prima e dopo l’autore di Se questo è un uomo, hanno attinto dalla fonte inesauribile di profondità e saggezza che è l’opera dantesca: Ezra Pound e Thomas Stearns Eliot, per esempio, entrambi con l’intento di denunciare una verità universale andata in frantumi (a causa dell’affievolirsi dell’amore, per quella verità, tipica di un’umanità moderna che si è smarrita nel culto delle cose materiali). Ma anche Borges, con le sue pagine dantesche, o il premio Nobel per la letteratura del 1992, lo scrittore caraibico Derek Walcott, autore di un’affermazione che restituisce a Dante tutta la sua universalità: «Anche se siamo


Il sommo poeta | 5

caraibici, per quanto riguarda la poesia Omero e Dante sono i nostri antenati, i nostri veri antenati». Ma anche Eugenio Montale, per tornare in Italia, che decideva di ispirarsi alla figura femminile in Dante (emblema di autenticità, speranza e salvezza, amore per la conoscenza) per contrastare un mondo travolto dal disordine e dall’insensatezza, causate dalla guerra e dall’alienazione dominante nella società di massa. Questo era in fondo Clizia, l’enigmatico personaggio di Montale, pseudonimo mitologico sotto al quale si celava una donna realmente amata dal poeta (Irma Brandeis, studiosa americana di Dante): una rivisitazione della donna-angelo dantesca, evocata per salvare l’uomo dal suo amaro naufragare nei marosi dell’inferno quotidiano. Senza contare le tante figure della seconda metà del Novecento che non hanno fatto a meno di attingere dalla fonte di «padre Dante»: pensiamo al Canzoniere di Umberto Saba

57 (dove il Dante del Purgatorio è secondo soltanto all’altro grande mostro sacro: Giacomo Leopardi), ma poi a Franco Fortini, Edoardo Sanguineti, Pier Paolo Pasolini, Mario Luzi, Giovanni Giudici e Giorgio Caproni. Una comunità, quella dei cultori del verso poetico, che ha incarnato l’ideale più volte ripetuto da Dante rispetto all’umanità: una realtà collettiva e universale, in cui le singole anime lottano ogni giorno per l’affermazione di libertà, dignità e giustizia, i tre arconti senza i quali l’uomo sarebbe un fuoco fatuo, un corpo vuoto. Sì, perché l’uomo è al tempo stesso animale politico e razionale, a cui Dio ha concesso il libero arbitrio con cui scegliere di perseguire la «diretta via». In questo l’uomo è essere mediano fra gli dèi e gli animali, come ricordava anche Platone: i primi hanno la sapienza assoluta, i secondi l’istinto, due facoltà che li dispensano dal dover operare scelte difficili e gravose con cui sopravvivere ai flutti dell’esistenza. Soltanto all’uomo spetta il compito arduo e costante di dover difendere la propria dignità, avvicinandosi quanto più possibile al Dio che l’ha creato optando per la conoscenza, la libertà e la giustizia. Così è stato ai tempi di Dante, così in quelli di Primo Levi e ancora di più oggi, nell’epoca in cui ci consegniamo entusiasti a una tecnologia che vuole ridurci a numeri, dimenticando coloro che sotto i totalitarismi si sono aggrappati anche a Dante proprio per non essere degradati al rango disumano di una cifra. Soltanto così si può comprendere l’immortale università di questo grande poeta che decise di imbarcarsi «per l’alto mare aperto». Cioè arrivando alla consapevolezza che quello stesso mare è il medesimo che bagna le fragili coste della nostra esistenza. ¤

A sinistra, Eugenio Montale e qui in alto una raffigurazione di Clizia (Clizia, Evelyn De Morgan, circa 1887) rivisitazione della donna-angelo dantesca Qui sopra, un mosaico del III secolo in cui è rappresentato Ulisse nel suo epico viaggio raccontato a Dante nel XXVI canto Al centro delle pagine, particolare di un'incisione di Gustave Dorè dell'VIII bolgia


Il sommo poeta | 6

I di Lucilla Niccolini

Le frasi “selva oscura” “lasciate ogne speranza…” “sanza infamia e sanza lodo” sono spesso mescolate ai neologismi giovanili

l profilo truce di Dante è stato uno degli spauracchi della nostra infanzia. Un suo ritratto era attaccato con le puntine all'interno dell'armadietto della mia classe. La maestra Penelope Tritini spalancava lo sportello, quando uno scolaro s'era macchiato di un grave peccato d'ortografia. Con piglio energico e stizzoso, indicava l'espressione accigliata su quel volto. “Vedi, com'è inquieto Dante, il padre della lingua italiana, di cui tu ha fatto tale scempio?”. La voce aspra e severa, il linguaggio forbito, l'indice appuntato sull'immagine terrorizzavano il malcapitato, e insieme a lui i piccoli compagni innocenti. Quando poi gli occhi di tutti scorrevano dal viso alterato della vestale delle De Amicis, lungo il suo braccio, fino alla fotografia, quella faccia appuntita, coronata d'alloro, dalla fronte aggrondata, amplificava il terrore. Mai ci sfiorò il dubbio che l'espressione di Dante non fosse dovuta ai nostri er-

rori di lingua. Un ricordo indelebile, riaffiorato, tagliente, al liceo, quando l'abbiamo finalmente incontrato, il Padre della lingua italiana. E allora è stato difficile sovrapporre quel ritratto all'immagine del bambino di nove anni, cui appare “la gloriosa donna de la mia mente”, Beatrice. Vero è che la sua descrizione, nella “Vita Nova”, dell'effetto che gli fa la vista della fanciulla angelica, è tutt'altro che rassicurante: “lo spirito de la vita... cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente”. Ma quando scrive che il suo “spirito naturale” comincia a piangere, il lettore inevitabilmente si commuove. Entra in sintonia con un poeta che condivide con gli adolescenti del mondo emozioni lancinanti e incomprensibili del primo innamoramento. Dante non potrà mai più fare paura. Anzi, a mano a mano che procedeva la lettura in classe della Divina Commedia,


59

Il carisma del “dantese” conquista anche oggi ATTUALI E DI MODA ALCUNI VERSI DELLA DIVINA COMMEDIA

ognuno di noi si accorgeva che proprio da lì, dall'Inferno, con cui comincia il viaggio nell'oltretomba, provengono tante delle frasi che ricorrevano, incomprensibili, in certi discorsi dei grandi. Ecco cosa significava la “selva oscura”, metafora che i genitori scandivano, raccomandandoci di non allontanarci ai giardinetti. “Far tremar le vene e i polsi” fu l'altra scoperta: l'espressione tante volte ripetuta, e deformata volentieri, trovava finalmente la sua origine. “Non mi tange”, diceva talvolta la mamma davanti a un capriccio infantile, cui non dava peso. E scoprivamo, già al secondo canto dell'Inferno, che l'aveva detto per la prima volta Beatrice, la giovinetta alla cui vista il bambino Dante s'era incantato. Canto dopo canto, a neutralizzare la noia delle spiegazioni in classe, si andava formando in noi un repertorio di frasi, che si scolpivano nel nostro nuovo dizionario di studenti ambiziosi. Si me-

scolavano ai neologismi del conformismo giovanilista – uno per tutti, “matusa” espressioni come “Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate”. Il motto, in cui c'eravamo imbattuti nel III canto, iscritto sulla porta dell'Inferno, veniva ripetuto ogni mattina, nell'entrare a scuola, dandoci di gomito sulle scalette dell'ingresso. Continuammo per tutto il liceo a citare passi della Commedia, senza sapere che ci avrebbero accompagnato, al mutare di situazioni e atteggiamenti, per tutti gli anni a venire. Avevamo capito subito perché fosse proprio quel III canto, quello degli “ignavi”, a renderci più insofferenti, polemici. Giovani intransigenti, com'eravamo, provavamo un immediato disgusto per gli adulti che non volevano prendere partito, che rinunciavano a decidere, che mediavano per il quieto vivere. Fu scioccante scoprire che da lì derivava il giudizio più frequente dei nostri professori, dopo un'interrogazio-

ne. “Dolenti note”, chiamavano le insufficienze. “Sanza 'nfamia e sanza lodo”, pronunciato con tono rassegnato dalla prof, era il commento del 6: la mediocrità. Disprezzavamo “il gran rifiuto” di Celestino V, fatto “per viltade”, e non esitavamo ad associarlo indebitamente alle proibizioni dei genitori, che sentivamo più ingiuste e immotivate. Il definitivo “non ragioniam di lor, ma guarda e passa” era il sigillo con cui noi ragazze, lungo la passeggiata pomeridiana, bollavamo i lazzi di qualche ragazzotto in vena di provocazioni. Ma più ancora, l'indifferenza che ci riservavano i dongiovanni, attratti da giovanette più mature e disponibili. E guardavamo con sufficienza i compagni di classe, conquistati dalle espressioni più colorite dell'Inferno, che ripetevano sghignazzando durante l'intervallo. “Le mani alzò con amendue le fiche” era ancora più popolare di “Ed elli avea del cul fatto trombetta”.


Il sommo poeta | 6

La Divina Commedia come un vero e proprio dizionario da cui attingere in ogni circostanza in gara con la sintesi anglosassone

Nelle pagine precedenti l'ingresso di Dante nella selva oscura in una incisione di Gustave Doré e un particolare della stessa Qui sopra, un dettaglio dell'affresco di Luca Signorelli relativo alla Divina Commedia nella cappella di San Brizzio all'interno del Duomo di Orvieto

60

La Commedia era diventata per noi un dizionario, che da grandi abbiamo visto saccheggiare nel blabla dei talkshow, nelle conversazioni da “uomo qualunque”, tanto disprezzate da adolescenti, in cui abbiamo finito per ricadere, da pensionati, con le chat. Le usiamo tutti, a man bassa, anche se solo ricorrendo a Google sapremmo rintracciare i versi e i canti in cui le ha collocate questo grande padre della nostra lingua. Tante espressioni, che gli sono state attribuite come neologismi, creazioni sue, si è poi scoperto che appartenevano già al linguaggio “volgare”. Ma resta suo il merito di averle inserite in un glossario poetico, che ha fatto da

paradigma per gli scrittori successivi. E da sontuoso buffet di parole per gli italiani. Certo, al di là delle frasi fatte, che spilliamo senza criterio per dire, talvolta, cose diverse da quelle che lui intendeva, il suo magistero di fondatore della nostra lingua consiste in ben altro. E se ne

accorgerebbe chiunque, se solo si prendesse la briga di rileggere gli oltre 14mila versi che dal baratro dell'Inferno ci conducono alla beatitudine dell'Empireo, dove “s'mparadisa”, con lui, la nostra mente (Paradiso XXVIII, 3). Basta consultare il Vocabolario dantesco, in divenire, pubblicato dall'Accademia della Crusca in rete, per rendersi conto dei termini che il Ghibellin fuggiasco ha, se non proprio inventato, almeno smarcato dal latino, tramandato al nostro linguaggio corrente, come “mesto”, “molesto” e “quisquilia”, per fare solo qualche esempio. E si scopre così che “cosa fatta, capo ha” deriva da lui, come l'espressione “star freschi”, che dalla condizione dei traditori, dannati a subire il fiato gelido di Satana, è passata a indicare, ironicamente, una situazione di rischio e disagio. Neanche i giovani di oggi, infastiditi da quello che ritengono spesso vecchiume letterario, sanno sottrarsi al carisma del “dantese”. Senza rendersene sempre conto, lo impastano con gli innumerevoli prestiti dall'inglese, per farne il grammelot sgrammaticato dei social network. E il fraseggio dantesco gareggia elegantemente con la sintesi anglosassone. Quasi un contrappasso - altra parola dantesca – per gli illetterati: essere “dannati” a utilizzare ancora, spesso a sproposito, tante sue frasi originali. Senza aver mai letto integralmente la monumentale creazione poetica, che ha dato origine alla lingua del “bel paese dove il sì suona”. ¤


Il sommo poeta | 7

61

Per Dante oltre al Cielo s’è mossa anche la Terra NEL MONDO 180 INIZIATIVE, NELLE MARCHE GRANDI PROGETTI

I di Giordano Pierlorenzi

Masi, segretario della società Dante Alighieri annuncia un importante congresso per le celebrazioni

Il Professor Alessandro Masi segretario generale della società Dante Alighieri

o credo che la maggior parte dell’umanità conosca Dante Alighieri, il sommo poeta, attraverso la personale esperienza scolastica imposta dai programmi ministeriali e quindi in un modo alquanto superficiale, di chi non può o non sa godere fino in fondo della soavità di una poetica che parla al cuore, interroga la mente e muove a comportamenti eminenti. Di contro, sono pochi i dantisti, gli studiosi che approfondiscono la ricerca sulle fonti, il metodo, la sinossi e l’intreccio dei saperi, le finalità, la classicità della Commedia. La sua immensa incalcolabile impresa lirica di lingua e cultura ha composto il profilo della nostra identità, permeando e risvegliando lo spirito nazionale attraverso la koinè, la lingua comune -unica, unitaria e univoca- che aggrega, solidarizza, affratella: fa comunità. Prof. Alessandro Masi, segretario generale della Società Dante Alighieri le celebrazioni del 7° centenario della morte di Dante Alighieri come può aiutare l'uomo di oggi e soprattutto i giovani sognatori a vivere le promesse e le minacce della globalizzazione spinta in cui ci troviamo immersi? La globalizzazione ha creato delle distorsioni tremende e soprattutto ha determinato una spaventosa omologazione dei comportamenti. Lo spaesamento prodotto da questi modelli inediti per l’umanità ha avuto come effetto una massificazione totale dei tipi antropologici. Come cambiare rotta? La cultura da sola non basta, ma è sicuro che senza di essa l’uomo è destinato a falli-

re la sua scommessa e perdere definitivamente la rotta del suo viaggio verso la conoscenza. “Fatti non foste a vivere come bruti…” fa dire Dante a Ulisse nel XXVI Canto dell’Inferno e in effetti l’invocazione poetica si è via via trasformata in un imperativo assoluto per tutti gli uomini di buona volontà. In questo senso Dante è una spinta formidabile per riflettere sulle condizioni di un’umanità dispersa, confusa, senza più identità. Ecco, Dante è un forte richiamo identitario per tutti noi; è un modello che sa restituire alle nostre coscienze, il valore dell’unicità dell’essere umano e in questo senso è una riconvalida anche per coloro che, come i giovani, richiedono attenzione e concentrazione su se stessi. Nella Commedia c’è già tutto, basta saper scegliere e prendere in prestito ciò che più serve. In fondo la poesia, come diceva Benedetto Croce, è innanzitutto un’intuizione filosofica, una scintilla che sa far accendere i nostri cuori e incendiare le passioni. Quali sono i programmi internazionali e nazionali per il 2021 della società che dirige e che è così capillarmente presente e attiva in tutti i continenti per promuovere la lingua e cultura italiana nel mondo? Subito dopo la prima ondata pandemica il nostro presidente Andrea Riccardi ha posto il tema della distanza, del recupero dei rapporti che il virus ha cancellato, dissolto, sparpagliato rilanciando l’idea di una piattaforma digitale che contenesse il sapere umanistico. Corsi di lingua, formazione dei docenti, certificazione


Il sommo poeta | 7

Dante dopo 700 anni ha ancora forza energia e potenza di risvegliare un paese come il nostro

62

e poi cultura, tanta cultura ad iniziare dal progetto L’Italia di Dante di Giulio Ferroni (ed. La nave di Teseo) grazie al quale siamo riusciti a recuperare tutte quelle città, paesi, borghi italiani che Dante ha citato nella Divina Commedia e farne, oltre che un libro, anche una App per un turismo letterario. Ovvio che le Marche anche in questo progetto pesano molto poiché un territorio come quello adriatico è un territorio innanzitutto di sapere. Ad ogni buon conto vi sono circa 180 iniziative che tutti i comitati della Dante sparsi nel mondo (sono 400 all’estero e 100 in Italia) stanno organizzando. Si tratta di mostre, convegni, libri, premi e concorsi. Insomma per Dante, oltre che il cielo, a Settecento anni dalla morte si è mossa anche la Terra. Vi segnalo infine anche due progetti filmici, uno coprodotto da Rai per la regia di Fabrizio Bancale, L’esilio di Dante e l’altro, per la regia di Lamberto Lambertini, La nascita della Commedia. Per tornare alla piattaforma che avrà per dominio web Dante. Global è stato lo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella a dare il clic di avvio in Palazzo Firenze a Roma, sede centrale della Dante Alighieri. Qualcosa di più specifico nei programmi su Dante rivolti alle Marche ed ai marchigiani? Per le Marche sogniamo un grande progetto di rilancio delle attività didattiche e di promozione turistico-culturale a livello nazionale e internazionale. Ne abbiamo già parlato in Regione e l’idea sarebbe quella di ripartire dall’area adriatica con un grande con-

gresso sui rapporti che questo mare nobile ci ha dato nei secoli, il loro sviluppo e la storia che ne è conseguita, ma non voglio dire di più per scaramanzia... I programmi internazionali futuri della Società Dante Alighieri prevedono un'offerta integrata della lingua e cultura insieme con il design italiano per rafforzare il brand del Made in Italy e dell'italian style? Non c’è brand senza lingua potremmo dire e questo i nostri cugini francesi lo hanno capito prima e meglio di noi anche se, i dati parlano, su alcuni settori l’Italia li ha abbondantemente superati. Tuttavia non bisogna adagiarsi sugli allori. Le università, le accademie, le scuole possono fare molto se sapranno congiungere i due elementi della questione e i nostri giovani vanno stimolati in questa direzione poiché hanno un potenziale grandissimo ancora inespresso. Il modello umano, culturale e creativo del Sommo Poeta così alto può ancora oggi attrarre i giovani e gli studenti e incoraggiarli a penetrare il mistero della vita in una visione anche trascendente? Dante è inevitabile, dice il grande scrittore albanese Ismail Kadarè e in effetti dopo settecento anni ha ancora la forza, l’energia, la potenza di risvegliare un paese come il nostro che nonostante tutto è ancora giovane e in grado di dare tanto al mondo. Viaggi dunque la navicella del nostro ingegno verso nuovi lidi e in bocca al lupo ai marinari del XXI Secolo. ¤


Il sommo poeta | 8

63

La presenza di Dante nell’ermo sotto il gibbo FONTE AVELLANA L‘ AVREBBE OSPITATO NEL 1318

S di Marco Belogi

Uno scorcio dell'eremo di Fonte Avellana

uperato il centro abitato di Serra Sant’Abbondio, paese che sorge ai piedi del monte Catria, per diversi chilometri bisogna percorrere una strada tortuosa con ripidi tornanti prima di raggiungere il monastero Santa Croce di Fonte Avellana. Salendo ad una altezza di circa ottocento metri, al visitatore appare improvvisamente uno scenario suggestivo: in un’ampia fossa delimitata da due serroni discendenti dal Catria si eleva un massiccio complesso monastico in pietra, fasciato con la montagna stessa. E’ un anfiteatro naturale che spazia tra oriente ed occidente, dominato da un fitto bosco, il Bosco Rotondo. Serroni che si

succedono come gigantesche quinte, in un mare di verde, e che vanno a collegarsi con i monti di Sitria e della Strega. E’ uno tra gli eremi più celebri non solo della zona ma, potremmo dire, anche di tutto l’Occidente. Fino alla prima

metà del Novecento era luogo impervio, selvaggio, collegato con i centri di fondo valle soltanto da una mulattiera. Quasi due ore di cammino dai casolari più vicini, attraversando sentieri appena segnati dalle fiere, sotto imponenti castagni e faggi secolari. L’acqua sorge proprio lì, dalle viscere della montagna, purissima ed abbondante, in mezzo ad una selva di alberi di Corylus Avellana, volgarmente noti come noccioli, da cui origina il nome del luogo. Presso quella sorgente, più di mille anni fa si inginocchiarono alcuni eremiti in cerca di solitudine, sotto un cielo senza orizzonti, ristretto com’era tra gli alti crinali. Il lungo e rigido inverno, le fiere, numerose ed aggressive, li portarono ad erigere celle in pietra, appoggiate allo scheggione che domina la valle. Anche se non rimane alcuna traccia, i primi eremiti che vi giunsero nel 980 furono due eugubini, Landolfo e Giuliano. Trovarono quel luogo particolarmente adatto al ritiro ed alla contemplazione. Poco dopo fu la volta di San Romualdo, il fondatore della congregazione camaldolese, che ispirò la prima forma di vita organizzata dei monaci avellaniti. Romualdo non lasciò nulla di scritto. La sua vita la scrisse il suo discepolo, San Pier Damiani, entrato nell’ermo di Fonte Avellana nell’anno 1035, quando era priore quel Guido d’Arezzo inventore della notazione musicale. Ravennate come il fondatore, uomo coltissimo, conoscitore di grammatica, scrittore potente, Pier Damiani si pose alla guida di quella piccola comunità e con la sua


Il sommo poeta | 8

Molti studiosi sostengono la tesi di suoi passaggi e soggiorni nell’eremo anche se non documentati

64

forza intellettuale e spirituale, trasformò quello che era un piccolo cenobio sperduto tra le gole dell’Appennino in uno dei più importanti luoghi del Medioevo. Più tardi Fonte Avellana seguì la sorte di tante altre abbazie, diventando commenda. Il suo prestigio si ridusse, fino a quando, nel dicembre del 1569, Pio V, con bolla Quantum animus noster, la unì alla congregazione camaldolese. L’eremo, con i suoi dieci secoli di storia, si presenta al visitatore di oggi nella sua massiccia imponenza, dominato dalla robusta torre campanaria, solida sentinella sulla valle che racchiude la strada tortuosa di accesso. Un regno di pietra, la stessa che crea il gibbo che si chiama Catria. Una bellezza ruvida come si addice alla austerità ed al rigore della vita degli antichi monaci. Le spesse mura, le arcate forti ed ardite, le volte poderose, hanno richiesto gran parte di pietra ricavata dalla stessa montagna sovrastante, con la quale il manufatto si è unito in simbiosi continuando a vivere in armonioso silenzio. Varcato il portone principale, dopo aver attraversato l’ampio piazzale, si trova il chiostro che risale al secolo XI, quando San Pier Damiani lo concepisce come

cuore del suo eremo ed anticamera della chiesa, per l’immediata preparazione alla preghiera; poi lo Scriptorium, unico nel suo stile, di grande interesse architettonico, dove si aprono ventuno finestre, tutte a luce diretta, per facilitare gli amanuensi che potevano così sfruttare il più possibile la luce solare, con al centro un bellissimo tavolo in noce intarsiato; poi la sala capitolare, la biblioteca, e, attraverso una porta sull’angolo, la cripta, la parte più antica, contemporanea alle origini, come prima chiesa. La cripta, costruita al tempo di San Pier Damiani, evoca forte suggestione. E’ una delle opere più pure e potenti del secolo XI. Voltata su archi massicci a tutto sesto, con tre absidi di perfette proporzioni, sembra scavata in un unico gigantesco masso. Attraverso una scala interna si accede alla Basilica, che venne consacrata nel 1197. La preesistenza della cripta impose un presbiterio sopraelevato. Dietro l’altare maggiore si innalza un grande crocefisso ligneo, di proporzioni naturali, datato 1567, opera di Francesco Tiraboschi. Le celle dei santissimi eremiti vennero affiancate da altre sopra di esse. Quattro secoli dopo, il cardinale Giuliano della Rovere lasciò


Il sommo poeta | 8

intatta la veneranda fabbrica di San Pier Damiani. La comprese e la rinchiuse entro una nuova e monumentale costruzione. Portò i pavimenti delle celle allo stesso livello. Poi, scavando il roccioso scheggione verso levante, trasformò il sentiero che corre davanti alle porte delle celle stesse in un monumentale corridoio e costruì, dall’altra parte di esso, un’altra fila di celle di rimpetto alle prime. In questo sacro eremo vennero copiati molti libri dell’antichità, altri ne vennero acquistati, come il prezioso codice nominato Avellana Collectio, rarissima raccolta di documenti papali ed imperiali dal IV secolo in avanti. Per consultare e studiare quell’incomparabile raccolta rarissima di documenti, allora di bruciante attualità, si mossero verso Fonte Avellana canonisti e politici. Tra questi, forse, Dante Alighieri alla ricerca della chiave dei rapporti tra Chiesa e Impero. San Pier Damiani, nella povertà e nella solitudine dell’eremo, si concesse alla bellezza del libro come tale, acquistando una stupenda Bibbia del 1070, detta Atlantica per il formato, uno dei massimi capolavori della scrittura del secolo XI. Anche se nell’eremo di Fonte Avellana non è documentata la presenza fisica di Dante, genio del Medioevo (1265-1321), rimane valida la tesi di molti studiosi che sostengono suoi passaggi e forse anche soggiorni nel nostro territorio , vista la puntualità delle descrizioni paesaggistiche e la minuziosità delle informazioni storiche. L’unica testimonianza, seppur vaga e tardiva, rimane quella di Giovanni Boccaccio. Nelle pagine dedicate alla vita di Dante nell’ambito delle letture fiorentine della Divina Commedia, afferma che l’Alighieri, intorno al 1302 , quindi all’inizio del suo esilio, nella città di

65 Arezzo fu ospite di Uguccione della Faggiola, capo riconosciuto dei ghibellini toscani e romagnoli. Da qui, durante l’estate, è probabile che i due raggiungessero il castello di Casteldelci“ quando per alcun spazio con quegli della Faggiola-scrive il Boccaccio – ne’ monti vicino Urbino, assai convenevolmente, secondo il tempo e la loro possibilità, onorato Dante si stette”. E’ nel XXI canto del Paradiso che si parla di Fonte Avellana e del suo monaco più illustre, San Pier Damiani. Dante e Beatrice giungono nel settimo cielo, quello di Saturno, re che governò il mondo nell’età dell’oro quando non esisteva malizia. In questo cielo al poeta appare una mirabile scala, lungo la quale salgono e scendono gli spiriti contemplativi. E’ una scala dorata fulgidissima, tanto che gli occhi di Dante non riescono a vederne la cima, simbolo dell’ascensione delle menti contemplative verso Dio. La stessa immagine era apparsa a Giacobbe, come riporta la Genesi, e a San Romualdo sulle giogaie di Camaldoli, prima di fondarvi l’eremo. E’ tanto luminosa che non bastano tutte le stelle del cielo per renderla tanto fulgida, dove le anime dei beati si muovono su e giù come pole. Tra tante luci splendenti, una si ferma più in basso, proprio ai piedi della scala. E’ la più sfavillante, è quella di San Pier Damiani (1007-1072). Aveva solo 28 anni quando era salito al Catria per entrare nell’eremo, incantato dalla sancta semplicitas di quel luogo, dove introdusse ordine, regole, biblioteche, studio. Copisti provenienti da lontani monasteri salgono i difficili sentieri di quel monte. La cella, che secondo la tradizione tutt’altro che certa avrebbe ospitato il poeta nel 1318, guarda proprio verso quell’anfiteatro naturale, dove si scorge il profilo del gibbo, il colore delle

Nella pagina di sinistra dall'alto la cripta della chiesa di Fonte Avellana con le sue tre absidi Sotto, San Romualdo e il sogno della scala, opera di padre Venanzio Qui in alto, il chiostro dell'eremo e un particolare delle finestre della sala adibita a scriptorium e il celebre Avellana Collectio, rarissima raccolta di documenti riguardanti i rapporti tra chiesa e impero (Foto bibioteca vaticana)


Il sommo poeta | 8

L’unica testimonianza della sua presenza seppur vaga e tardiva rimane quella del Boccaccio

In alto, il primo foglio della Bibbia Atlantica del 1070 acquistata da Pier Damiano (Foto bibioteca vaticana) Sopra, un'iscrizione con i versi del XXI canto del Paradiso riferiti a Fonte Avellana

66

sue rocce e delle sue selve. In questa contemplazione il poeta scrive quei versi in parte riportati su una lapide sopra l’ingresso del monastero: Tra’ due liti d’Italia surgon sassi, e non molto distanti alla tua patria, tanto che’ troni assai suonan più bassi, e fanno un gibbo che si chiama Catria, di sotto al quale è consecrato un ermo che suole esser disposto a sola latria. Quivi al servigio di Dio mi fè si fermo, che pur con cibi di liquor d’ulivi lievemente passava caldi e geli, contento ne’ pensier contemplativi. Render solea quel chiostro a questi cieli fertilmente; e ora è fatto vano, si che tosto convien che si riveli. In quel loco fu’ io Pietro Damiano.. (Par., XXI.Par.,106-121) L’attenzione che Dante ha prestato a personaggi e luoghi delle Marche settentrionali, è stata ricambiata, in un certo senso, con un culto secolare per la memoria e per le opere del grande poeta nei centri di Urbino ,Pesaro e Fano. Nella biblioteca dei Montefeltro a Urbino, già nel 1352, si trovava un codice della Divina Commedia, oggi alla Vaticana (Urb.Lat.366).Sempre nel XIV secolo si ha memoria di un codice della Commedia a Cagli, scritto in Toscana, di cui sono rimasti alcuni fogli sparsi. Nel maggio del 1407 un amanuense sconosciuto terminava di copiare per la biblioteca dei Montefeltro il commento della Divina Commedia di Benvenuto da Imola. Il Dante Urbinate, definito il più bel codice della Commedia, veniva scritto e miniato

per Federico da Montefeltro a partire dal 1478, ed oggi alla Vaticana (Urb.Lat.365). Un inventario del 1550 elenca i codici conservati nella libreria degli Sforza nel palazzo ducale di Pesaro. Sfortunatamente la biblioteca, che aveva colpito la curiosità di Leonardo da Vinci, fu distrutta da un incendio nel 1512. Tra i commentatori di Dante si ricorda Giovanni Bertoldi da Serravalle, francescano, vescovo di Fano dal 1429 al 1445, che partecipò al concilio di Costanza e per i padri conciliari, provenienti da tutta Europa, in pochi mesi tradusse in latino vigoroso la Commedia, con un commento per buona parte ispirato a quello di Benvenuto da Imola. Una provincia, dunque, quella di Pesaro-Urbino, illuminata da grandi della letteratura italiana come Dante Alighieri, che consacra all’eternità della poesia toponimi e personaggi di questo territorio. Se mai vedi quel paese/ che siede tra Romagna e quel di Carlo (Purg.,68-69); …poi farà sì, ch’al vento di Focara (Inf.,XXVIII 89); ch’io fui d’i monti là intra Orbino/ e ‘ l giogo di che Tever si dsserra (Inf.,XXVII 29-30); Tra ‘ due liti d’Italia surgon sassi/…e fanno un gibbo che si chiama Catria” (Par., XXI 106-109); E fa saper a’ due miglior da Fano,/ a messer Guido e anco ad Angiolello… e mazzerati presso a la Cattolica ( Inf.,XXVIII 76-80); Vassi in Sanleo e discendesi in Noli (Purg., IV 25). Toponimi di questa terra, tra le più soavi e misteriose provincie italiane, scenari di personaggi a cui Dante consegna versi immortali di grande poesia. ¤


Il sommo poeta | 9

67

Dodici mesi d’attualità con il divin poema IL CALENDARIO DEI CARABINIERI TRA VERSI E REALTÀ

I di Claudio Sargenti

l filo conduttore, e non è un caso, ma vale la pena di aggiungere, niente viene lasciato al caso quando si tratta del calendario storico dell’Arma dei carabinieri, è il maresciallo Donato Alighieri, di origini toscane naturalmente. E’ lui che attraverso i dodici mesi dell’anno, racconta l’attività dei vari reparti operativi in cui è strutturata l’Arma, alcune delle indagini più significative rievocando personaggi entrati ormai nella storia del nostro Paese. E così si parla dello scandalo dell’etanolo e dunque del Nucleo Antisofisticazioni; dei carabinieri Forestali, di recente istituzione, ma anche dei più blasonati Ros e del Nucleo Tutela Patri-

moniale Culturale, un’autentica eccellenza e punto di riferimento nel mondo. Come pure non poteva mancare una citazione del Reparto Servizi di Sicurezza, da cui dipendono le “scorte” alle autorità, per ricordare proprio il maresciallo Leonardi, il capo del gruppo messo a difesa dell’onorevole Aldo Moro che perse la vita nell’agguato di via Fani, proteggendo con il proprio corpo lo statista democristiano. C’è tutto questo e molto altro ancora nel calendario del 2021 con cui i carabinieri hanno voluto ricordare Dante Alighieri del quale ricorre il 700esimo anniversario della morte. E’ un modo certamente originale con cui una delle


Il sommo poeta | 9

L’accostamento con la Commedia presto spiegato: l’inferno rappresenta le storie criminali I gironi, invece, i bracci di un penitenziario

68 Istituzioni più antiche e tra le più amate del Paese vuole celebrare il Sommo Poeta. E non è un caso, dicevamo che si sia scelta proprio la figura di un maresciallo per raccontare Dante. Il maresciallo dei carabinieri, del resto, è tra le figure più popolari, non è solo il comandante della stazione, ovvero del nucleo più piccolo, quello di prossimità, con cui si articola l’Arma nel territorio. Ma specie nei centri minori, è diventato anche una sorta di confidente, dispensatore di consigli, quasi una sorta di amico, oltre che tutore della legge e della legalità. Tanto amato che il maresciallo dei carabinieri, è da sempre il protagonista di film e di serie televisive di grande successo. In ogni mese una citazione dantesca E così chi meglio del maresciallo Donato Alighieri, toscano appunto, così colto da conoscere a memoria l’intera Divina Commedia, può nar-

rare vicende accadute durante la sua carriera e nelle diverse esperienze operative maturate e per di più citando per ogni mese dei versi del Poeta. A marzo, ad esempio, si parla proprio del Reparto Servizi Sicurezza, del Servizio Scorte, citando Dante che più volte si duole delle lotte fratricide che arrossiscono le acque dei fiumi, lotte fratricide che purtroppo accadono anche ai giorni nostri. Dei barattieri si racconta invece nel mese di aprile. I barattieri sono coloro che si guadagnano da vivere con mestieri turpi e vili collocati evidentemente all’Inferno. E i barattieri vengono equiparati a coloro che hanno sofisticato il vino con l’etanolo che tanto danno hanno fatto alla salute delle persone ma anche al buon nome dei prodotti Made in Italy, smascherati, come si ricorderà, dai Nas. Nel mese di agosto, poi, il riferimento è agli emigranti e ai profughi da salvare. E in particolare di quei

La prima volta nel 1928, ormai è un cult

È

diventato negli anni un oggetto ricercato da esperti e da collezionisti. Realizzato per la prima volta nel 1928, dopo l’interruzione post bellica dal 1945 al 1949, la pubblicazione del Calendario storico dei Carabinieri giunta quest’anno alla 87esima edizione, venne regolarmente ripresa nel 1950 ed è stato il fedele e puntuale interprete, con le sue tavole e gli scritti, della vicinanza dell’Arma ai cittadini e al Paese. Quello di quest’anno rende omaggio a Dante Alighieri, il Poeta che ha “inventato” la lingua italiana. E l’Arma non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di ricor-

darlo a settecento anni dalla sua morte. Del resto i Carabinieri “…sono un’Istituzione – scrive nella presentazione il Generale Giovanni Nistri, Comandante dell’Arma – legata all’Italia come un rampicante alla parete.” Un’immagine suggestiva che rende però molto bene il rapporto che c’è, il legame che unisce i carabinieri alla gente, un legame consolidato nonostante tutto negli anni e celebrato da romanzi, film e televisione. Alla realizzazione dei testi hanno partecipato lo storico Valerio Massimo Manfredi, il dantista e poeta Aldo Onorati, il giornalista Aldo Cazzullo,

mentre le tavole illustrative a corredo sono state realizzate dal pittore e disegnatore Francesco Clemente. Nasce così il personaggio del maresciallo Donato Alighieri, che non poteva non avere origini toscane, grande appassionato e conoscitore della Divina Commedia, tanto da ricordare i versi a memoria. Un maresciallo emblema del buon carabiniere che fa da filo conduttore fra i dodici racconti, uno per ogni mese in cui si articola. Donato narra di vicende vissute durante la sua carriera, prende le parole, i versi del Poeta come fonte d’ispira-


Il sommo poeta | 9

69

Alcune immagini tratte dallo storico calendario dell'Arma dei Carabinieri 2021 che attualizzano i versi della Divina Commedia Qui sopra, la copertina della pubblicazione

zione per coraggio, inventiva e generosità. Un altro modo, sicuramente intelligente, ma anche istruttivo, per unire la bellezza dei versi della Divina Commedia con le esperienze dell’Arma che tra memoria e attualità, racchiude in un’unica storia passato, presente e futuro di una Istituzione molto vicina al cuore degli Italiani Senza scadere nella facile re-

torica, non c’è stata circostanza, occasione, calamità, in cui i Carabinieri non siano stati vicini alla popolazione, in occasione dei terremoti come nelle alluvioni, fino alla pandemia che ha investito e stravolto la vita del nostro Paese. Scrive ancora il Gen. Nistri “… da quasi un secolo il Calendario è una parte di noi, un simbolo dell’Arma, al pari della Fiamma e degli Alama-

ri. Mentre la nostra uniforme sarà lì, al vostro fianco, in ogni momento. Come sempre del resto, sin dal 1814.” Con queste premesse era inevitabile che il Calendario ricordasse l’anniversario della morte di Dante. Era una sorta di atto dovuto da parte dell’Arma. Lo ha fatto in modo originale, suggestivo e intelligente. Non si tratta, quindi, solo di “sfogliare” i dodici mesi o di appenderlo in parete, magari in salotto. Le pagine vanno lette attentamente, compresi i versi della Divina Commedia scelti dagli autori a corredo dei testi. C’è tanto da riflettere e, perché no, da imparare. c.s.


Il sommo poeta | 9

Alla realizzazione dei testi hanno partecipato Manfredi, Onorati e Cazzullo Le tavole sono opera di Clemente

70

ventimila Albanesi sbarcati a Bari seguendo il sogno italiano, con i carabinieri sempre in prima linea e non solo per far rispettare la legge e l’ordine, ma anche impegnati nell’assistenza e nell’accoglienza. E a margine di questa storia vengono citati i versi della Divina Commedia forse tra i più strazianti, che ci piace ricordare: “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e il salire per l’altrui scale”

Ma come è stato possibile l’accostamento di un calendario a Dante e alla Divina Commedia? Pensando, hanno spiegato gli autori, all’Inferno come a una puntuale rassegna di storie criminali; ai gironi come a dei bracci di un penitenziario; alle rime infarcite di intrighi e a trame delittuose, fino a paragonare

all’assassinio di Francesca da Rimini, citato nel mese di dicembre, come ad un femminicidio ante litteram. Accostamenti suggestivi, certamente, dovuti alla penna di Valerio Massimo Manfredi, autore e custode della storia antica che si avvale per questa opera delle illustrazioni originali realizzate da Francesco Clemente, ritenuto un autorevole esponente della transavanguardia italiana. Il mese di gennaio dedicato alla pandemia Ma non sarebbe il calendario dell’Arma dei Carabinieri se il mese di gennaio non fosse dedicato alla pandemia che ha colpito il Paese e alle migliaia di morti soprattutto anziani. Cita ancora Dante il nostro maresciallo ma aggiunge “… quanti anziani vedevamo spegnersi senza la parola di un figlio, un nipote, una sposa. La solitudine più nera li circondava.“ E qua torna, prepotente l’orgoglio di appartenere ad una grande Istituzione da sempre vicina al Paese: “… noi, chiosa Donato Alighieri, tenevamo alta la fiamma sul berretto perché si vedesse che qualcuno faceva luce, affinché chi si era perso potesse ritrovare il sentiero.” Insomma, un calendario che non tradisce la sua fama e le aspettative conquistate negli anni, tanto da farne ormai un oggetto cult, da collezionare. Un calendario non solo da appendere, ma da leggere con attenzione, per poi riflettere. ¤


La storia

71

Io, Gillo e la miniera Tutto sapeva di zolfo “AIUTAI PONTECORVO A GIRARE UN FILM A CA’ BERNARDI”

P di Walter Valentini

Ben 176 minatori si barricarono nel 1952 a 500 metri di profondità per protestare contro la chiusura dell’estrazione

ergola è un piccolo paese dell’entroterra marchigiano ma ha una lunga storia. Risulta abitato fin dall’età della pietra, come testimoniano reperti dell’età neolitica. Bellisio Solfare è una frazione vicina, e alla distanza di qualche chilometro, a Cabernardi, era nata nel 1860 una miniera, di zolfo. Il 28 maggio 1952, 176 minatori si barricano all’interno dei cunicoli al 13° livello, a circa 500 metri di profondità. È una estrema forma di protesta contro i licenziamenti decisi dall’azienda. Un giovanissimo regista, attivato dal clamore della notizia, arriva a Pergola: vuole raccontare questa lotta. Lo incontro all’interno della sede del Comune. Devo ispirargli fiducia perché mi guarda negli occhi e mi chiede: ma tu, ci sai arrivare alla miniera? Lo fisso anch’io, e gli rispondo: sì! Le strade erano difficili da percorrere, dovevamo superare i posti di blocco per raggiungere un passaggio che io conoscevo e che permetteva di metterci in contatto con i minatori. Molti di loro erano barricati da un paio di mesi, sotto terra. Erano lì perché la Montecatini era decisa a chiudere la miniera di zolfo di Cabernardi e questa forma di protesta era osteggiata dal potere. Tutte le strade erano sbarrate, ma chi era con me voleva documentare questo fatto straordinario, e poi lo fece, realizzando il film “Pane e zolfo”. Con me, infatti, c’era un giovane che avrebbe fatto molta strada. Vivacissimo, un po’ più grande del suo accompagnatore, con degli

occhi azzurri magnetici: si chiamava Gillo Pontecorvo e realizzò poi, qualche anno più tardi, il film Leone d’oro al Festival del cinema di Venezia: “La battaglia di Algeri”. Ci fornirono una 500 e io lo aiutai sia a trovare la strada che a trasportare le attrezzature composte da cineprese, batterie e altri contenitori. Riuscimmo nell’impresa dopo esserci spacciati per turisti romani. Gillo, infatti, aveva una cadenza romana inconfondibile e dei rassicuranti occhi color cielo limpidi e penetranti, io ero un giovane con la faccia pulita e tutte queste caratteristiche servirono allo scopo di non destare sospetti. La chiusura della miniera era un avvenimento drammatico per la città di Pergola, e anche per i paesi limitrofi. Sarebbe arrivata, come si dice oggi, la recessione, perché lo zolfo estratto da Cabernardi era la linfa vitale dei nostri comuni. La mia infanzia l’ho trascorsa anche con gli amici minatori di mio padre. Uno di questi si chiamava Brizio, tornava dalla miniera di zolfo nel tardo pomeriggio. Io lo aspettavo in cima alla strada dove c’era la Piazza dei Cocci. Lo attendevo con trepidazione tutti i giorni e quando lui mi scorgeva gli si illuminavano gli occhi e si apriva in un grande sorriso: era felice di vedermi. “Sali e tieniti bene con le mani sul manubrio!”, mi diceva. La sua bicicletta era a ruota fissa: io, tenendomi in piedi sul pedale, salivo e scendevo con mio grande divertimento come sulle montagne russe, percorrendo la strada del Ba-


La storia

Io e il regista spacciati per turisti superammo gli ostacoli La miniera di zolfo era la benedizione e la maledizione per quel territorio

In alto, i resti della miniera di zolfo a Ca' Bernardi Sotto, il famoso regista Gillo Pontecorvo

72

dalucco, che era leggermente in discesa, fino alla sua casa attaccata alla mia. Un fischio e la moglie di Brizio era avvertita del suo arrivo. L’appetito del minatore, dopo tante ore di lavoro sotto terra, era prepotente e quando Brizio mangiava lo guardavo curioso seduto sull’aiola del camino. Al centro della tavola un enorme piatto dominava la scena. Cetrioli, peperoni, cipolle, finocchi, pomodori e altre verdure crude riempivano il contenitore intorno al quale sedevano Brizio, la moglie e i due robusti figli. L’incessante rumore delle forchette diceva che il cibo veniva divorato velocemente insieme alle fette di pane nero. Poi, Brizio si coricava a letto e io me ne tornavo a casa. Lui si alzava al mattino alle quattro e con la bicicletta pedalava in pianura per otto chilometri fino a Bellisio Solfare, poi ne affrontava altri dodici a piedi, quasi tutti in salita fino ad arrivare a Cabernardi, dove c’erano i pozzi che i minatori usavano per andare a lavorare nelle viscere della terra. Sopra l’ingresso dei pozzi c’era un enorme traliccio con una grande ruota che girava incessantemente e che serviva per cambiare l’aria nelle gallerie. Vicino ai pozzi l’odore di zolfo era dominante, c’erano anche i carrelli che scaricavano di continuo il materiale che i minatori estraevano. Quella atmosfera era un po’ lugubre, come i quadri di Sironi con le nuvole nere e le ciminiere fumanti. La funicolare carica di pani di zolfo attraversava le campagne fino alla stazione di Bellisio Solfare, che era più

in basso. Tutto sapeva di zolfo, anche l’alito dei minatori e i loro abiti. E pure le loro facce erano gialle come lo zolfo. Perfino i pensieri sapevano di zolfo e suggerivano un’atmosfera inquietante, sottolineata dalla definizione che gli stessi minatori davano della Montecatini. La chiamavano Mortecatini, visti i numerosi e mortali incidenti sul lavoro. Anche il denaro sapeva di zolfo perché gran parte dell’economia era sostenuta da lui. Lo zolfo era, come dicevano i vecchi, la benedizione e la maledizione. E così fu. Un giorno le bombe caddero sul deposito dei pani di zolfo della stazione, un incendio produsse la formazione di un gas irrespirabile. Tutta la vallata fu invasa da questa nuvola devastatrice. Era luglio: tutto il verde ingiallì, le foglie caddero dagli alberi, l’aria diventò velenosa. La vallata del Cesano si sarebbe potuta chiamare la vallata dell’inferno. Alla fine della guerra i tedeschi fuggirono e la liberazione portò nuove speranze e vigore. Le foglie ricrescevano sugli alberi e i fiori sui prati. Si pensava di rinascere ma non fu così. Le voci che circolavano erano purtroppo vere. La Montecatini chiuse i battenti e migliaia di persone sarebbero rimaste senza lavoro. I minatori decisero l’occupazione ma, alla fine, la miniera venne chiusa lo stesso: Cabernardi diventò il simbolo della desolazione. Unica nota positiva, una nuova aria: quell’odore acre e penetrante dello zolfo non c’era più e le piante diventarono più verdi. ¤


Il personaggio

73

Stelluti, scienziato e raffinato letterato FU TRA I FONDATORI DELL’ ACCADEMIA DEI LINCEI

L’ di Edoardo Biondi

ll volto di Franceso Stelluti come appare nel soffitto della Sala del Sindaco di Fabriano

istituzione della prima accademia mondiale, quella dei Lincei, vide il marchigiano di Fabriano, Francesco Stelluti che nasce il 29 gennaio da Bernardino e Lucrezia Corradini e detta le sue ultime volontà in Roma il 2 ottobre del 1653 per spegnere la sua esistenza il 10 dello stesso mese, nel Palazzo del Duca Paolo Sforza, secondo marito di Olimpia Cesi, figlia di Federico Cési. La salma venne sepolta in una fossa comune nella Chiesa di Santo Spirito in Sassia. Questi dati così puntuali sono stati ricavati dal Gruppo di ricercatori che nel 1986 pubblicarono il volume “Francesco Stelluti Linceo da Fabriano”. Francesco fu uomo di elevato ingegno, filosofo, letterato e poeta, matematico, naturalista nonché attento ricercatore, il cui motto, a lui caro: “Quo serius eo citisus” ritenendo al dire di Camillo Ramelli “che sul cammino della scienza quegli sia più certo di avvicinarsi alla meta, che a passi lenti e misurati s’inoltra”. Anche Giuseppe Gabrieli, accademico dei Lincei, lo giudica uomo di elevato ingegno, filosofo e letterato. Nel clima di rinnovamento e di fervore per gli studi filosofici sorretti dall’osservazione e dalla dottrina positivista nacque a Roma, nel 1603 per volontà del Principe Federico Cèsi,

Duca di Acquasparta (Roma 1585 – Acquasparta 1630), l’accademia dei Lincei. A Francesco Stelluti fu affidato l’incarico di Procuratore generale e di Bibliotecario dell’Accademia. Ebbe per primo la possibilità di servirsi del microscopio, ricevuto direttamente dal Cési, che lo ebbe direttamente dal Galilei, il quale lo chiamava occhialino. All’Accademia dei Lincei dedicò tutte le sue energie anche affrontando il ruolo di riformista, sostenendo Galìleo Galilei e altri scienziati che entrarono a far parte dell’Accademia dopo la sua fondazione. L’illustre fabrianese oltre che scienziato è anche letterato proponendo il moderno dilemma delle due culture, essendo anche un raffinato poeta, autore di sonetti e madrigali. Per la sua bivalenza lo Stelluti si inquadra perfettamente nel mondo dotto del Seicento. Tra i fondatori dell’Accademia dei Lincei vi funono Anastasio De Fìliis, Erudito personaggio (Terni 1577 Napoli 1608) e Jan van Heeck, Medico e Naturalista (Botanico e Zoologo) (Deventer 1579 – Roma 1620) che alla fine della sua vita divenne pazzo. Le satire di Aulo Persio Flacco Le doti, umanistiche e scientifiche di Francesco Stelluti si evidenziano en-


Il personaggio

74 trambe in quest’opera, tradotta delle satire di Aulo Persio Flacco, rendendo intelligibili uno dei più difficili scrittori latini. Inoltre il Persio poteva allora rappresentare quell’ideale stoico che molto si avvicina a quello cristiano e alla sua morale, potendo essere favorevolmente accolto e condiviso dell’ambiente romano controriformista o di rinascimento cattolica in cui lo Stelluti si trovò a vivere. La dedica al Cardinale Francesco Barberini nel periodo di regno del papa Urbano VIII (nel cui stemma araldico figuravano la presenza di api), tenendo presente che il Cési aveva già scritto l’Apiarium 1625, contenente lo studio enciclopedico-enco-

Nativo di Fabriano ebbe per primo la possibilità di servirsi del microscopio che apparteneva a Galilei

miastico sulle api, disegnato nei minimi particolari, dallo Stelluti utilizzando il microscopio. Purtroppo però il libro era stato terminato ma non stampato, per cui chiese a Francesco Stelluti di affiancare all’opera del Cési la “Melissographia” tavola unica molto decorativa da lui stesso disegnata. L’opera avrebbe dovuto essere realizzata, per volontà del Principe e del gruppo di lincei collaboratori, per le festività dell’Anno Santo

straordinario del 1625. Per tale motivo l’Apiarium venne preceduto nella stampa e diffusione dalla Melissographia, incisa da Matthias Greuter, che nei tempi previsti venne donata a Urbano VIII, il quale però non poté leggere l’Apiarium che gli verrà donato nel gennaio del 1626. Le satire del Persio grazie alla particolare versatilità del linceo fabrianese e soprattutto al microscopio di Galilei, è ricca di particolarità zoologiche, il punteruolo del Grano o gorgoglione anch’esso con numerose e minuziose particolarità, riprodotto in grandezza naturale e ingrandito, disegnando anche a maggiori dimensioni un particolare dell’apparato boccale. Numerosi altri animali come la lince, la murice, la seppia e il castoro, sono stati inseriti nelle Satire del Persio, di alcuni tra questi il nostro Francesco scrive ad esempio delle note come quella relativa alla Lince (simbolo dei lincei) che servono per ricostruire la storia passata della dell’animale del quale specifica “e ne sono state prese più volte, n’ nostri monti di Fabriano, e mentre stò ora queste cose scrivendo, l’Illustrissimo Signor Cardinale Francesco Barberini”n’ha mandate due, cioè maschio, e femmina, all’eccellentissimo Signor Principe di Sant’Angelo presi in Appennino nei monti d’Abruzzo”. Non pochi sono inoltre i riferimenti botanici nelle Satire in massima parete rivolti alle piante officinali, delle quali descrive il modo d’uso e le proprietà nella medicina popolare tra cui l’Elleboro (Piante della famiglia delle ranuncolacee ancora oggi indicate con lo stesso nome), l’Amomo (Pianta aromatica oggi più conosciuta come cardamomo, appartenente al ge-


Il personaggio

nere Amomum), il Balano (Primo elemento di parole composte della terminologia scientifica ital. e lat., in cui significa “ghianda” o “a forma di ghianda”. In medicina, è stato usato in alcuni nomi composti col sign. di “glande”. e la Cassia (Genere di piante della famiglia Leguminose, sottofamiglia Cesalpinioidee, nome dato da Linneo, caratterizzato dai fiori con sepali liberi e 5 petali diseguali; le foglie sono pennato-composte, il frutto è un legume deiscente o indeiscente. Comprende 300 specie delle regioni tropicali.). In conclusione la traduzione dalle satire di Aulo Persio Flacco rappresenta per il linceo Francesco Stelluti il momento magico per sfoggiare la sua predilezione nei confronti del mondo scientifico ma non va dimenticato che la traduzione rappresenta il punto di sutura tra le due culture che il linceo esprime durante la sua intensa e lunga attività accademica. Il Trattato del Legno fossile La mia vita Accademica, non quella dei lincei ma delle Università in cui ho lavorato, ha seguito diverse specializzazioni: in particolare quando ero all’Università di Camerino avevo interesse per le ricerche sui legni fossili e pertanto avendo letto il trattato del legno fossile presso la Biblioteca Nazionale di Roma, avvertii l’esigenza di ristampare quest’opera, che a quei tempi non era presente presso l’Accademia di Lincei. Di questa mi interessavano l’originalità metodologica e scientifica. Il testo molto corto, di appena otto pagine, dimostrava la determinazione di Francesco Stelluti.Enorme è

75 l’iconografia se si considerata rispetto al testo, in quanto composta da 13 splendide tavole. L’iconografia è essenziale, permette al ricercatore di entrare nei più minuti particolari, dando all’opera un valore superiore a quello delle attuali fotografie che vengono riportate nella letteratura scientifica. La scoperta dei fossili e la loro interpretazione è uno dei capitoli più accattivanti della ricerca scientifica. Il ricercatore vuole scoprire lo sviluppo della vita sulla terra ma all’inizio del Medioevo e sino al Rinascimento, sull’interpretazione di alcuni fenomeni naturali, ci si poteva imbattere nei vincoli morali che hanno provocato pesanti ritardi al cammino della scienza e ad ingiuste pene per gli scienziati. “Fossile, o sotterrane” afferma il nostro Francesco nell’introduzione del suo Trattato e quando il fossile assomiglia ad una forma vivente inequivocabile, allora si interpreta come “scherzo di natura o mirabile parto della natura”. Il Principe Federico Cèsi, vuole impegnare l’Accademia sugli importanti temi delle scienze naturali e quindi anche sui fossili che chiama “metallofiti” cioè fossili che presentano caratteristiche che avvicinano sia ai metalli o minerali che ai vegetali. Si possono ipotizzare motivazioni diverse alla base di questa interpretazione del Principe che esclude gli animali in quanto in questo modo si andrebbe a relazionare con il Diluvio Universale. Il Principe chiedendo l’aiuto dello Stelluti al suo progetto sui metallofiti gli conferisce un incarico importante che per i tempi susciterà grande interesse negli ambienti scientifici europei. Lo Stelluti è consapevole della difficoltà posta

Fu anche poeta filosofo, matematico e naturalista Interprete del moderno dilemma tra scienza e letteratura

In alto a sinistra, l'anatomia dell'ape disegnata al microscopio da Francesco Stelluti. Sotto, Frontespizio delle satire di Aulo Persio Flacco tradotti in versi sciolti e dichiarati A fianco Melissografia disegnata da Francesco Stelluti In alto, punteruolo del grano visto al microscopio e frontespizio del Trattato del legno fossile minerale


Il personaggio

In alto, esemplare di Legno fossile disegnato da Francesco Stelluti e la carta geografica prospettica del territorio di Todi e Acquasparta con sullo sfondo i monti Martani Di seguito, Tronchi fossili di Dunarobba e a destra in alto capannine protettive per la salvaguardia dei tronchi Sotto, frontespizio del Saggiatore opera di Galileo Galilei

76 da questa “materia in vero totalmente nuova e ambigua”e della quale nessun autore a suo giudizio ha ancora scritto, ad eccezione di Teofrasto che egli riporta nel suo Trattato. La ricerca di Francesco Stelluti, tratta in realtà di un legno fossile che ha subito un processo di fossilizzazione per carbonizzazione, in particolare si riferisce alle ligniti. In questi carboni infatti si ha una buona conservazione della struttura anatomica del vegetale, sono per l’appunto di “ligniti xiloide” o “lignite torbo-legnosa” in quanto la torba in questo materiale può raggiungere fino il 50% o arrivare al 70% del peso, le pareti ancora legnose, rami e radici, prendono il nome di “piligno”. Il nostro Francesco più volte ci parla, ovviamente senza usare il nome di lignite, ma di “metallofito” dato dal Cési, al quale però Stelluti vuole precisare: “metallofito per la natura, c’ha della pianta, e del metallo: se bene considerando in se tutto, molto più partecipa alla pianta che al metallo”. Le ligniti notoriamente corrispondono bene alle osservazioni dello Stelluti: “Se si mette sul fuoco mentre è stato cavato di fresco dalla terra, s’abbrucia, ma lentamente con gran fumo, e con odore spiacevole, quando poi il legno è secco, l’odore è più grato, e fa un fuoco di colore così intenso, che non gli si può stare vicino, come al fuoco fatto da altro legno, ne si consuma così presto, conservando il fuoco assai più tempo di qualsivoglia altra materia combustibile; e quando il legno è comin-

ciato ad impetrirsi resta al fuoco due, e tre giorni senza consumarsi”. In effetti il Cési viene molto criticato per aver dato questo suggerimento a Francesco Stelluti, il quale evidentemente non poteva sconfessare apertamente il suo maestro al quale doveva tutto e perfino anche l’aggregazione alla casa Cesia. Lo Stelluti però, come i suoi compagni subì avversità e persecuzioni dai famigliari di Federico Cési e fu costretto a lasciare Roma per Fabriano e quindi andare a Parma, presso il Duca Farnese. Ritornato a Roma verso il 1609, Stelluti nel 1612 fu eletto procuratore generale dell’Accademia dei Lincei. L'anno seguente fu a Napoli per fondarvi una sezione dell'Accademia "Il Linceo", che fu affidata a G. B. Della Porta. Dopo la morte di F. Cesi (1630) Stelluti cercò di salvare l'Accademia, ma senza successo. Riuscì solamente a completare nel 1651 la pubblicazione del Tesoro messicano, o più precisamente il Rerum Medicarum Novae Hispaniae Thesaurus. E’ questa l'ultima opera collettiva dell'Accademia cesiana, rappresentante il risultato finale di una iniziativa Lincea durata quasi mezzo secolo, basata su una stretta collaborazione scientifica tra Spagna e Italia. Il merito della diffusione in tutto il mondo dell'opera spetta principalmente a Francesco Stelluti che dopo la morte del Cesi si preoccupa di portarla avanti. Il Tesoro è infatti molto complesso e le vicende che culmineranno con la sua pubblicazione definitiva, nel 1651, risalgono al 1570, quando Filippo II Re di Spagna nomina uno dei suoi medici di corte, Franciso Hernandez, affindandogli il compito di recarsi in Mes-


Il personaggio

sico per studiare la natura del Nuovo Mondo sotto il profilo delle applicazioni mediche. Lo Stelluti ridusse in tavole sinottiche i quattro libri Della fisonomia di tutto il corpo humano di G. B. Della Porta. Inoltre Francesco Stelluti terminò anche il Trattato del legno fossile minerale (1637). La sua più notevole fatica letteraria fu la traduzione delle satire Aulo Persio Flacco in versi sciolti, pubblicata in un volume che contiene illustrazioni di soggetti scientifici realizzati con il microscopio. La città

77 di Fabriano dedicò il Liceo Classico Statale, in ricordo dello scienziato Francesco Stelluti, ora divenuto Classico, Linguistico, Scienze umane, Economia Sociale. Iniziativa interessante è l’Associazione costituita da ex studenti i cui principali scopi sono: contribuire al recupero della “memoria storica” del Liceo Classico “Francesco Stelluti” di Fabriano, favorendo ogni iniziativa che ne accresca e diffonda il prestigio attraverso tavole rotonde, conferenze, convegni, pubblicazioni ed altre iniziative. ¤

Fu grande estimatore di Galileo Galilei

I

ntorno al 1609, Galileo ebbe la notizia di oggetti che realizzavano ingrandimenti di più volte e scoprire il cannocchiale che ingrandiva sino a nove volte. Con il cannocchiale studiò l’universo e perfezionò il “Dialogo sopra i due massimi sistemi” che Galilei presentò a Roma nel 1616. Il Santo Uffizio esaminò la teoria eliocentrica, condannando le due proposizioni. 1 “Sol est centrum mundi, et omnino immobilis motu locali” e 2 “Terra non est centrum mundi nec immobilis, sed secundum se totam se movetur, etiam motu diurno”. Francesco Stelluti ha una stima immensa per Galileo Galilei al quale riconosce l’eccezionale ingegno dichiarandosi in più occasioni suo umile e reverente estimatore. Sottolineò la sua ammirazione per le opere di Galileo dedicandogli un madrigale ed un sonetto in occasione della pubblicazione delle Macchie solari ed un’ode di ventiquattro strofe per la pubblicazione

del Saggiatore. Lo Stelluti non muterà la propria posizione nei confronti di Galilei nemmeno quando questi, attaccato dal Santo Uffizio, fu costretto all’esilio di Arcetri. In questa occasione gli scrisse da Roma nel novembre del 1635 rinnovando le testimonianze di stima ed affetto:… l’ho continuamente nella memoria, per la grande stima che ho per lei; e Dio sa quanto mi son doluto e doglio de’ suoi travagli. Questa dimostrazione di solidarietà dello Stelluti è molto più importante se si considera che lo stesso fu costretto, nei primi del 600 a scappare alla corte Farnese di Parma in seguito a false accuse di stregoneria. Nonostante questo, scrive anche direttamente contro i Gesuiti, avversari intransigenti nei confronti delle nuove dottrine scientifiche. Le sue ira contro i Gesuiti si calmarono però più tardi quando morto il Cesi si trovò a completare le opere dei lincei rimasti senza protezione importante. e.b.

Tra le sue opere più note la traduzione delle satire di Persio e la descrizione del legno fossile nel “Trattato”


Il “giallo”

I di Alberto Pellegrino

Il detective dall’impermeabile bianco per anni è stato il poliziotto più popolare della televisione italiana

n Italia la parola “giallo” diventa sinonimo di “romanzo poliziesco” quando nel 1929 Luigi Rusco e Alberto Tedeschi danno l’avvio alla collana Gialli Mondadori che immette sul mercato librario opere di narrativa che hanno come protagonisti detective e criminali creati da grandi scrittori inglesi (Conan Doyle e Agata Christie) e francesi (Simenon), seguiti da una schiera di affermati autori americani. Si tratta di opere scritte con uno stile avvincente, un’efficace connotazione degli ambienti sociali e della psicologia dei personaggi, basate tuttavia sulle regole fisse di un rigido schema narrativo: manicheismo morale con una netta separazione del bene e del male; la colpa vista come devianza (a volte patologica) dalle norme imposte dalla società; la violenza intesa come trasgressione individuale non come un riflesso della società; l’immancabile vittoria della Legge e dei suoi rappresentanti sulla

criminalità. Lentamente, tuttavia, il “noir” francese e il “thrilling” anglosassone cominciano ad allontanarsi dai modelli dei nobili padri fondatori Edgar Allan Poe, Dostoevskij, Chesterton, perché s’introducono elementi di analisi psicoanalitica e sociologica; si dà maggiore peso alla violenza presente nella società industriale con più rilevanza alla criminalità organizzata nel mondo della politica e dell’economia, con una umanizzazione dei personaggi e un maggiore rigore morale. Si tratta di autori che hanno alle spalle una buona formazione letteraria come Dashell Hammett, Raymond Chandler, Jan Flemming, Le Carré, George Bernanos, Graham Green, Friedrick Durrenmatt. Persino nel rigido mondo accademico italiano, sul modello de Il cappello del prete (1888) di Emilio De Marchi, irrompono nel mondo del poliziesco scrittori di peso come Carlo Emilio Gadda, Guido Piovene, Leonardo Sciascia, Giovanni Ar-


79

È nato a Fabriano l’inventore del tenente Sheridan LO SCRITTORE CIAMBRICCO SI FIRMAVA CON LO PSEUDONIMO MIKE MITCHELL

pino, Mario Soldati, Giovanni Comisso, Umberto Eco. Origine ed evoluzione del poliziesco italiano Il romanzo poliziesco italiano si sviluppa nel corso degli anni Trenta, sotto il regime fascista, senza avere alle spalle né le solide tradizioni francese e anglosassone, né quella del feuilleton fatta eccezione per Francesco Mastriani e e pochi altri. I primi thriller italiani sono ambientati all’estero e hanno per protagonisti investigatori stranieri: Ezio D’Errico propone le avventure investigative del commissario francese Emile Rischard e Giorgio Scerbanenco che usa come protagonista dei suoi primi romanzi l’ispettore Arthur Jelling, archivista della polizia di Boston. Fanno eccezione Tito A. Spagnol con il suo investigatore Don Poldo Tormane, un parroco di campagna friulano; Alessandro Varaldo con il commissario Ascanio Bonichi che indaga in una Roma

misteriosa, dove si mescolano i vicoli e i palazzi principeschi, le pensioni equivoche e gli ambienti piccolo-borghesi; Augusto De Angelis (ucciso dai fascisti nel 1944) scrive alcuni romanzi incentrati sul commissario De Vincenzi, fra i quali vanno ricordati Il candeliere a sette fiamme, L’albergo delle tre rose, Il mistero di Cinecittà, Il mistero delle tre orchidee. In questi primi lavori polizieschi trionfa “l’ideologia manichea della burocrazia legalitaria: prevale il “giudicare” sul “capire”; la violenza è vista solo come un delitto individuale, effetto di predestinazione patologica caratteriale; l’indagine si preoccupa di ristabilire un ordine robotico; la delinquenza è una colpa irrelata e astratta; il giustizialismo è al servizio del moralismo piccolo-borghese” (Raffaele Crovi). A metà degli anni Sessanta avviene una piccola rivoluzione per merito di Giorgio Scerbanenco che, tra il 1966 e il 1969, inventa il poliziesco all’italiana con i suoi libri

(Venere privata, Traditori di tutti, I milanesi ammazzano il sabato, Milano calibro nove), ambientati in una Milano divisa tra sviluppo metropolitano, benessere e violenza, con la creazione del “mitico” personaggio di Duca Lamberti (padre di tutti i moderni detective italiani),un ex-medico radiato per aver praticato l’eutanasia e ora consulente esterno della polizia. Da quel momento si forma una schiera di romanzieri “colti” che portano la narrativa poliziesca italiana ai primi posti nel mondo occidentale, fra i quali spiccano Loriano Machiavelli, Luciano Anselmi (il suo commissario Boccia è un Maigret all’italiana), Pietro Colaprico, Carlo Lucarelli (con i suoi romanzi ambientati durante il fascismo, nell’Africa Orientale Italiana e nell’Italia contemporanea), Eraldo Baldini, Massimo Carlotto, Giancarlo De Cataldo (che s’impone con il suo Romanzo criminale per poi spaziare dalla storia italiana dell’Ottocento alla re-


Il “giallo”

Il suo trench diventa un cult per l’immaginario collettivo tanto da far scambiare Ubaldo Lay per un agente vero

Qui sopra alcune immagini della serie televisiva sul tenente Sheridan che ha reso famoso l'attore Ubaldo Lay A destra, il manifesto del film "Chiamate 22-22 tenente Sheridan" e sotto, lo sceneggiatore di gialli televisivi Alberto Ciambricco, di Fabriano inventore del famoso poliziotto

80 altà contemporanea). Vi è poi la schiera dei “meridionalisti” con il maestro Andrea Camilleri (con il siciliano commissario Montalbano), il barese Gianrico Carofiglio, il napoletano Maurizio De Giovanni che ambienta le sue storie in una metropoli dove negli anni Trenta opera il commissario Ricciardi, mentre i poliziotti denominati i Bastardi di Pizzofalcone si muovono nella Napoli contemporanea; non mancano le “signore del giallo” come la siciliana Cristina Cassar Scalia con la vice-questore Vanina Guarrasi. Alberto Ciambricco (Fabriano 1920-Roma 2008) è uno scrittore che, oltre a lavorare per 40 anni alle dipendenze del Ministero dei Trasporti, ha fatto lo stesso percorso come autore di racconti polizieschi ambientati negli Stati Uniti e firmati con lo pseudonimo di Mike Mitchell. Pubblica su Momento sera (1959/1963) una serie di racconti che hanno come protagonisti avvocati assassini, killer professionisti, agenti corrotti e una serie di piccoli criminali. In un secondo momento arrivano I racconti del tenente Sheridan (1964/1967) pubblicati su Amica, sfruttando il successo televisivo conquistato dal personaggio con l’obiettivo di coinvolgere il lettore attraverso le storie cartacee dell’ormai celebre detective “americano”. Un’evoluzione si registra con la serie pubblicata sulla Domenica del Corriere intitolata Qui, Interpol Italia (1966/1967) che, pur mantenendo uno scenario europeo, ha come protagonista il commissario Ivo Falchi dell’Interpol, impegnato a combattere contro bande di criminali internazionali. Arriva infine una serie di racconti “italiani” (1986/1994) cioè ambientati nel nostro Paese: si tratta di storie apparse sulle pagine de L’Unità e L’Azione, che non sono collegate dalla presenza di un unico protagonista, ma

vedono impegnati i commissari Selvaggi, Bertoli e Benzi (A. Ciambricco, 25 Gialli d’annata, Fondazione Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana, vol. I, 2002, vol. II, 2005). Ciambricco e Casacci scrivono anche un romanzo giallo umoristico arricchito dai disegni di Benito Jacovitti e intitolato Molta “mala” poco bene (Rusconi Editore), storia di una strampalata banda di criminali da strapazzo costituita dal capo Citrone (dal francese “Citron”) e dai suoi complici Canapè, Battisodo, Pirla e Zebù. La pianificazione e l’esecuzione del rapimento del ricco industriale milanese Giovanni Maria Brambilla si risolve in un totale disastro. Ciambricco è stato anche un autore teatrale e una sua commedia Un fiore nero per Lundigan è andata in scena nel 1971 al Teatro Gentile di Fabriano; un’altra, intitolata Quella notte nelle Ardenne, è stata rappresentata nel 2004 nel Teatro Lauro Rossi di Macerata. Ha scritto le sceneggiature di quattro film: Chiamate 22-22: Tenente Sheridan (1960) con la regia di Giorgio Bianchi; nel 1967altri tre sempre con il Tenente Sheridan (Ubaldo Lay): Soltanto una voce, Paura delle bambole, Recita a soggetto, tutti con la regia di Leonardo Cortese. Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti tra cui il “Premio Autori TV” (1974), il “Premio Riccione 1977” e il “Premio della critica televisiva (1979), il premio “Marchigiano dell’anno” (1998). Nascita e sviluppo del giallo televisivo E’ inevitabile che il genere poliziesco faccia irruzione nei mezzi di diffusione di massa in un primo momento nelle radiotrasmissioni dal 1950 al 1958 con Squadra Mobile di Ezio D’Errico (due Serie), Il mio amico commissario (due serie), Cielo notte a puntate, Scusi se disturbo. Con l’arri-


Il “giallo”

vo della televisione il romanzo poliziesco si trasferisce con grande successo sugli schermi domestici con una invasione di detective, commissari, ispettori e marescialli dei carabinieri. Si apre nel 1957/1966 con le serie di Perry Mason, l’avvocato investigatore inventato da Erle Stanley Gardner e interpretato da Raymond Burr; nel 1964 arriva un autore di classe (Simenon) con la serie Le inchieste del commissario Maigret che si avvale di un grande interprete come Gino Cervi; nello stesso anno appare il primo investigatore-donna con Le avventure di Laura Storm (Lauretta Masiero); nel 1969 riscuote un notevole successo Nero Wolf di Rex Stout con Tino Buazzelli nel ruolo del celebre avvocato; nel 1970/71 Renato Rascel interpreta I racconti di Padre Brown; nel 1974/75 Il commissario De Vincenzi di Augusto De Angelis impersonato dal grande Paolo Stoppa. I successi nazionali e internazionali iniziano nel 1984 con La piovra che ha come protagonista il commissario Cattani (Michele Placido); nel 1999 conquistano numerosi spettatori le 14 serie del Commissario Montalbano di Camilleri con Luca Zingaretti, mentre nel 2000/2020 gode di grande popolarità Don Matteo, il prete investigatore (Terence Hill). La stagione del nuovo racconto poliziesco si apre nel 2006 con la serie L’ispettore Coliandro seguita nel 2008 dai quattro episodi del Commissario De Luca, entrambi di Carlo Lucarelli; nel 2016/2019 vanno in onda le tre serie di Rocco Schiavone (Marco Giallini), un eccentrico commissario creato da Antonio Manzini; nel 2016/2020 vanno in onda le tre serie de L’Allieva, un poliziesco agrodolce con alcuni tratti melò di Alessia Gazzola, storia di una praticante di medicina legale interpretata da Alessandra Mastronardi. Nel 2017/19 hanno successo

81 le due serie de La porta rossa di Carlo Lucarelli e Giampiero Rigosi; nel 2017 arrivano in tv I Bastardi di Pizzofalcone di Maurizio De Giovanni con Alessandro Gassmann; nel 2018/2020 viene trasmessa con un buon successo la serie Nero a metà, un poliziesco ambientato in un commissariato romano con gli ispettori Carlo Guerrini (Claudio Amendola) e Malik Soprani (Miguel Gobbo Diaz); la serie per ora si chiude nel 2021 con un nuovo successo di pubblico ottenuto dagli episodi del Commissario Ricciardi di Maurizio De Giovanni, ambientati in una tenebrosa e splendida Napoli degli anni Trenta, con questo misterioso personaggio interpretato da Lino Guanciale. In questo quadro si colloca l’originale apporto creativo dato da Alberto Ciambricco che fa il suo esordio come sceneggiatore di “gialli” televisivi con alcune miniserie andate in onda tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Settanta, per cui viene considerato l’inventore di una particolare “narrazione” poliziesca nata dalla commistione di più generi televisivi. Negli anni 1959/1961 Ciambricco, insieme al suo storico collaboratore Mario Casacci e all’inventore di Telematch Giuseppe Aldo Rossi (uno specialista nel settore dei quiz), crea la trasmissione a quiz Giallo club. Invito al poliziesco incentrata sul personaggio del Tenente Sheridan (impersonato dall'attore Ubaldo Lay), il quale per diversi anni è il poliziotto più popolare della televisione italiana. Egli è affiancato da Paolo Ferrari (presente per le prime due serie, poi sostituito da Franco Mulé nella terza serie), Carlo Alighiero e Aldo Giuffré. A metà tra il quiz e lo sceneggiato "giallo" di ambientazione statunitense, il programma riesce ad avere un gradimento di milioni di spettatori e il Tenente "Ezzy" Sheridan, con al fianco il fido sergente Howard,

Ciambricco è l’inventore di una particolare narrazione poliziesca nata dalla commistione di più generi televisivi


Il “giallo”

Il romanzo poliziesco italiano si sviluppa nel corso degli anni Trenta e i primi thriller sono ambientati all’estero

Ancora un'immagine in bianco e nero con Ubaldo Lay Al centro, la copertina del libro con uno dei quattro episodi della miniserie Ritorna il tenente Sheridan

82

compare spesso con un impermeabile bianco che contribuisce a farlo entrare nell’immaginario collettivo fino a far perdere a Ubaldo Lay la sua reale identità, facendolo scambiare per un poliziotto vero, per cui viene avvicinato in strada, nei negozi, all'aeroporto ed è “consultato” per risolvere piccoli gialli a carattere privato. La trasmissione si svolge nel seguente modo: accanto agli attori fissi impegnati nei ruoli-cardine dei telefilm si alternano numerosi altri interpreti impegnati a ricoprire ruoli diversi. In ogni puntata tre ospiti di un ipotetico club di giallisti, appositamente selezionati dalla Rai, sono invitati dal conduttore Paolo Ferrari a seguire un telefilm che viene interrotto poco prima dell'identificazione del colpevole. A quel punto, gli ospiti sono chiamati a dare una loro soluzione del giallo che poi arriva alla conclusione. Dopo i primi episodi-pilota, che vanno in onda nell'autunno-inverno 1959-1960, si pensa di chiudere la trasmissione, la quale deve continuare a seguito delle proteste del pubblico. Il tenente Ezechiele Sheridan, interpretato da un attore serio e preparato, appare sullo schermo televisivo in modo credibile perché lontano dagli stereotipi del detective del cinema americano, con una sua umanità, per cui le sue storie, ambientate negli immaginati e un po’ “ingenui” Stati Uniti, riescono a tenere incollati al teleschermo milioni di ita-

liani, Rimane sullo schermo dal 1959 al 1972, quando viene colpito da una pallottola per ritornare dopo 12 anni, quando è ormai in pensione, nella miniserie Indagine sui sentimenti. Il suo trench diventa un oggetto di culto; il suo personaggio trova subito degli emuli, mentre inchieste giornalistiche si preoccupano di indagare se esiste un genere poliziesco italiano. Comunque la caratteristica principale di Sheridan è la sua assoluta “aderenza” al mezzo televisivo senza quel ritmo lento degli odierni serial, ma è anche uno che si richiama alla scena teatrale e al pieno rispetto del linguaggio cinematografico. Successivamente vanno in onda le miniserie Ritorna il tenente Sheridan con gli episodi Donna di Fiori (1965) Donna di Quadri (1968), Donna di Cuori (1969) e Donna di Picche (1972); Sheridan, squadra omicidi (1967), sempre con il detective interpretato da Ubaldo Lay. Ciambricco è stato anche l’autore di altre trasmissioni televisive di successo (sempre in coppia con Casacci) intitolate Scacco Matto, Fermate il colpevole, I ragazzi di Padre Tobia (1968-1973), Serata al gatto nero (1973), Così per gioco (1979), sono stati programmi che hanno avuto grandi indici di ascolto. La formula dello spin-off del duo Casacci-Ciambricco, intitolata Psyco, è stata ripresa nel 2005 da Rete Quattro con Paolo Ferrari nel ruolo del Tenente Sheridan. ¤


Freschi di stampa

83

Dialogo con gli autori alla classica ora del tè I LIBRI SCELTI DA LE CENTO CITTÀ DURANTE LA PANDEMIA

I di Maurizio Cinelli

Illustrazione di Sergio Giantomassi

l 2021 “l’anno delle attese”. L’attesa del vaccino, innanzitutto, che ci liberi definitivamente dall’incubo dall’infezione da coronavirus, che il 2020 ci ha lasciato in eredità. L’attesa che l’economia, il lavoro, la nostra vita quotidiana possano tornare alle caratteristiche e ai ritmi che ci appartenevano. L’attesa di poter tornare a stringerci la mano, ad abbracciarci, ad incontrare liberamente amici e parenti, a cenare tutti insieme, a riunirci in tanti per discutere fianco a fianco, a tornare a viaggiare ... Ma non è, non può essere, tutto “attesa”: anche le esperienze negative, e specialmente le più drammatiche, come quella dalla qua-

le siamo ancora coinvolti, possono arricchirci di qualcosa: se non altro forgiare la capacità di resistenza individuale e collettiva, rafforzarci nell’attitudine a sperimentare alternative, a cercare altre vie ... E questo vale un po' anche per l’esperienza alla quale tutti noi delle Cento Città siamo particolarmente affezionati: l’edizione annuale di “Freschi di stampa”. Gli eventi drammatici da pandemia hanno impedito che l’edizione 2020 avesse luogo; occorreva fare in modo che altrettanto non avvenisse per l’edizione 2021. Dopo confronti e riflessioni una soluzione è stata trovata, che valga almeno per quest’anno.


Freschi di stampa

Incontri rigorosamente via web con gli scrittori per parlare delle loro rispettive opere

84 La formula dell’alternativa è brillante: incontri, rigorosamente via web, con l’autore di ciascuno dei libri prescelti, il quale, dialogando con un intervistatore prescelto ad hoc, possa parlarci della sua opera; dunque, una serie di incontri, da distribuire variamente, secondo convenienza, lungo l’intero arco dell’anno, ognuno di durata ognuno di durata contenuta nell'erco di 60 minuti, in un orario pomeridiano normalmente favorevole, come indica l’espressione ammiccante prescelta: cosa c’è di più evocativo dell’“incontro all’ora del tè”? Alcuni libri fanno già mostra di sé sullo scrittoio, disponibili allo scopo, tutti rigorosamente editi nel 2020. Il primo è quello di Filippo Mignini, “Matteo Ricci. La famiglia, la casa, la città”, edito da Quodlibet. Mignini è professore emerito di storia della filosofia presso l’Università di Macerata, noto in particolare per importanti studi su Baruch Spinoza. Ma è anche massimo specialista delle opere e della figura di Padre Matteo Ricci (del quale sta curando da anni l’edizione di tutte le opere) e dei rapporti che per primo, quale missionario gesuita, egli ha instaurato con la Cina dell’epoca; su Ricci ha promosso e curato importanti mostre non solo in Italia, ma, su richiesta della Regione Marche, anche a Pechino, Shanghai, Nanchino, Macao, e ha scritto libri che del missionario illustrano la statura umana e la straordinaria, perdurante importanza culturale. Con quest’ultimo libro, dedicato a un aspetto, per così dire, minore della vita di Matteo Ricci – quello relativo all’infanzia trascorsa nella piccola città natale, non certo particolarmente importante, quale poteva

essere la Macerata del 1500 –, Mignini getta un fascio di luce sulla famiglia e sul contesto (casa natale, ambiente cittadino, le conoscenze, gli insegnanti): cioè, in sostanza, su quanto ha influito su quell’imprinting del quale vi è traccia nella folta corrispondenza con la quale il gesuita ha intrattenuto, nel lungo periodo della sua missione, i rapporti non solo con le gerarchie, ma anche con la famiglia e le amicizie più profonde (alcune delle quali sorte proprio nel periodo maceratese), e che di quella corrispondenza illuminano e chiariscono più di un aspetto, altrimenti destinato a restare oscuro. A seguire viene il libro di Marcello Marcellini, “L’assassinio di Seneca”, edito da Affinità elettive. Marcellini è un avvocato che, pur avendo scelto per tale sua opera un tema di rilevanza giuridica, in realtà riesce ad avvincere i lettori come “un vero e proprio scrittore” (quale egli impropriamente nega di essere), e a farlo appassionare ad un argomento che, come il sottotitolo evidenzia (“Riflessioni con Ramon Sampedro


Freschi di stampa

85

L’infanzia di Matteo Ricci e i rapporti con la famiglia del gesuita descritti dalla penna di Mignini sulla parte estrema della vita”), affronta un tema cruciale, quale è quello della conclusione della vita; e, in particolare, di quella conclusione che, talvolta, per talune, determinate circostanze non consentono di fare oggetto di mera attesa, ma drammaticamente sospingono a correrle incontro. Il tema è, dunque, quello dell’eutanasia: tema drammatico, controverso, doloroso; eppure il libro, senza perdere in profondità e rigore, lo affronta con competenza di giurista, ma anche e sopratutto con compostezza e profonda partecipazione umana: anzi, si potrebbe dire, addirittura con leggerezza. L’espediente letterario è un ideale colloquio a distanza nel tempo e nello spazio, eppure verissimo, coinvolgente e carico di empatia, con una ben precisa persona che l’esperienza di un fine vita invocato e ricercato per lunghissimi anni ha vissuto anche attraverso dolorose e sfortunate battaglie giudiziarie: il galiziano, Ramon Sampedro, che un tuffo sbagliato ha reso tetraplegico in giovanile età; una storia drammatica e

coinvolgente, dalla quale è stato tratto un pluripremiato film “Mare dentro” del 2004, di Alejandro Amenabar, un film che chi l’ha visto ben difficilmente avrà dimenticato. A come vivere la vita è, invece, dedicato il libro di Ivano Dionigi, “Segui il tuo demone”, edito da Laterza. Dionigi, pesarese di origine, professore ordinario di lingua e letteratura latina dell’Università di Bologna della quale è stato Rettore dal 2009 al 2015, eminente studioso di Lucrezio e di Seneca, è Presidente della Pontificia accademia di latinità. Numerosi sono i suoi libri di cultura classica, destinati al grande pubblico; libri nei quali il lettore, grazie anche ad una scrittura ariosa e coinvolgente, volentieri si lascia sedurre dall’invito dell’Autore a riscoprire, sotto la sua guida illuminata, la profondità del legame che (talvolta anche a nostra insaputa) ci avvince ai classici, sia per quanto riguarda gli interrogativi esistenziali fondamentali, le domande “eterne”, sia per quanto riguarda le prospettazioni


Freschi di stampa

Con “Segui il tuo demone” Dionigi si rivolge ai giovani disorientati da un mondo in cui non si sentono rappresentati

86 diverse e rivali della stessa realtà del mondo nel quale viviamo. Nel libro l’intento pedagogico “alto” è dichiarato. Muovendo dai quattro precetti con i quali Cicerone ha riassunto la sostanza dell’intera saggezza classica – “obbedire al tempo”, “seguire il demone”, “conoscere sé stessi”, “non eccedere” –, e dalla spiegazione puntuale del significato di ciascuno di essi, Dionigi si rivolge ai giovani di oggi, disorientati da un mondo nel quale non si sentono rappresentati, che li relega al margine, che rischia di sottrarre loro anche la speranza, e così traduce il precetto ciceroniano (che dà il titolo al libro stesso) di seguire il proprio demone: “il vostro tempo non è domani, è ora; voi che avete il futuro nel sangue, il privilegio di dare del tu al tempo (...) a voi spetta invenire: il diritto di inventare il novum, l’inatteso, il mai sperimentato; ma anche il dovere di dissotterrare il notum dei padri, della storia, della tradizione (...). Impegnatevi in politica. Fatelo con passione e orgoglio non solo per affermare voi stessi; ma fatelo anche per una sorta di pietas verso di noi che non ce l’abbiamo fatta a lasciarvi un mondo migliore”. C’è poi il libro di Marilena Sparapani, “Suo affezionatissimo figlio. Lettere di Alessandro Maggiori al padre (1785-1823)”, Andrea Livi editore; uno spaccato di un particolare segmento della società italiana a cavallo tra Settecento e Ottocento, raffigurata attraverso il corposissimo epistolario (la totalità della corrispondenza, compresa quella fino ad oggi inedita) che il conte Alessandro Maggiori (nato a Fermo nel 1764 e morto a Sant’Elpidio a mare nel 1834) ha indirizzato al padre, dapprima da Bologna,

dove è stato studente universitario di giurisprudenza, e poi via via dalle altre città (tra le quali Firenze, Parma, Pisa, Roma) nelle quali ha soggiornato o vissuto, prima di rientrare definitivamente nella terra natale. È l’epistolario di un letterato, pittore, critico d’arte, collezionista, considerato tra i fondatori della storia dell’arte delle Marche, di poco più anziano dell’altro grande studioso dell’arte marchigiana, il maceratese Amico Ricci. Epistolario dal quale, oltre la cultura, emergono prepotentemente, come sottolinea l’Autrice in premessa, “l’aspetto umano dell’illustre studioso negli anni della sua formazione culturale giovanile (...), una personalità ricca di sensibilità e profonda curiosità di conoscenza, caratteristiche che vanno oltre la semplice erudizione. Un intellettuale testimone del suo tempo, aperto alla cultura e alle novità in ogni ambito”; il tutto accompagnato da una prosa elegante e descrizioni puntuali, in più occasioni impreziosite da disegni. Ecco: una raccolta di disegni di Maggiori – può essere utile ricordarlo (anche se, purtroppo, si tratta solo di una parte della originaria ricca collezione, il restante essendo andato disperso dopo la morte dell’artista) – si trova esposta nel Palazzo Bonafede di Monte San Giusto. Completa il gruppo di libri sparsi sull’ideale scrittoio quello di Carlo Magnani, “L’anima dei borghi. Paesologia delle alte Marche”, edito da Il lavoro editoriale. Il libro racconta un pezzo della nostra Regione – le Marche settentrionali –, soffermandosi sui luoghi, ma anche sulle relative popolazioni, specialmente quelle appartenenti alle zone interne: zone, forse marginali,


Freschi di stampa

ma che, come osserva l’Autore, sono preziosi specchi dove meglio si riflette l’anima dei tempi e quella di ognuno di noi. Il libro, come il sottotitolo evidenzia, vuole essere espressione di una scienza del tutto particolare, prossima, come avverte Magnani, alle scienze storiche e dello spirito. Altri, alla ricerca del rigore definitorio, dirà “l’arte dell’incontrare e raccontare i paesi e i luoghi, percepiti come centri di vita associata immersi nel territorio e nella storia e interpretati fuori da ogni rigido schema disciplinare”. Ma l’Autore si sente più vicino – e ce lo fa capire fin dalle prime pagine – al paesologo che “abita le strette vie dei luoghi storici”, che “sta sulle panchine a parlare ai vecchi del posto o va in giro a osservare i gatti”. Quando queste righe verranno lette, i primi “colloqui” saranno già avvenuti. Ma l’elenco dei libri suscettibili di essere presentati può considerarsi ancora aperto. Come già precisato, l’“evento” è stato pensato come suscettibile di dilatarsi lungo tutto il corso dell’anno, e, dunque, con una serie di appuntamenti “all’ora del tè” non predeterminati. Va aggiunto, piuttosto, che, confermando anche in questa occasione l’attenzione dell’Associazione Le Cento Città per l’Editoria, il piano contempla – a surrogato della “Finestra sull’editoria”, da alcuni anni parte integrante dell’evento “Freschi di stampa” – anche incontri con l’“Editoria di cultura”, sostanzialmente con le stesse modalità (anche di orario e durata) dei “colloqui”. Facendo in modo che ciascun incontro (se ve ne dovesse essere più di uno) possa essere dedicato all’intervista a una coppia di editori, posti a reciproco

87 confronto. Le occasioni non mancano e gli abbinamenti potrebbero essere i più vari e sicuramente tutti interessanti (tanto per esemplificare: Il lavoro editoriale di Ancona e Giometti & Antonello di Macerata; Affinità elettive di Ancona e Quodlibet di Macerata; Andrea Livi editore di Fermo e Metauro di Pesaro; Italic Pequod di Ancona e Liberilibri di Macerata, o qualsiasi altra combinazione). “Editoria di cultura”: sottointeso, “umanistica”. Ma, attenzione: la presente esplicitazione dell’attributo sottointeso non va interpretata come un modo “elegante” per marcare un limite, una gerarchia, alzare una barriera; al contrario, ha lo scopo di professare una contiguità, un piano comune con l’Editoria che, in alternativa, cura prevalentemente opere di carattere scientifico, tecnologico, pedagogico: anche qui, solo per fare velocemente qualche esempio, possono menzionarsi dalla Eum dell’Università di Macerata o dalla stessa Regione Marche, in particolare con la Collana del Consiglio regionale, alla Halley di Matelica per l’informatica, alla Eli di Recanati per la letteratura per l’infanzia, fino ad arrivare alle collane d’arte, di storia, di costume delle varie Fondazioni bancarie. Sicuramente una Editoria, questa seconda, che si svolge in condizioni diverse (anche dal punto di vista dell’assetto finanziario) e con problematiche in buona parte non coincidenti; una Editoria, comunque, parte anch’essa, a pieno titolo, di quel complesso di valori culturali e imprenditoriali della nostra Regione, alla conoscenza e alla promozione dei quali Le Cento Città è per sua natura vocata. ¤

Nel libro della Sparapani la corposa corrispondenza di Maggiori letterato e pittore al padre



L’associazione

89

LE CENTO CITTA’ Associazione per le Marche Fondata nel 1995 “L’Associazione si pone lo scopo di promuovere e coordinare studi ed azioni finalizzati a rafforzare l’identità culturale della Regione Marche e a favorirne lo sviluppo economico e sociale attraverso la conoscenza e la valorizzazione delle realtà esistenti, il recupero e la tutela del passato, la collaborazione tra soggetti pubblici e privati, la partecipazione al dialogo culturale interregionale ed europeo, nonché con le comunità marchigiane all’estero.” (Art.3 dello Statuto)

Presidenti

Giovanni Danieli

(marzo 1995 – dicembre 1996)

Catervo Cangiotti

(gennaio 1996 – dicembre 1997)

Folco Di Santo

(gennaio 1998 – dicembre 1999)

Alberto Berardi

(gennaio 2000 – dicembre 2001)

Evio Hermas Ercoli

(gennaio 2002 – dicembre 2003)

Mario Canti

(gennaio 2004 – luglio 2005)

Enrico Paciaroni

(agosto 2005 – dicembre 2006)

Tullio Tonnini

(gennaio 2007 – dicembre 2007)

Bruno Brandoni

(gennaio 2008 – luglio 2008)

Alberto Pellegrino

(agosto 2008 – luglio 2009)

Walter Scotucci

(agosto 2009 – luglio 2010)

Maria Luisa Polichetti (agosto 2010 – luglio 2011)

Ettore Franca

(agosto 2011 – luglio 2012)

Natale Frega

(agosto 2012 – luglio 2013)

Maurizio Cinelli

(agosto 2013 – luglio 2014)

Giovanni Danieli

(agosto 2014 – luglio 2015)

Luciano Capodaglio

(agosto 2015 – luglio 2016)

Marco Belogi

(agosto 2016 – luglio 2017)

Giorgio Rossi

(agosto 2017 – luglio 2018)

Mara Silvestrini

(agosto 2018 – luglio 2019)

Donatella Menchetti

(agosto 2019 – luglio 2020)

Le Cento Città Direttore responsabile Franco Elisei Direttore editoriale Maurizio Cinelli Comitato editoriale Marco Belogi Fabio Brisighelli Claudio Desideri Giordano Pierlorenzi Claudio Sargenti Mara Silvestrini

Anno XXV

Direzione, redazione amministrazione Associazione Le Cento Città redazionecentocitta@ gmail.com

Progetto grafico Poliarte Accademia di design Ancona Coordinamento progetto grafico e impaginazione Prof. Sergio Giantomassi Stampa Errebi Grafiche Ripesi Falconara M.ma Presidente Le Cento Città Filiberto Bracalente

Sede Via Asiago 12 60124, Ancona Poste Italiane Spa spedizione in abbonamento postale 70% CN AN Reg. del Tribunale di Ancona n.20 del 10/7/1995 Rivista riconosciuta come bene culturale di interesse storico dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali




74|2021


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.