61|2017
Sped. in a.p. - 70% - Filiale di Ancona
Rivista di divulgazione culturale e artistica del territorio marchigiano
ARTE | STORIA | ARCHEOLOGIA | LETTERATURA | SOCIETÀ | MUSICA | SCIENZE
Michele Romano Franco Elisei Luigi Benelli Claudio Sargenti Aldo Grassini Stefano Mascioni Maurizio Cinelli Alberto Pellegrino
“L’ARTE DI FACCHINI”
Le sculture dell’oro e dell’esoterismo
NUMERO 61 | 2017
Giorgio Rossi Marco Belogi Tiziana Mattioli Fabio Brisighelli Claudio Salvi Nicoletta Frapiccini Mara Silvestrini Grazia Calegari Paola Cimarelli
Natale Festività carica di simboli e fede
Belcanto I grandi dell’Opera nelle Marche
Il sisma Il sindaco di Arquata “Non ci arrendiamo”
A PAGINA 7
A PAGINA 13
A PAGINA 27
NUMERO
61|2017 DICEMBRE
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CO. FER. M.
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info@coferm.it www.coferm.it Le Cento Città , n. 56
Editoriale
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L'intensità emotiva di “toccare” il cratere
M di Giorgio Rossi Presidente de Le Cento Città
i volgo indietro e sembra appena passato un attimo; invece siamo già a dicembre, quasi a metà dell’anno sociale 2017/18. E’ certamente ancora presto per fare un approfondito bilancio dell’attività svolta, ma quello che credo di sentire attorno a me è un’atmosfera di serena condivisione che mi conforta e mi sprona a proseguire sulla linea tracciata all’inizio: nessuna frenesia di rinnovamento ma rispetto per il passato e forte determinazione per migliorare, se possibile. Dopo il Convegno di Osimo che, considerato il tema e lo spessore dei relatori, ritengo sia stato molto qualificante per l’Associazione, abbiamo trascorso una domenica interessante e piacevole a Sassoferrato con la visita alla mostra “La Grande Bellezza”, recandoci poi a Cabernardi dove abbiamo visto quanto è rimasto del grande parco minerario chiuso da tempo ma che ancora suggerisce una forte testimonianza di profonde storie umane. La giornata trascorsa tra
Ascoli e Arquata del Tronto ha avuto toni e riscontri fortemente contrastanti, offrendo spunti di commozione indelebili. Una prima parte, arricchita dalle gradite parole del Sindaco Guido Castelli, trascorsa con la guida dei nostri Soci Stefano Papetti tra le meraviglie della Pinacoteca e Nicoletta Frapiccini tra gli interessanti reperti del Museo Archeologico. L’altra parte, immersi nel vivo del “cratere” sismico, con l’immagine agghiacciante di un borgo ridotto ad un enorme cumulo di rovine. Tante immagini avevamo visto tutti su giornali e TV ma, lo dico per chi non ha avuto la ventura di esserci, trovarsi proprio accanto al disastro, toccarlo quasi con mano, vedere il Sindaco Aleandro Petrucci piangere ancora nel ricordare le vittime di Arquata (51), è stato assolutamente sconvolgente e del tutto indescrivibile nella sua intensità emotiva. Come segnale di vicinanza ed affetto, abbiamo consegnato al Sindaco un piccolo contributo in denaro e, a ricordo del
Editoriale
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Emozionanti visite ad Arquata e Cabernardi dove sono custodite intense storie umane del grande parco minerario
nostro passaggio, abbiamo lasciato una targa murale al Centro sociale “Agorà” che ci ha ospitato per il pranzo. La partecipazione è stata veramente ampia e, soprattutto, ha offerto motivo di soddisfazione poter sottolineare la presenza di nuovi Soci
Nella pagina precedente, un'immagine drammatica delle rovine di Arquata del Tronto Dall'alto, un momento della visita alla miniera di Cabernardi e due immagini dei convegni organizzati dalle Cento Città
appena arrivati nella nostra Associazione. Alla fine del mese di novembre, abbiamo avuto il Convegno organizzato presso l’ISTAO (Istituto Adriano Olivetti) di Ancona nel quale i tre relatori, due dei quali nostri Soci, hanno dibattuto con rara competenza e grande passione i vari aspetti dell’interessante tema proposto: “Il design salverà l’impresa”. E’ stato un tassello che aggiungiamo con piacere alla qualificazione nel territorio de “Le Cento Città” che si conferma parte attiva e riconosciuta nel panorama culturale della nostra Regione. Ora, dopo gli adempimenti della consueta Assemblea d’inverno, ci avvieremo a vivere con rinnovata partecipazione gli eventi che la Giunta sta organizzando per il 2018, a cominciare in gennaio dalla visita alla Pinacoteca Civica “Francesco Podesti” di Ancona. Auguri per un Buon Natale e, soprattutto, per un Nuovo Anno sereno e pieno di prosperità, salute, pace per tutti. ¤
Argomenti
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Sommario 7
Natività
La magia del Natale fra tradizioni e fede DI MARCO BELOGI
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Il confronto
Il carteggio natalizio tra Sciascia e Volpini DI TIZIANA MATTIOLI
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I protagonisti
Marche, palcoscenico di musica e belcanto DI FABIO BRISIGHELLI E CLAUDIO SALVI
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Archeologia
Camerino, il passato riemerge dal sisma DI NICOLETTA FRAPICCINI E MARA SILVESTRINI
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L’attribuzione
Il grandioso polittico è di Giuliano da Fano DI GRAZIA CALEGARI
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Sisma
Arquata lotta ancora con cumuli di rovine DI PAOLA CIMARELLI
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Il convegno | 1
Solo la prevenzione può frenare i disastri Il convegno | 2
La cultura del Design passa per le Marche DI MICHELE ROMANO
Argomenti
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Sommario 35
Arte
Il segno di Facchini scultore del gioiello DI FRANCO ELISEI
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Palazzo Ducale
Ecco il museo-azienda la svolta di Aufreiter DI LUIGI BENELLI
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Ancona futura
Uscita dal porto dorico mezzo secolo di progetti DI CLAUDIO SARGENTI
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Non solo arte
Toccare le opere d’arte al museo Omero si può DI ALDO GRASSINI
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Il ruggito del “Leoncino”
Museo Benelli sinfonia di motori DI STEFANO MASCIONI
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Il personaggio
Pannaggi “insolito” fotoreporter dei ghiacci DI MAURIZIO CINELLI
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Sull’onda delle immagini
Reti, barche e vele il fascino del mare DI ALBERTO PELLEGRINO
Natività
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La magia del Natale fra tradizioni e fede FESTIVITÀ CARICA DI SIMBOLI E STORIA SECOLARE
A
di Marco Belogi
Dal Natale del Sole che ricorreva a Roma il 25 dicembre al Natale del Cristo come vero Sole dell’umanità
nche se molte usanze oggi sono cambiate o addirittura scomparse, il Natale ogni anno continua a giungere con la magia delle sue tradizioni che affondano radici in tempi ormai lontani. E’ una festività carica di simboli che ricorre in un periodo particolare: il solstizio d’inverno, considerato nell’antichità come morte e rinascita del sole, manifestazione del Sole Invisibile o Sole Bambino. Era un momento magico per i romani come anche per i greci che lo chiamavano” porta degli dei”, attraverso
cui le anime, abbandonato il corpo, si ricongiungevano con la loro origine celeste. Il Natale del Sole, Natalis Solis Invicti, era dunque una delle feste più importanti nella Roma pagana. Il culto del sole era penetrato nella capitale da molto tempo, grazie all’identificazione di Apollo con Helios ed alla religione mitraica. Sole inteso non in senso naturalistico,
ma come epifania del dio che governa il cosmo. Già nell’antico Egitto, l’autore ignoto dei Misteri egiziani aveva paragonato il sole ad un pilota sulla barca del mondo e nella teologia neoplatonica il Sole era considerato mediatore tra colui che presiede alle essenze intellegibili ed il disco luminoso, che vivifica la terra e dirige il corso alternato delle stagioni. Teologia che si ricollega ad antiche credenze e riti dell’Asia Minore. A Roma la festività del Natale del Sole ricorreva il 25 dicembre, proprio alcuni giorni dopo il solstizio invernale, e si celebrava con giochi e sfarzose cerimonie. Corse di cavalli con carri sfolgoranti che richiamavano il carro luminoso solare. Era stato l’imperatore Aureliano a volerlo. La Chiesa romana, preoccupata dalla straordinaria diffusione di questi riti, pensò di celebrare in quello stesso giorno il Natale del Cristo come vero Sole dell’umanità. Non si trattava di una sovrapposizione infondata perché fin dall’Antico Testamento Cristo viene preannunziato dai profeti come Luce e Sole. A sua volta Giovanni nel Nuovo testamento afferma: In Lui era la vita e la vita era la luce degli uomini…veniva nel mondo la luce vera quella che illumina ogni uomo. (Giov.1,4-5,9) La conferma di tutto questo si trova in un Cronografo, una specie di almanacco, composto nel 354 d.C. da Furio Dionisio Filocalo , in cui viene riportato un frammento di calendario liturgico cristiano in uso a Roma. Alla data del 25 dicembre si legge: natus est Christus in Betleem Iudaeae.
Natività
L’abete considerato simbolo non cristiano in realtà in Egitto e nell’antico Testamento è l’albero della vita
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Nello stesso documento viene riportato anche il calendario civile, che al 25 dicembre annota “N. Invicti” ovvero Natale dell’Invitto. Come in altre del calendario cristiano, anche nelle feste natalizie, dunque, confluiscono molti elementi simbolici e rituali delle religioni cosmiche orientali e romane. Una breve rassegna tra alcuni dei più caratteristici. Al Natale sono consacrate molte piante che variano da epoca ad epoca e da nazione a nazione. E’ il tempo in cui si raccolgono le bacche del lauro e del mirto, che ravvivano il sapore del vino e dell’olio, mentre fiorisce l’elleboro nero, detto rosa di Natale. L’euphorbia pulcherrima, detta anche stella di Natale, mostra le sue foglie superiori rosse come a festeggiare la nascita del Nuovo Sole. Si narra che in Inghilterra il biancospino germogli proprio in questa magica notte, mentre in Sicilia a mezzanotte in punto rifiorisce il
pulegio. I contadini emiliani in questa santa notte usavano bruciare il ginepro nelle case per impedire l’ accesso alle streghe. Una delle tante leggende nate dalla fantasia popolare narra che durante la fuga in Egitto della Santa Famiglia, Maria chiese aiuto a molte piante. Solo il ginepro la salvò riparandola tra i suoi rami. Da qui provengono i suoi benefici effetti verso il morso delle vipere e di altri serpenti velenosi. Ma c’è una pianta che non è mai tramontata nelle usanze natalizie: il vischio. Parassita e sempre verde, la pianta vive sui rami di tanti alberi, specie del pino silvestre, del melo, del pero ed anche della quercia. Ha le foglie carnose, verdi giallastre, bacche bianche perlacee. Si considera di buon augurio. L’usanza di appenderlo sull’uscio o in casa risale ai Celti che lo ritenevano pianta misteriosa inviata dagli dei, poiché senza radici cresceva sul ramo di un’altra pianta, come fosse caduto dal
Natività
cielo. Veniva raccolto da queste popolazioni nella sesta notte dopo il solstizio invernale, chiamata “notte madre”. Tagliato dai loro sacerdoti con una falce d’oro, poi deposto in un bacile sempre d’oro , era esposto alla venerazione dei fedeli. Dotato di molte proprietà curative, lo immergevano nell’acqua che poi distribuivano a chi la richiedeva per guarire. Un’acqua che era anche antidoto contro malefici e sortilegi. Del vischio ne parla anche Virgilio nell’Eneide: virgulto dalle foglie d’oro. Secondo una superstizione popolare, infatti, il rametto di vischio, in certi istanti, splende di un’aureola d’oro. Un’altra pianta natalizia, da non estirpare perché rara, è l’agrifoglio che, come il ginepro, è considerato un amuleto e un portafortuna. Infine l’abete, tra le più caratteristiche del Natale, diventato simbolo della festa stessa . Decorato con lumi e globi colorati, nei nostri giorni spesso sostituisce il presepe. I fautori dell’abete erroneamente sostengono che si tratti di un’usanza non cristiana. In tutte le tradizioni antiche invece l’Albero figura come asse del mondo attraverso il quale l’Eterno si manifesta nel mondo visibile. E’ il puro, il Brahma dicono gli induisti, ciò che noi chiamiamo la Non – Morte. Tutti i mondi riposano in lui. Fin dall’antico Egitto l’abete viene considerato albero della natività in quanto sotto di lui era nato il dio di Biblos, prototipo di Osiride. In Grecia l’abete bianco era sacro ad Artemide, cioè alla Luna, protettrice delle nascite. Nell’Antico testamento è l’albero della vita, piantato al centro dell’Eden. Molti teologi medievali lo identificano con il Cristo. Per il vescovo Ippolito, vissuto nel terzo secolo, è pianta immortale che si innalza al centro del cielo e della terra; è fermo soste-
9 gno dell’Universo, legame cosmico che comprende tutte le molteplicità della natura umana. Per questi motivi, nelle case dove si è consapevoli del suo simbolismo, all’abete si appendono tanti lumi che per i cristiani rappresentano la luce che Cristo dispensa all’umanità, mentre i frutti dorati, i regali e dolciumi sono simboli della vita spirituale e dell’amore che Egli ci offre. Accanto all’abete, viva in tutta Europa fino a qualche decennio fa , era l’usanza del ciocco natalizio, in tedesco Jul e in francese calendau o chalendel. In Italia viene chiamato in vari modi, secondo le regioni. Nell’Italia centrale ceppo o ciocco. Nel portare il ceppo al camino si usava cantare: “si rallegri il ceppo, domani è il giorno del pane”. Il Natale, infatti, è giorno di pane. Lo confermano diversi autori tra cui Plinio il Vecchio. Il pane si è incarnato nella notte di Natale proprio a Betlemme, città che nell’ebraico Bet Lehem significa casa del pane. Fu così che il pane divenne cibo sacro di Natale. In seguito nel Nord fu arricchito con uva passita. E’ per questo motivo che
una volta i fornai lombardi offrivano alla vigilia di Natale un panettone ai loro clienti più affezionati. Sull’origine di questo tipico dolce natalizio circolano molte leggende. Una di queste narra che, alla vigilia di Natale del 1386, i cuochi della corte milanese
Sull’origine del panettone circolano molte leggende una delle quali nata nel 1386 alla corte degli Sforza
Nella pagina di apertura un'immagine dell'origine del Natale A sinistra, un'altra rappresentazione del Sol Invictus Nelle altre pagine, i simboli della festività natalizia
Natività
Anche il gioco della tombola si può far risalire ai Saturnali che si celebravano poco prima del Natale del Sole
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degli Sforza stavano preparando un pranzo per il gran cenone. Nel forno cuoceva un monumentale dolce con cui si sarebbe concluso il banchetto, ma per una errata sorveglianza del cuoco si bruciò. Non c’era tempo per prepararne un altro. Il suo aiutante Toni, giovane sveglio e fantasioso, ebbe una brillante idea. Prese dalla madia un pezzo della pasta messa a lievitare, vi aggiunse i resti dei canditi usati per il ripieno di carni, poi uvetta e varie spezie. Ne ricavò una sorta di focacciona che con pochi minuti di forno caldissimo si rivelò un profumatissimo pane-dolce. Il successo fu tale che lo si battezzò Pan de Toni, nel tempo trasformatosi in panettone. Anche l’usanza delle strenne natalizie affonda le sue radici nel mondo pagano. L’ occasione per i regali erano proprio le feste che chiudevano un ciclo e ne aprivano un altro. Inizialmente le strenne erano costituite da rametti di una pianta propizia (arbor
felix), che staccavano da un boschetto consacrato alla dea sabina, Strenia, apportatrice di fortuna e di felicità. In seguito si chiamarono streniae anche doni di vario genere tra cui monete. La strena è dunque l’antenata, per così dire, dei regali di Natale. Anche il gioco della tombola si può far risalire ai Saturnali, giochi che si celebravano lietamente nella settimana che precedeva il Natale del sole, sotto il regno del mitico dio dell’età dell’oro, Saturno. Feste in cui era permesso anche il gioco d’azzardo, proibito per il resto dell’anno. Qui la fortuna del giocatore non era dovuta al caso ma al volere di quella divinità. Si giocava con la tavoletta, una specie di dama su cui si muovevano minuscole quadriglie d’avorio. Quel gioco non è altro che il ricordo sbiadito dell’attuale tombola che si usa nel giorno di Natale, occasione festosa in cui tutta la famiglia si riunisce intorno alla tavola. ¤
Il confronto
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Il carteggio natalizio tra Sciascia e Volpini DIALOGO TRA DUE PERSONAGGI OPPOSTI MA VICINISSIMI
“A di Tiziana Mattioli
me interessano sempre i marchigiani”. Scrive così Sciascia, nel giorno di Natale 1969. Scrive all’amico Valerio Volpini, con cui è in intenso contatto epistolare ed amicale dalla fine del 1952, volendogli segnalare il suo costante apprezzamento per gli artisti-incisori della terra di Marche (comune passione in questo sodalizio) ma alludendo evidentemente ad un sentimento più vasto, e certamente a quanto intellettualmente ed affettivamente lo legava sin dai trent’anni a questo interlocutore assiduo e lontano, all’insegna di un alto dialogo punteggiato da non comuni vicinanze tra due uomini apparentemente opposti, quanto a ideologia, ma vicinissimi per fermezza morale e impegno civile. Vicinissimi nell’idea del rapporto tra scrittura e realtà (tra scrittura e verità), e predisposti e armati per una responsabilità intellettuale senza dimissioni. Per Sciascia, e per l’amico Valerio, si lavora sempre, anche nel giorno di Natale. Si formulano e si condividono progetti. Ci si chiama, da lontano, per annunciare cose nuove: nuovi libri, nuovo impegno critico. Così, per oltre trent’anni, senza essersi quasi mai fisicamente incontrati, ma anche si potrebbe dire senza essersi mai lasciati dopo il primo contatto, favorito da Mario dell’Arco – il grande poeta romanesco amico di Sciascia – col dono de La Sicilia, il suo cuore, nel novembre del ’52, e nondimeno promosso da una recensione di Volpini al Fiore della poesia romanesca, da cui nacque subito, dal dicembre di quello stesso anno, un
invito di collaborazione alla rivista “Galleria”, che si concretizzò al punto da affidare a Volpini la curatela del numero monografico dedicato a Bernanos (gennaio-aprile 1958), con interludio di alcune recensioni, tra le quali una, davvero toccante, dedicata alle Cronache scolastiche (1955), prima che queste confluissero entro Le parrocchie di Regalpetra (1956): un libro amaro e crudele, per Volpini, rischiosamente spinto entro le arsure della ragione, e dolorosamente e ugualmente recensito dal marchigiano. In questa recensione, recentemente ristampata in “Todomodo - Rivista internazionale di studi sciasciani - Amici di Leonardo Sciascia” assieme al carteggio tra Sciascia e Volpini (71 lettere, più una, citata qui in apertura, ancora inedita: la diciannovesima di Sciascia) sta tutto il segno e il senso di quella che diventerà un’amicizia profonda, irrinunciabile, ovvero la sensibilità di Volpini nel mettere in luce, tra indubbi e a volte anche crudi giochi di intelligenza, come una zona ‘morbida’ di Sciascia: un luogo di tenerezza, di lirismo, di contatto umanissimo con quel “cuore” della Sicilia che Leonardo aveva rappresentato nelle sue splendide e dolorose poesie giovanili. Insomma, questo inalienabile e altamente morale sentimento di pietas: verso gli umili, verso i fanciulli, verso la propria stessa infanzia. Una cifra che si ripeterà, per Volpini, nel tempo, e che egli trova visibile sempre, cogliendo in Sciascia quasi un sentimento religioso dell’esistere, come Sciascia troverà in lui una sorta di laicismo ortodosso, definen-
Il confronto
Amicizia profonda e irrinunciabile che solo esternamente può apparire improbabile e incomprensibile
Nella pagina precedente una dedica di Leonardo Sciascia al suo amico Valerio Volpini Di seguito, la locandina di un incontro sul rapporto tra i due personaggi Sopra, un ritratto di Leonardo Sciascia a Comiso nel 1980 (Foto Leone)
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dolo felicemente “pesce rosso nell’acquasanta”. Un profondo umanesimo, un libero sentimento della fede, a confronto. Questi i caratteri essenziali (e anche esistenziali) entro cui si svolge il carteggio tra Sciascia e Volpini, e questa la radice di un’amicizia che solo esternamente può apparire improbabile o incomprensibile. Poi, certo, entro tale tessitura morale, si possono inseguire tante altre trame: la predilezione (e meditazione) per entrambi del pensiero di Bernanos; il comune amore per l’arte del bulino; le preoccupazioni del tempo e della storia; i molti e distinti progetti di scrittura. Ma questo privilegio dell’umanesimo sciasciano, con intelligenza critica prima ancora che amicale (e senza alcuna cerimonia letteraria, ché nessuno dei due tramava la propria parola sulla menzogna o sull’artificio), non altri, quanto Volpini, ha mai segnalato con altrettanto privilegio, con altrettanta continuità, nel
siciliano. Andando a scavare in una condizione d’origine e in una persistenza che muove sempre da La Sicilia, il suo cuore, per arrivare, ad esempio, sul finire degli anni ’80, a quel racconto “calibrato come un diamante” (è una postilla inedita) ove Volpini sottolinea proprio queste parole: restava in lui un senso di tenerezza, e quasi era diventata pietà. Curioso come in lui, ora, ogni sentimento che era stato di amore o di avversione si mutasse in pietà. E ancora più curioso che la memoria trasfigurasse in bellezza quelle lontane sofferenze e disperazioni. Dalle Marche alla Sicilia, in questo guardarsi da lontano, ma in una geografia dell’anima, Sciascia e Volpini offrono, nelle stanze private delle loro carte epistolari, un modello di intelligenza delle cose del mondo nel segno della pietas e di un umanesimo profondo, senza indulgenze. Un modello cui almeno un poco si vorrebbe somigliare. ¤
I protagonisti
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Marche, palcoscenico di musica e bel canto I GRANDI COMPOSITORI E LE GLORIE DELL’OPERA
L di Fabio Brisighelli
e nostre Marche, una regione “eccentrica” (dicevano gli economisti fino a pochi anni fa, ma per certi aspetti lo è ancora) rispetto ai principali poli di sviluppo nazionali (il noto triangolo industriale del nord-ovest); una superficie territoriale non troppo ampia e una popolazione pressoché stabile nel tempo, di un milione e mezzo all’incirca di abitanti: con lo sviluppo tumultuoso, specie negli anni ’60 / ’70, della piccola impresa manifatturiera di derivazione artigiana e legata all’istituto della mezzadria abbiamo nondimeno dato vita al cosiddetto modello marchigiano di sviluppo, oggetto di attenzione da parte di molti studiosi in Italia e all’estero, anche se a tutt’oggi,
in tempi persistenti di crisi, restano ancora scoperte problematiche di fondo, quali quelle legate ai collegamenti trasversali con la sponda tirrenica. Ma non è di queste pur importanti questioni che dobbiamo occuparci in questa sede. Vogliamo invece sviluppare con dati incontrovertibili una tesi connessa con la civiltà musicale prodottasi e consolidatasi in tre secoli di storia, dal Sette al Novecento, e che pone una regione “piccola” come la nostra all’avanguardia nel Paese per il suo rilevantissimo contributo in termini di grandi protagonisti del teatro d’opera, di compositori e di cantanti aureolati di gloria e di imperitura fama. E per i quali si dovrebbe prospettare una sorta di
I protagonisti
In tre secoli di storia la nostra regione ha visto nascere grandi protagonisti del teatro d’opera
14 sito Unesco quale patrimonio ideale dell’Umanità. La relativa competitività di prim’ordine sarebbe già assicurata dalla “marchigianità” di tre musicisti sommi, in ordine di tempo Giovanni Battista Pergolesi (Jesi 1710 - Pozzuoli di Napoli 1736), Gaspare Spontini (Maiolati, Ancona, 17741851) e Gioachino Rossini (Pesaro 1792 - Passy de Paris 1868). Ma il patrimonio artistico si estende e si arricchisce con le grandi voci del melodramma che hanno avuto i natali sul territorio, e che nelle espressioni più celebri hanno illuminato il secolo scorso sotto il profilo quali-quantitativo in quel repertorio lirico che, come ebbe a dire il poeta Orazio per la “romanità” della satira, è un genere tutto (o quantomeno in gran parte) italiano. Eccone i nomi: Beniamino Gigli (Recanati 1890 - Roma 1957), Sesto Bruscantini (Porto Civitanova, Macerata, 1919-2003), Franco Corelli (Ancona 1921 - Milano 2003), Renata Tebaldi (Pesaro 1922 - Città di San Marino 2004), Anita Cerquetti (Montecosaro, Macerata, 1931 - Perugia 2014). E scusate se è poco! Ma non finisce qui. Perché esiste un’altra appartenenza marchigiana
propaggini ottocentesche. E che vede, come prim’attori vocali incomparabili, i famosi evirati cantori, i castrati. Una breve parentesi a latere: il melodramma barocco e belcantista è ancorato all’estetica della meraviglia, ai timbri rari e variegati, all’edonismo inteso come abbandono soave alla tenerezza patetica, e al virtuosismo capace di agilità mirabolanti, di repentini mutamenti di registro, di trilli e ornamentazioni acutissime; necessari entrambi (l’edonismo e il virtuosismo vocali) ad esprimere un mondo stilizzato e fuori della realtà, com’era quello dell’opera di allora, nell’indeterminatezza e nell’intercambiabilità dei ruoli maschili e femminili. Di quelle bianche voci d’angelo, numerose ne sono state allevate in terra marchigiana: faremo qui in particolare riferimento a tre di esse, ovvero alle ugole di Giovanni Carestini di Filottrano, detto il Cusanino (1704-1760), di Girolamo Crescentini di Urbania (1762-1846) e di Giovanni Battista Velluti di Montolmo (oggi Corridonia: 1780-1861). (Per non parlare di altre due voci di evirati di spicco, quelle di Gaspare Pacchierotti di Fabriano -1740/1821- e di Venanzio Rauzzini di Camerino -1746/1810-). Tutte le glorie del palcoscenico d'opera
di prestigio assoluto attinente a una gloriosa epoca del passato, quella della stagione “belcantistica” (di derivazione barocca) che comincia nel Seicento e che ha il suo apice nel secolo successivo, con talune
Una vita di soli 26 anni! L’arco esistenziale di Giambattista Pergolesi, genio della musica del Settecento, è stato davvero breve. Se ne è andato certo fin troppo presto, ma in musica lasciando di tutto, di più; e il più delle volte con il contrassegno del bello assoluto, nei vari generi toccati: la musica sacra e la commedia sentimentale, l’opera seria e l’opera buffa, quest’ultima derivata nel suo caso dall’originalità unica dei suoi “Intermezzi”, La serva padrona
I protagonisti
in primis, ma anche Livietta e Tracollo. L’aggraziata sua vena melodica impronta di sé non solo l’opera “profana”, ma presta tanto fascino anche alla musica sacra, in cui forme nuove convivono con quelle della tradizione. Basti pensare al celebre Stabat Mater, l’ultima sua composizione, che trasferisce in chi ascolta un senso di “pietas” umana profonda e partecipe nei confronti del dramma della Croce. Dopo la ‘prima’ di Parigi della Serva padrona, si accende la “Querelle des bouffons” tra le opposte fazioni dei sostenitori dell’opera francese (con Rameau in testa) e di quelli dell’opera italiana, a partire dagli enciclopedisti. Quando il 17 marzo 1736 Pergolesi si spense, fu sepolto nella fossa comune della Cattedrale di Pozzuoli. Una sorte analoga di sepoltura anonima toccò più avanti a Mozart (che musicalmente gli deve non poco). Che sia stata “l’invidia degli dei”, pronti sempre a colpire chi troppo
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s’innalza? Gaspare Spontini, grande compositore di passaggio tra Sette e Ottocento (in quel preciso momento musicale di esaltazione eroica che collegava i ricordi dell’antica Roma alle imprese di Napoleone), costituisce con il fiorentino Luigi Cherubini una parentesi interessante nella storia dei musicisti italiani all’estero. Lui fu attivo prima a Parigi (dal 1803), dove ebbe alti onori alla corte di Napoleone e poi di Luigi XVIII; quindi a Berlino (dal 1820), con l’alta responsabilità di Direttore alla Soprintendenza generale della Musica alla corte di Federico Guglielmo III di Prussia (alla cui morte però cadde in disgrazia). A Parigi conobbe la riforma operata in precedenza da Gluck, derivandone la severità dello stile tragico che influenza le sue tre opere di riferimento: La Vestale, Fernando Cortez, L’Olympie. Spontini vi figura con una possente ispirazione drammatica, di spirito pre-
La breve vita di Pergolesi le innovazioni musicali di Spontini e l’illustre Rossini
Nella pagina di apertura l'interno del teatro Rossini di Pesaro A sinistra i compositori Gaspare Spontini (in alto) e Giovanni Battista Pergolesi Qui sopra, una veduta dell'arena Sferisterio di Macerata
I protagonisti
Carestini fu rivale di Farinelli Crescentini incantò Napoleone e Velluti affascinò lo stesso Rossini
16 romantico, unita a grande chiarezza e solidità di struttura, di portato neoclassico; con un’aderenza della musica ai valori psicologici del testo, con la nobiltà espressiva delle melodie. Il suo stile e le sue innovazioni musicali hanno esercitato una notevole influenza sui compositori successivi, come Rossini, Weber e Wagner, nonché su quelli del grand-opéra francese quali Meyerbeer e Auber. Gioachino Rossini: per il nostro (dei tre) più illustre compositore d’opera (comica e seria) valgano soltanto poche considerazioni di fondo, tanto di lui si è scritto e si scrive, tanto più grande è oggi la sua conoscenza propiziata segnatamente da tanti anni di rappresentazioni teatrali al Rossini Opera Festival. Rossini si inserisce da par suo tra il recupero classico ormai
ultimo del tradizionale ‘belcantismo’ nell’opera, eredità del glorioso melodramma barocco, e i fermenti di un Romanticismo ormai alle porte. Caratterialmente lui è di certo un laudator temporis acti, ma aldilà del pur fondamentale ossequio alle modalità di canto della tradizione, con gli adattamenti del caso, Rossini è fortemente innovatore in musica, vero spartiacque tra Sette e Ottocento. In nemmeno un ventennio (grosso modo dal 1810 al 1829) di indefessa, quasi “spensierata” attività teatrale gli esempi di una vis comica esplicantesi attraverso una scrittura musicale di esemplare fluidità e facilità espressiva appartengono ai fasti del melodramma (bastino per tutti Il barbiere di Siviglia e L’Italiana in Algeri): questo concentrato periodo di frenetica e fortunata carriera vede però Rossini non solo alle prese col farsesco e il faceto o col genere semiserio (della Cenerentola o della Gazza ladra); perché coltiva al pari il filone serio, la musa drammatica, specie nei fruttuosi anni napoletani (tra il 1815 e il 1822). E’ un periodo in cui egli può mettere alla prova tale vocazione nell’assoluta libertà compositiva resagli possibile dal suo rapporto con l’impresario Domenico Barbaja. La donna del lago, Maometto II, Mosè in Egitto, Ermione, Otello, tra gli altri: alle prese con questi soggetti drammatici il musicista legato agli ideali del passato si apre, o meglio presagisce con intuizioni inequivocabili la temperatura emotiva della nascente opera ottocentesca, di cui è testimonianza magistrale il superbo suo canto del cigno del Guglielmo Tell.
I protagonisti
Giovanni Carestini, “il Cusanino”, per aver avviato la carriera (nel 1719) con il patrocinio della famiglia milanese Cusani, resta negli annali del ‘belcanto’ come il più celebre e il più dotato dei tre: non fosse per altro, perché a Londra, dove fu attivo negli anni Trenta del Settecento, fu il più accreditato rivale della voce regina del tempo, il mitico Carlo Broschi Farinelli. Ma anche Carestini fu avvolto da un’aura celeste, al punto che il grande Händel lo preferiva all’altro. Fu osannato, oltre che per i trilli e i vocalizzi, per la toccante purezza con cui eseguiva i cantabili, per le sue qualità di attore nonché per il suo aspetto affascinante. Girolamo Crescentini ci riporta a Napoleone Bonaparte, che nonostante fosse proibita in Francia la pratica della castrazione a fini artistici, ebbe modo di apprezzare e proteggere i cantori dalla voce bianca. Nel 1804 alle Tuilleries (come raccontano le cronache del tempo), nel corso dei festeggiamenti per l’avvenuta incoronazione ad imperatore del grande Corso, il Nostro, su suo invito, si esibì nel Giulietta e Romeo del compositore Zingarelli, al cui testo originale Crescentini stesso aveva aggiunto l’aria, di sua composizione, “Ombra adorata aspetta”, ovvero la “Preghiera di Romeo”. Fu tale il sentimento di disperazione e di dolore che seppe esprimere intonandola, da suscitare la più viva commozione da parte di Napoleone e dei membri della Corte. Giovanni Battista Velluti per il tono incantatore della sua voce elegiaca, dolce e educatissima ( ma anche di grande volume e estensione), per l’estro delle improvvisazioni e delle fiorettature, riuscì ad affascinare Gioachino Rossini, che lo definì “Imperatore del dolcissimo canto” e che scrisse per lui la parte di Arsace nell’Aureliano in Palmira,
17 per il debutto alla Scala del 1813 (l’opera, lo ricordo, che nel 1827 tenne a battesimo il Teatro delle Muse di Ancona). Fu peraltro voce prediletta dei maggiori musicisti del tempo, tra cui il grande Meyerbeer, che gli compose Il crociato in Egitto. Le grandi voci del secolo passato Eccole finalmente le glorie a noi vicine del palcoscenico d’opera, che hanno contrassegnato di sé, tutte in posizioni di vertice, il primo e il secondo Novecento. Ve le presento seguendo la data della nascita, che nel nome d’apertura coincide, direi, con la presenza maggiormente significativa. Beniamino Gigli, tenore di Recanati, ha una fama pari a quella del grande poeta, suo concittadino illustre: Giacomo Leopardi. Anzi, a dirla tutta, come “cantore del popolo” (“Ebbe gli onori dei re, ma fu sempre uomo del popolo” - Franco Foschi - ) conosciuto e amato in ogni angolo del mondo dove ci fosse un teatro in cui esibirsi, la sua notorietà è senza confronti. Gigli è da annoverarsi tra i più grandi tenori del secolo scorso, sul gradino più alto di un ideale podio, secondo i suoi sostenitori, o al massimo al secondo posto, dopo Enrico Caruso. Quel che è certo, è che nella lunghissima carriera tra il debutto (Rovigo 1914) e il ritiro dalle scene (Washington 1955, ultima tappa di un lungo giro d’addio) la voce del tenore è sembrata mantenersi, per ineguagliabili doti naturali, pressoché intatta dall’inizio alla fine. Preso il testimone dal mitico Caruso, per tredici anni ,dal 1919 al 1932, “Mister Gigly” ( così lo si sentiva chiamare sul posto) fu il tenore del Metropolitan di New York (sotto l’egida del leggendario sovrintendente Gatti-Casazza), dove potè delibare i frutti più rigogliosi di
A sinistra, Gioachino Rossini Sopra dall'alto, Giovanni Carestini detto "il Cusanino" e Beniamino Gigli in un costume di scena
I protagonisti
18 una materia e di un’organizzazione vocale stupende, misurate su un repertorio operistico che sarebbe arrivato ad inglobare una sessantina di opere. La sua voce, ad ogni rinnovato ascolto, ti riconcilia con le cose belle della vita. Anche solo ascoltando Amarilli di Caccini o La canzone della formica, una filastrocca che gli cantava la mamma, per farlo addormentare. Sesto Bruscantini, baritono di Recanati, è stato uno dei personaggi più straordinari del teatro d’opera nel suo inimitabile repertorio buffo, che ha caratterizzato gran parte della sua carriera. Dopo un positivo debutto nel 1946 nella città natale nel ruolo di Colline (La bohème) e una felice audizione proprio a casa Gigli nello stesso anno, si esibisce già alla Scala nel’49 nel Matrimonio segreto di Cimarosa e due anni dopo al celebre Festival di Glyndebourne quale raffinato interprete mozartiano. Sul versante del comico, è colui che ha sapu-
to fondere mirabilmente una classe vocale ricca di ogni possibile sfumatura nel particolare genere, con le sue agilità di bravura e l’inimitabile sillabazione veloce, l’estensione e al pari l’uso sapiente della mezza voce, la varietà degli accenti e la fantasia del fraseggio, con qualità sceniche di tale immediatezza espressiva da rendergli possibile di tratteggiare un personaggio con un semplice gesto del volto. Restano scolpiti nella memoria, tra gli altri, i suoi Figaro, Dulcamara, Don Pasquale, Don Bartolo e Don Alfonso da antologia. Si impose da par suo anche nel repertorio baritonale più tradizionale (Riccardo dei Puritani e Rodrigo del Don Carlo, Germont, Rigoletto, Simon Boccanegra, Scarpia, Falstaff), sempre con la sua innata musicalità, la perfezione tecnica, la dizione impeccabile. Fu un autentico maestro di canto per tanti giovani colleghi, un riferimento anche per direttori d’orchestra poi diventati
Unesco premia Pesaro Città creativa della musica
U
n traguardo inseguito a lungo, almeno vent’anni. Quell’idea un pò visionaria e ambiziosa di far diventare Pesaro, città della musica, alla fine è diventata realtà. L’Unesco ha finalmente trasformato la candidatura della città di Rossini nel riconoscimento che tutti attendevano con trepidazione da Parigi. Pesaro è così diventata Città creativa della musica ed è ora una delle dieci località sparse nel mondo che possono fregiarsi del titolo conferito dall’organizzazione delle Nazioni Unite. Concordano le istituzioni musicali pesaresi nel definire la nomina a città creativa della musica un grande risultato ma anche
l’opportunità per fare un salto di qualità. Il riconoscimento può diventare l’occasione per l’elaborazione di progetti internazionali, organizzazione di eventi ed occasioni speciali che vedano la musica e la qualità delle proposte al centro dell’offerta culturale della città. In verità questa nomina al momento ha avuto la capacità di catalizzare e riunire tutte le istituzioni musicali attorno a un tavolo come mai era accaduto prima. A patto che si collabori e che ci siano idee. Ma anche i soldi. E già perché il fatto di ricevere un riconoscimento importante come quello dell’Unesco non significa avere finanziamenti particolari. Lo
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famosi. Riccardo Muti ci raccontò che lo era stato per lui. Franco Corelli si presta a un ricordo più diretto e agevole per chi, come chi scrive, ha avuto occasione di frequentarlo ripetute volte in teatro e nella nostra e sua città, Ancona. In uno degli ultimi incontri, nel giugno 2000, ripercorse il suo glorioso passato di artista con una capacità di lettura anche autocritica che sempre peraltro gli ha fatto onore. Il ricordo di lui nelle vesti di prim’attore dell’opera resta e resterà indelebile: per la vibrante bellezza delle note sposata alla prestanza, al “fisico del ruolo” dei personaggi, nell’arco di una carriera iniziata nel 1951 (con Carmen: debutto profetico) e proseguita fino all’ultima recita in Bohème nel 1976 a Torre del Lago. Nello straordinario cursus honorum di quei venticinque anni rifulgono tra le tante presenze nei palcoscenici del mondo quelle alla Scala di Milano (tra il ’60 e il ’64, protagonista di ben cin-
que inaugurazioni consecutive di stagione, nel consueto 7 dicembre) e quelle al Metropolitan di New York, per ben sedici successive stagioni. Sfidano il tempo i suoi Calaf e Manrico, Don José e Don Alvaro, Andrea Chénier, Mario Cavaradossi e Ernani, Poliuto e Raoul de Nangis (dagli Ugonotti): tutti percorsi dallo stesso fremito espressivo e dall’ineguagliabile generosità dell’ugola, dalla luminosa bellezza dell’acuto lanciato ad sidera: ma “serviti” al pari, nei momenti di raccoglimento lirico e intenso, da una duttilità e intensità di mezzevoci frutto di una tecnica sopraffina. Lui, Corelli, il più bel Don José a cui Carmen abbia mai gettato un fiore! Renata Tebaldi, “voce d’angelo”, lungo un arco di vitalità teatrale durato più di trent’anni, dal lontano debutto a Rovigo (23 maggio 1944) al congedo scaligero del maggio 1976 (sempre il 23, curiosa coincidenza!), ha permesso ai melomani di tutte
ha precisato subito anche l’assessore alla bellezza e vicesindaco Daniele Vimini che non ci saranno risorse particolari. Quel che si potrà fare è stabilire dei budget in base ai progetti sempre nell’ottica del network delle città creative della musica. Progetti che attiveranno delle collaborazioni internazionali o con la stessa Bologna che è città della musica dal 2014. La nomina Unesco, comunque,, assieme al non meno importante anche se un po' sottaciuto ingresso di Pesaro nel network Eurocities culture forum dello scorso anno, apre scenari importanti per la città, come attivare di qui ai prossimi due o tre anni sinergie con le altre città del network. Una a caso potrebbe essere Siviglia, dai chiari rimandi rossiniani e la già citata Bologna, altra città rossiniana per eccellenza
che ha appoggiato con convinzione la candidatura pesarese. C’è un altro importante fronte sul quale lavorare per rafforzare il riconoscimento Unesco. Ed è la legge speciale per il 150esimo della morte di Rossini. Una legge che permetterà di organizzare una serie di eventi. Certo 700mila euro non sono i 3,5 milioni annunciati, ma almeno rappresentano una base sulla quale iniziare a lavorare. A questi si aggiunge il milione di euro stanziato per la creazione del Museo rossiniano a Palazzo Montani Antaldi. E poi ci sono i fondi della Regione Marche da destinare alle celebrazioni e la richiesta che recentemente il Conservatorio Rossini ha inviato al Ministero della pubblica Istruzione per una serie di iniziative legate al Centocinquantesimo rossiniano. Claudio Salvi
Tra le grandi voci marchigiane emergono Gigli Bruscantini Corelli, Cerquetti e Tebaldi la “voce d’angelo”
A sinistra un momento del Rossini Opera Festival In alto Renata Tebaldi, qui sopra il logotipo del Rof
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Nella foto una bella immagine del tenore anconetano Franco Corelli
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le età e di tutte le latitudini di abbeverarsi alle fonti più pure del canto lirico, talché viene spontaneo scorrere i momenti vocali preziosi delle sue eroine più note, da Desdemona a Leonora (della Forza del destino), da Tosca ad Aida, da Margherita (del Mefistofele) a Mimì, da Maddalena di Coigny (dell’Andrea Chénier) ad Adriana Lecouvreur, a tante altre: dove cioè alitano con scoperto fascino le caratteristiche dell’interprete straordinaria: la bellezza sontuosa del timbro, la varietà del fraseggio ampio, caldo e sfumato, l’intensità misurata dei contrasti dinamici, la leggerezza dell’emissione e la precisione dell’intonazione, la luminosa morbidezza di un canto che si sprigiona solare e perfettamente legato, fluido ed emozionante, ma sempre controllatissimo. Un’esemplificazione rara della legge belcantistica del piacere
“edonistico” d’ascolto. Ospite d’onore di una serata musicale promossa dal circolo della stampa ad Ancona (nel 1980), raccontò che suo padre le parlava spesso del Teatro delle Muse. Dispiace che Renata non sia riuscita a vederlo. Anita Cerquetti, di Montecosaro, ha rappresentato nel suo periodo di attività lirica breve quanto intensissimo, dal debutto in Aida nel 1951 al prematuro e improvviso ritiro dalle scene nel 1960, dopo uno Stabat Mater rossiniano alla Scala (per motivi di salute e anche personali, come da lei stessa indicato, con profondo dispiacere e rimpianto da parte del pubblico e della critica), l’ultimo vero soprano verdiano di agilità. Il ricordo indelebile della sua splendida voce trascorre da Aida, appunto, ad Amelia (Un ballo in maschera), da Elvira (in Ernani) a Elisabetta (Don Carlo), ad Abigaille (Nabucco), alla Gioconda di Ponchielli. E fu una grande Norma di Bellini: se ne accorse anche il pubblico del Teatro dell’Opera di Roma, quando (nel gennaio del ’58) prese il posto di Maria Callas, che all’improvviso abbandonò il palcoscenico. Giunti alla fine di questo excursus su personaggi del mondo dell’opera così prestigiosi, che nelle Marche hanno avuto i natali, come potremmo concludere? Forse con la celebre sconsolata espressione dantesca, che ripresa nell’Otello di Rossini il gondoliere intona in modo struggente prima della bellissima aria di Desdemona, “Assisa a’ piè d’un salice”: “Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria”. ¤
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Camerino, il passato riemerge dal sisma TORNATI ALLA LUCE ANTICHI INSEDIAMENTI MILLENARI
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di Nicoletta Frapiccini e Mara Silvestrini
onostante al terremoto sia indissolubilmente legata l’idea della distruzione dell’esistente e della cancellazione della memoria, talvolta possono avvenire inaspettati prodigi, che sovvertono la consuetudine e aiutano a far riaffiorare la fiducia nel futuro. E’ accaduto a Camerino, città martoriata nei secoli dagli eventi sismici, tra i quali si ricorda quello violento e disastroso del 1799, che provocò ingenti danni e fu seguito da una ricostruzione che dovette rimodellare il tessuto urbano secondo un nuovo assetto. In epoca ben più recente, il terremoto del 1997 ha danneggiato nuovamente la città e, grazie alla legge del 1998 relativa agli interventi urgenti nelle zone terremotate di Marche e Umbria, si poterono iniziare i lavori di ripristino delle opere infrastrutturali nel centro storico di Camerino, eseguiti sotto la costante sorveglianza della Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche. Le scoperte avvenute hanno consentito di ricostruire alcuni brani dell’evoluzione del tessuto urbano camerinese per un lungo lasso di tempo, che va dalla preistoria a oggi. Come è ben noto infatti, l’altura dove sorge il centro storico cittadino, che domina il territorio circostante, è stata abitata senza soluzione di continuità sino a oggi, creando una stratificazione insediativa che, se da un lato ha fortemente compromesso la piena comprensione delle fasi precedenti, comprova, d’altro canto, la propizia ubicazione del sito. Solo sporadici ritrovamenti sono riferibili all’età preistorica e protostorica,
mentre rinvenimenti archeologici di una certa consistenza attestano una frequentazione più assidua del colle dal V sec. a.C., epoca cui risalgono alcuni frammenti di ceramica attica a figure rosse e resti di alcune strutture. Uno degli interventi più significativi di scavo archeologico ha interessato l’area di Piazza Mazzini, che ha restituito un complesso spaccato delle fasi di vita susseguitesi nel punto più alto della città (670 m s.l.m.). Una prima indagine mise in luce, immediatamente al di sotto del lastricato moderno, strutture appartenenti a due edifici di epoca diversa: un edificio a base quadrata, probabilmente riferibile a età medievale, adiacente e in parte probabilmente intersecante un ampio ambiente quadrangolare, di epoca precedente. Una successiva campagna di scavi permise di scoprire la porzione di un terzo muro, che presentava l’estremità orientale conclusa, forse in corrispondenza di un’apertura dell’ambiente davanti a un’area pavimentata con basoli. Questo tratto di lastricato era fiancheggiato lungo il lato orientale da due basi di colonne allineate, a una delle quali doveva appartenere un rocchio liscio, emerso dalle immediate vicinanze. Il rinvenimento di uno strato di crollo costituito da tegole e coppi al di sopra della zona pavimentata, suggerì che il lastricato era protetto da un portico. I materiali presenti nei due strati sigillati dal crollo attestano che la frequentazione dell’area si protrasse per un lungo periodo, almeno tra l’età tardo repubblicana e la tarda età imperiale. Un
Archeologia
Le scoperte hanno permesso di ricostruire l’evoluzione del tessuto urbano dove sorge l’altura del centro storico
22 quarto setto murario chiudeva la struttura lungo il lato meridionale, legandosi a un ulteriore tratto del muro sudoccidentale. Le indagini effettuate nelle due campagne di scavi all’interno di questo grande ambiente, hanno messo in luce una situazione stratigrafica piuttosto articolata, che lascia intendere come i successivi interventi di età tardo antica, altomedievale e medievale abbiano continuamente ridefinito il tessuto insediativo dell’area, distruggendo la pavimentazione originaria e provocando il rimescolamento della stratigrafia. Contestualmente a numerosi frammenti ceramici di epoche diverse, si rinvennero lacerti di intonaco dipinto (campiti di bianco, rosso e celeste), pochi resti di pavimentazione a mosaico a motivi geometrici in bianco e nero, frammenti di rivestimenti pavimentali perduti, oltre a un elemento in laterizio da colonna. Tali rinvenimenti depongono a favore dell’interpretazione di questa struttura come l’ambiente di una domus, probabilmente affacciato (o affiancato) su un atrio lastricato e coperto, che dovette avere una continuità di vita sino all’epoca tardo antica, come confermano i materiali rinvenuti al di sotto dello strato di crollo della copertura, nella zona lastricata. Ma un ben più complesso tessuto insediativo dell’area è evidenziato da altri materiali recuperati, tra i quali emerse un considerevole nucleo di terrecotte architettoniche frammentarie, presenti anch’esse sin dai livelli superficiali, rinvenuti all’esterno del grande ambiente della domus. Una notevole concentrazione di tali manufatti si trovava nell’area meridionale del saggio, e altri furono portati alla luce entro la struttura quadrangolare, di età altomedievale. I frammenti appartenevano a lastre di
diverse tipologie, realizzate a matrice e a stecca, che conservano ancora tracce dell’originaria policromia: si notano chiaramente pigmenti di colore rosso vivo, rosso bordeaux e giallo, come pure i resti di una base di colore bianco. Le lastre dovevano essere assicurate al supporto ligneo da chiodi, come indica la presenza di fori. L’omogeneità delle caratteristiche dell’impasto rende plausibile l’appartenenza delle terrecotte a uno stesso sistema, mentre un’apprezzabile finezza esecutiva e la varietà dei motivi decorativi, benché solo parzialmente conservati, lasciano intuire il prestigio dell’edificio cui erano destinate. I frammenti realizzati a matrice, con decorazione vegetale, sono riconducibili almeno a quattro differenti tipologie, dove compaiono palmette contrapposte e spirali a doppio avvolgimento; decorazione vegetale, palmette, motivo inferiore ad archetti intrecciati e kyma lesbio di coronamento; decorazione a palmette alternate e rovesciate entro banda continua e coronamento a baccellature; decorazione a palmette alternate e rovesciate entro banda continua, con elemento di raccordo a “s” e coronamento a baccellature. Accanto a questo complesso apparato decorativo erano presenti alcune lastre realizzate a stecca, con la rappresentazione di una figura maschile, forse a cavallo, purtroppo conservata solo in piccola parte, una testa di cavallo ed elementi vegetali (foglie di acanto). Il sistema comprendeva anche antefissa ornate dalla Potnia Theron, attestate da due esemplari di modulo differente, una delle quali ricostruita da sette frammenti a cui sarà da aggiungere anche un ottavo, con la parte inferiore del chitone, dove sono ancora molto evidenti tracce di colore rosso bordeaux. La
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dea è rappresentata stante, con il polos sul capo, il peplo dal lungo apoptygma cinto sotto il seno, mentre afferra due leoncini dalle zampe anteriori, stringendoli a sé all’altezza del busto, di stile arcaizzante. Inedita sembra la posizione delle ali spiegate, probabilmente con le punte arricciate in alto, ma non immediatamente sollevate, secondo uno schema che non trova confronti puntuali nella più consueta iconografia della Potnia, in genere con ali abbassate o volte verso l’alto. Una seconda testa di Potnia Theron, con polos e velo sul capo, di dimensioni leggermente superiori, benché assai deteriorata, sembrerebbe del tutto simile alla precedente e, forse, potrebbe appartenere a una seconda serie. La presenza di antefisse con questo soggetto, in particolare, depone a favore dell’ipotesi che il ciclo di terrecotte qui presentato possa essere riferibile a un edificio di culto da localizzare nelle vicinanze, poiché la rappresentazione della Potnia Theron è frequentemente utilizzata con valore apotropaico nella decorazione di templi ed edifici sacri, nel corso del II sec. a.C., orizzonte cronologico cui paiono ascrivibili i nostri esemplari. Tale struttura doveva dunque essere precedente alla domus: si può forse ipotizzare che tale decorazione sia stata smantellata dall’edificio cui in origine apparteneva e che, in seguito, si sia verificata una significativa trasformazione urbanistica della zona, verosimilmente da porre intorno alla fine del I sec. a.C. - inizi I sec. d.C., epoca in cui quest’area venne evidentemente destinata a uso residenziale. Se l’ipotesi coglie nel segno, l’esistenza di questo luogo di culto costituirebbe a tutt’oggi l’unica testimonianza della monumentalizzazione dell’abitato pre-urbano di Camerinum, segno tangibile del suo
23 ingresso nell’orbita di Roma, che appare ribadito con chiara evidenza dall’adozione di un sistema decorativo per l’apparato ornamentale dell’edificio, pienamente allineato alle più diffuse tipologie dell’epoca. A sua volta questo luogo di culto si era inserito in un contesto preesistente, come documentano chiare tracce di più antiche strutture individuate nell’area. A testimoniare le fasi di vita preromana sul sito appaiono significativi i rinvenimenti occorsi ancora una volta in corrispondenza della struttura altomedievale dove, in uno strato sigillato, sono state individuate alcune buche di palo e due grandi fosse di scarico, contenenti un nu-
cleo di frammenti di ceramica sovraddipinta, ceramica a pasta grigia, e ceramica a vernice nera. L’esemplare più antico è probabilmente un piccolo frammento identificabile come una porzione di askos
La probabile esistenza di un luogo di culto attesta l’ingresso di Camerinum nell’orbita di Roma
A sinistra in alto, frammenti di terrecotte architettoniche realizzate a matrice con i resti di colore (II secolo a.C.) Sotto, basolato con resti delle basi di colonne antistante l'edificio di età romana in piazza Mazzini a Camerino Sopra, antefissa con Potnia Theron in stile arcaizzante (II secolo a.C.)
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di produzione attica, databile intorno alla metà del IV sec. a.C. Tra i frammenti cronologicamente diagnostici appare degno di nota un esemplare di skyphos riconducibile al gruppo Sokra, officina localizzata a Falerii e poco attestata in questa forma, databile nella seconda metà o decenni finali del IV sec. a.C. In associazione a questo frammento, numerose sono le porzioni di skyphoi, databili tra la fine
È possibile identificare almeno quattro fasi insediative nell’area di piazza Mazzini In alto, frammento di ceramica suddipinta (gruppo Sokra) con resti di una figura maschile ammantata volta verso sinistra (seconda metà o decenni finali IV secolo a.C.) Qui sopra, il soprintendente Giuliano De Marinis e la direttrice dello scavo Mara Silvestrini durante un sopralluogo agli scavi archeologici
del IV e l’inizio del III sec. a.C. In conclusione, dal quadro sopra esposto, appare plausibile identificare nell’area di Piazza Mazzini almeno quattro fasi insediative: la più antica risalirebbe all’età ellenistica, databile tra il IV e l’inizio del III sec. a.C., ed è indiziata da depositi ceramici e tracce di strutture quasi completamente smantellate, la cui destinazione non è chiaramente definibile. Questi rinvenimenti sono riferibili a una fase ancora pre-urbana, sinora poco documentata nel centro storico, e denotano l’esistenza di un insediamento di una certa entità, dove la presenza di oggetti di importazione rivela che l’abitato era interessato dalla circola-
zione di merci provenienti sia dagli scali medio-adriatici, sia dall’ambito romano laziale ed etrusco, documentando una vivace e abbiente comunità, insediata non solo sul territorio circostante, ma anche sul colle. Queste tracce, ancorché esigue, paiono offrire una più tangibile consistenza alla Camars che, proprio in quegli anni, stringeva un patto con la stessa Roma. A questa fase sembra essere seguita una prima monumentalizzazione della zona, con la costruzione in quest’area, o nelle sue immediate vicinanze, di un edificio ornato da terrecotte architettoniche, che con ogni probabilità aveva carattere cultuale. Il sistema decorativo, sulla base dell’analisi sopra proposta e dei confronti, sembrerebbe risalire al II sec. a.C., e documenta in questo periodo la presenza di realizzazioni opera di plasticatori pienamente allineati ai modelli urbani, che ha un precedente nelle terrecotte policrome di III sec. a.C. da Borgo San Lorenzo, dove alcuni suppongono si trovasse il foro della città. Intorno alla fine del I sec. a.C. tutta l’area avrebbe subito una significativa trasformazione e una destinazione prevalente a zona residenziale, con la costruzione di grandi domus sontuosamente ornate da pavimentazioni musive e affreschi, la cui vita sarebbe proseguita senza soluzione di continuità fino a epoca tardo-antica. Dopo un breve periodo di abbandono, seguì una nuova sistemazione dell’area in epoca altomedievale e medievale, con una continuità di vita fino all’età attuale. ¤
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Il grandioso polittico è di Giuliano da Fano L’ OPERA MESSA IN SALVO A MONTE SAN PIETRANGELI
D di Grazia Calegari
al 7 ottobre al 12 novembre è stato esposto a Fano, nella pinacoteca San Domenico, il grandioso polittico messo in salvo dalla chiesa di San Francesco a Monte San Pietrangeli, zona tragicamente devastata come tante altre dal terremoto. Grazie alla Fondazione Cassa di Risparmio e alla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio delle Marche che ha l’opera in deposito, è stato possibile ammirare questo polittico imponente, sistemato all’altare maggiore di San Domenico come fosse davvero il punto finale del percorso e del coinvolgimento dei fedeli. Guardavo ammirata ancora una volta San Domenico, edificio religioso restaurato
dalla Fondazione di Fano, non guscio vuoto ma sempre contenitore nel grande spazio di altari, quadri, affreschi: spazio vivo con funzione varia e sociale per la città. E ascoltavo le relazioni degli studiosi e le ipotesi di attribuzione che dovevano rispondere alla domanda “un ‘opera di Giuliano da Fano?” Questo mio contributo non pretende di entrare nella disputa, ma vuol essere una pedina aggiunta all’attribuzione a Giuliano da Fano, ossia Presciutti o Presutti che dir si voglia, perché può essere che alla data 1506 il pittore, attivo nella zona centro meridionale delle Marche, abbia dipinto il polittico in questione, che ha una storia di esecuzione travagliata, ricostruita nel bel
L’attribuzione
Gli scorci degli archi i gradini, i fondali le luci e le ombre hanno una curiosa assonanza con l’Annunciazione pesarese
Nella pagina precedente Polittico di Monte San Pietrangeli Sopra, un'immagine in bianco e nero dell'Annunciazione
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pieghevole edito per l’occasione. Gli estensori Claudio Maggini e Dante Piermattei riferiscono, tra le altre notizie, l’attribuzione a Giuliano da parte di Pietro Zampetti (1953), di Giuseppe Crocetti (1976), di Giuseppe Cucco (1984), di Bonita Cleri (1994). Ho avuto l’occasione di approfondire lo studio di Giuliano soprattutto quando mi sono occupata (La Confraternita e la chiesa dell’Annunziata di Pesaro, Il lavoro editoriale, 2005), della tavola da lui dipinta per la chiesa dell’Annunziata. oggi alla Pinacoteca Vaticana. Dalla lettura del Libro Mastro della Confraternita dell’Annunziata alla data 25 agosto 1524 si leggono sporadiche annotazioni di pagamenti a ‘maestro Giuliano depentore da Fano’dal 1524 fino al 1542, che mi hanno permesso di assegnare al pittore fanese la tavola, con la collaborazione di Timoteo Viti che mi sembrava chiara per motivi stilistici. C’è stata una collaborazione Viti-Presciutti, in particolare è evidente la mano del Viti per l’ideazione generale della tavola e per la scena dell’Annunciazione; di Giuliano per le strutture architettoniche e per la lunetta superiore con l’Eterno benedicente. Ora, pur nella complessità della struttura del polittico di Monte San Pietrangeli, alcuni particolari della parte inferiore potrebbero davvero appartenere a Giuliano alla data 1506 circa, vent’anni prima della tavola pesarese dell’Annunziata. Quegli scorci degli archi che sovrastano i santi Antonio
da Padova e Pietro a sinistra, Francesco e Sebastiano a destra, hanno una curiosa assonanza con scorci dell’Annunciazione pesarese, così come i gradini, i fondali architettonici, il variare di luci e ombre sulle parti interne degli archi. Anche l’impostazione del trono della Vergine, ampio e sicuro nell’aprirsi a gradazioni diverse di luce, presenta bassorilievi dipinti monocromi famigliari a Giuliano, non solo nel tempietto sullo sfondo della tavola di Pesaro, ma anche nell’affresco con lo stesso tema di san Domenico a Cagli. Poi c’è la presenza di quelle nuvolette, a diversa altezza nel cielo azzurro, anche questo elemento precoce che ricomparirà nella tavola dell’Annunziata vent’anni dopo. E infine mi hanno incuriosito le tabelle della stessa forma e prive di scritte, che potrebbero forse essere un segno di riconoscimento. Nella tavola di Monte San Pietrangeli il pittore pone la targa sul gradino sottostante al trono, come fosse di materiale legnoso. In quella dell’Annunziata la targa sovrasta il capo della Vergine, anzi lo sfiora con delicatezza; a Cagli è posta sulla facciata dell’edificio a sinistra, sopra gli archi. Ma non intendo entrare nella disputa tra studiosi e nelle fazioni che si sono create, volevo solo dare un contributo di studio, con lo strazio di chi da lontano può solo dimostrare solidarietà profonda verso gli abitanti di Monte San Pietrangeli, verso quella parte delle Marche ferita e devastata in modo irrimediabile. ¤
Sisma
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Arquata lotta ancora con cumuli di rovine OLTRE 400 MILA TONNELLATE DI MACERIE DA TOGLIERE
S di Paola Cimarelli
Alcune immagini attuali di Arquata del Tronto un anno dopo il disastroso sisma
opra le macerie il tricolore. Sui resti del centro storico di Arquata del Tronto, sulla sommità di quella che, dalla Salaria che scorre a fondovalle, appare come l’emblema della difficile montagna della ricostruzione, è stato issato il simbolo di unità, di identità nazionale. Una bandiera sulla distruzione, sui secoli di storia annullati, nella materia ma non nell’anima, dal terremoto, piantata lì forse dal Genio militare o dai Vigili del fuoco. Un gesto per dire "nessuno di noi si vuole arrendere" alla normalizzazione del post sisma, né gli abitanti, che vogliono tornare fra le loro montagne, né coloro che sono lì per aiutare. “La nostra Arquata prima era un presepe, bellissimo –
ha raccontato il sindaco Aleandro Petrucci durante l’incontro con “Le Cento Città” nella Sala polivalente Agorà di Pretare, ospite di don Nazzareno Gaspari -, adesso il centro storico non esiste più. Non si può andare neanche a piedi. Anzi, quando ci vado, sempre accompagnato, devo dire che ho anche un po’ paura”. Qualche volta, ha aggiunto, “girando non riconosco più le persone. E’ come se il terremoto ci avesse scombussolati tutti, frastornati. Qualcuno, purtroppo, si è lasciato prendere anche dall’avidità e dall’invidia per chi, in apparenza, poteva sembrare che avesse avuto più aiuti. Ma il senso di comunità resta anche se mi chiedo in quanti
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Molte frazioni forse cinque saranno abbattute Per Arquata si spera nella ricostruzione parziale del centro
torneranno a vivere qui”. Le persone “vorrebbero che si ricostruisse tutto dov’era, dove avevano le loro case. Purtroppo, ci rendiamo conto delle difficoltà che dovranno essere affrontate ma non sappiamo ancora cosa verrà ricostruito e, se non nel luogo d’origine, dove. Per la frazione di Pescara del Tronto, ci hanno già detto che non sarà più possibile. Altre frazioni, forse cinque, saranno perimetrate e forse abbattute. Per Arquata, ci battiamo per la ricostruzione specie del centro, anche se magari parziale. Il nostro territorio è ampio, 93 chilometri quadrati dove vivevano 1.250 persone in 13 frazioni, con 80-100 persone ognuna, prima del sisma”. Adesso sono abitati quattro villaggi, sui sette previsti, composti dalle Sae-Soluzioni abitative in emergenza. “Su 205 casette che avevamo chiesto – ha spiegato Petrucci -, ne mancano circa 90 su tre villaggetti. Le Sae ci sono già ma devono essere completati gli allacci,
acqua, luce, gas, e qualche piccola opera di urbanizzazione. Le stiamo già assegnando in modo che le persone possano attivare i contratti per i servizi, così da poter entrare subito nel momento in cui saranno pronte. Questo, purtroppo, non mi risolve il problema per far tornare tutti. Stiamo verificando lo stato delle abitazio-
Marche, recuperati oltre 10 mila beni storico artistici
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area marchigiana è oltre il 50% del cratere colpito dal sisma dell'Italia centrale. Ottantasette i comuni ufficialmente colpiti in tre delle cinque province. Cancellati interi borghi in un'area, quella della dorsale appenninica all'ombra dei monti Sibillini, di millenaria cultura. Che ha le sue radici nella scuola umbro marchigiana e poi nelle grandi botteghe camerti. E proprio la arcidiocesi di Camerino - dopo, quella di Spoleto, la più vasta e ricca d'Italia - è la più ferita, oltre cinquecento chiese, per citare solo questi edifici e non citare, ad esempio, altri
palazzi storici: non poche in macerie, se mai saranno recuperate serviranno decenni, ma l'impresa oggi appare titanica. In totale comunque - secondo i dati del Ministero Beni Culturali, il Mibact - sono poco meno di duemila le chiese storiche con lesioni in tutta la regione, alcune lontane dal cuore del cratere, come il Duomo di Urbino, e 206 i comuni che hanno denunciato danni a beni culturali. Lavorando senza sosta, i carabinieri del nucleo di tutela del Patrimonio Culturale e i vigili del fuoco - sotto la guida della Soprintendenza regionale - hanno recuperato oltre 10 mila
beni storico artistici e archeologici - come tele e sculture - e ancora beni archivistici preziosi e volumi per oltre 2 chilometri e mezzo di biblioteche. 2800 i sopralluoghi effettuati sugli edifici: 219 sono stati messi in sicurezza dal Mibact, 586 da diocesi e comuni. Fino ad ora i tecnici del ministero ha "mappato" le macerie storiche di 52 comuni del cratere, 6800 le ore impiegate per questo lavoro. Che dovrà essere concluso entro fine febbraio del prossimo anno, perché quella è la data in cui - così ha deciso il Governo - terminerà l'emergenza del sisma iniziatesi ad agosto 2016.
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ni, ne abbiamo 40-50 agibili sul territorio comunale dove abbiamo permesso alle famiglie di rientrare. Il problema è che magari alcune case sono agibili in strade in cui però ce ne sono altre andate distrutte. Non sono raggiungibili perché ci sono ancora le macerie”. Dopo un anno dalla prima grande scossa del 24 agosto, c’è amarezza. “Le casette dovevano essere fatte prima. E poi ci sono ancora 400 mila tonnellate di macerie da togliere. Solo dopo si potrà cominciare a parlare di ricostruzione. E questo è quello che dico a tutti quelli che mi chiedono quando si inizierà”. Chi si è trasferito sulla costa o ad Ascoli Piceno, però, rientrerà “solo se ci sarà il lavoro, che adesso manca perché la maggioranza delle attività sono ancora chiuse. Nelle casette, infatti, ci sono più persone anziane. I giovani si adattano a vivere fuori. Ma già con la fabbrica programmata da Diego Della Valle dovrebbero rientrare. Le famiglie, sono sicuro, ritorneranno perché fare 120 chilometri al giorno non è sostenibile. Ma i tempi saranno abbastanza lunghi”. Per la ricostruzione della comunità, oltre alla scuola, realizzata in sei mesi con i fondi dei lettori
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del quotidiano “La Stampa”, “frequentata ora solo da 70 studenti, prima erano un centinaio”, serviranno i negozi. “Hanno riaperto una storica macelleria e una piccola trattoria – ha detto Petrucci -, si sta completando un piccolo centro commerciale a Pescara, perché qui non ci sono spazi pianeggianti, ma è difficile continuare ad andare fino ad Acquasanta Terme, a più di dieci chilometri, per qualsiasi tipo di acquisto, anche solo per un pacco di pasta”. Bisognerà anche rilanciare l’economia, “nei paesi più alti, dove ci sono i boschi, c’è legname, carbone, c’è la raccolta dei funghi e dei tartufi. Molte persone lavorano in Comune e nei servizi, qualcuno ad Ascoli Piceno, facendo il pendolare. C'erano due alberghi, una trattoria. D'inverno avevamo anche i campi da sci da fondo. E poi la presenza degli oriundi, di chi tornava ad Arquata da Roma e dalle altre località, la maggior parte delle nostre 50 vittime di agosto. Ravvivavano la comunità, venivano a trovare i parenti, coltivavano l’orticello, e compravano i prodotti da riportare a casa. Per questo, abbiamo chiesto con forza che la ricostruzione preveda anche le seconde case”. Per far tornare anche loro”. ¤
Il sindaco Petrucci: la città prima era un presepe bellissimo ora il centro storico non esiste più ma non ci arrendiamo
Il Presidente de "Le CentoCittà" Giorgio Rossi con il sindaco di Arquata del Tronto Aleandro Petrucci
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Solo la prevenzione può frenare i disastri IL PUNTO DE LE CENTO CITTÀ SULLE EMERGENZE
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La situazione analizzata dal punto di vista tecnico socio-economico psico-filosofico e informativo
olo nel 2016 si sono verificati 301 eventi disastrosi nel mondo che hanno coinvolto 102 Paesi causando 7.628 morti e danni per 97 bilioni di dollari. E l’Italia occupa un preoccupante quarto posto, dietro gli Stati Uniti, il Giappone e la Cina nell’elenco degli Stati che hanno riportato le maggiori perdite economiche nel periodo 2005-2015. Un quadro spaventoso, emerso nel corso dell’incontro organizzato dall’Associazione “Le Cento Città” sul tema “Emergenze ricorrenti: prevenire per sopravvivere” che si è svolto al “Teatrino” di Palazzo Campana a Osimo subito dopo il saluto del sindaco Simone Pugnaloni. La prevenzione, tema fondamentale per evitare conseguenze catastrofiche, come avvenuto nel recente sisma che ha colpito 87 Comuni solo nelle Marche. “Un tema – ha spiegato il presidente de Le Cento Città, Giorgio Rossi – di rilevante attualità per la nostra regione, considerata la fragilità ambientale del suo territorio, periodicamente tormentato da eventi disastrosi di vario tipo, come frane, esondazioni, alluvioni, terremoti, che danno luogo a emergenze che ricorrono con puntuale frequenza, ma i cui effetti potrebbero essere notevolmente contenuti se si attuasse un’adeguata politica di prevenzione”. In realtà dal 2002 sono stati individuati due tipi di prevenzione: quella strutturale e quella non strutturale, ovvero prevenzione diretta ai beni patrimoniali e prevenzione intesa come informazione alle persone sui comporta-
menti da adottare in caso di calamità. Qui entra in gioco il servizio di Protezione civile istituito nel 1992 e che fa capo alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Come opera? Lo ha spiegato il dirigente della Protezione civile stessa, Roberto Oreficini: interviene nelle fasi di previsione, prevenzione, soccorso e superamento dell’emergenza. Una struttura che si è rivelata di estrema importanza di fronte ai rischi monitorati in Italia, dove l’82 per cento dei Comuni risulta ad elevato rischio idrogeologico e il 48 per cento ad elevata pericolosità sismica. Non solo: il 30 per cento della superficie è esposta a rischio incendi, esistono 11 vulcani attivi o quiescenti e oltre mille impianti industriali catalogati a rischio di incidente rilevante. Un terreno che ”scotta”. “I cambiamenti climatici, ciclici o indotti dall’uomo – ha spiegato il professor Fausto Marincioni docente di Scienze della vita e dell’ambiente all’Università Politecnica delle Marche - sono tra le principali cause dell’aumentata frequenza degli eventi estremi. Tuttavia, in termini di riduzione del rischio disastri, il problema principale risiede nella crescita demografica e nei modelli di sviluppo economico. La maggior concentrazione di persone in zone sismiche, pianure alluvionali e altre aree ad alta pericolosità, aumenta la probabilità di grandi catastrofi”. Nel corso del convegno è emerso che è fondamentalmente errato parlare di “disastri naturali” perché per lo più sono causati dal modo in cui l’uomo ha utilizzato il ter-
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Più che disastri naturali le calamità sono spesso causate dal modo in cui l’uomo utilizza il territorio
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ritorio. “Il disastro spesso lo creiamo noi – ha sottolineato la vicepresidente della giunta regionale Anna Casini – Non sempre l’interesse pubblico va di pari passo con l’interesse speculativo”. Ed appare del tutto improprio affermare che i disastri sono democratici, cioè colpiscono tutti indistintamente. Altri dati eloquenti: nell’ultimo decennio è stata registrata una media annuale di 335 eventi disastrosi a innesco meteo-climatico. Un aumento del 14 per cento rispetto al periodo 1995-2004 e quasi il doppio di quelli del decennio 1985-1994. I danni più diffusi derivano da fenomeni climatici, mentre il maggior numero di vittime è causato da fenomeni geofisici. In questo contesto emerge l’importanza della resilienza, cioè l’abilità di un sistema territoriale di assorbire stress esterni o interni mantenendo le forme o funzioni fondamentali, ovvero la capacità di un sistema territoriale di adattarsi velocemente a un cambio di regime. Alla fine il concetto di rischio si può tradurre nel risultato dell’esposizione di un sistema o di un territorio al pericolo in base alla sua vulnerabilità. E la riduzione del rischio passa attraverso la responsabilità sociale di tutti. Non esclusa la responsabilità
dell’informazione, come ha spiegato Michele Romano, giornalista esperto di economia e di comunicazione nei casi di crisi, che ha illustrato il percorso della notizia, dai tempi di elaborazione a quelli di verifica sempre più stretti, fino a considerare le esigenze pressanti dei new media, evitando il più possibile un corto circuito tra informazione, realtà e rispetto della dignità delle persone. Persone che di fronte a gravi emergenze si trovano spesso a dover gestire la paura. Paura ma soprattutto impotenza, come ha raccontato l’avvocato Corrado Zucconi Galli Fonseca di fronte ai crolli e al “fiume di persone sconvolte e attonite che scendeva dal centro storico” di Camerino dopo la violenta scossa dello scorso anno. Una testimonianza diretta: “La nostra angoscia – ha detto – era aggravata dalla situazione della città: non più un luogo di incontro, chiese e palazzi storici danneggiati e impraticabili”. Ma come bisogna rapportarsi con la natura per metabolizzarne il senso di sgomento? Lo ha spiegato la professoressa Laura Cavasassi, docente di filosofia: “Certamente non seguendo la concezione di Rousseau, secondo la quale la natura è buona di per sé, perché questo atteggiamento risulta ingenuo e anche nel pensiero educativo è stato superato. La natura non è un bene in sé né una norma da seguire e se l’educazione deve essere conforme a un intimo rapporto tra natura e cultura, non lo deve concepire nel senso della imitazione, piuttosto nel senso della alleanza e cooperazione”. ¤
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La cultura del Design passa per le Marche ESPERTI A CONFRONTO: "LA VERA RICCHEZZA DELLA REGIONE"
T di Michele Romano
utti convinti, esperti, imprenditori, professionisti: il design è e sarà il driver dello sviluppo sostenibile e innovativo delle nostre aziende, con un ruolo di riferimento e guida delle comunità e dell’economia. L’assunto lanciato da Giorgio Rossi, presidente dell’associazione Le Cento Città con un confronto su “Il design salverà l’impresa” non solo ha permesso perimetrare quanto le Marche siano un terreno fertile su questo tema, anche sul delicato fronte della formazione di nuove figure professionali, ma di delineare le applicazioni future di quello che comunemente viene ritenuto (con troppa aridità mentale e altrettanta genericità) “un
qualcosa bello da vedersi”. Il design, al contrario, è un lungo processo creativo, di ricerca e di conoscenza, significa avere un pensiero maturo intorno alle cose. Cita il sociologo Domenico De Masi (“Il modello di crescita dell’individuo è costruito su quattro pilastri: meticciato,
saggezza, armonia e contemplazione della bellezza”) e lo storico Carlo Maria Cipolla (“Gli italiani sono abituati, fin dal Medioevo, a produrre, all'ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”), il presidente dell’Istao, Pietro Marcolini, per azzerare uno dei luoghi comuni: “Il disegno non è solo forma – dice –, ma piuttosto un elemento di bellezza rilevante anche di singole componenti di un prodotto”. Una vite, che arricchisce un pezzo d’arredamento, o un tappo, che completa una bottiglia, persino un’oliva ascolana dalla bella forma e ben cotto: sono tutti oggetti di design. Dati alla mano, le Marche vivono una situazione migliore della media nazionale: in fatto di contributo del design al Pil regionale (5,1%), di numero di addetti (48 mila) e di aziende coinvolte (30 mila), di scuole tecniche, accademie e centri di alta formazione (una decina in tutta la regione), che rappresentano un percorso istruttivo del disegno industriale in grado di rispondere in modo appropriato alle nuove sfide progettuali. Significa che esiste un rapporto positivo tra il mondo della progettazione e il sistema delle imprese, che però deve ancora consolidarsi ed espandersi. L’appello, pressante, di Giordano Pierlorenzi, direttore dell’Accademia Poliarte di Ancona, è rivolto agli imprenditori: “Pensate al design come a uno strumento di politica industriale e a un modello sistematico”; quello di Domenico Guzzini, presidente della Fratelli Guzzini, agli studenti: “Mettete voglia, passione, sacrificio, apritevi alle esperienze di lavoro all’estero: al contrario, non andrete da
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Convegno delle Cento Città all’Istao con imprenditori e designer sulle prospettive nel territorio
In alto, la locandina dell'evento Qui sopra, gli interventi del designer Enrico Tonucci e dell'imprenditore Domenico Guzzini
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nessuna parte”. Dire che le Marche rappresentano a pieno titolo la cultura italiana del design, dunque, non significa essere autoreferenziali. Pierlorenzi utilizza un efficace paradosso: “Non è la tecnologia la vera ricchezza della nostra regione ma il design, perché poggia sulla nostra millenaria civiltà artigiana e mezzadrile che non ha uguali nel mondo”. Basta tornare agli Anni ’50 e anche più indietro: da Vittorio Merloni a Valter Scavolini, da don Pigini a Vittorio Livi e Nando Ottavi, da Dolcini a Vangi e Bucci, questi sono alcuni dei pionieri del design e dell’ergometria delle Marche, quelli che per primi hanno intuito l’efficacia di un nuovo linguaggio applicato all’industria, quasi sempre a carattere familiare, investendo sulla cultura sulla ricerca creativa per creare le basi della crescita. Domenico Guzzini, imprenditore di quarta generazione, rappresenta una delle famiglie marchigiane che per prime hanno innescato il processo di innovazione, sui materiali e sulle forme: nel 1912, uno dei bisnonni importò dall’Argentina il know how necessario per lavorare il corno di bue. Nacquero le prime posate di qualità, il seme fertile di un’azienda che oggi produce oggetti in plastica di design per la casa e che, da Recanati, collabora abitualmente con i più grandi designer del mondo, “anche se è difficile lavorare con professionisti esterni se non c’è humus all’interno dell’azienda”. L’esperienza dei Guzzini è il simbolo di un successo che nasce da un’intuizione, che poggia stabilmente sul concetto di “bellezza della forma” e che
risponde a una sola condizione: “I nostri oggetti devono essere funzionali, perché noi non facciamo arte”. C’è una profondità dietro questa affermazione: il cliente non è più considerato come un semplice consumatore, ma piuttosto come una persona. Un percorso che è da sempre anche nelle corde di Enrico Tonucci, imprenditore, designer e filosofo, nel senso di persona saggia e abituata a prendere la vita con distacco ma mai con superficialità. “I mobili che disegno e realizzo sono antiossidanti – racconta – per me devono essere come un amico e molto vicini al nostro modo di vivere”. Questo è anche il Manifesto della sua produzione (“vendiamo pochissimi pezzi”), al quale aderisce tutta la sua famiglia (la figlia Viola è una designer, ndr.) e un gruppo di giovanissimi professionisti, che operano nello studio di Via Passeri, al centro di Pesaro. Parlare di design, insomma, significa soprattutto uscire da tutto ciò che è scontato, invadere altri campi, forse impensabili solo qualche anno fa. Pierlorenzi, ad esempio, lancia cinque macro-aree applicative: l’ergonometria cognitiva, il connecting design, le neuroscienze, la domotica e il digital design e i big data. Un vero e proprio viaggio nel futuro. Marcolini riassume passato, presente e futuro, parlando della “funzione di fertilizzante che ha il design e di effetto diffusorio che ha sul territorio, all’interno del quale crea un circuito attivo e virtuoso”. Tutti convinti, dunque, che il design salverà l’impresa. “Sì – chiosa Tonucci -: purché l'impresa si lasci salvare”. ¤
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Il segno di Facchini scultore del gioiello L’ARTISTA FANESE: “IL MISTERO E’ LA FONTE DA CUI ATTINGO”
L di Franco Elisei
L’inizio creativo è stato come un sogno che mi ha accompagnato per tutta la vita Io avido di bellezza e immagini Bracciale scultoreo in oro con disegno e con diamante Unico esemplare collezione privata - Roma
a sua ultima opera è una scultura in bronzo di tre metri e venti di altezza, tutta patinata in nero, dal titolo emblematico “Riflessione, le memorie invadono”. Può essere la sintesi di un percorso artistico a cavallo tra la forza simbolica del passato e la continua ricerca innovativa, elementi che hanno sempre caratterizzato l’opera di Giorgio Facchini, scultore dell’oro, della bellezza raffinata e della ricerca plastica. “Il gioiello come scultura, la scultura come gioiello” è la sua filosofia. Un’analogia, un chiasmo potente. E la sua forza creativa è insita nell’etimologia stessa del gioiello, ovvero, nella gioia in cui imprigiona i suoi sogni artistici. Quei sogni che hanno sempre accompagnato il suo ingresso nelle stanze variegate dell’arte. “Mi ricordo – racconta Facchini – i miei primi tratti sul foglio quando ero ancora fanciullo. Dovevo sottopormi a un piccolo intervento di appendice e mi misi a disegnare, perché avevo bisogno di stare tranquillo, di sognare. Per me disegnare significava uscire fuori da un mondo che non mi
diceva nulla. Era come scoprire qualcosa. Il mio inizio creativo è stato come l’avvio di un sogno, qualcosa che mi ha accompagnato per tutta la vita”. “Naturalmente– continua – il sogno va alimentato da una grande osservazione, dalla visione. Io sono un grande divoratore di immagini. Ho visto praticamente tutti i musei del mondo. E quando entro in uno spazio espositivo, percorro le stanze a destra e a sinistra, avido di tutto, ma poi mi soffermo su alcune opere per indagare, per appropriarmene, facendo in modo che queste immagini vadano a sublimare le mie idee, a confrontarle, cercando di carpirne il motivo. Insomma, la creazione è un fatto di mente e di pancia, qualcosa all’interno che devi tirar fuori. E’ come l’amore. Quando sei innamorato senti qualcosa di bello ma anche qualcosa che ti preme lo stomaco. Sei in un momento emozionale molto intenso. E’ difficile essere creativi, soprattutto se vuoi esprimere qualcosa di nuovo. Non a caso dai primi del Novecento ad oggi sono sorti quasi 400 movimenti culturali. Tantissimi”.
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Quando Fontana a Milano realizzava i suoi “tagli” Facchini a Fano creava i “gioielli spaziali” Dall'alto, "Camminando nel tempo... la forza dei corpi" scultura in bronzo rame e patinato nero collezione privata; anello scultoreo; bracciale scultoreo "Composizione dello spazio" (1970) collezione privata
Giorgio Facchini nasce a Fano nel 1947. Dai disegni dell’età giovanile passa alle prime conoscenze tecniche, assimilate nello studio dello zio orafo che frequenta nelle ore serali. La sete di conoscenza lo porta a incontrare nella città della Fortuna lo scultore Mannucci, amico di Burri ed esponente di quel gruppo di artisti romani che rinnovarono l’arte italiana nella seconda metà del ‘900. Un incontro determinante per la sua f o r m a z i o n e, completata poi all’Accademia di Venezia. I suoi primi gioielli vengono realizzati con la tecnica dell’osso di seppia e già a vent’anni vince il primo premio in una collettiva a Venezia. La sua prima mostra è alla maison Pierre Cardin nel 1969. Lo stilista lo invita a Parigi per presentare le opere d’oro insieme alla sua collezione autunno/inverno. E’ il periodo dei “gioielli cinetici” che rivoluzionano il concetto dell’ornamento legato al corpo, trasformandolo in pittorico e scultoreo. I gioielli diventano scultura, dipinto, emozioni pulsanti e… si reinventano gioielli. Con preziosi onici, topazi, diamanti. Luce e colori che si adagiano sulla scultura. Un’innovazione modernissima ricercata anche oggi dal collezionismo internazionale. Dal periodo cinetico a quello spaziale: quando Fontana a Milano realizza i suoi “tagli”, Facchini a Fano crea i “gioielli spaziali”, trasformando le sue superfici in spazio dell’infinito. E il “sogno” continua con le composizioni astratte, dove colore e volumi assumono sempre più un ruolo fondamentale. Facchini non si ferma: dal periodo astratto a quello delle forme del corpo. Insomma, una ricerca a tutto campo “per evidenziare simboli, segreti ed emozioni – spiega l’artista - che vanno
al di là del nostro vivere, cercando di capirne i risvolti esistenziali ed emozionali. Un po’ come mettere la chiave nella serratura di una porta chiusa per aprirla e scoprire cosa c’è al di là. Il mistero è stato sempre una delle fonti da cui ho attinto”. Realista e surrealista, concreto e al tempo stesso sognatore, in una simbiosi quasi da ossimoro, Facchini plasma l’oro modellandolo finemente in forme e simboli esoterici. Un altro passaggio importante è l’incontro con l’amico Giancarlo Menotti a Spoleto, al Festival dei Due Mondi. “Devo sempre ringraziarlo per avermi fatto conoscere Spoleto e per l’altissima qualità delle
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Sopra, "Ricordi, immagini di una coscenza attiva" (2017) collezione privata In alto a destra, "Ritorno alla vita" (1995) scultura in ferro brunito e bronzo lucido con l'artista Giorgio Facchini A destra, "La mente nel viaggio" (2006) Scultura in bronzo lucido patinato e ferro brunito
arti che ha portato in questa piccola cittadina umbra”. Menotti lo ricambia con una frase di grande apprezzamento e stima: “Per Facchini – scrive – l’oro è malefico ma nelle mani di un artista come lui, può diventare fragile e delicato come una frase melodica”. Facchini è molto innamorato di Spoleto dove ha una casa-museo con tantissimi ricordi, tantissimi incontri, insieme con l’inseparabile Giusy, sua indimenticata e raffinata consigliera di vita. Ma è anche legato fortemente alle sue Marche dove è stato apprezzato docente dell’Accademia di Belle Arti di Macerata. “Un periodo- racconta ancora - fantastico, circondato da colleghi
37 straordinari in una terra davvero propositiva, dove esistono tante realtà interessanti, dal design all’innovazione e una grande volontà nel lavoro”. Poi l’esperienza a Brera, nella grande Milano dove diventa docente di discipline plastiche insegnando gioielli d’artista e scultura. “Solo parlare di Brera mi emoziona – confida - perché il palazzo dell’Accademia è davvero ricco di altissima cultura. Offre molteplici occasioni di dialogo. Lì si riesce ad abbracciare tutta la storia dell’arte italiana e internazionale. Un apporto visivo ed emotivo straordinario. Ci sono tante realtà che convivono da secoli e il museo di arti visive dovrebbe avere uno spazio per sé, per la grande quantità e qualità di opere d’arte esistenti”. Poi New York, Parigi, Washington, Australia, altri luoghi in cui spazia, assimila, ridisegna e ripropone le sue opere,. Nel 1971 Giorgio Facchini vince il primo premio con la scultura cinetica “Movimento dell’Universo” alla VI Biennale d’arte del Metallo di Gubbio e l’anno successivo espone a Melbourne. E si avvia subito verso progetti innovativi, provando a dare segno, forma e idea che possano lasciare una traccia. Un bisogno irrefrenabile di spaziare verso altri orizzonti, come la recente scultura in bronzo appena realizzata. Segno e idee mutano, si rinnovano, ma le sue opere giovanili sono ancora molto apprezzate. Proprio in questi giorni sono battute all’asta da Sotheby’s, creazioni del 1969, particolarmente ricercate da collezionisti americani.
Dall’Accademia di Belle Arti di Macerata a Brera Da Parigi con Pierre Cardin a Spoleto poi a New York e in Australia
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Dai “gioielli cinetici” allo spazialismo rivoluziona il concetto dell'ornamento trasformandolo in pittorico e scultoreo
In alto da sinistra "Costruzione luminosa in uno spazio visivo" (premio Biennale Gubbio 1969) scultura in ferro verniciato a fuoco con acciaio; "Un ordine nel passaggio di figure" (2005), grande bracciale scultoreo; "Ricordi, immagini, corpi di una coscienza attiva" (2016) collezione privata; A fianco, Giorgio Facchini nel suo studio
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“Il mio – continua l’artista nel suo racconto - è un percorso bello, seppur difficile. La felicità per me è un momento molto creativo. Purtroppo, trascorso questo stato d’animo, si torna a tutte le problematiche dell’umanità. Si torna a essere un uomo normale come tutti. La creatività è qualcosa di misterioso, che ti unisce allo spazio. E’ qualcosa che esce dal sangue e si traduce in solido, sperando che possa diventare
tale per l’eternità. Ma se un solido non riesce a raccontare tutta la grandezza dello spazio dell’umanità, è destinato a diventare decorativo, pura decorazione. L’arte non è decorazione, la bellezza dell’arte è arrivare a imprimerle una
forza nei secoli a divenire, in modo che possa raccontare le debolezze, gli amori, le sensazioni, la visione di un periodo che potrebbe essere vivo anche dopo centinaia e centinaia di anni. La cosa più bella? Far diventare eterno un tuo pensiero, in modo che tu possa vivere per sempre. Noi siamo e in un secondo non siamo. Ci siamo e non ci siamo. Ma fintanto che ci siamo, dobbiamo riuscire a tramandare questo messaggio di esistenza, non di morte. Ecco sì, di esistenza eterna. La mia opera vuole poter esistere per sempre, ma non in senso materiale, piuttosto per raccontare in futuro la visione di questo momento. Sempre accompagnata dalla bellezza, perché per me – spiega ancora Facchini – l’arte deve essere bellezza, l’arte deve dare una testimonianza di gioia, carica di equilibrio, di sapienza, di armonia che raccolga, come in una centrifuga, tutte le immagini viste e rivisitate, per creare, fors’anche con grande superbia, qualcosa di nuovo. Con la propria sensibilità. Per me la bellezza è molto importante. Mi emoziona. La bellezza e l’amore ridanno un senso alla vita. E si torna combattenti”. ¤
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Ecco il museo-azienda la svolta di Aufreiter NUOVE STRATEGIE: IL PASSAPAROLA VINCE SU INTERNET
N di Luigi Benelli
La comunicazione che non ti aspetti: oltre il 44 per cento dei visitatori arriva per tamtam I social non incidono
ell’era di internet e del digitale. Eppure il museo si comunica col passaparola. E’ il metodo più efficace per drenare visitatori, come sostiene il direttore della Galleria Nazionale delle Marche Peter Aufreiter. La riforma delle autonomie voluta dal ministro Franceschini è fatto compiuto, ma il museo-azienda di Palazzo Ducale di Urbino prende forma a piccoli passi. “Dobbiamo cambiare il concetto di luogo sacro, intoccabile – spiega Aufreiter – il museo è un luogo aperto, da vivere in tante occasioni. Deve essere il centro della cultura per i bambini ma anche per i pensionati, studiosi e appassionati d’arte”. E in questo contesto la comunicazione di Palazzo Ducale diventa strategica. Tanto da studiare anche i visitatori: il 66% entra a palazzo con il partner o la famiglia, il 25% con amici, il 7% da solo. Quanto ai turisti, il 66% sono italiani mentre il restante 34% stranieri. Ma il dato da migliorare è il fatto che il 63% di turisti a Urbino non visita il palazzo ducale. “Il vero indice è che oltre il 44% viene per passaparola, un 30%
circa per formazione culturale e solamente il 2% per la pubblicità sui giornali. Quanto ai social, non incidono tanto sull’aumento delle visite”. Aufreiter ha analizzato questi dati da manager. “Il potenziale da intercettare riguarda i turisti estivi della riviera. L’esempio concreto è che a luglio ci sono stati 18 mila visitatori, ad agosto 32 mila. Il motivo? In luglio si sono riversati sulla costa soprattutto stranieri, che non conoscono abbastanza palazzo ducale e quindi non vengono. Ad agosto tanti italiani che sanno cosa è Urbino. E gli alberghi erano pieni in entrambi i mesi”. E dunque la comunicazione deve seguire queste regole, lontane dal digitale e dai social, ma più spicciole. “Ho comprato degli spazi pubblicitari su volantini e totem della Romagna per arrivare ai turisti presenti negli alberghi, campeggi, bed & breakfast. Un investimento da 15 mila euro che ha dato dei risultati importanti. Siamo stati gli unici a pubblicizzarsi in Romagna, ma il ritorno è stato utile”. Del resto in una recente visita al Mibact, i venti manager dei
Palazzo Ducale
Urbino nel 2020 diventerà protagonista con una grande mostra evento sul divin pittore Raffaello
Nella pagina precedente, il cortile della Galleria Nazionale delle Marche a Urbino Sopra, una veduta del palazzo Ducale A destra, il direttore Peter Aufreiter Nella pagina a fianco l'artista Enzo Cucchi e una delle sue opere grafiche in mostra alla Mole Vanvitelliana di Ancona
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musei autonomi hanno portato i loro dati. E Urbino segna un -16,2% di visitatori. Ma Aufreter precisa. “Mancano le scuole in primavera per l’effetto del terremoto. Ma parliamo di tutti gratuiti, dunque se andiamo a vedere gli incassi sono gli stessi degli anni scorsi significa che abbiamo lavorato bene”. I visitatori sono stati 199.236 nel 2016, contro i 191.829 del 2015. Gli introiti sono stati 598.482 euro contro i 427.651 dell’anno precedente. “Nel 2017 avremo 600 mila euro di introiti, dunque una conferma”. Il sito internet e i social diffondono immagini e comunicazioni di eventi, ma “non ci portano visitatori da fuori. Semmai ci aiutano per quanti sono già sul territorio”. Per fare il passo avanti, occorre portare i turisti stranieri e Aufreiter è sicuro di chi sono le competenze. “La Regione deve fare un passo avanti su questo aspetto. Serve una comunicazione istituzionale delle Marche. Avremo un triennio dedicato
agli anniversari di Leonardo, Raffaello e Dante Alighieri. E qui bisogna fare uno sforzo comunicativo perché tutto il mondo verrà in Italia e dobbiamo entrare nel circuito delle visite”. Urbino sarà protagonista con l’evento Raffaello 2020. “Noi proporremo una
mostra sul divin pittore. Ho già iniziato a tessere i rapporti coi grandi musei per i prestiti. È probabile che da qui in avanti qualche capolavoro di palazzo ducale ci lascerà per qualche mostra, ma ci servirà per organizzare l’evento a fine 2019. Partiremo qualche mese prima in modo da evitare la
Palazzo Ducale
concorrenza dei musei delle grandi città. Ma questo sarà un anno zero, ci aspettiamo un grande aumento di visitatori e se la campagna di comunicazione sarà adeguata, i tuor operator inseriranno Urbino come città di Raffaello, avremo una spinta anche per tutti gli anni a venire”. Aufreiter conosce il meccanismo, era dirigente al Belvedere di Vienna nell’anno dell’anniversario di Klimt. “Aumentammo le visite da 600 mila a 1 milione durante l’anno della mostra. Ma poi non sono calate perché si è creata un’atmosfera, il pubblico ha capito il contesto. Ed è quello che vogliamo fare a Urbino, che resta sempre la città di Raffaello”. L’aeroporto delle Marche attraversa un momento difficile, eppure il direttore minimizza. “Il Marconi di Bologna è alla stessa distanza, ma soprattutto chi viene a Urbino è per un turismo slow. Non serve neppure il treno da Fano, i bus e le auto bastano per vendere il Rinascimento urbinate”. Un percorso di visita che sarà presto stravolto. “Abbiamo ottenuto 1 milione di euro a piano per cambiare l’allestimento. Il progetto è definitivo e andremo a gara affinchè tutto sia pronto prima dell’estate. Dobbiamo comunicare Urbino senza compromessi, spiegare Raffaello, i Montefeltro e il contesto. Sarà una rivoluzione”. Il palazzo dunque evolve, vive. L’inaugurazione dello spazio K dedicato all’arte contemporanea sta funzionando, così come gli eventi collaterali. “Abbiamo avuto 5 matrimoni quest’anno, un paio di stranieri. Il giorno più bello della vita lo si può festeggiare nel palazzo più bello delle Marche. Ma questo vale anche per le feste di laurea che con 18 euro a partecipante garantisce l’aperitivo, convegni e incontri. Abbiamo creato un dipartimento eventi che segue queste situazioni”.. ¤
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In viaggio per mostre nelle Marche Loreto. La mostra “L’arte che salva. Immagini della predicazione tra Quattrocento e Settecento. Crivelli, Lotto, Guercino”, a cura di Francesca Coltrinari e Giuseppe Capriotti dell'Università di Macerata, finalizzata alla valorizzazione e alla tutela del patrimonio artistico e culturale dei luoghi colpiti dal sisma ed al rilancio dal punto di vista turistico ed economico degli stessi. Museo - Antico Tesoro della Santa Casa di Loreto, Palazzo Apostolico fino all’8 aprile 2018 Ancona. Enzo Cucchi: 50 anni di grafica d'artista in una mostra "Il Comune di Ancona e il museo Max di Chiasso producono la grande mostra Enzo Cucchi "Cinquant'anni di grafica d'artista" che raccoglie appunto la sua vasta produzione nel campo della grafica. La mostra è alla Mole Vanvitelliana, dove resterà aperta fino al 7 gennaio. Enzo Cucchi: 50 anni di grafica d'artista in una mostra "L'esposizione seguirà questi orari: martedì-venerdì: 16-19, sabato e domenica: 10-19“ Sassoferrato. La Devota Bellezza – Il Sassoferrato con i disegni della Collezione Reale Britannica a Palazzo Scalzi dal 17 giugno al 7 gennaio 2018, a cura di François Macé de Lépinay, Artiste allo specchio, autoritratti fotografici. Trecastelli Museo Nori De' Nobili Ripe. Fino al 7 gennaio. . ¤
Aufreiter: Il percorso di visita presto stravolto Abbiamo le risorse per cambiare l’allestimento Sarà rivoluzione
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Uscita dal porto dorico mezzo secolo di progetti PRIMA IPOTESI A NORD, POI A SUD E INFINE A NORD OVEST
L’ di Claudio Sargenti
impegno del Ministro delle Infrastrutture; l’opera inserita tra le priorità dall’Anas; la visita più volte, ad Ancona, di Delrio, l’ultima a metà ottobre, per firmare un protocollo d’intesa per l’avvio di lavori per un valore complessivo di oltre 40 milioni di euro (e così la città potrà finalmente dotarsi, ad esempio, di un lungomare degno di questo nome), lavori in qualche modo propedeutici al collegamento tra il porto e la grande viabilità. Ma di questa agognata strada ancora non c’è traccia concreta. Per questo proponiamo una ricostruzione, la più sintetica possibile, di un’opera che Ancona insegue e attende ormai da quasi mezzo secolo. Prima a Nord, poi a Sud, quindi a Ovest e infine a Nord-Ovest: praticamente, sono stati esplorati tutti i punti cardinali possibili (l’Est era escluso a priori, c’è il mare) per realizzare una strada indispensabile per rompere l’isolamento del porto e collegarlo ai grandi corridoi di traffico nazionale ed europei. Perché quei promontori naturali (i colli del Guasco, Astagno, lo stesso Monte Conero) che proteggono il “gomito” di Ancona e che hanno favorito l’insediamento dei Greci (o forse dei Siracusani) e la creazione di un approdo sicuro, sono diventati un ostacolo quasi insormontabile per lo sviluppo dei traffici in banchina. Insomma abbiamo voluto ricostruire una vicenda che può sembrare paradossale, ma che paradossale non è. Che non ha un colore politico perché negli anni ha finito per coinvolgere tutta la classe amministrativa che si è succeduta alla guida della città.
In buona sostanza, è solo un racconto sul filo dei ricordi per recuperare la memoria storica dei fatti. Nella consapevolezza che senza memoria non c’è futuro. Progetto sul filo della memoria Che quell’insenatura naturale quel “gomito” compreso tra il Guasco e l’Astagno, fosse un approdo sicuro lo compresero i primi colonizzatori di Ancona già molti secoli prima di Cristo. Secondo Plinio, ad esempio, sarebbero stati i Siculi il popolo fondatore del primo nucleo abitativo; per altri sarebbero stati i Siracusani se non addirittura colonizzatori provenienti direttamente dalla Grecia o dal Piceno. Se le origini sono incerte, resta indiscusso, invece, il legame costituitosi tra la città e il suo porto, un vincolo che caratterizza Ancona anche ai giorni nostri. I Colli Guasco e Astagno, dicevamo, due contrafforti naturali e poi il rilievo del Conero a proteggere il “gomito”. E saranno proprio quei contrafforti, ai quali saranno aggiunti nel corso dei secoli una doppia cinta di mura e una serie di bastioni lungo l’arco costiero, a fare di Ancona nel Basso Medioevo uno dei Comuni più potenti dell’Adriatico. Colli, contrafforti, cinte murarie, bastioni saranno sostanzialmente le caratteristiche della città e del suo porto, almeno fino alla ricostruzione del secondo dopoguerra. Dopo vari studi e progetti, toccherà all’ingegner Guido Ferro, Rettore dell’Università di Padova; presentare un piano portuale organico di amplia-
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Tracciato ora prioritario il ministro Delrio ha firmato un protocollo d’intesa di avvio dei lavori per oltre 40 milioni
Sopra, un particolare del progetto di Jacopo Fontana con corridoio e piattaforma Sotto, un particolare della ricostruzione pittorica di Tornaghi e Giuliodori del porto all'epoca di Traiano
44 mento per una sistemazione definitiva. Si era nel secolo scorso, a metà degli anni Sessanta. Il piano prevedeva uno “sviluppo armonico della rete ferroviaria e stradale con il vigente Piano Regolatore” della città. In sostanza, si prefigurava ancora un collegamento a Nord e una sempre più stretta integrazione con Falconara. Ma è con il nuovo Piano Regolatore che si inizia a elaborare nel 1973, che si arriva a quella che doveva essere una svolta per la città. Tralasciando tutto il dibattito politico, anche acceso, che sempre, inevitabilmente, accompagna la stesura di uno strumento urbanistico così impegnativo, gli amministratori dell’epoca scelsero per lo sviluppo il Sud di Ancona. Significava, in definitiva, abbandonare l’edificazione della costa verso Torrette, Palombina e Falconara (una scelta che si dimostrerà azzeccata alla luce della grande frana che inghiottì tre quartieri nel dicembre dell’82) per realizzare nuovi spazi abitativi e produttivi verso la decentrata Baraccola. Ma come arrivarci dal porto? Mentre la Confartigianato spingeva con forza ancora nel 1976 per una soluzione, un’uscita, a Nord, le previsioni del Prg parlavano di un “asse attrezzato” per raggiungere il Sud della città, i nuovi insediamenti e la grande viabilità. Asse attrezzato da non confondere, tuttavia, con l’attuale “asse nord-sud”, completato ormai da diversi anni. Ma dove sta la differenza? L’asse nord-sud è una strada di grande scorrimento, ma cittadina; serve, cioè, per collegare i nuovi quartieri nati nel frattempo, con ingressi, possibili innesti, fino a prevedere anche sottopassi e piazzole per la fermata di bus urbani, ma, soprattutto, con dislivelli da superare poco compatibili con i mezzi pesanti. L’asse attrezzato doveva essere invece, una strada di collegamento diretto tra le banchi-
ne del porto e le aree interne (all’epoca si parlava, a questo proposito, di “porto interno”) della Baraccola. In pratica, secondo le previsioni, le navi, per velocizzare le operazioni, avrebbero dovuto sostare nello scalo solo il tempo necessario per lo scarico (o il carico) delle merci che su tir e container venivano portate al “porto interno” situato alla Baraccola, lì smistate e poi su treno e autostrada spedite a destinazione. Una strada, un asse protetto, “attrezzato” appunto, come unica via di collegamento tra il porto e la rete stradale extraurbana a cui si ricongiunge in corrispondenza del casello Sud dell’Autostrada A/14. I cronisti dell’epoca lo definirono, semplificando molto, “il prolungamento ideale delle banchine”. E ricordiamo, ad onore di cronaca, che attorno al nuovo Prg (progettisti in prima battuta gli urbanisti Romeo Ballardini, Giuseppe Campos Venuti e Giovanni Zani) si coagulò una nuova maggioranza politica, decisamente anomala per quei tempi con il repubblicano Guido Monina sindaco; Giancarlo Mascino, socialista, assessore all’Urbanistica; Massimo Pacetti, comunista, vicesindaco. Ma la vicenda “uscita dal porto” era tutt’altro che conclusa. Anzi. Si scatenò un dibattito molto vivace che si è spento, almeno in parte, solo di recente. Troppo costoso, si disse all’epoca, l’asse attrezzato e con grande impatto ambientale, visto che avrebbe dovuto attraversare, in sopraelevata, diversi quartieri della città e per giunta densamente abitati. E poi, negli anni, per venire incontro alle sempre più pressanti esigenze dello scalo, venivano via via realizzate nuove banchine, una nuova darsena, fatti nuovi interramenti, razionalizzati gli spazi esistenti. Perché il porto, nel corso degli anni, si è sviluppato in maniera esponenziale (oltre un milione i passeggeri
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che vi transitano con decine di migliaia di auto al seguito; più di 140 mila i tir e i trailer imbarcati e/o sbarcati). Insomma non serviva più un “porto interno”, ma una strada veloce che collegasse Ancona con i grandi assi viari nazionali. Dunque quella strada resta assolutamente necessaria. Lo afferma, senza mezzi termini, Ermanno Santini a nome della Fita-Cna nel 1987 in un convegno promosso dalla Regione Marche insieme a Comune, Provincia e Camera di Commercio di Ancona (“Ancona nel sistema medio Adriatico”, il tema dell’incontro) “… ci sembra necessario ribadire che il porto ha innanzitutto bisogno della realizzazione dell’ormai famoso Asse Attrezzato per il quale non si riesce francamente a capirne gli ulteriori ritardi… tanto più che su quest’opera non esistono vincoli di sorta”. Parole dette trenta anni fa. Da allora, la globalizzazione è diventata la cifra del nostro tempo, si sono sviluppate le autostrade telematiche, Ancona si è aperta finalmente verso l’Oriente, il mare da frontiera è diventato un luogo di pace e di confronto con i vicini Paesi dei Balcani; i traffici dello scalo, come dicevamo, sono esplosi; il porto ormai è Sede dell’Autorità di Sistema del Medio Adriatico. E il collegamento con la grande viabilità? Ancora non c’è. Dell’asse è stato realizzato solo un bypass (meno di una manciata di chilometri) che è servito, tuttavia, a salvare il centro dai “bisonti” della strada, scavalcando la ferrovia e riversando, però, tutto il peso del traffico (e dell’inquinamento) proprio a Torrette.Intanto, nel 2000 si ritorna a puntare a Nord grazie ad un progetto redatto per una tesi di laurea e presentato all’allora sindaco della città, Renato Galeazzi. Pochi anni dopo, nel 2003 l’ennesima svolta: esclusa l’uscita a Nord; abbandonata quella a Sud si
45 incomincia a ragionare e progettare per quella a Ovest. Utilizzando il “project financing” (ovvero la finanza di progetto, una formula già sperimentata per la Quadrilatero di Marche e Umbria) l’Anas elabora un proprio tracciato (6,4 chilometri di strada, molti dei quali in galleria all’interno dell’area in frana, con pedaggio da pagare) con una gara che si chiude dieci anni fa con la scelta di affidare a un colosso delle costruzioni (Impregilo) la realizzazione dell’opera per un importo totale di quasi 500 milioni di euro, ma a costo zero per le casse pubbliche e la previsione di concludere i lavori nel 2020. A dicembre dell’anno scorso, però, l’ennesima doccia fredda: Impregilo rivede il prezzo al rialzo per realizzare l’opera; il ministero delle Infrastrutture chiude la stagione del “project financing”; l’uscita dal porto si blocca di nuovo. Ma, questa volta resta aperto uno spiraglio consistente. Quel corridoio, quella strada diventa una priorità per il Governo e lo stesso Ministro la fa inserire nel piano strategico dell’Anas che si mette subito all’opera per preparare un nuovo progetto e disegnare un nuovo tracciato. Lo stesso Delrio viene più volte ad Ancona (è cronaca degli ultimi mesi) non solo per ribadire la necessità, ma anche la volontà e l’urgenza dell’opera. Sottoscrive poi con gli amministratori regionali e locali un protocollo d’intesa per una serie di lavori attesi da anni dalla città di Ancona e che, in qualche modo, sono propedeutici all’agognato collegamento. L’Anas, così, procede con il progetto esecutivo per il raddoppio della variante alla Strada Statale 16 tra Falconara e lo svincolo di Torrette; Delrio, invece, mette nero su bianco la volontà di RFI (Rete Ferroviaria Italiana) di realizzare una nuova scogliera a nord della città proprio fino a Tor-
Indispensabile rompere l'isolamento dello scalo di Ancona per collegarlo ai grandi corridoi internazionali
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Giampieri, presidente dell'Autorità portuale: “Opera indispensabile anche per rispetto del quartiere Torrette che sopporta migliaia di veicoli in transito”
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rette, necessaria per velocizzare la linea ferroviaria, ma anche per realizzare una nuova uscita dal porto turistico e, soprattutto, per allargare l’attuale tratto della Statale 16 e renderlo pienamente fruibile a quattro corsie. Quaranta milioni, forse di più il valore delle opere; inizio dei lavori previsto nel 2019. Manca, è vero, ancora il collegamento (un “pennello” rivolto verso Nord-Ovest) tra la variante e la vecchia Statale Adriatica. Ma questa è un’altra storia. Per Giampieri ultimo miglio importante
Sopra, il presidente dell'Autorità di Sistema Portuale Rodolfo Giampieri
“Le reti telematiche sono certamente di grande supporto per tutto quello che riguarda la logistica. Servono, ad esempio, per rendere più efficienti e più rapide le operazioni doganali. Il porto di Ancona è in grado di sdoganare, già adesso se fosse necessario, in mare una nave, prima ancora dell’attracco in banchina. Ed è importante anche lo sviluppo del traffico su ferrovia, perché è meno impattante da un punto di vista ambientale e le merci si muovono più rapidamente. Soddisfa, attualmente, almeno il 30% del traffico container. Ma la strada di collegamento con la grande viabilità resta sempre fondamentale per lo sviluppo dello scalo dorico.” Rodolfo Giampieri, presidente dell’Autorità di Sistema del Medio Adriatico, non ha dubbi né tentennamenti, quel “corridoio”, rivolto a Nord-Ovest questa volta, per mettere in collegamento velocemente il porto con l’Autostrada A/14 è indispensabile. Anzi. Usa
un’espressione anche più forte…” è obbligatorio”, dice. “Quell’ultimo miglio è obbligatorio, aggiunge, per rimanere nei circuiti europei, ma anche per rispetto nei confronti di una comunità, come quella di Torrette, su cui si riversa adesso la grande mole di traffico da e per il porto.” Una comunicazione veloce è indispensabile – sono ancora parole di Giampieri – in un’era di globalizzazione. Un porto non è moderno, non è competitivo, se non è inserito nei grandi corridoi di traffico, nazionale ed europeo. E in questo contesto la velocità è uno degli elementi fondamentali. Ma, il Presidente va anche al di là e parla di etica, di sostenibilità ambientale, di rispetto e di attenzione verso la città e in particolare verso quel quartiere di Torrette costretto a sopportare l’impatto di migliaia di veicoli in transito da e verso le banchine e si chiede: “fino a che punto si può spingere sulla crescita del porto, senza punire ulteriormente la comunità?” Parole nuove, parole importanti che certamente saranno raccolte da chi in questo momento, l’Anas, è impegnata nella realizzazione. Perché i soldi ci sono, la volontà politica pure. Manca solo il progetto esecutivo. E intanto, l’Autorità di Sistema cerca, per quanto possibile, di adottare tutti quei provvedimenti e di mettere in campo tutto quanto è possibile (ad iniziare dal contribuire a finanziare rotatorie e passaggi sopraelevati, ma immaginando anche un diverso deflusso del traffico dallo scalo, dividendo, se mai sarà possibile, le auto dai tir) per allegerire, in questa fase, l’impatto nelle strade della città. ¤
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Toccare le opere d’arte al museo Omero si può L'IDEA NATA PER I DISABILI VISIVI É USUFRUIBILE DA TUTTI
L di Aldo Grassini
e Marche, una regione piena di teatri e di musei, una piccola regione che ama la cultura e l'arte in tutte le loro declinazioni e, all'ombra dei suoi grandi che ne hanno fatto la storia, alimenta una miriade di importanti od umili facitori di cultura e di arte! E tanti musei, piccoli e piccolissimi, ciascuno con la sua storia, ciascuno con la sua peculiarità! Tra essi da 25 anni c'è anche il Museo Tattile Statale Omero di Ancona. Piccolo? Giudicate voi: circa 3000 mq., più di 150 opere e nel 2017 trentamila visitatori! Quanto alla sua peculiarità, è un museo tattile, unico nel suo genere, che ci promette emozioni assolutamente originali, perché altrove non consentite. E' un museo accessibile a tutti i tipi di pubblico a cominciare dalla categoria normalmente più esclusa, i disabili visivi. Un museo che frantuma tutta una serie di luoghi comuni e propone diverse vie nuove all'arte, alla sua fruizione, alla proposta museologica. E in qual museo, appena entrati, avreste la possibilità di ammirare, tutti insieme, i più grandi capolavori dell'arte scultorea? La Venere di Milo e L'Auriga di Delfi! Il Discobolo di Mirone e il Discoforo di Naukides! La Nike di Samotracia e il Poseidone!... Tutta la storia dell'arte greca è lì che ci circonda e si mostra in una specie di enciclopedia tridimensionale. E dove potreste immediatamente mettere a confronto il David di Michelangelo con il David di Donatello? La Pietà di San Pietro con la Pietà Rondanini
ed altri otto capolavori michelangioleschi? "Sì, ma si tratta di copie! - corre pronta l'obiezione. Certamente, ma di copie al vero ricavate da calchi degli originali, copie in scala 1 a 1 anche per il gigantesco Mosè di Michelangelo, realizzate in gesso patinato, in resina o in un impasto di resina e polvere di marmo come per la Pietà. Lo so che qui in Italia, quando si parla di copie si storce la bocca come se fossero roba da pattumiera. Ma cominciamo subito a smantellare un luogo comune. Ovviamente gli originali sono gli originali, ma se rimaniamo stupiti davanti alla perfezione di una forma, perché mai una copia perfetta non dovrebbe suscitare la stessa ammirazione? Ed il piacere di poter abbracciare in una volta sola tanta bellezza dove potremmo trovarlo? E l'emozione di guardare un capolavoro da vicino anzichè attraverso una lastra antiproiettile, di poterlo toccare, di girarci intorno e soffermare la nostra attenzione sui minimi particolari? Per non parlare del valore didattico per i nostri ragazzi di un percorso che attraversi tutta la storia dell'arte in un unico viaggio. Ma al Museo Omero ci sono anche opere originali, una galleria di arte moderna che comprende alcuni dei più grandi maestri del Novecento. Non è qui il caso di citarli tutti, ma qualcuno sì, a titolo di esempio: Marino Marini, Arturo Martini, Pietro Consagra, Giorgio De Chirico, Francesco Messina, Arnaldo Pomodoro, Giuliano Vangi, Valeriano Trubbiani. C'è perfino L'Italia Riciclata di
Non solo arte
48 Michelangelo Pistoletto, un'opera che occupa uno spazio di 42 mq. e nel 2012 è stata l'emblema della Biennale Architettura di Venezia. A tutto questo si aggiungano alcuni splendidi plastici di monumenti famosi ed un gran numero di reperti archeologici, anch'essi tutti originali, che tuttavia al momento non sono esposti perché in restauro. Il fatto più interessante è che tutte queste cose, comprese le opere originali, al Museo Omero possono essere toccate. E qui cade un altro dei più tenaci luoghi comuni, quello per cui nei musei non si può toccare. La verità è che la maggior parte degli oggetti esposti nei musei non correrebbe alcun pericolo se toccata in modo adeguato e che la ragione del divieto riposa non tanto sull'effettivo peri-
Il museo Omero nato nel 1985 per iniziativa di due non vedenti frantuma tutta una serie di luoghi comuni
colo del degrado quanto su un pregiudizio culturale che fa del tatto il senso proibito. Il tatto è uno dei cinque strumenti di cui ci ha dotato la natura per conoscere il mondo e per goderne la bellezza. La nostra civiltà tende a privilegiare la vista rispetto agli altri sensi in un approccio con
le cose sempre più astratto ed artificiale. La riscoperta del tatto è il ritorno a un rapporto con la realtà concreto e originale, indispensabile per cogliere alcune qualità che nessun altro senso riesce a surrogare. Con esso si riscopre lo stupore davanti alle cose che ci riconduce all'autenticità dell'approccio dei bambini. Ciò spiega l'entusiasmo dei visitatori del Museo Omero. Essi comprendono la verità del nostro motto "si ama con gli occhi e con le mani". Non possiamo fare a meno di accarezzare tutto ciò che amiamo, persone, cose e perché non anche le opere d'arte? Il tatto possiede una carica affettiva che è sconosciuta agli altri sensi, esso brucia lo spazio che ci separa dall'oggetto del nostro interesse e del nostro amore e crea una sublime unità tra il soggetto e l'oggetto. E' questo un nuovo modo di concepire l'arte e mette in crisi un altro luogo comune vecchio di secoli, il concetto di arte visiva. Se il toccare arricchisce e integra il piacere estetico della visione, diventa povera e inadeguata la definizione di arti visive, come ci testimoniano ogni giorno di più molti artisti del nostro tempo. E' interessante vedere come nasce al Museo Omero lo sviluppo di questo nuovo processo culturale. Ebbene, esso nasce per estensione dall'esperienza dei ciechi. Ideato per consentire ai disabili visivi di colmare il "buco nero" della loro integrazione culturale, vale a dire l'impossibilità di conoscere concretamente almeno i capolavori dell'arte, il museo Omero ha ben presto messo in chiaro che l'esplorazione tattile non solo consente di conoscere le forme e le particolarità delle opere scultoree, ma anche di apprezzarne i valori estetici e di vivere un'esperienza esteticamente autentica sia sul
Non solo arte
piano intellettuale che emozionale. La sua filosofia ama definirlo come un museo senza barriere che ha saputo abbattere anche quelle più sottili ed impalpabili, le barriere sensoriali. Ma ciò vale per tutti e al Museo Omero non si propongono iniziative specificamente pensate per i non vedenti, ma tali che anche i ciechi possano partecipare insieme agli altri. E' questo un bell'esempio di accessibilità e di integrazione. Sulle problematiche dell'accessibilità il Museo Omero è ormai diventato un punto di riferimento per quanti in Italia, e non solo in Italia, intendono affrontare concretamente questo tema sia attraverso convegni e seminari di approfondimento sia con progetti per la creazione di percorsi tattili nei musei e nei luoghi della cultura. Prima di chiudere, due parole sulla storia di questa istituzione. L'idea del museo tattile nasce in Ancona nel 1985 nella te-
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sta di due non vedenti, il sottoscritto e sua moglie, stanchi dei divieti che in tutti i musei impedivano loro di "vedere" con le mani tutto ciò che gli altri potevano vedere con gli occhi. Un'idea quasi banale, ma è la prima volta nel mondo che qualcuno osa progettarla. Otto anni di "sana" burocrazia e finalmente il Museo Omero viene alla luce il 29 maggio del 1993: appena 19 opere in tre aule di una scuola elementare anconetana, ma il viaggio è cominciato! Promotrice è l'Unione Italiana Ciechi, il finanziamento è della Regione Marche attraverso un progetto pilota, fatto proprio dal Comune di Ancona. I primi mezzi di comunicazione non locali che si interessano all'idea non sono italiani: l'Herald Tribune e la Televisione della Svizzera Italiana. La cosa cresce rapidamente. Nel 1997 un primo cambiamento di sede con 750 mq. in un'altra scuola. Una proposta di legge per il
Più di 150 opere in esposizione copie in scala reale in gesso, resina polvere di marmo e originali di artisti contemporanei
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Un nuovo modo di concepire l’arte accarezzandola e soffermandoci su minimi particolari senza il filtro di una protezione
Dal 2012 il museo é ospitato alla Mole Vanvitelliana ed é pronto a nuove sfide tra cui una sezione da dedicare alla storia del Made in Italy
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riconoscimento del Museo Omero come museo statale naviga per cinque anni tra gli scogli delle procedure parlamentari, ma nel novembre del 1999 il Parlamento italiano l'approva all'unanimità sia al Senato che alla Camera dei Deputati. Il conseguente finanziamento, pur modesto, consente il salto di qualità. Ecco alcune mostre "tattili" sempre con opere originali. Come non citare almeno la mostra dedicata a Francesco Messina (103 opere) e quella di Giacomo Manzù (50 opere)? Una notevole visibilità è acquisita dal nostro Museo, scelto nel 2007 dal Ministero dei Beni Culturali come uno dei sette siti partecipanti alla campagna della RAI intitolata "MaratonArte". Nostro testimonial fu in quell'occasione Andrea Bocelli. Il Museo Omero cominciò ad esportare alcune sue mostre tattili anche in terra stranie-
ra: Croazia, Repubblica Ceca, Polonia. Tra i rapporti e le collaborazioni con alcuni musei importanti non si può fare a meno di citare il Louvre e il British Museum. Nel 2011 il Museo Omero per-
deva la grande passione ed il vulcanico attivismo del suo presidente Roberto Farroni, prematuramente scomparso, e a me toccò rilevarne il testimone, dopo 9 anni di assidua collaborazione con lui in un rapporto di amicizia fraterna. Nel 2012 il Museo Omero finalmente si trasferisce nella sua sede definitiva, in uno spicchio della Mole Vanvitelliana, uno dei più splendidi monumenti del Medio Adriatico, e subito si può notare l'impennata del numero dei visitatori. Tra le mostre degli ultimi cinque anni voglio ricordare la grande personale dedicata a Valeriano Trubbiani, quella appositamente pensata e costruita da Paolo Annibali e un tuffo nel Rinascimento italiano con 25 opere originali di grandi maestri, tra cui persino Donatello. Parliamo sempre di mostre tattili. L'attività di ricerca e di studio del Museo Omero ha trovato apprezzamento da parte di una decina di università italiane che l'hanno proposta in seminari e convegni e in diverse pubblicazioni. Ma anche dall'estero son venuti visitatori e stagisti, oltre all'invito a proporre cicli di conferenze in musei giapponesi (due volte) e un seminario presso l'Istituto di Cultura Italiana a Mosca, e a partecipare a congressi scientifici a Parigi e ad Alicante. Le due prossime sfide: una nuova sezione del Museo dedicata alla storia del Made In Italy (un dono di Diego Della Valle) e il definitivo allestimento, frutto del lavoro di una commissione internazionale di esperti. ¤
Il ruggito del “Leoncino”
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Museo Benelli sinfonia di motori A PESARO TERRA DI PILOTI IL TEMPIO DELLA MOTO
S di Stefano Mascioni
e Pesaro è città della Musica, le sue sinfonie più amate non sono solo quelle di Gioachino Rossini, ma anche i rombi inconfondibili delle sue moto Benelli. Perché nella Terra di Piloti e motori, dove i bambini crescono a pane e benzina, ascoltare il ruggito di un leggendario Leoncino suscita passioni forti, intense come un crescendo rossiniano. C’è un posto che di queste passioni è diventato il custode fedele, il tempio, la memoria storica che attrae ogni anno migliaia di appassionati da tutto il mondo, le “Officine Benelli – Mototeca Storica Marchigiana”, struttura nata dal connubio tra appassionati e amministrazione pubblica, che oggi è una solida realtà. Per rendersene conto, basta andare in viale Mameli 22, a Pesaro, proprio lì dove una volta c’era lo stabilimento della Benelli, che nel momento di maggior splendore si sviluppava su
27.000 metri quadrati dando lavoro a 800 famiglie. Oggi il museo è riuscito a recuperare circa 1000 metri quadrati di quella struttura, si sviluppa su due piani e può contare su una collezione permanente di
oltre 150 motociclette Benelli e Motobi, dalle più antiche alle più moderne. I soci, 600 del Registro Storico e 200 del Motoclub Tonino Benelli, ci lavorano senza sosta, lo abbelliscono, lo rendono sempre più funzionale, curando uno straordinario esempio di archeologia industriale perfettamente integrata nel tessuto cittadino. ll percorso inizia dalla sala dedicata al Benelli più famoso (i fratelli Benelli, che fondarono l’azienda nel 1911 erano 6, : Giuseppe, Giovanni, Filippo, Francesco, Domenico e Antonio ndr) , quel Tonino, fenomenale pilota, per il quale è anche stato eretto un busto a poca distanza dal museo, dove ogni anno viene depositata una corona d’alloro in occasione della Benelli Week. Nella sala Tonino Benelli ci sono meravigliose fotografie dei corridori motociclistici più forti ritratti in gara, trofei di ogni epoca oltre a motori originali Benelli, MotoBi. e Molaroni, altro marchio motociclistico antico. Sembra di entrare in un salotto della meccanica, l’atmosfera è unica. La visita prosegue nella bellissima sala intitolata all’ingener Giuseppe Benelli, dove c’è una vera chicca: la prima motocicletta transitata a Pesaro nel 1897, un triciclo De Dion Bouton, insieme a due rarissime Moto Molaroni degli anni venti e ben trenta Benelli costruite prima della seconda guerra mondiale, mezzi che negli anni trenta del secolo scorso rappresentavano un esempio straordinario di raffinatezza tecnica ed estetica. Ma non si tratta solo di un salone espositivo, di un freddo museo. Questo salone infatti, è il cuo-
Il ruggito del “Leoncino”
Il museo ospita una collezione di oltre 150 esemplari Benelli e Motobi dai primi rarissimi modelli alle moto più recenti
Dall'alto, un'immagine della corsa Parma-Poggio di Berceto del 1924 e il campione Tonino Benelli in sella alla 147 nel 1925 Qui sopra, l'interno del museo Benelli a Pesaro (Foto Corrado Belli)
re pulsante delle Officine, un luogo vivo, dove si svolgono cene, incontri, presentazioni e dove spesso si suona. Perché da queste parti i motori vogliono dire anche voglia di stare insieme, di divertirsi, di scherzare. Nel secondo salone ci sono tutte le versioni del leggendario Leoncino, la motocicletta che ha rimesso le ali al marchio Benelli dopo i bombardamenti e le macerie del secondo conflitto mondiale. Un modello tanto amato e conosciuto, che l’attuale proprietà del marchio pesarese, (il gruppo cinese Qianjiang, un colosso da 12.000 dipendenti quotato in borsa a Shangai che ha rilevato la casa motociclistica nel 2005 ndr) ha deciso di produrre di nuovo, presentando il Leoncino del nuovo millennio al salone di Milano dello scorso anno, infiammando i cuori degli appassionati, che sono già pronti a tornare in sella. Nello stesso salone, si possono apprezzare anche quegli esercizi tecnici straordinari che hanno lasciato il mondo a bocca aperta, le famose pluricilindriche a sei e quattro cilindri costruite negli anni settanta, quando il marchio pesarese era stato acquisi-
to dall’industriale argentino Alejandro De Tomaso. Emblematica la Benelli sei, con le sue marmitte lucenti che fanno pensare ad un’orchestra pronta a rompere il silenzio. La visita prosegue al piano rialzato, una delle ultime zone restaurate e aperte al pubbli-
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co, dove su 250 metri quadrati di un pavimento in legno a grandi tavole, sono esposti e tutti i modelli Motobì , il marchio fondato da Giuseppe Benelli quando decise di lasciare l’azienda di famiglia per proseguire da solo la sua avventura. La Motobì era conosciuta anche per suoi slogan originali come “L’aristocratica fra le moto” e “La Svizzera nell’arte degli orologi, Pesaro nell’arte del motociclo”. Tra il 1950 e il 1970 ebbe un buon successo commerciale e persino l’ambizione di entrare nel mondo automobilistico. Subito dopo la seconda guerra mondiale, l’ingegner Giuseppe Benelli aveva intuito che lo sviluppo della motorizzazione sarebbe stato sulle quattro ruote, che le famiglie si sarebbero spostate in automobile e diede vita al progetto BBC acronimo delle iniziali dei tre soci: Benelli, Beretta, Castelbarco. Furono realizzati anche tre prototipi ma non si andò mai in produzione. Anche se oggi il marchio
Il ruggito del “Leoncino”
non esiste più, è stato rilevato anch’esso dal gruppo cinese Quanjang e non è escluso che un domani venga utilizzato di nuovo. Sempre al piano rialzato, c’è spazio anche per tutta la serie di ciclomotori Benelli e Motobi, protagonisti della motorizzazione italiana di massa degli anni sessanta. Poi, la ciliegina sulla torta, un’installazione che solo a Pesaro poteva trovare realizzazione: una visionaria partenza di gran premio, riservata alle moto da corsa costruite nella provincia di Pesaro fra gli anni sessanta e ottanta ovvero Benelli, MBA, Morbidelli, Piovaticci, Sanvenero e MotoBi. Tutte moto protagoniste in diverse competizioni a livello mondiale che ora si ritrovano fianco a fianco in una ricostruzione originale. Oltre un secolo di storia (la Benelli è nata nel 1911 ndr) e di successi, ha prodotto una quantità poderosa di documenti, un’avventura straordinaria che i soci del club hanno raccolto e catalogato minuzio-
samente, dando alle stampe diversi volumi che si trovano in vendita presso le Officine e che raccontano anche la storia sportiva del marchio del leoncino. Non capita spesso di visitare un museo con un’ambientazione così fedele all’originale, rivivendo negli stessi luoghi l’eccellenza dei suoi pezzi migliori, motori che hanno dato vita a un marchio leggendario, capace di varcare i confini nazionali e creare una sorta di famiglia allargata, un gruppo di appassionati che voleva condividere l’esperienza della motocicletta in tutte le sue forme. Basta pensare che già nel 1931, la passione era così forte da dare vita al Moto Club Pesaro, con Tonino Benelli come direttore tecnico e Riccardo Brusi come direttore sportivo. Due campioni veri, considerando che Tonino aveva già conquistato 34 vittorie e 4 titoli italiani mentre Riccardo Brusi 30 vittorie e 3 titoli italiani. Ma la voglia di correre era tanta, e sempre nel 1931,
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Sopra, particolare delle moto storiche Sotto, la ricostruzione di un'officina e la caduta di ingranaggi 175 4T del 1927 (Foto Corrado Belli)
Il ruggito del “Leoncino”
Il colosso cinese Qianjiang che ha rilevato l'azienda pesarese ha deciso di rilanciare il “Leoncino”
il Moto Club ha organizzato il 1°circuito di Pesaro sui viali della zona mare-porto, evento che richiama tantissima folla, utilizzato anche per promuovere il turismo e che appare nei manifesti promozionali dell’epoca. In quella occasione, a vincere fu un altro pilota pesarese famoso, Dorino Serafini nella classe 175 proprio su una Benelli, Riccardo Brusi trionfò su una superba Moto Guzzi nella classe 250, Baldi su Velocette nella classe 350 e Guglielmo Sandri su NSU nella classe regina, la 500. Fu un grande successo, ma i dirigenti del moto club continuarono a lavorare sodo, spinti da una passione vera, organizzando raduni motociclistici in tutta Italia. Leggendario fu il raduno dei Centauri a Roma nel 1933 cui parteciparono ben 265 motociclisti. E’ un crescendo di successi, che arrivano fino agli anni ’70, con ben sette edizioni del Gran Premio Pesaro Mobili, che tra le sue pagine più epiche, ha anche il duello tra Giacomo Agostini su MV Agusta e Jarno Saarinen su Benelli, dominato dal centauro del leoncino. Perché le Officine Benelli di Pesaro non sono solo un museo che raccoglie cimeli, sono la casa di avventure straordinarie.
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La Mototeca Storica Marchigiana è anche la sede del Registro Storico Benelli, nato nel settembre nel 1989, proprio per riunire i possessori di moto a marchio Benelli e Motobi. Si occupa del censimento di tutte le moto prodotte, della loro valorizzazione e tutela, promuovendo lo scambio di documenti e informazioni tra i collezionisti che sono sparsi in tutto il mondo. Dal Gennaio del 2000, ha deciso di ammettere tra i soci anche i possessori di tutte le motociclette costruite nella regione Marche, una terra che ha un forte rapporto con la meccanica e che nelle Officine Benelli di Pesaro ha uno straordinario luogo di conoscenza e conservazione che il mondo c’invidia. Vale la pena visitare questo museo e interessarsi alle sue attività, anche perché si tratta di uno di quei rari casi in cui la collaborazione tra amministrazione pubblica e associazioni private da risultati ottimi, salvando un pezzo di storia e creando le premesse per un’attività importante anche sotto il profilo turistico. Perché Pesaro è nel cuore della Terra di piloti, a poche curve da Tavullia, paesino che ha dato i natali a Valentino Rossi e dove continuano a nascere campioni del Mondo. ¤
Il personaggio
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Pannaggi “insolito” fotoreporter dei ghiacci AUTORE DI IMMAGINI DALL'ARTIDE ALL'ANTARTIDE
U di Mauizio Cinelli
Particolare del quadro "Treno in corsa" dipinto da Ivo Pannaggi nel 1922
n aspetto meno noto di Ivo Pannaggi, poligrafo, architetto e pittore futurista di fama internazionale, è l’attività di fotoreporter da lui svolta, come inviato della “Gazzetta del popolo” di Torino, in occasione di tre viaggi compiuti tra il 1936 e il 1940, rispettivamente, in Lapponia, in Antartide e in Groenlandia. Macerata, la città nella quale Pannaggi ha avuto i natali nel 1901 e che lo ha fraternamente accolto, dopo tanti anni passati all’estero, negli ultimi anni della sua vita conclusasi nel 1981, celebra ora questo aspetto della sua poliedrica e geniale personalità con la pubblicazione del volume “Dall’Artide all’Antartide”, curato (per i tipi della Casa editrice di Tolentino) da Mario Pianesi e Luigi Ricci, che con lui ebbero, in quegli ultimi anni della sua vita, un rapporto di frequentazione e
amicizia. Il volume raccoglie tutti i reportage dell’“inchiesta sulla terra dei Lapponi”, promossa e supportata dal quotidiano di Torino, quanto i resoconti redatti (sempre per quel giornale) in occasione del viaggio che, a bordo di una baleniera, dalla Norvegia attraverso la Manica e poi l’Oceano Atlantico ha portato Pannaggi dai ghiacci dell’Artide a quelli dell’Antartide per una stagione di caccia alla balena australe protrattasi per ben tre mesi, quanto, infine, i reportage di caccia alle foche in Groenlandia. I resoconti di viaggio e la descrizione di luoghi, attività e popolazioni, ricchi di dettagli e informazioni di prima mano, risultano conservare, nonostante il tempo trascorso, tutta la loro originaria freschezza e il loro valore etnologico e documentario. Di particolare valore e sugge-
Il personaggio
Il fotoreporter ha lasciato un prezioso patrimonio dei viaggi di alto valore documentaristico
In alto, la ricostruzione di un interno ispirato ai lavori di Ivo Pannaggi Sopra, particolare del "Ratto d'Europa" dipinto del 1965 in cui sono evidenti le suggestioni futuriste dell'autore
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stione risulta essere, in particolar modo, l’apporto fotografico: dei tre reportage, infatti, Pannaggi ha lasciato un prezioso patrimonio fotografico, che consta di ben 800 negativi, in massima parte fotogrammi 6 per 6 scattati da apparecchi fotografici Rolleiflex, una ricca selezione dai quali figura riprodotta nel volume, a corredo dei resoconti giornalistici. “La cultura fotografica di Pannaggi – si legge nel saggio
critico di Luigi Ricci intitolato «Un posto tra i maestri della fotografia» – si arricchisce, oltre che delle esperienze italiane sulla fotografia futurista, anche grazie alla collabora-
zione con lo studio dei fratelli Bragaglia di Roma e alla conoscenza del fotoreportage internazionale (...). Pannaggi forma il suo carattere di forte empatia con i personaggi fotografati immergendosi nella natura del territorio dove opera, impegnandosi di cogliere aspetti di vita vera e di introspezione con i soggetti con i quali si relaziona”. Valgono ad accrescere l’impatto emozionale dell’opera i ritratti e, soprattutto, gli autoritratti di Pannaggi, anche essi emblematici di un’epoca e di una personalità singolari: il fotografo polare, il cannoniere che punta la balena, il borghese che celebra il “trofeo” ritraendosi in piedi nella bocca del cetaceo, il reporter in veste da lappone o da nomade, il cacciatore di foche. Completano il volume, e ne arricchiscono il valore documentario, oltre al già citato saggio di Ricci, il ricordo dell’uomo e dell’artista tracciato da Mario Pianesi e da Chiara Gabrielli, la biografia ragionata di Gabriele Porfiri, la scheda sulla “Gazzetta del popolo” di Eleonora Luzi. ¤
Sull’onda delle immagini
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Reti, barche e vele il fascino del mare CHÂTELAIN E DE CAROLIS, DALLA FOTO ALLA PITTURA
I di Alberto Pellegrino
l mare è stato sempre un elemento importante nella vita della nostra regione che estende le sue coste dal Metauro al Tronto. Lungo l’Adriatico sono sorti piccoli nuclei abitati e centri urbani che hanno acquistato via via una loro importanza economica, turistica e culturale. Il mare ha ispirato narratori, poeti, drammaturghi, pittori e fotografi più o meno celebri. In particolare vogliamo ricordare due artisti che hanno particolarmente amato il mondo marino e che si sono distinti per un felice connubio tra pittura e fotografia. Il pittore-fotografo Alfred Joseph Châtelain (Moutier 1867- Nizza 1943) nasce da una ricca famiglia di commercianti e imprenditori turi-
stici, ma invece di seguire la tradizione familiare, compie i suoi studi a Besançon e a Parigi, è attratto dal movimento impressionista e dal paesaggismo dei macchiaioli italiani. Egli ha mostrato per tutta la vita una predilezione assoluta per il mare e per la vita della gente marinara, come dimostrano i dipinti, le fotografie, i fogli di lavoro e i taccuini esposti nel Museo del Mare-Pinacoteca del mare di San Benedetto del Tronto. Come altri artisti suoi contemporanei, Chatelain ha la passione per i viaggi e percorre l’Algeria, il Marocco e la Sicilia per arrivare infine a San Benedetto del Tronto, dove soggiorna dal 1908 al 1920. La spiaggia picena diventa il luogo di osservazione
Sull’onda delle immagini
Nella pagina precedente "Vele nell'Adriatico" di Chatelain Dall'alto, un particolare di "Ritorno dalla pesca" di De Carolis "Le donne dei pescatori" "Pescatori sambenedettesi" di Chatelain Nella pagina a fianco antichi cantieri di Chatelain e "Barche sulla spiaggia" di De Carolis
del paesaggio marino e della gente che vi lavora, per cui documenta nei dipinti e nelle fotografie la varietà dei soggetti umani, la minuziosa descrizione di scene di navigazione, delle barche da pesca e del lavoro svolto a riva o sul mare. La sua ricerca etnico-antropologica è legata al post-verismo fotografico di matrice verghiana con una rappresentazione di tranches de vie che permette di conoscere la tipologia delle forme degli scafi, dei simboli e dei colori delle vele, della vita quotidiana che pulsa sulle rive del mare piceno. Chatelain, attraverso l'uso del mezzo fotografico, rende i pescatori protagonisti di un’epopea figurativa che nasce dalla consapevolezza dell’autore di dover documentare un mondo che è in procinto di cambiare: "Devo dipingere tutto ciò che vedo perché sono immagini che presto spariranno". Ogni suo quadro e ogni sua fotografia divengono così la testimonianza di come questo pittore-fotografo sia stato catturato dal fascino di un piccolo villaggio di pescatori (com’era allora San Benedetto), che diventa un microcosmo da osservare, da studiare e da rappresentare in tutta la bellezza delle barche e delle splendide vele colorate spiegate nel vento. Chatelain si stabilisce con la famiglia prima in una casa del borgo medievale, poi in un villino liberty affacciato sulla spiaggia da dove può avere una visione diretta e immediata della vita marinara. Da questo quotidiano punto di osservazione, disegna, prende appunti, scatta fotografie, realizza quadri, stabilendo un rapporto profondo con una comunità di cui sente di essere parte attiva. “Lu francese”, come lo chiamano i marinai sambenedettesi, vuole vedere e conoscere uomini e cose del mondo marinaro; è attratto dalla manualità e dalla fatica che richiede il lavoro dei
58 pescatori; è affascinato dai “segni” di una civiltà ancestrale e mediterranea, che egli ricerca nei simboli e nelle forme delle vele, nelle forme delle paranze, nelle tecniche di pesca, quando le vele sembrano ali di farfalla mosse dalla brezza marina. Le sue fotografie di “les marins, le bateaux, les porteurs d’ancres, le femmes sur la plage, les voiles” formano l’indagine archeologica di un mondo che, secondo l’autore, sta sul punto di scomparire sotto la spinta dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione, della specializzazione peschereccia, dalla nuova stagione turistico balneare. Chatelain mostra di possedere una buona tecnica fotografica che spesso sconfina nell’arte, perché lo sguardo esercitato del pittore sa cogliere e fissare nelle immagini fotografiche le silhouettes delle lancette, delle paranze e delle sciabiche, le vele colorate e tese nel vento, i marinai impegnati nelle faticose manovre per spingere in mare o per tirare a riva le imbarcazioni, le donne dei pescatori nel loro tradizionale abbigliamento. Chatelain si rivela un fotografo dotato di grande sensibilità nel comporre l’inquadratura e nell’uso della luce, realizzando immagini che hanno una loro autonoma valenza, perché attraverso la fotografia egli riesce a catturare l’attimo, a fissare un’emozione, a raffigurare un corpo, un volto, un movimento. L’autore si servirà di queste immagini anche come materiale di studio da trasferire nella pittura, come bozzetti preparatori da reinterpretare in una composizione pittorica che prenderà una vita diversa attraverso il segno della mano, la ricerca del colore, il gioco della luce. Chatelain, per questo stretto rapporto tra pittura e fotografia, può essere accomunato a Francesco Paolo Michetti, un altro pittore-fotografo im-
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pegnato a testimoniare una civiltà che sta scomparendo: per l’artista abruzzese si tratta di documentare le tradizioni popolari delle campagne e la cultura pastorale delle montagne; per l’artista franco-svizzero si tratta di lasciare una testimonianza di una languente civiltà del mare. Adolfo De Carolis (Montefiore dell'Aso 1874 – Roma 1928) è stato un protagonista dell’arte italiana tra Ottocento e Novecento come pittore, incisore, xilografo, illustratore e fotografo, influendo in modo determinante sugli sviluppi del gusto floreale, tenendosi ai margini del movimento liberty, perché la sua fede artistica nella tradizione rinascimentale lo contrappone polemicamente alle "bizzarrie dell'arte nuova", mentre la sua opera appare come un'evoluzione dell'estetica preraffaellita, influenzata dal simbolismo e da un formalismo di stampo michelangiolesco. Agli inizi del Novecento nasce un profondo rapporto tra
l’ambiente marino e questo artista, autore di una serie di foto, disegni, incisioni, quadri, dipinti murali e prose liriche che rivelano un particolare impegno artistico e sociale verso la gente di mare, trovando nel “lido” di San Benedetto un ideale laboratorio di antropologia culturale da cui, nonostante l’incalzante progresso, emerge chiara la voce della tradizione. Tutte queste opere mostrano un uomo profondamente legato al suo territorio, con uno sguardo privilegiato sul folklore, le tradizioni, i costumi e la vita marinara del popolo piceno, un patrimonio della nostra terra che l’artista sente di dover tramandare ai posteri. È in questo periodo che De Carolis si dedica alla fotografia, come dimostra il fondo fotografico rinvenuto alla fine del Novecento, il quale ha consentito di attribuire all’artista molte immagini fotografiche considerate di autore ignoto. Dopo avere appreso la tecnica fotografica negli ambienti
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La vita di villaggi di pescatori e l'attività marinara hanno da sempre ispirato poeti pittori e fotografi
Sull’onda delle immagini
fiorentini e frequentando soprattutto il grande fotografo Mario Nunes Vais, De Carolis si dedica a fotografare tra il 1906 e il 1908 dei soggetti marinari e qualche immagine riferita al mondo contadino. L’'artista riprende con la macchina fotografica scene di vita marinara vissute lungo la spiaggia adriatica tra Pedaso e San Benedetto, che poi trasferisce in disegni, tratteggi a penna, schizzi, quadri e affreschi. Si tratta di fotografie a volte stupende, attimi di vita colti e fissati per sempre dall’occhio di un autore che sa “vedere” inquadrature suggestive che hanno una loro autonomia artistica Non importa se queste immagini sono servite successivamente come modello per un disegno o un’incisione, perché forse per De Carolis la fotografia non era considerata un’attività di primaria
Dall'alto, "Pescatore" di De Carolis "Paranze sambenedettesi" di Chatelain In alto a destra "Vele ritrovate" di De Carolis
importanza al pari dell’incisione e della pittura e questo spiega perché egli non abbia lasciato un archivio fotografico a differenza per esempio di Francesco Michetti, il quale si dedica alla fotografia in maniera continuativa e sistematica. Durante l’insegnamento nell’Accademia fiorentina di Belle Arti, De Carolis ha fatto probabilmente un uso didattico della fotografia, stabilendo un rapporto tra questo mezzo e l’antropologia, in modo da studiare i diversi usi e costu-
60 mi degli italiani in un periodo di profondi mutamenti culturali del paese che si avvia verso l’industrializzazione. In quel periodo la fotografia deve apparire a De Carolis come una copia in sostituzione del reale, un modello da imitare. In un secondo momento l’artista scopre che questa tecnica non è solo un mezzo idoneo a produrre modelli, ma offre anche la possibilità di creare forme artistiche autonome e, per certi versi, più efficaci della stessa pittura. L’attenzione del fotografo si concentra sui soggetti della tradizione popolare e la fotografia diventa un mezzo per indagare, conoscere e documentare il vissuto quotidiano. Essa si presta quindi a realizzare un programma di documentazione, un progetto di ricerca attraverso una ricognizione sistematica delle varie forme di cultura popolare della Marca meridionale nei suoi significati umani, storici e sociali, evitando il gusto macchiettistico della ricostruzione o l’esaltazione retorica e nostalgica del folclore. Egli punta, invece, alla riscoperta di quelle tradizioni che sono ancora vive e di quei valori che affondano le loro radici nella storia, soprattutto per quanto riguarda la cultura marinara in un momento di profonde trasformazioni tecnologiche e di costume con l’avvento dei pescherecci a motore e dell’approdo ai moli invece che sulle spiagge. Nei suoi scritti di quel periodo (Mare piceno, Vele bianche e dipinte a San Benedetto del Tronto, I marinai piceni) si può vedere come De Carolis arrivi alla scoperta di quel tratto di Mare Adriatico compreso fra il Tronto e il Tesino, visto come sede di una civiltà stratificata nel tempo, perché le “paranze” di San Benedetto gli ricordano le navi omeriche di Ulisse e Diomede per la loro forma allungata, la prua e la poppa in rilievo, l’albero nel mezzo e una sola grande
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vela latina, triangolare e colorata, adatta a prendere il vento, barche guidate dalle abili mani dei marinai del Tronto che hanno fama di essere uomini esperti e audaci. De Carolis manifesta tutta la sua ammirazione per questa gente picena che ancora usa i simboli, gli strumenti e le parole dei tempi di Omero: “Il mare ci serba intatta questa gente marina, disdegnosa dei contagi, altera della nobiltà che le dà il mare, sprezzante de la fiacca vita paesana, pronta a tutti i disagi, combattuta a corpo a corpo dalla morte; gente religiosa di fanciulli e di sognatori con nell’occhio il lontano azzurro del cielo, quel dolce color notturno che discopre le amiche stelle…Il sole, la rugiada, l’acqua e il sale li rivestono d’una bellezza che direi solare, li trasformano in ricco bronzo. Essi faticano per gli ormeggi, tendono cavi… ritirano le reti, trascinano le ancore…Numerosi s’affaticano agli argani, vigili e pazienti, pronti a tutti
i richiami, operosi e instancabili; e quando arriva la pesca, eccoli nudi, belli come antiche statue venir su l’acqua con le ceste in capo colme di pesce”. Questo suo amore per il mare e la sua gente si traduce in quelle immagini fotografiche (in parte conservate nella Pinacoteca del Mare di San Benedetto), dove i marinai spingono le paranze con la sola forza delle braccia, immersi nell’acqua fino alla vita; oppure in lunghe file tirano con le corde le imbarcazioni sulla riva, mentre altri trascinano a terra la pesante ancora. Si tratta di un duro lavoro, mentre la riva si anima delle grida dei marinai che si danno la voce alla presenza delle donne osservano il lavoro dei loro uomini. Quando le vele calano lentamente nel tramonto, “l’agitazione marina riempie tutta la costa, – dice De Carolis - la curva spiaggia si fa sonora, una selva di alberi e d’antenne s’agita sul cielo impallidito”. ¤
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Châtelain ha la passione per i viaggi e visita l'Algeria il Marocco fino ad arrivare a San Benedetto
L’associazione
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LE CENTO CITTA’ Associazione per le Marche Fondata nel 1995 “L’Associazione si pone lo scopo di promuovere e coordinare studi ed azioni finalizzati a rafforzare l’identità culturale della Regione Marche e a favorirne lo sviluppo economico e sociale attraverso la conoscenza e la valorizzazione delle realtà esistenti, il recupero e la tutela del passato, la collaborazione tra soggetti pubblici e privati, la partecipazione al dialogo culturale interregionale ed europeo, nonché con le comunità marchigiane all’estero.” (Art.3 dello Statuto)
Presidenti
Giovanni Danieli
(marzo 1995 – dicembre 1996)
Catervo Cangiotti
(gennaio 1996 – dicembre 1997)
Folco Di Santo
(gennaio 1998 – dicembre 1999)
Alberto Berardi
(gennaio 2000 – dicembre 2001)
Evio Hermas Ercoli
(gennaio 2002 – dicembre 2003)
Mario Canti
(gennaio 2004 – luglio 2005)
Enrico Paciaroni
(agosto 2005 – dicembre 2006)
Tullio Tonnini
(gennaio 2007 – dicembre 2007)
Bruno Brandoni
(gennaio 2008 – luglio 2008)
Alberto Pellegrino
(agosto 2008 – luglio 2009)
Walter Scotucci
(agosto 2009 – luglio 2010)
Maria Luisa Polichetti (agosto 2010 – luglio 2011)
Ettore Franca
(agosto 2011 – luglio 2012)
Natale Frega
(agosto 2012 – luglio 2013)
Maurizio Cinelli
(agosto 2013 – luglio 2014)
Giovanni Danieli
(agosto 2014 – luglio 2015)
Luciano Capodaglio
(agosto 2015 – luglio 2016)
Marco Belogi
(agosto 2016 – luglio 2017)
Le Cento Città Direttore responsabile Franco Elisei Direttore editoriale Maurizio Cinelli Comitato editoriale Fabio Brisighelli Mara Silvestrini Alberto Pellegrino Silvia Vespasiani Giordano Pierlorenzi Direzione, redazione amministrazione Associazione Le Cento Città redazionecentocitta@ gmail.com
Progetto grafico Poliarte Accademia di design Ancona Coordinamento progetto grafico e impaginazione Prof. Sergio Giantomassi Stampa Errebi Grafiche Ripesi Falconara M.ma Presidente Le Cento Città Giorgio Rossi
Sede Via Asiago 12 60124, Ancona Poste Italiane Spa spedizione in abbonamento postale 70% CN AN Reg. del Tribunale di Ancona n.20 del 10/7/1995
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Le Cento CittĂ , n. 56
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Sped. in a.p. - 70% - Filiale di Ancona
Rivista di divulgazione culturale e artistica del territorio marchigiano
ARTE | STORIA | ARCHEOLOGIA | LETTERATURA | SOCIETÀ | MUSICA | SCIENZE
Michele Romano Franco Elisei Luigi Benelli Claudio Sargenti Aldo Grassini Stefano Mascioni Maurizio Cinelli Alberto Pellegrino
“L’ARTE DI FACCHINI”
Le sculture dell’oro e dell’esoterismo
NUMERO 61 | 2017
Giorgio Rossi Marco Belogi Tiziana Mattioli Fabio Brisighelli Claudio Salvi Nicoletta Frapiccini Mara Silvestrini Grazia Calegari Paola Cimarelli
Natale Festività carica di simboli e fede
Belcanto I grandi dell’Opera nelle Marche
Il sisma Il sindaco di Arquata “Non ci arrendiamo”
A PAGINA 7
A PAGINA 13
A PAGINA 27
NUMERO
61|2017 DICEMBRE