62|2018
Sped. in a.p. - 70% - Filiale di Ancona
Rivista di divulgazione culturale e artistica del territorio marchigiano
ARTE | STORIA | ARCHEOLOGIA | LETTERATURA | SOCIETÀ | MUSICA | SCIENZE
“L’ARTE DI VANGI”
Luigi Benelli Federica Facchini Alberto Mazzacchera Maurizio Cinelli Franco De Marco Claudio Sargenti Claudio Desideri Alessandro Rappelli
L’esistenza umana dietro la
maschera
La memoria Tasselli di storia nel selciato A PAGINA 7
Anni ribelli Il sessantotto tra miti e speranze A PAGINA 11 NUMERO 62 | 2018
Giorgio Rossi Paola Cimarelli Giordano Pierlorenzi Grazia Calegari Ettore Franca Lella Mazzoli Alberto Pellegrino Dante Trebbi Luca Fabbri
Innovazione Beni culturali sotto una nuova luce A PAGINA 27
NUMERO
62|2018 APRILE
2
CO. FER. M.
s.p.a. COMMERCIO ROTTAMI ACCIAIO INOSSIDABILE, FERROLEGHE, METALLI, FERRO
.
.
.
60035 JESI (AN) Interporto Marche Via Coppetella Tel. 071 946362 r.a. Fax 071 946365
info@coferm.it www.coferm.it Le Cento Città , n. 56
Editoriale
3
“Le Cento Città” vive attraverso gli eventi
H di Giorgio Rossi Presidente de Le Cento Città
o scritto il precedente editoriale poco prima dello scorso Natale e ora, in un soffio, le vacanze pasquali sono ormai un ricordo; il periodo è breve ma non pochi sono gli eventi che abbiamo realizzato. A dicembre abbiamo tenuto l’Assemblea d’inverno che ha visto l’elezione della Dott.ssa Mara Silvestrini a Presidente dell’Associazione per l’anno 2018/2019 e che, grazie al disponibile impegno di alcuni Soci, si è conclusa con degli auguri inusuali ma, così è sembrato, molto graditi. Gennaio ci ha visto in visita alla Pinacoteca “Francesco Podesti” di Ancona, così numerosi da costringerci a spostare il luogo dell’aperitivo conclusivo per motivi di spazio. A febbraio siamo stati a San Severino Marche per “Freschi di stampa”; abbiamo visitato la Pinacoteca “Tacchi – Venturi”, recentemente ristrutturata con la pregevole collaborazione di un nostro Socio e siamo stati poi ospitati nel Teatro “Feronia”, bella e storica “bomboniera” cittadina. La splendida Macerata ci ha
accolto in marzo per “Freschi d’Accademia”, evento che si è svolto in mattinata presso la locale Università degli Studi con l’intervento del Magnifico Rettore e con la presentazione di studi e ricerche condotti da cinque docenti dell’Ateneo, ad ognuno dei quali è stata poi consegnata una targa premio a nome de “Le Cento Città”. Nel pomeriggio, i Soci hanno poi fatto visita alle tante bellezze riunite a Palazzo “Bonaccorsi” con la mostra “Capriccio e Natura – Arte nelle Marche del secondo Cinquecento – Percorsi di rinascita”. Mi accorgo che sto facendo una sorta di diario che riporta in sequenza le attività che man mano vengono realizzate, ma ritengo importante farlo per una serie di ben meditate ragioni. La nostra Associazione è dedicata a tutte le Marche, ha Soci da ogni angolo della Regione, non ha una una sede fisicamente deputata a riunioni sociali. Essa perciò vive e si consolida attraverso gli eventi che vengono periodicamente organizzati, nei quali i Soci possono
Editoriale
4
Labellezzasottocasa apprezzata attraverso visite a luoghi e opere d’arte vicini ma spesso trascurati
ritrovarsi in un’atmosfera di serena amicizia, rafforzando il piacere di stare insieme nel corso di visite a luoghi e opere d’arte vicini ma spesso trascurati, verificando di persona il significato della frase con cui ho voluto connotare questo anno che per me si sta rivelando sempre più gratificante: labellezzasottocasa. Proprio per questo quindi va riservata grande attenzione
ai nostri eventi, che vanno preparati con estremo impegno, vissuti con larga partecipazione, ricordati come momenti di piacevole e condivisa frequentazione oltre che di accrescimento culturale. Infine, va ricordato che sono trascorsi cinquanta anni dal 1968, anno che ha visto nel mondo mutazioni epocali in ogni settore della vita sociale, comportando innovazioni che hanno cambiato per sempre realtà che sembravano non suscettibili di mutamento. Un fenomeno di tale portata non poteva essere trascurato dalla nostra Rivista, per cui la Redazione giustamente ha ritenuto di inserire in questo numero riflessioni e ricordi che, mi auguro, potranno offrire concreti elementi di approfondimento su questo tema così largamente dibattuto. Concludo salutando tutti con vivissima cordialità, in attesa di incontrarvi al Castello di Gradara ed alla Rocca di Verucchio per rivivere insieme le gesta delle aspre e lunghe lotte tra gli Sforza ed i Malatesta. ¤
Argomenti
5
Sommario 7
Per non dimenticare
Pietre d’inciampo segni della memoria DI PAOLA CIMARELLI
11
Gli anni ribelli | 1
Il ’68 in controluce generazioni a confronto DI GIORDANO PIERLOLENZI
17
Gli anni ribelli | 2
Al tempo delle proteste e delle speranze io c’ero DI LELLA MAZZOLI
21
Il caso
Rossini fischiato non tornò più a Pesaro DI DANTE TREBBI
25
La collezione
Elmi, armi, armature e amori impossibili DI LUCA FABBRI
27
Arte e tecnologia
Una “luce intelligente” per le opere di Giotto DI LUIGI BENELLI
31
Arte
La scultura di Vangi Una piazza nella piazza DI FEDERICA FACCHINI
37
L’evento
Corrado Cagli from Rome to New York DI ALBERTO MAZZACCHERA
Argomenti
6
Sommario 41
I protagonisti
Il realismo magico del pittore Antonelli DI MAURIZIO CINELLI
43
Le grandi mostre delle Marche
Ad Ascoli si scopre l’arte di Filotesio DI FRANCO DE MARCO
45
Solidarietà
Un lungo “filo d’oro” di amore e di forza DI CLAUDIO SARGENTI
49
Le pagine del passato
Si affaccia sul porto la storia di Ancona DI CLAUDIO DESIDERI
53
Freschi di stampa
55
Freschi d’accademia
Sul podio, narratori e poeti marchigiani
Post sisma, i sentieri dello sviluppo DI ALESSANDRO RAPPELLI
> I beni culturali spesso percepiti come ostacolo > Biblioteche e archivi feriti, quale futuro? > Aiuto psicologico agli studenti dall'Università > Territorio vivace e da valorizzare nonostante tutto > Ricostruzione, la sfida delle imprese
In copertina "Scultura della Memoria" di Giuliano Vangi - particolare (Foto di Sergio Giantomassi)
Per non dimenticare
7
Pietre d’inciampo segni della memoria LA PERSECUZIONE, 80 ANNI FA LE LEGGI RAZZIALI
A
di Paola Cimarelli
veva solo 33 giorni Ornella Coen quando suo padre Dante fu deportato, nell’agosto 1944, ad Auschwitz da Milano, dove si era trasferito da Ancona per cercare un lavoro dopo i “Provvedimenti per la difesa della razza italiana” del 17 novembre 1938. Morì a Birkenau il 4 aprile 1945. A lui è dedicata una delle “pietre d’inciampo” inaugurate con una cerimonia che si è svolta nella Sinagoga dorica in cui testimoni delle famiglie colpite dall’Olocausto, dal nazismo e dal fascismo si sono confrontati ricordando gli 80 anni delle leggi razziali, “cugine” della difesa della razza ariana nazista, perpetuata attraverso una legislazione antisemita. Gli ebrei erano allora una mi-
noranza, l’1 per mille della popolazione italiana, poco più di 45 mila persone compresi coloro che erano fuggiti dai Paesi conquistati dal nazismo. Le vittime dell'Olocausto, secondo uno studio in corso dell’Holocaust Memorial Museum di Washington, vengono stimate in 15-20 milioni di cui 6 milioni di ebrei. Oltre un milione e mezzo erano bambini di cui un milione ebrei. “Le ‘pietre d’inciampo’ permettono di ricordare quello che è successo a causa delle leggi razziali e del nazi-fascismo – ha detto Ornella Coen -, che troppe persone sono state deportate e ingiustamente uccise. Indipendentemente dal nome, tutte le pietre devono far pensare ai sei milioni di ebrei che furono assassinati nei campi
Per non dimenticare
Piccoli monumenti impressi sulle strade Un messaggio forte per ricordare anni di violenza di discriminazione e intolleranza
8 di concentramento”. Manfredo Coen, Comunità ebraica di Ancona, ha parlato “degli episodi di antisemitismo che si stanno susseguendo in giro per l’Europa, che rappresentano un campanello di allarme non solo per noi ma per tutta la civiltà europea perché il nazismo è cominciato proprio così, nell’indifferenza di fronte a certe manifestazioni. Va bene, perciò, mantenere viva la memoria ma non solo il 27 gennaio. Occorre farlo tutto l’anno”. Marco Labbate, Istituto storia Marche, ha detto che “ci dobbiamo prendere cura di questi monumenti alla memoria vigilando su di essi, così piccoli ma che rappresentano un segno forte. Entrano nel tessuto e nella storia della città in maniera umile ricordandoci che, lì dove sono, c’è stata una vita spezzata dall’intolleranza, prima con la persecuzione normativa, con le leggi antiebraiche, e poi con la persecuzione fisica”. Per Paolo Marasca, assessore alla Cultura del Comune di
Ancona, “il gesto quotidiano dell’inciampo ci ricorda che anche la nostra vita è un inciampo. Ci permette di riflettere sui nostri errori. Dobbiamo, perciò, riempire la città di simboli che ci possano aiutare a ricordare”. L’Assemblea legislativa delle Marche ha dedicato la seduta aperta per la “Giornata della memoria” agli 80 anni della legislazione razziale fascista e ai 70 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo ospitando anche gli studenti che hanno partecipato al concorso “I giovani ricordano la Shoah”. Il presidente Antonio Mastrovincenzo ha sottolineato “come non si possa dimenticare l'orrore e l'infamia delle leggi razziali di cui il nostro Paese si macchiò ma occorre anche ricordare che, dieci anni dopo, l'Onu, memore dell'Olocausto e della persecuzione razziale, approvò la Dichiarazione universale dei diritti umani”. “Molte sono le somiglianze fra la Dichiarazione e la nostra Carta
Nemesi storica: è un artista tedesco l’autore delle “Stolpersteine”
U
L'artista tedesco Gunter Demnig mentre posa una delle migliaia di pietre d'inciampo dislocate in 1200 luoghi
n segno visivo per inciampare nella storia e non dimenticarla. Una "pietra d'inciampo" messa di fronte al portone della casa, del luogo dove lavorava o studiava chi venne deportato nei campi di concentramento nazisti o fascisti. Sono le "Stolpersteine", create dell'artista tedesco Gunter Demnig, piccoli blocchi che prendono il posto di un sanpietrino nella strada per raccontare, su una targa di ottone, il nome, la vita di chi è stato ucciso a seguito dell'Olocausto. In Europa, da quando Demnig ha iniziato questo progetto di difesa della memoria nel gennaio 2009, ne sono state installate più di 61 mila, po-
sizionate in 1.200 luoghi in decine di Stati. Nel sito internet di Demnig, si legge che le cerimonie sono già previste fino a settembre 2018. Il 30 ottobre 2017, è stata posizionata la prima installazione fuori dell'Europa, di fronte alla scuola Pestallozzi di Buenos Aires per commemorare i bambini costretti a fuggire dall'Europa tra il 1933 e il 1945. Il progetto di adesione alle "Pietre d'inciampo" nelle Marche è nato dal Tavolo sulla memoria, costituito dall'Assemblea legislativa delle Marche con l'Istituto storia Marche, Comunità ebraica, Anpi, Rete universitaria per il Giorno della Memoria, Ufficio scolastico regionale,
Per non dimenticare
costituzionale – ha aggiunto Mastrovincenzo -, identica la volontà di riscattare un'umanità che, per larga parte, si era resa responsabile di un consenso di massa alle dittature e alla violenza che aveva portato fino alla guerra. Non sono state soltanto la risposta alla barbarie di allora ma restano, ancora oggi, le bussole dell'umanità per andare avanti. La democrazia vive nel presente ma si alimenta di memoria e di visione del futuro” ma “se oggi la parola futuro può evocare incertezza e preoccupazione spetta alla politica misurarsi con le novità guidando i processi di mutamento”.
9
Cosa può fare un bambino di fronte alla paura del fascismo e del nazismo? Diventare invisibile. Il racconto è di Bruno Segre, studioso di cultura ebraica, fatto di fronte agli studenti del liceo classico
Stabili di Ascoli Piceno, in un’iniziativa del Circolo Acli “Achille Grandi” e dell’Istituto provinciale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche, a cui ha detto di “essere emozionato nel presentarmi a voi come un vostro compagno di scuola di 73 anni fa”. Nella vecchia sede, infatti, Segre riprese gli studi, alla
Anci, Anmig-Associazione nazionale fra mutilati e invalidi di Guerra, Comune di Ancona. Lo scorso anno, ne furono collocate tre: due ad Ancona, alla memoria di Giacomo e Sergio Russi (in via Saffi) e di Ferruccio Ascoli (Corso Amendola), e una a Ostra Vetere, per ricordare Gaddo Morpurgo. Quest’anno, per celebrare la Giornata della memoria, ne sono state disvelate sette nel capoluogo marchigiano, in tre luoghi differenti della città: le pietre d’inciampo che ricordano Dante Coen e i coniugi Guido Lowenthal ed Eugenia Carcassoni in via Astagno, nel cuore del ghetto, Gino Tommasi in via Isonzo, Achille Guglielmi, sua moglie Elsa Zamorani e il figlio Gino a Villa Gusso, in via Santa Margherita. Persone che furono arrestate, depor-
tate, uccise o morti nei campi di concentramento. A Demnig abbiamo chiesto perché abbia creato le "pietre d'inciampo". "Per riportare il nome delle persone nel luogo dove questa gente viveva. Il luogo da dove furono deportati. Perché c'è un passo del Talmud che dice che un uomo viene dimenticato quando si dimentica il suo nome". Crede che parlare di questi fatti sia ancora di attualità? "Sì perché sono molte le famiglie che vogliono ancora sapere cosa successe ai propri cari durante il nazismo e il fascismo". Com'è possibile coinvolgere i giovani su questi temi? "Vedo che i giovani sono molto interessati perché questo potrebbe ancora accadere nella cosiddetta "Land der Dichter und Denker", la terra di poeti e pensatori". p.c.
Io Segre, ero diventato un bambino invisibile
Qui sopra, Bruno Segre, studioso di cultura ebraica in un'incontro con gli studenti del liceo classico Stabili di Ascoli Piceno Sotto e nella pagina seguente la cerimonia della memoria nella Sinagoga di Ancona
Per non dimenticare
Le “pietre” rappresentano le vite spezzate da una persecuzione di legge e poi dalla persecuzione fisica
10
fine della guerra, dopo essere stato bandito dalle scuole dalle leggi razziali. Nella città picena, la mamma Kathleen Keegan, con Bruno, 13 anni, e la sorella Laura, si era rifugiata, arrivata da Milano, nel 1943. Un incontro con i giovani, quello di Ascoli, avvenuto il giorno dopo la nomina a senatrice a vita di Liliana Segre, (nessuna parentela con la famiglia di Bruno), da parte del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Segre, oggi 88 anni, ha lavorato con Adriano Olivetti. Ha fatto parte del Consiglio del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano ed è stato presidente dell’associazione “Amici di Nevé Shalom/Wahat al-Salam”. Si è definito “un ebreo totalmente secolarizzato, con il terrore per tutto ciò che è pensiero unico”. Con le leggi razziali del 1938, ad otto anni dovette abbandonare la scuola. “Fu un’infanzia solitaria – ha detto Segre, che racconta la sua vita ad Alberto Saibene nel libro “Che razza di ebreo sono io”, edito da Casagrande -, in cui mi è mancato il mondo dei miei coetanei. Fu traumatico essere buttato fuori dalla scuola, che era vicino casa a Milano. Ero diventato trasparente, invisibile, anche per i miei ex compagni di classe quando li incontravo”. Le leggi razziali vietavano la frequenza delle scuole, sia come insegnanti sia come allievi, ma permettevano di dare gli esami di fine ciclo scolastico da privatista. Cosa che fece anche Segre in quarta e quinta elementare per accedere alle medie. Il padre Emanuele tentò di
ottenere la “discriminazione” per sé e la sua famiglia, una specie di “ammorbidimento della persecuzione - ha spiegato Segre –, prevista dalla legge fascista nel caso di cittadini italiani di razza ebraica considerati ‘buoni’ cittadini. Un’accorata rivendicazione di cittadinanza, per vedersi restituire l’italianità, che però non ottenne risultati”. Il rifiuto della domanda viene comunicato il 22 giugno 1941, lui muore per ictus il 24 giugno. La famiglia poté, per fortuna, contare sulla conoscenza delle lingue della mamma, originaria di Dublino, che continuò in qualche modo a fare traduzioni, ma il pericolo di essere arrestati li costrinse a rifugiarsi ad Ascoli. Qui, dopo aver attraversato un’Italia devastata, vissero nascosti nove mesi nella casa della famiglia di Romeo De Amicis, uno scalpellino anarchico che li accolse e li protesse fino alla liberazione di Ascoli. Dell’isolamento Segre, malgrado la possibilità di avere vicino “la mansardina delle salsicce”, ne ha parlato “come di un incubo. Non volevo più vivere perché non avevo nessun futuro, non riuscivo ad immaginarlo”. Di quel periodo, Segre dice di “ricordare bene il fascismo, sulla pelle” ma della Shoah, dello sterminio degli ebrei, nei primi anni, non c’era ancora totale consapevolezza. “L’enormità della catastrofe ci si rivelò soltanto a tragedia consumata” racconta Segre nel libro ma ascoltare le storie di chi tornava dai campi di concentramento, in un primo momento, “fu veramente molto difficile”. ¤
Gli anni ribelli|1
11
Il ’68 in controluce generazioni a confronto I GIOVANI DI ALLORA UTOPISTI, ORA PIÙ RINUNCIATARI
I di Giordano Pierlorenzi
In alto, un'elaborazione grafica di Sergio Giantomassi
l malessere giovanile - le mal de vivre, su cui Charles Boudelaire a lungo indaga -, è un refrein che ritorna frequentemente nella storia dell’uomo. E’ una questione annosa e molto delicata a cui la psicologia sociale cerca di porre rimedio studiando il profilo del giovane, dei suoi atteggiamenti e stili di vita nella duplice dimensione trasversale e longitudinale: il giovane di ieri e di oggi in un confronto crudo. Un confronto su parametri oggettivi da cui emerge un differenziale antropologico ed esistenziale: la sfida con la morte, il senso del futuro, le relazioni socio-affettive, l’identità di genere, il
lavoro, il sacro e i valori fondanti. Chi è dunque il giovane d'oggi in Italia e nelle nostre Marche in particolare e come si presenta? Lo qualificherei con quattro aggettivi: tenero, vago, fragile e aggiungerei anche un po’ smarrito. Vittorino Andreoli, psichiatra sociale, definisce i giovani di oggi "eroi del nulla". Un ossimoro, un bisticcio di parole: "eroe del nulla". Per capirne l’anima e l’animus occorre non solo indagare il contesto attuale, ma soprattutto l’evoluzione storica dell’ultimo scorcio di secolo. I giovani di oggi sono i figli, anzi i nipoti di quelli del ’68 e rispetto a questi presentano un' identità venata di tristez-
Gli anni ribelli|1
Cinquanta anni fa un fenomeno che ha modificato il sistema e ha lasciato il segno anche nelle Marche
12 za, di melanconia e una personalità piuttosto lieve. Quali differenze intercorrono tra i giovani del '68 e i giovani del 2000 avanzato; i giovani di oggi? Per dirla con le parole del filosofo urbinate mio maestro Italo Mancini – la storia è ciclica, dove si alternano come in un loop utopia, ideologia e prassi -; allora si viveva e consumava completamente l’utopia, la sbornia di uno sviluppo indistinto e percepito senza fine, a cui è succeduta la fase dell’ideologia con conflitti sociali anche molto gravi ed infine la lunga stagione prassiologica, del vivere l’inerzia e l’anomia sociale. Eric Fromm potrebbe ulteriormente aiutarci con le sue categorie teoretiche dell’essere e dell’avere. I giovani del '68, figli della generazione post bellica e delle carestie che ancora ne permeavano l’educazione, “desideravano tutto e subito" e la brama e l'aggressività (sentimento in sé positivo) ideologica li spingeva al confronto e persino allo scontro contestativo, al seguito di quella
filosofia Marcusiana, che dai campus americani del 1963 si è riverberata e riversata nel 1968-69 dapprima a Parigi e poi in Italia nelle università di Milano, Trento, Urbino e Bologna. I giovani di oggi invece, "hanno tutto e desiderano poco o nulla". Fa loro difetto la curiosità, la ricerca anche avventurosa, il rovello odisseico, la prossimità fisica e familiarità sociale. E nella monotonia diventa inevitabile la fuga nel virtuale, nel digitale, surrogato insufficiente di quell’immaginario che la favola e il mito nutrono tradizionalmente la formazione umana. E la deriva e la rovina nella devianza e nella dipendenza è presto cosa fatta. Questa è la differenza sostanziale. I giovani di oggi sono crollati nell'abitudinarietà della prassi, nella noia e pigrizia di un largo benessere; con la caduta delle ultime ideologie si è sopito in loro pure l'estremo anelito ideale. Manca il desiderio. Appaiono più rinunciatari, prassisti. Sono legati al
“Condividevo la protesta ideale e morale contro la società ingiusta”
N
ell’aprile 68 ero con mia sorella a Parigi, una settimana di bellissima gita. La città immensa, senza orari, con aperture notte e giorno di negozi e drugstores, ma soprattutto la società multietnica, erano la rivelazione di un mondo sconosciuto. Convivevano razze varie, apparentemente senza problemi, giovani di colore e di ceti sociali diversi. Un mese dopo sarebbero iniziati i disordini alla Sorbona, poi a Valle Giulia e in seguito la confusione tumultuosa di tutto il resto… Nel novembre mi laureavo a Bologna e qualche giorno dopo cominciavo ad in-
segnare a Liceo classico di Fano: era la volta delle assemblee convulse e interminabili che sarebbero durate per anni in tutte le scuole d’Italia. Da alleata con i ragazzi condividevo la protesta ideale e morale contro l’autorità imposta, contro la società ingiusta, contro le ipocrisie della famiglia. Niente di violento, ma bisognava allora modificare l’ordine costituito, discuterne la legittimità, protestare e sperare di cambiare il mondo, desiderio che sarebbe rimasto valido per tante generazioni di ragazzi fino alle disillusioni degli anni 80. “Il privato è politico” era lo
slogan più importante di allora e cinquant’anni dopo resta un criterio certo meno assoluto ma ancora valido, nel senso di una libertà interiore da tradurre in vita concreta collettiva, in scelte autonome e senza imposizioni. Libertà di ragionare con la propria testa, pagando di persona l’autonomia da schemi politici e da gruppi precostituiti. Lavorare seriamente, scrivere, occuparsi di problemi della società: un’inesauribile continuità sessantottina, una “privata utopia”, nonostante le delusioni e malgrado la stanchezza esistenziale. Grazia Calegari
Gli anni ribelli|1
tran-tran, al gruppo, al clan o tribù (termine rieditato dai sociologi), vivono di meno lo spirito di avventura, di iniziativa che caratterizzava i giovani del '68. Questi sessantottini erano definiti utopisti e ribelli; i giovani di oggi invece, rinunciatari e consuetudinari: "I ragazzi del muretto'', dal titolo di un serial televisivo, oziano tutto il giorno sullo stesso luogo caratterizzato da un muro, che diventa totem, simbolo dell'appartenenza ed aggregazione. I giovani di ieri erano più amati dalla società, dalle istituzioni - la famiglia, la scuola -, ma erano anche più coartati, vessati dalle regole. Non a caso il '68, “deregulation”, è stato una ventata contro la "regulation", come veniva definita la società rigida e monolitica di allora: donde l'eliminazione di tabù e divieti che frenavano la voglia di evadere, di uscire da quello che era considerato il recinto abitudinario. E slogan scanditi dai megafoni su ‘la scuola libera’, ‘l’amore libero’, ‘no alla naia’ diventano ritornelli nei siting e nei cortei. I giovani di oggi al contrario sono più autonomi, più liberi, ma anche più abbandonati. Ecco il rapporto tra l' io e la società. La società di ieri era più rispettosa e guardinga, ma anche più restrittiva e repressiva. La società di oggi è più aperta, più liberale, ma anche meno capace di amare; e i giovani si sentono da essa abbandonati, deprivati del calore e dell'affetto di cui sentono di avere inutilmente diritto. Sul piano dell'essere i giovani vivono l'inquietudine derivante da quella che viene definita in termini scientifici la "sindrome del mancato incontro'' - mis match -, tra la società e il giovane stesso. Provano la pesantezza, talvolta intollerabile, della coscienza di vivere in una società efficiente, ricca, potente, ma anche più disumanata
13 e ostile, una società che non li ama, che li marginalizza. Soffrono soprattutto per l'indifferenza in cui sono lasciati. L’amore, questo sentimento così gridato e consumato allora è oggi appena sussurrato, addirittura bandito in certi ambienti o sostituito da sinonimi di minor carica semantica ed emozionale come affetto, bene, carineria. Una sorta di vergogna, di falso pudore sembra cogliere la gente a pronunciarla e chi è costretto ad usarla, sembra chiederne in anticipo l’autorizzazione. La parola sesso invece, anche nelle canzoni sostituisce l’amore indicando la sfera indistinta di relazioni sempre meno personali, più meccaniche e mediate dal web. Pensiamo ai giovani in famiglia, definita oggi nucleare - padre, madre e figlio - dove si respira una conflittualità forte dovuta alla competizione tra i genitori e dove essa sempre più spesso esplode in una rottura, in una separazione a danno dei figli, che vengono lasciati a se stessi, o in balia dell’assistenza sociale. La famiglia aperta, ultima annotazione giornalistica, disegna l’esplosione della famiglia tradizionale e la sua trasformazione in un agglomerato indefinito, in cui si convive “civilmente”, ma dove i sentimenti trovano luogo solamente con misura e convenzione. Pensiamo alla scuola, sempre più preoccupata di star dietro ai programmi, ai suoi tempi di realizzazione e sempre meno impegnata a capire l'indole, il temperamento di ciascun giovane, che proprio nell'età più delicata, ma anche più affascinante, che è quella dell'adolescenza, si trova pressoché da solo a lottare con se stesso, con gli altri, spesso i bulli, con
Dall'alto, la minigonna inventata da Mary Quant, la Fiat 500 mito di quegli anni e una manifestazione di giovani contro il sistema
Gli anni ribelli|1
I giovani del ‘68 desideravano tutto e subito Quelli di oggi hanno tutto e desiderano poco o nulla
14 le sue forze scatenate dalla crescita biologica e psicologica contro una società che non lo capisce e non cerca neppure di capirlo. Una scuola aihmè, oggi talvolta anche luogo di incomprensibile ed inaccettabile violenza. Non è difficile, guardando la televisione, seguendo i telegiornali o sfogliando una rivista, notare che la società di oggi - ma d'altronde anche quella di qualche decennio fa -, nel mondo occidentale postindustriale, postmoderno, è una società degli adulti, una società che marginalizza i giovani e ghettizza gli anziani. Adulti, forse troppo arroccati nelle proprie certezze anacronistiche? È un problema serio quello dei giovani, perché una società che non pensa ai giovani non pensa al suo futuro, un futuro multietnico e multiculturale con un forte decremento demografico dei nativi, aperto a sempre nuove sfide, è una società votata all'estinzione, una società autolesionista,
masochista. Una società che deve ritrovare la sua identità prima di tutto valoriale. Quindi, come si può pensare che i giovani di oggi possano avere una personalità forte, una personalità definita, certa quando il risultato adattivo, socializzativo è quello di una condotta di vita improntata a sopravvivere piuttosto che a vivere in pienezza? Si, i giovani di oggi sopravvivono, non vivono; il loro spirito è come inibito, compresso, atrofizzato; è uno spirito languido, è uno spirito inerte. Faccio un esempio. Un bimbo di pochi mesi vive nell'infanzia - etimologicamente l'età in cui non si parla -, vive il rapporto di dialogo esclusivo con la madre e si arricchisce, si nutre, prima ancora che del suo latte, del suo sorriso e del suo contatto fisico (polisensoriale) tenero e caldo. I giovani, fino a quando non arrivano ad essere affrancati, liberati, cioè autonomi - intorno ai vent'anni, cioè nell'epoca in cui l'adolescenza lascia il posto alla
“Quell’anno in divisa Capire prima di ubbidire”
E
ro laureato da due anni e m’ero pagata l’Università, e la “giulietta”, scrivendo per “Gazzetta dello sport”; avevo la cattedra di chimica agraria vinta nel concorso nazionale; avevo la morosa e insieme sognavamo che il ’68 avrebbe potuto cambiare mondo. Nell’aria c’era però la “cartolina” che arrivò con l’ordine di presentarsi a Caserta il 12 luglio, venerdì, alla caserma Ferrari-Orsi, Scuola Truppe Motorizzate, 52° corso AUC, carristi. Avevo chiesto l’ammissione per Allievi Ufficiali non per spirito militaresco ma, prosaicamente, solo per uno stipendio “vero” invece della “decade” (1.740 lire ogni dieci giorni). Il 12 luglio è anche il
compleanno di Grazia e la sera prima, con parenti e amici, si fa la cena di auguri e di commiato a casa mia, all’aperto, sotto un grande albero. Parto presto il giorno dopo e, nel pomeriggio, vengo “imbrancato” con altri giovanotti da uno in divisa che ci conduce alla Ferrari-Orsi accolti dal ‘benvenuto’ dei nonni: “microbi !, morirete !”. Ci si butta sulla branda finché dall’altoparlante gracchia una tromba e uno grida “sveglia!, giù dalle brande!” … Os’cia, sono solo le sei ! Assalto ai cessi, “alla turca” e senza porta. “Adunata!, muoversi!”, Chissà perché, qui, tutti gridano! Il branco è investito da urla, ça va sans dire: “in fila!, dove vai!, allineati!, coperti!”.
Gli anni ribelli|1
15
giovinezza – hanno bisogno di questo contatto tenero e caldo, in particolare della madre, del padre e degli ascendenti. Le figure dei nonni e degli zii, che sono scomparse dalla scena familiare, hanno lasciato un vuoto incolmabile, una carenza insopportabile: la tenerezza di uno sguardo amico, di un abbraccio caloroso, di un bacio sincero, di un ammonimento, di un diniego motivato, di un consiglio disinteressato. Ebbene questi giovani, sono cresciuti e crescono con uno spirito non compiutamente coltivato; sono cresciuti senza il nutrimento più genuino, che è il calore, l'affetto, l'amore dei consanguinei, degli amici e di tutto il prossimo; vivono nell'isolamento, nella teledipendenza dal televisore, computer, smartphone, tablet, videogames. ‘Smanettano’ sul cellulare tutto il tempo e ovunque perdendo di vista il contesto umano. Il fenomeno agghiacciate dell’hikikomori, diffuso
in Giappone del vivere isolati in una stanza con il solo collegamento con l’esterno del computer. Il clima domestico, l'atmosfera di famiglia non è tendente al sereno stabile, è invece variabile e talvolta a lungo perturbato. Quindi la condotta di vita dei giovani di oggi è motivata da uno spirito debole e improntata prevalentemente a sopravvivere piuttosto che a vivere e a vivere in pienezza. Non già come i loro genitori, i loro nonni, come noi del '68. Noi avevamo, invece, uno spirito gagliardo, uno spirito forte, che prorompeva in attività avventurose, anche rischiose certo, ma che si determinavano, concretizzavano in qualcosa: un progetto, spesso dai confini tuttavia non sempre netti, anzi nebulosi talvolta per una incoscienza di fondo. Poi, si è visto infatti, si è trattato di qualcosa di veramente utopistico, anche aleatorio, velleitario. La ventata comunque di calore che questo
Le divise ce le assegnano “a occhio” e la mia carriera, per aver trasformato un box-cesso in doccia deviando lo sciacquone, comincia con 5 giorni di consegna - il primo punito della compagnia - ai quali ne seguirono molti altri a Caserta. Allineati e coperti, conosciamo gli ufficiali. Scopriamo d’esser stati scelti per una compagnia che alzasse l’immagine dell’esercito. Siamo tutti laureati o già professionisti, molti sono docenti d’Università. Pian piano assumiamo il tono militare per “il giuramento” mentre, sulle “sinossi”, studiamo tattica, Ncb, armi, carri, compreso il cannone illustrato dall'essenziale spiegazione del maresciallo armiere "Vardat'accà... fire (sic) - no fire (sic) sarebb'a dicere: sc'spare, nun spare, È cumme ‘nu fucilone". Fuori era sbocciata la “primavera di
Praga” soffocata a metà agosto dai carri armati che sferragliano sulla Parizska e in piazza Venceslao dove Jan Palach, quale estrema protesta, si farà torcia. Quell’invasione fu l’oggetto di commenti e discussioni consentendoci di rafforzare la personalità di ciascuno e dell’insieme, non esser numeri, capire prima d’ubbidire. Alcuni superiori divennero amici dialogando con noi d’arte e letteratura, di tecnica e d’umanità. Dissensi, piccole conquiste e rari mugugni ci accompagnarono nel diventar “tenenti” mentre, nell’ozio operoso di caserma, una radio ripeteva il nostro leit motif: “Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro e lungo per me. … allora quasi quasi prendo il treno … ma il treno dei desideri nei miei pensieri all'incontrario va”. Ettore Franca
A sinistra, Ettore Franca in divisa durante il servizio militare
Gli anni ribelli|1
Allora emergeva la voglia di rompere tabù e divieti e di cambiare una società ritenuta rigida e monolitica
Altre immagini degli anni della ribellione e della contestazione Nella pagina destra un ulteriore simbolo del 1968
16
spirito ha comportato si è trasformata in un 'ondata di novità (New Wave). I giovani di oggi invece, tendono a vivere una esistenza riduttiva, modesta, che non piace nemmeno a loro, ma che comunque tollerano accettandola ‘ob torto collo’ in una fredda rassegnazione. L'ultimo sussulto ideologico si è avuto con la "Pantera". Le immagini televisive della Pantera universitaria del 1987. Forse l'ultimo ruggito dei giovani? A questo riguardo, per sottolineare quanto sia importante comprendere la profondità del malessere giovanile, ci si può riferire a Dostojevskij, che nel suo libro "I racconti dal sottosuolo", dà uno spaccato estremamente preciso ed eloquente di quella che è la sofferenza derivante dal conoscere le cose, dall'avere la coscienza di una vita che non corrisponda ai propri ideali. Basti ricordare l'urgenza di porre mano alle fondamenta dell'uomo con i suoi valori eterni, rappresentata da Erich Fromm nel suo libro "Avere o essere", oppure nel libro di Milan Kundera, "L'insostenibile leggerezza dell'essere". Allora ciascuno di noi deve porsi degli interrogativi se vuole aiutare i propri figli, i propri nipoti, il fratello, la sorella a uscire fuori da uno situazione pericolosa di basso profilo di vita, quella che può divenire l’anticamera della depressione. La depressione, la malattia dell’umore è pericolosissima, perché è di natura psicologica, subdola, ancora non del tutto conosciuta e i cui primi sintomi non sono facilmente leggibili. Certo la mia analisi così se-
vera dell’attualità sociale non si riferisce alla totalità della gioventù di oggi, ma a quella parte di essa che purtroppo è in crescita e per la quale ci dobbiamo tutti preoccupare, anche fosse rappresentata soltanto da un giovane in sofferenza. L’indifferenza è il male assoluto perché va contro la vocazione sociale di cui parla Aristotele e crea precarietà ed insicurezza. Nelle Marche per quanto mi consta la situazione dei giovani è meno difficile forse per un naturale storico arroccamento alle tradizioni ed ai suoi valori antichi e forse anche, per il radicato atteggiamento individualistico poco propenso a fare gruppo, squadra. La mia analisi comparata dei giovani di due ormai così lontane generazione mi porterebbe a riproporre alla riflessione della pubblica opinione le problematiche dei giovani di allora e di oggi strettamente correlate ai loro stili di vita: la sfida con la morte, il senso del futuro e la speranza, le relazioni affettive e la comunicazione sociale, la precarietà e il lavoro, il sentimento del sacro, l’identità di genere. Ecco la società che pensa veramente al futuro deve occuparsi dei giovani e dei loro problemi vecchi e nuovi se vuol sopravvivere. Riscoprire il fascino della filosofia greca che investiva sugli anziani come portatori di sapienza e sui giovani come audaci esploratori della realtà: un nuovo patto tra le generazioni deve essere negoziato con la mediazione delle istituzioni per una società davvero civile. ¤
Gli anni ribelli|2
17
Al tempo delle proteste e delle speranze io c’ero “CI SENTIVAMO PARTECIPI DEL MUTAMENTO SOCIALE”
T di Lella Mazzoli
ranquilli. Leggerete oceani di parole, vedrete fiumi di video, foto, cimeli che vi racconteranno il '68. La prima avvisaglia "ufficiale" del movimento si ha alla fine del '67, poi nel '68 è successo quasi tutto, quasi ma non proprio tutto. Alcuni sviluppi -anche significativisono accaduti nell'anno successivo il 1969. Ma il '68 resta, nel nostro immaginario, come l'anno della rivoluzione. Chi di noi, a 50 anni di distanza, ha fra i 65 e i 75 anni, vive un delirio di ricordi. Alcuni erano al liceo, altri all'università, qualcuno si era già affacciato al lavoro, in tanti, a onore del vero, erano nelle fabbriche. Lavoro manuale. Altri (pochi) nelle università
come assistenti e collaboratori di quei docenti contestati, amati e, talvolta, stimati. Insomma in tanti siam lì a dire: "C'ero anch'io". Trasmissione d'antan che avevamo guardato con interesse e curiosità negli anni ancora precedenti il '68 e che raccontava salvataggi e pericoli bypassati o
arginati da interventi fortunosi. Intanto mentre nei licei e nelle università, nelle fabbriche e nelle piazze si contestava più o meno tutto, nel Paese la vita continuava con canoni e procedure che non facevano pensare a vere e proprie rivoluzioni. Sergio Endrigo e Roberto Carlos vincevano il Festival di Sanremo condotto per la prima volta da Pippo Baudo, che diventerà un big della conduzione di quasi tutti i tipi di trasmissioni televisive. Può sembrare irriverente ma contestualmente Dubcek sale al potere, (e io mi emoziono quando la Facoltà di Scienze politiche di Bologna, dove ho insegnato per più di vent'anni, per poi tornare alla Carlo Bo, gli attribuisce la laurea honoris causa nel 1988 e mi verrà affidato il compito di accompagnarlo per le strade di Bologna. Mi emoziono ancora di più quando mi dice che lui vorrebbe avere braccia lunghe lunghe e grandi mani per abbracciare tutti noi). Ed è giusto ricordare come sia proprio nel 1968 che la messa cattolica inizii a essere officiata, per la prima volta, in italiano. Noi che sorridevamo quando sentivamo persone con zero dimestichezza con il latino (poca ne avevano anche con l'italiano, ma questa non se ne ha tanta neanche oggi!) biascicare in "latinorum" il Pater Noster o l'Ave Maria. Tutte forme di comunicazione nuove, coinvolgenti e che al di là della loro reale forza ci hanno fatto pensare, agire, sorridere, arrabbiare e sognare.
Gli anni ribelli|2
18 E poi un fatto che allora sembrò davvero curioso e inquietante, per alcuni insensato: la condanna per plagio (non letterario o accademico ma nei confronti di persona). È il caso di Aldo Braibanti, condannato per aver condizionato il pensiero e le scelte di una persona. Plagiare qualcuno, sembrava cosa di poco conto. È proprio del 1968 questa condanna esemplare che metteva in una posizione alta, al di sopra della menzogna e della circonvenzione, l'essere umano. Forme diverse di contestazione. Quelle inaspettate. Quelle tradizionali, attese. Un po' ovunque. Da quelle messe in scena al Lido di Venezia per la Mostra del Cinema, a quelle davanti il Teatro alla Scala per la "prima" per antonomasia. Abiti strepitosi, eleganze invidiabili ma 'sporcate' da forme di critica a tanto lusso esasperato ed esasperante. Emblemi di ricchezza e, talvolta (non sempre per la verità), di ostentazione come
La Bussola di Marina di Pietrasanta. Il lusso, ma anche il mondo dei miti. Miti in scadenza e miti in arrivo come la minigonna di Mary Quant che noi ragazze, in Urbino, anche se non proprio una città del Nord, indossavamo con disinvoltura mentre le nostre amiche che dal Sud venivano a iscriversi all'università, lo facevano con più imbarazzi, soprattutto perchè subivano un maggiore controllo sociale da parte dei genitori o dei fratelli. Venivano a iscriversi soprattutto al Magistero per poter poi insegnare e perché con alcuni studi superiori ci si poteva iscrivere solo a quella Facoltà. Sarà proprio il '68 a sdoganare l'iscrizione a facoltà diverse a prescindere dalle scuole superiori frequentate prima. Una nuova legislazione per gli studi superiori e per l'università. Questo viene percepito, e forse lo è stato, come un profondo mutamento nel vissuto sociale che ha espressioni davvero innovative nel-
“Il mio Sessantotto tra sacro e profano”
S
Nella pagina destra Alberto Pellegrino in un'immagine del '68
ono cresciuto in una famiglia molto conservatrice sotto il profilo religioso e politico e ho passato l’adolescenza nell’Azione Cattolica di Papa Pacelli. Il mio cammino di radicale trasformazione ebbe inizio con l’elezione di Papa Giovanni XXIII, che mi folgorò con la straordinaria enciclica Pacem in Terris e con l’inaspettata convocazione del Concilio Vaticano II che avrebbe dato un nuovo impulso al mio “cristianesimo sociale” con la Costituzione La Chiesa nel mondo contemporaneo. Nel frattempo mi ero laureato e avevo iniziato gli studi socio-
logici sui classici della sociologia, i classici del marxismo, gli scritti di Maritain (L’umanesimo integrale), Giuseppe Dossetti, Padre Ernesto Balducci, il Catechismo olandese, i documenti dell’Isolotto a Firenze. In particolare mi applicai nello studio sul rapporto tra marxismo e religione (Marxismo e cristianesimo Giulio Girardi, Marxisti e Cristiani di Angelo Marchese, Umanesimo Marxista. Evoluzione e istanze positive di Gualberto Gismondi), cui si aggiunse la lettura de Gli Scritti Corsari di Pier Paolo Pasolini e delle opere di Herbert Marcuse. Non arrivai quindi impreparato all’appuntamento con la Storia rappresentato dal Sessantotto, che
Gli anni ribelli|2
le denunce che arrivavano da Don Milani, prete di Barbiana, ma anche denunce attraverso la musica come il rock e le tante band che, in quel periodo, nascevano e morivano nell'arco di un tempo troppo breve per avere successo e per essere ricordate, ma che avevano quel sapore di trasgressione che ci piaceva tanto. La musica è stata sempre una forma d'arte e di comunicazione che ha innovato, inventando, linguaggi e che ha raggiunto il suo culmine nel grande raduno di Voodstock. Contestualmente ai Beatles non fu permesso di apparire in tv. Tante le "rivendicazioni" stampate su fogli "tirati al ciclostile" che è stata la star della comunicazione. Gestetner, una marca, un'icona. La macchina da scrivere tagliava le lettere che si potevano rattoppare e su quel rattoppo ci si poteva ancora incidere sopra, poi in quelle matrici ci si poteva anche fece nascere tante speranze di radicale cambiamento del mondo e che ha lasciato una traccia significativa nella storia del secondo Novecento. Nel 1963 avevo iniziato la mia attività di docente e la pubblicazione di Lettera a una professoressa di Don Lorenzo Milani nel 1967, segnò profondamente la mia vita d’insegnante, per cui da quel momento m’impegnai per una scuola più moderna e democratica che cercai di sostenere con una serie di conferenze, seminari, i corsi di formazione e oltre venti volumi di educazione civica. Sempre nel 1967 arrivò la rivoluzionaria enciclica Popolorum Progressio di Paolo VI, che ebbi modo di presentare e commentare in una serie di conferenze sul cristianesimo sociale. Ormai i tempi del cambiamento erano maturati anche nella sinistra
19 disegnare incidendo con una punta. Anche quella è stata una rivoluzione. Così come la lotta a tutto ciò che era mainstream, al consumismo, al potere tradizionale, per dare spazio a altre forme di comunicazione, di potere, di cultura. E intanto mentre tutto ciò si consolidava e prendeva forma e forme diverse, andavamo nelle università a "controllare" il lavoro dei professori con collettivi, commissioni di esami. In tal modo ci sentivamo partecipi a una rivoluzione che stava modificando le nostre vite, a volte con leggerezza, altre con maggiore profondità. Un solo ricordo di un accadimento violento è quello dell'incendio di laboratori nella mia Università, a Urbino. Episodio triste e per niente difendibile che aveva visto tanti dissociarsi e credere che la partecipazione alla contestazione doveva esprimersi, ma in altro modo. ¤
democristiana e, alla fine del 1967, si raccolsero intorno alle riviste Marche 70 (1967-1972) e Il Mese ( 1974-1979) un gruppo di intellettuali marchigiani di diversa estrazione politica (politici, economisti, sociologi, urbanisti, giuristi, storici, letterati, artisti), che furono denominati i “kennediani” e che, dopo il maggio 1968, fecero proprio il motto “La fantasia al potere”. Il gruppo si batté sulle due riviste e nei rispettivi partiti per l’arretramento nell’entroterra dell’autostrada
I quel periodo la messa non fu più celebrata in latino ma in Italiano Gli anni di Woodstock e della minigonna
marchigiana e la costruzione della Strada Pedemontana; per l’istituzione dell’Ente Regione con l’abolizione del Province e la creazione di sei aree metropolitane di una futura Città-regione; per l’abolizione della mezzadria a favore della piccola proprietà contadina e della cooperazione agricola; per la riforma delle università marchigiane; per un nuovo uso di teatri, biblioteche e altri beni culturali; per il rinnovamento della politica e a favore del “compromesso storico”. Purtroppo l’assassinio di Aldo Moro e la successiva scomparsa di Enrico Berlinguer posero fine alle mie speranze di un radicale cambiamento dell’Italia e questo pose anche fine al mio impegno nella politica attiva. Alberto Pellegrino
Questa pubblicazione è realizzata anche grazie al contributo di:
Il caso
21
Rossini fischiato non tornò più a Pesaro DOPO IL RIFIUTO DEL CIGNO A CAROLINA DEL GALLES
I di Dante Trebbi
l 16 agosto 1817 giungeva a Pesaro, proveniente da Senigallia, Sua Altezza Reale Principessa del Galles, Carolina di Brunswick, “passando per la porta di Fano e, partendo direttamente da quella del ponte, smontò alla Villa di Caprile, luogo da lei scelto per la sua dimora accordatale dalla famiglia dei Marchesi Mosca che ne è la posseditrice”. Carolina era la moglie di Giorgio IV, reggente dal 1811 il regno d’Inghilterra in nome del padre Giorgio III. Sposatasi per “ragioni di Stato”, dopo un burrascoso matrimonio, nell’agosto del 1814, dietro un compenso di 35.000 sterline annue, lasciò Londra per intraprendere una vita “mondana e dispendiosa” attraverso lunghi viag-
gi e crociere che la portarono a visitare le principali città d’Europa e le isole più belle del Mediterraneo. Faceva parte del suo seguito Bartolomeo Pergami, uno stalliere conosciuto a Milano nel 1815 che, divenuto poco dopo suo amante, è insignito del titolo di Barone. Soggiornando nella Villa Caprile, Carolina ebbe modo di ammirare la bellezza della natura del Monte S. Bartolo e ne rimase talmente colpita che il 20 marzo 1818 il Barone Pergami acquistò in suo nome dai Marchesi Leonori “Villa Gherardesca”, situata a pochi passi dalla dimora dei Mosca. La villa, ribattezzata “Villa Vittoria” (in onore della figlia del Pergami), elegantemente ristrutturata dall’architetto Andrea
Il caso
22 Antaldi, divenne ben presto un luogo di svago e di divertimento frequentato dalle famiglie più influenti di Pesaro ed in particolare da quella di Francesco Cassi. Molto presto, però, i maligni, iniziarono
Il compositore declinò l’invito di presenziare ad una festa della principessa del Galles e scatenò la vendetta
a far correre voci che queste feste avvenissero in un clima di dubbia moralità e, quindi, era consigliabile non parteciparvi. Forse, fu questo il motivo per cui nel 1819 Gioachino Rossini rifiutò l’invito di Carolina di presenziare ad una sua festa, giustificandosi “ che avendo la schiena piena di reumatismi non poteva fare inchini”. A consigliarlo di “ non fare berretta alla principessa” era stato il suo più caro amico, Giulio Perticari. Il rifiuto non fu bene accetto da Carolina. Il suo amante Bartolomeo Pergami, giurò vendetta. “La sera del 24 maggio – riporta una lettera del tempo a firma del Conte Francesco Cassi - doveva rallegrare il Teatro di Pesaro … la presenza del nostro concittadino Gioachino Rossini il quale era di ritorno da Venezia, ove aveva riscosso novelli allori ed aveva trionfato in mezzo all’entusiasmo di quella grande città… Ma
la sera del 24 maggio fu tristissima pel Teatro di Pesaro e il popolo, che ivi era accorso in gran folla per festeggiare l’arrivo di questo illustre concittadino, dovette soffrire la vergogna che Rossini fosse atteso al varco nel di lui entrare alla porta della platea del teatro dai masnadieri della Principessa del Galles i quali, essendo stati i primi a vedere il Rossini, poterono prevenire i plausi dei cittadini e lo accolsero con orrendissimi fischi, che misero un gran scompiglio nella gente e gettarono in tutti un qualche senso di terrore, giacché costoro erano anche sparsi in varie parti del teatro e facevano segno di essere ancora presti ad adoperare i loro coltelli e le loro pistole delle quali,….. non andavano mai provveduti. Cessò, però, dopo qualche istante la sorpresa e la tema nel popolo e i fischi di questa canaglia furono vinti da un universale e ripetuto batter di mani e di viva che vendicarono tanto insulto e resero vani gli ulteriori sforzi del Pergami e dei suoi vili mercenari i quali, non contenti del primo oltraggio, tentarono di venire al secondo e di spaventare nuovamente i buoni pesaresi con quei loro brutti ceffi e fischi da assassini. Gli agenti di polizia si perderono… di coraggio e di consiglio e vi è taluno che non approva la loro condotta, tacciandola di troppa deferenza verso i capi del tumulto ; ed altri poi stimano che si siensi diportati con prudenza e che, per questa, si siano schivati quei grandi disordini che avrebbero potuto aver luogo, qualora uno solo de’ masnadieri suddetti fosse passato dalle parole ai fatti o avesse messo mani alle armi. L’assessore Ermellini (responsabile dell’Ordine Pubblico) si mostrò solo in questa circostanza degno di commentazione, giacché egli accorse in platea onde levare il Rossini
Il caso
dalla calca delle persone che lo fischiavano e lo applaudivano ad un tempo e a seco lo condusse nel palco della Belluzzi ove si trattenne fino dopo il ballo. Gli applausi si replicarono di quanto in quanto ma, in mezzo a questi non cessò l’insolenza del Pergami che sfacciatamente fe’ sempre continuamente confondere ai plausi dei cittadini i fischi dei suoi sicari. Partì dopo il ballo il Rossini dal teatro, ma si ebbe l’accorgimento di farlo passare per la picciola porta della direzione da cui partì nella carrozza di Belluzzi e ritornò alla Posta dove albergava. Restò così in parte delusa la doppia vigilanza di coloro che lo spettavano nuovamente al passo per rinnovare l’ingiuria e di coloro che aspettavano per onorarlo con nuovo plauso e per accompagnarlo con torchi (grossi ceri) accesi nell’albergo. Questi ultimi però non furono del tutto delusi, perché avvertiti a tempo della secreta sortita di Rossini, poterono raggiungerlo e fargli il dovuto onore. Dopo poche ore Rossini partì da Pesaro e una folla di cittadini lo accompagnò fino fuori Porta Fanestra con incessanti evviva e con fiaccole. Ma siccome i cittadini mescolavano alle grida di plauso quelle di “morte ai fischi”, ebbero nel loro ritorno in città il sinistro incontro di essere arrestati dalla polizia”. La mattina seguente, Francesco Cassi rimise nelle mani del Gonfaloniere le dimissioni da deputato del Teatro perché sdegnato “ del villano insulto che i pesaresi patirono la sera prima da persone non pesaresi e mercenari, le quali, impunemente, osarono con fischi tutti propri di coloro che fanno guerra nelle strade, d’opporsi alle spontanee e universali grida di plauso del popolo, ivi accolto e festeggiante, l’arrivo del nostro immortale concittadino”. Non
23 contento, propose alla Accademia Pesarese di cui era membro, di indire una conferenza per onorare la figura di Gioachino Rossini e con una lettera invitò il Consiglio Comunale a commentare negativamente il fatto accaduto e a votare per l’erezione di un monumento dedicato “al sublime concittadino”. La lettera, però, non fu recapitata al Consiglio perché fu sequestrata dal Delegato Pontificio in quanto “il permettere un pubblico tributo di lode al Rossini poteva richiamare sopra il paese le vendette dei masnadieri della principessa”. Già nella notte precedente i cittadini pesaresi avevano “sparse, per le vie della città, quattordici satire sanguinosissime e plebee e, queste satire dicevano di corna e della principessa e del Bergami e minacciavano altresì tutti e due di morte”. Riguardo al monumento il Delegato consigliò di soprassedere. Le dimissioni del Conte Cassi non furono bene accettate dalla corte di Carolina. Due giorni dopo, infatti, il conte ricevette la visita di un suo carissimo amico, Paolo Racchetti di Crema, Viceconsole d’Olanda, che gli consigliò di ritirarle e di “far cessare ogni doglianza d’insulto fatto al Rossini”, aggiungendo che “In caso contrario, anche se in modo molto velato, sarebbero state effettuate minacce di personale vendetta”. Cassi, dapprima, pensò che Racchetti avesse esagerato, ritenendo impossibile che delle persone, addette alla corte di una delle più illustri principesse d’Europa, potessero, “per sostenere un errore, congiurare alla vita di pacifici sudditi di Sua Santità e, particolarmente, di quelli dei quali si sono sempre osservate tutte le leggi della gentilezza e dell’onore”. Qualche giorno dopo, però, ricevette la visita dell’avvocato Felici, Giudice di Prima Istanza, suo carissimo amico
Il 24 maggio del 1819 mercenari assoldati da Carolina di Brunswick lo accolsero con infiniti fischi
Nella pagina a fianco, Villa Caprile dove ha soggiornato Carolina di Brunswick (nella foto in alto) Qui sopra, il barone Bartolomeo Pergami
Il caso
24
Il compositore alla fine usci dalla piccola porta della direzione sfuggendo a chi voleva rinnovargli l’ingiuria
Immagini inedite delle velenose satire sparse per le vie della città contro la principessa e il barone
e assiduo frequentatore della corte di Carolina. Questi lo informò che Bernardo Pergami, cugino di Bartolomeo e capo delle guardie della principessa, aveva più volte minacciato di “voler lavarsi le mani con il sangue del suo genero, Conte Michele Schiavini e che, la sera precedente il fatto al teatro, in tutta segretezza, si era recato all’Ufficio di Polizia per “ritirare il passaporto” e che, durante lo spettacolo, era stato visto passeggiare lungo tempo fuori del teatro “come fanno appunto coloro che hanno cattive intenzioni”. Impaurito Francesco Cassi scrisse una lettera al Delegato Pontificio, lamentandosi della situazione e preannunciando una sua lontananza dalla città con tutta la famiglia, in quanto la sua sicurezza era minacciata da persone “già avvezze ai misfatti ed pronti a fatti più audaci perché addette a una corte straniera”. Il Delegato, ricevuta la lettera, si recò dal Cassi e gli assicurò che aveva già parlato con il Barone Bartolomeo
Pergami e che questo gli aveva promesso di sorvegliare il cugino Bernardo. Inoltre gli consigliò di non partire perché questa partenza sarebbe potuta dispiacere al Governo “in quanto dalla medesima si sarebbe tratto argomento di disfidanza nelle misure della Polizia di Stato”. Accondiscendendo al voler del Delegato, il Conte Cassi allora, promise di non partire subito ma rimanere a Pesaro per altri otto o dieci giorni. L’intera vicenda ebbe il seguente epilogo: il 3 giugno, una delegazione comunale si recò a Villa Vittoria per invitare la principessa “a ridonare al teatro l’onore della sua presenza” (onore che era stato ritirato a seguito degli insulti a lei diretti dai cittadini); il 2 luglio, il Conte Cassi con la figlia Elena e il genero Michele Schiavini partirono per Crema, “per affari domestici e non per paura come potrebbero pensare certi birbanti” (rientrarono in città alla partenza di Carolina); Rossini, dopo quella precipitosa fuga dall’albergo della Posta, non tornò più a Pesaro; la Principessa del Galles, Carolina di Brunswick nell’avvicinarsi dell’inverno lasciò la città nell’intento di ritornare in Inghilterra per definire la causa di divorzio. Ritornò a Pesaro il 10 aprile 1820 e, dopo aver salutato il Barone Bartolomeo Pergami e sua figlia Vittoria di cui aveva un profondo amore materno, ripartì nove giorni dopo e non vi fece più ritorno perché la morte la colse il 7 agosto 1821; nel 1892 gli eredi di Bartolomeo Bergami, rivendicando il diritto di usucapione, divennero proprietari di Villa Vittoria. ¤
La collezione
25
Elmi, armi, armature e amori impossibili L’ ALTRA FACCIA DELLA STORICA ROCCA DI GRADARA
H di Luca Fabbri
anno “ritrovato” la via di casa dopo più di 80 anni. E ora la Rocca di Gradara, che fu teatro dell'amore impossibile di Paolo e Francesca cantati da Dante nel V canto dell'Inferno, nei suoi locali grazie al contributo della Bcc di Gradara ospita anche un'altra storia: la collezione di “Armi” antiche appartenute a Umberto Zanvettori. L'ingegnere bellunese, che condusse il restauro del monumento tra il 1921 e il 1923 nel segno del revival medievalistico, accanto a imponenti lavori di consolidamento delle murature curò anche l’allestimento delle sale. In particolare di quelle del piano nobile dove fu riproposto l’assetto di una residenza signorile tra Medioevo e Rinascimento. Zanvettori aveva costituito anche una cospicua raccolta di armi antiche che andavano ad arricchire l’ambientazione delle sale. Nel 1928, poco prima di morire, il mecenate vendette la Rocca, per il cui restauro aveva profuso tutti i suoi beni, allo Stato italiano. Già da qualche anno aveva ceduto, sempre allo Stato, la collezione di armi che era stata destinata a incrementare le raccolte di Castel Sant’Angelo a Roma. Nel 2012, dopo tanti anni, un primo nucleo di 135 pezzi, su un totale di 450 circa, è finalmente tornato alla Rocca di Gradara. Un'operazione realizzata congiuntamente dal Museo nazionale di Castel Sant’Angelo e dalla Rocca Demaniale di Gradara, grazie all’accordo tra la “Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della Città
di Roma” e la “Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Entoantropologici delle Marche”. Fondamentale fu poi il lavoro di mediazione svolto dal compianto deputato Massimo Vannucci e il contributo economico della Bcc di Gradara che finanziò il restauro, il trasporto e l'organizzazione della mostra. «L'istituto quell'anno celebrava il centenario della sua fondazione e non poteva scegliere modo migliore per festeggiarlo – ricorda il presidente della Banca di Credito Cooperativo di Gradara Fausto Caldari - Essere riusciti a riportare a Gradara, dopo 80 anni, una parte della collezione Zanvettori, ci rese orgogliosi perché stavamo ed, anzi, stiamo valorizzando l’identità dei nostri luoghi. Il merito di tale ritorno era da attribuire al Comune di Gradara e alla Soprintendenza di Urbino che riuscirono ad ottenere la restituzione di tali armi dal Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo di Roma. Ma l’onere del restauro e della realizzazione della mostra è stato ad esclusivo carico del nostro Istituto. Anche in questo caso si trattò di una collaborazione preziosa con le Istituzioni e di un’occasione in più di attrattiva per il territorio e per i tanti turisti che ogni anno frequentano il borgo di Gradara». La collezione d'Armi Zanvettori comprende armi bianche manesche corte e lunghe, armi da botta e da lancio, armi da fuoco, armature complete e parti, scudi e difese per cavalcature, sia da combattimento, da caccia e da parata, occidentali ed orientali. Nell'anno del ritorno a Gradara fu organizzata una mostra curata
La collezione
Sono tornati dopo 80 anni da Castel Sant’Angelo ben 135 pezzi antichi della raccolta Zanvettori, grazie alla Bcc di Gradara
Nella pagina precedente elmo e armatura della collezione di 135 pezzi custodita nella rocca di Gradara Sopra, un momento dell'inaugurazione con il compianto onorevole Massimo Vannucci e l'ex sindaco Franca Foronchi e il presidente della Bcc di Gradara Fausto Caldari
26
dall'oplologo Daniele Diotallevi. «Osservando un'arma, gli studiosi di ogni settore ricavano conoscenze sempre più approfondite ad ogni approccio, generando impressioni che travalicano il concetto di bene e di male. Certo, come banalizzando si continua a dire anche oggi, le armi potevano, e possono, essere usate male e molti dubitano che ci siano occasioni per un utilizzo buono – spiegò durante l'inaugurazione dell'esposizione Diotallevi - Ma ogni opera dell’uomo può avere questo destino e le armi, nel significato più ampio del termine, sono forzatamente ambivalenti. Come lo sono gli eroi, i grandi personaggi storici che se ne sono serviti e gli eventi durante i quali sono state utilizzate. Perciò considerare le armi solo un strumento di distruzione al servizio della malvagità dell’uomo è certo una assoluta forzatura. Il valore di memoria delle armi è essenziale perché parla di pericoli, di rischi, di difesa della famiglia, della cultura di un paese, di sacrifici a sostegno di un’idea contro il male. E naturalmente parla anche di abusi, sopraffazioni contro il buon diritto, sia a livello interpersonale che di rapporti interstatuali». Riportare la collezione di Armi antiche di Zanvettori a Gradara fu un modo non solo per restituire al territorio un pezzo della sua storia ma a tutta la comunità di storici e appassionati. La collezione infatti prima del trasferimento era sistemata nel deposito di Castel Sant’Angelo. «Abbiamo accolto con viva soddisfazione la proposta della Soprintendenza di Urbino di trasferire momentaneamente la raccolta Zanvettori in una
mostra temporanea nella stessa Rocca (per poi estenderla ad un deposito a lungo termine) – disse nel 2012 la direttrice del museo nazionale di Castel Sant’Angelo Maria Grazia Bernardini – Un progetto che risponde alle due esigenze primarie ossia quella della tutela e quella della valorizzazione: la raccolta infatti sarà visibile e fruibile al pubblico e, grazie al sostegno della Banca del Credito Cooperativo di Gradara, sarà sottoposta a restauro». Ad accogliere le “Armi” all'epoca fu la direttrice della Rocca Maria Rosaria Valazzi. «La Rocca di Gradara, si sa, è un monumento ricco di storia e di storie – spiegò l'allora direttrice Maria Rosaria Valazzi, poi divenuta Soprintendente - Le sue mura, nel corso del tempo, hanno visto il succedersi di uomini ed eventi, ma sono ancora pronte a offrirci inusitate suggestioni. Da qualsiasi versante si analizzi il monumento, alcuni fatti principali si evidenziano: il suo essere stato punto di snodo imprescindibile nei rapporti politici che si svilupparono tra alcune delle corti più splendide del Rinascimento italiano e cioè tra le signorie adriatiche di Malatesta, Montefeltro, Sforza, in una sorta di serrato e continuo conflitto/ dialogo. Oppure il suo emergere di nuovo dall’oblio, tra Ottocento e Novecento, nel clima, strettamente connesso alla nascita del nuovo Stato italiano, di recupero delle più antiche vicende di quel periodo oscuro e affascinante, ma così importante per il formarsi di un senso di civile appartenenza per il giovane paese, quale fu il “corrusco” e bellicoso Medioevo». ¤
Arte e tecnologia
27
Una “luce intelligente” per le opere di Giotto BENI CULTURALI, PROGETTO INNOVATIVO DELLA IGUZZINI
S di Luigi Benelli
Da sinistra, Massimiliano Guzzini Andrea Sasso e Paolo Guzzini davanti ad un altorilievo che rappresenta la città ideale utilizzato come sfondo del loro stand alla fiera biennale dell'illuminazione di Francoforte
ei lunghi mesi in cui un sensore, ogni cinque minuti, misura le variazioni della luce naturale. Cambiano le stagioni, le condizioni atmosferiche, l’esposizione solare, ma tutto viene analizzato e fissato in un computer che genera un algoritmo. Tutto questo si chiama ricerca e sperimentazione applicata ai beni culturali. Perché quel sensore è nella cappella degli Scrovegni affrescata da Giotto e i dati sono stati raccolti dal team di iGuzzini Illuminazione, l’azienda marchigiana di Recanati tra le leader mondiali per l’illuminotecnica. L’obiettivo è quello di restitu-
ire una luce dinamica che si adatta al contesto di volta in volta per consentire una migliore fruizione dell’opera. Questo nuovo prodotto si chiama Tunable White e come spiega il Direttore del Centro studi e ricerche iGuzzini Piergiovanni Ceregioli “ci
aiuterà a illuminare il capolavoro di Giotto. Ci sarà un’integrazione della luce naturale e artificiale che permetterà dei cambi di tonalità in tempo reale così da poter percepire sempre al meglio i colori utilizzati dal maestro”. Luce intelligente, sistemi interconnessi che sono stati presentati da iGuzzini a metà marzo alla fiera biennale dell’Illuminazione di Francoforte, la Light + Building. “Uno studio complesso – continua Ceregioli – ma dovevamo definire il più possibile le variazioni per poter creare un algoritmo. Lo inaugureremo tra maggio e giugno e lo spettatore potrà percepire i colori senza che saturazioni calde o luci fredde possano incidere sulle tonalità reali che il maestro Giotto ha voluto proporre in quel ciclo di affreschi. L’Internet of thing è un nuovo strumento che abbiamo presentato a Francoforte, l’ultima frontiera dei sistemi di intelligenza artificiale applicati alla luce e al contesto”. Un intervento necessario anche per la distribuzione asimmetrica delle finestre all’interno della Cappella, che produce una diffusione non uniforme della luce del sole: la parete finestrata è meno illuminata dalla luce naturale rispetto alla parete di fronte. Ciò genera un costante cambiamento degli equilibri visivi nell’ambiente e un fastidioso effetto di controluce sugli osservatori. L’illuminazione è stata realizzata nel 2017, dove fu applicato per la prima volta un led che consente di realizzare una vera e propria operazione di “restauro percettivo” del ciclo pittorico trecentesco in cui i pigmenti vengono ri-
Arte e tecnologia
28
saltati da una luce omogenea nello spettro cromatico. Ma ora si interverrà con l’algoritmo. Sono stati installati apparecchi Palco Cob e Laser Blade, a elevato indice di resa cromatica, che garantiscono immediatamente una migliore percezione cromatica degli affreschi, in particolare per la lettura delle tonalità calde
Nella foto grande in alto e a sinistra l'illuminazione del sacro convento di Assisi. Qui sopra la cappella degli Scrovegni affrescata da Giotto A destra un particolarie dell'affresco del cenacolo di Leonardo illuminato grazie ad una tecnica rivoluzionaria e il Cristo Velato nella cappella di San Severo a Napoli
(giallo-arancio-rosso), esaltando le aureole e le dorature all’interno. “L’innovazione è il pilastro fondamentale della nostra azienda, che da sempre investe nel futuro per creare nuovi standard nel settore
dell’illuminotecnica – sottolinea Massimiliano Guzzini, Business Innovation & Networking Director di iGuzzini - Con questa convinzione proseguiamo il nostro percorso volto a portare elevati livelli di intelligenza all’interno dell’illuminazione. E in questo senso, l’applicazione della luce ai beni culturali ci spinge a soluzioni sempre più interconnesse e tecnologiche”. Come accadrà da qui a settembre perché iGuzzini illuminerà anche il ciclo di affreschi della Scuola Grande di San Rocco del maestro Tintoretto. E in questo caso verrà utilizzato l’ultimo prodotto presentato a Francoforte, il Laser Blade Xs applicato a un palco a basso voltaggio. “La sala del Capitolo ospita 37 teleri del Tintoretto di grandi dimensioni – spiega Ceregioli – sono a tre metri di altezza, preceduti da decorazioni lignee. In più c’è un coro con dei bassorilievi. L’idea è stata quella di creare un binario invisibile che illumina verticalmente le tele con una distribuzione omogenea della luce. Sono dipinti scuri e presto potranno risaltare in ogni dettaglio. Poi un proiettore accenderà le sculture e infine un sagomatore renderà nitidi i profili aggettanti del bassorilievo. È un progetto che rende invisibile la sorgente di luce, ma tutto sarà perfettamente
Arte e tecnologia
leggibile e godibile. Non solo, le guide potranno accendere i riquadri dei bassorilievi con comandi direttamente dallo smarthphone grazie alla tecnologia beacon”. In pratica consente ai dispositivi bluetooth di trasmettere e ricevere piccoli messaggi entro brevi distanze. La sperimentazione non si ferma mai, del resto iGuzzini si spinge a ricerche sempre più estreme legate al campo dei beni culturali. È stato così anche per l’affresco del Cenacolo di Leonardo, illuminato nel 2016 con una tecnica in grado di restituire la cromaticità dell’opera grazie a una tecnica rivoluzionaria. Tutto studiato assieme all’Istituto Superiore per la Conservazione e Restauro. “La scelta della qualità spettrale del LED e della relativa temperatura di colore – conferma Ceregioli – ha permesso di avere un grande equilibrio cromatico. Abbiamo una sorta di equalizzatore, ma in questo caso non per l’audio, bensì per i colori. Ma soprattutto la regolazione della quantità e l’orientamento del flusso luminoso emesso consente allo spettatore di non far percepire la presenza delle crepe e delle irregolarità della parete. Una sorta di restauro percettivo”. L’obiettivo principale nell’illuminazione museale è favorire la fruizione dell’opera d’arte
29
e al tempo stesso proteggerla dai danni che la radiazione luminosa più provocare sui materiali più sensibili. “La salvaguardia dell’opera viene perseguita nel rispetto delle norme e raccomandazioni internazionali che prevedono la definizione dei tempi di esposizione, la riduzione o eliminazione delle radiazioni dannose: ultra violette ed infrarosse – continua Ceregioli - La fruizione dell’opera richiede una sapiente regia luminosa in grado di capire ed interpretare nel giusto modo il rapporto tra l’opera e la luce”. L’azienda marchigiana rappresenta una delle eccellenze nel mondo per il comparto dell’illuminotecnica. Fondata nel 1959 oggi conta circa 1.500 dipendenti. Entro il primo semestre del 2019 sarà quotata in borsa. Ha sede a Recanati e attività operative in oltre 20 paesi distribuiti in 5 continenti. Tanto che il team è stato chiamato anche all’estero per progetti sui beni culturali e museali. Tra i progetti realizzati, l'illuminazione del monumento, simbolo di Salonicco, costruito agli inizi del 4° secolo d.C. come mausoleo per Costantino il Grande, il tempio Espiatorio del sacro cuore di Gesù in Messico, l’Ethiad Union Museum di Dubai, l’Harward art museum di Boston, il Los
Un sensore nella Cappella degli Scrovegni permetterà dei cambi di tonalità in tempo reale
Arte e tecnologia
A settembre iGuzzini illuminerà anche gli affreschi di Tintoretto nella Scuola Grande di San Rocco e la Scala Santa a Roma
Nell'immagine, l'illuminazione del Teatro antico di Taormina con l'intento di valorizzare l'architettura classica
30
Angeles County museum of Art, The Art Institute of Chicago, il Museo nazionale della Cina a Pechino e ancora l’Illuminazione dei monumenti di Delhi, la Morgan Library a New York e il recente intervento di luce intelligente alla Royal Academy of Arts di Londra. Tra gli altri progetti di illuminazione dei luoghi della cultura italiani, iGuzzini è intervenuta il teatro antico di Taormina con l’obiettivo di valorizzare l’architettura classica attraverso la luce, dall’altra garantirne la fruizione in condizioni di sicurezza durante le ore notturne. Ma anche sul Duomo di Firenze, il Sacro convento di Assisi, la Fondazione Burri a Città di Castello, il museo della cappella di San Severo a Napoli dove c’è il notissimo Cristo Velato. “Vogliamo fare innovazione sociale attraverso la luce spiega Andrea Sasso, Amministratore Delegato iGuzzini Illuminazione – e questo è
possibile anche grazie alla cura della bellezza, alla cultura e alla promozione di un benessere psicofisico legato alla qualità dell’illuminazione”. Ci sono altri progetti in cantiere perché l’azienda sta lavorando al Tempietto del Bramante a San Pietro in Montorio e a un progetto per l’illuminazione della Scala Santa a Roma previsto per il 2020. Il patron dell’azienda, Adolfo Guzzini, ha una particolare attenzione agli aspetti legati all’arte e alla cultura. Uno dei suoi manifesti recita: “Vogliamo una luce che riveli e faccia riscoprire i segreti della nostra storia e della nostra cultura, illuminando i monumenti e gli edifici che parlano del passato”. Non è un caso che a Francoforte lo stand iGuzzini abbia avuto come sfondo un altorilievo del quadro della Città Ideale di Luciano Laurana conservato a Urbino. Un manifesto dell’utopia rinascimentale della vivibilità degli spazi urbani. Lungo 14 metri, alto 4 e profondo 1,50, l’opera rappresenta l’idea di armonia ed equilibrio, un contesto urbano in cui la luce possa eliminare il buio del degrado. Da poche settimane Adolfo Guzzini ha ottenuto il Premio Leonardo 2017 per essersi distinto nell’affermare e promuovere l’immagine dell’Italia nel mondo. Il Comitato Leonardo promuove, diffonde e rafforza l'immagine e l'eccellenza del Made in Italy con l’obiettivo di valorizzare l’Italia e la sua originalità attraverso la realizzazione di eventi di alto profilo culturale ed economico. ¤
Arte
31
La scultura di Vangi Una piazza nella piazza INAUGURATA A PESARO OPERA MONUMENTALE
U di Federica Facchini
"La scultura della memoria" opera monumentale di Giuliano Vangi Sette metri per tre di altezza collocata nella piazzetta davanti ai musei civici di Pesaro
na piazza nella piazza. La grande scultura di Giuliano Vangi (Barberino di Mugello, 1931) per Pesaro collocata davanti ai musei Civici ed inaugurata lo scorso 24 febbraio, è un microcosmo nello spazio urbano, tanto da essersi già aggiudicata l’appellativo di “piazzetta salotto”. Così lo scultore toscano ha finalmente ricevuto la consacrazione che attendeva da tempo dalla città dove cinquant’anni anni fa scelse di vivere. Un tributo giunto grazie alla sinergia di privati, spinti dall’amore per l’arte. Un progetto che prese forma nel 2016 e ha trovato realizzazione grazie alla sensibilità di Davide Leoni che ha avuto la paternità dell’idea e Giancarlo Selci, patron di Biesse,
che ha voluto dedicare l’opera alla memoria della moglie Anna. L’amministrazione comunale ha prontamente accolto e messo in pratica il tutto. “Scultura della Memoria”, il titolo dell’opera monumentale di 7 metri per 3 di altezza, rappresenta l’arte, la musica, il teatro, la poesia: discipline che hanno ispirato la poetica di Vangi al punto da concepire il lavoro come una scenografia con quinte teatrali da cui emergono i suoi riconoscibilissimi elementi figurativi. La grande opera di piazza Toschi Mosca è percorribile, transitabile, calpestabile. Insomma lo spettatore osserva e partecipa alla scena, sentendosi emotivamente coinvolto.
Arte
L’artista fa dialogare arte, musica teatro e poesia scolpendoli nella pietra, come in una quinta teatrale
32 Un uomo in piedi di quasi tre metri d’altezza, mentre si accinge a posizionarsi una maschera d’oro sul viso - unico dettaglio che spicca in mezzo a tutto il resto in pietra bianca -, delimita lo spazio e al tempo stesso, apre due quinte. Due steli sfalsate ed unite in un arco. Gli si gira attorno, lo si scruta nel suo volume a tutto tondo con la sua mano enorme che perfora una cortina, metafora del tempo. La sua maschera teatrale altro non è che la commedia e la tragedia dell’esistenza umana, dietro la quale modula i suoi umori, si nasconde, riflette, declama i sui ardori. È il Passato che introduce l’osservatore alle eccellenze della cultura marchigiana: Federico da Montefeltro e Raffaello, Leopardi e Rossini. Umanisti, letterati, musicisti, mecenati che hanno portato il nome delle Marche nel mondo, attraverso le loro opere immortali, scolpite anch’esse nella pietra Apricena (un tipo di pietra pugliese nda) della scultura: si ammirano la Muta e un pezzo di spartito con le note del Barbiere di Siviglia. Leggermente discostata, ad osservare questo teatro del passato e della storia, c’è una figura femminile che rappresenta il Presente. Due panchine curve delimitano armoniosamente la scena, ma solo su una è possibile sedersi. L’altra infatti è già occupata da una coppia di innamorati, abbracciati e chini sui loro pensieri, sui loro programmi, sul loro futuro. E rappresentano l’Avvenire, visibile con un colpo d’occhio, da via Rossini attraverso i portoni aperti di Palazzo Mazzolari Mosca. Un’opera narrativa dunque, che riunisce le classiche tematiche care all’artista, dialogando di storia e di cultura con i musei che le si parano di fronte e di contemporaneità con la vita della città che le ruota attorno.
Particolare della scultura con il personaggio che si avvicina una maschera d'oro sul viso Ai lati, alcuni dettagli dell'opera monumentale
L’amore e la tenerezza per il prossimo e per la vita, sono gli unici motori potenti a contrastare la violenza, l’odio e le guerre. E Vangi - quando non è alle prese con la statuaria sacra - ci presenta uomini e donne animati da questi sentimenti. Oltre a dare forma e contenuti alla figura umana e alla sua complessità esistenziale, l’opera di Vangi dialoga da anni sul rapporto arte-fede, offrendo una nuova iconografia alla riflessione religiosa. La ‘Scultura della Memoria’ ha attirato a Pesaro anche la prestigiosa presenza dell’architetto svizzero Mario Botta accompagnato da una delegazione coreana, per fare il punto su un progetto in corso di una chiesa in Corea. Una
Arte
33
Un uomo in piedi di tre metri con una maschera d’oro sul volto mostra la commedia e la tragedia dell’esistenza umana collaborazione già consolidata questa, basti ricordare nel 2014 la mostra al Macro Testaccio di Roma con l’allestimento dello stesso architetto. Il confronto tra arte e architettura è sempre vivo nel modus operandi di Vangi: un altro progetto importante che sta portando a termine è una chiesa di nuova costruzione a Monsummano Terme titolata a padre Massimiliano Kolbe, per la quale sta realizzando la porta centrale, l’altare, l’ambone, il pulpito, e un mosaico vitreo di dimensioni enormi. Da piazza Mosca a Palazzo Mosca dove in contemporanea si è inaugurata una mostra documentaria (visitabile fino all’8 maggio) l’esposizione che racconta il suggestivo percorso della creazione
dell’opera monumentale, attraverso disegni e bozzetti in terracotta. E a proposito di mostre, il prossimo appuntamento sarà al Centro Arti Visive Pescheria per il 21 aprile, in cui inaugurerà quella che si può considerare la tappa conclusiva del progetto ‘Vangi per Pesaro’: un grande evento che completa l’indagine attorno allo scultore. Accanto alla Pescheria, anche la Galleria Ca’ Pesaro 2.0 accoglierà opere che documentano la produzione dell’ultimo decennio. Promosso dal Comune di Pesaro, il progetto ‘Vangi per Pesaro’ è stato possibile in ogni sua fase grazie al sostegno di Biesse Group e del suo fondatore Giancarlo Selci, imprenditore sensibile e illuminato
Arte
Nella grande opera di piazza Toschi Mosca anche una donna che rappresenta il presente e una coppia che raffigura il futuro
In alto, l'artista Giuliano Vangi con a destra il patron della Biesse Giancarlo Selci e ai lati Marta Casagrande e Davide Leoni promotori del progetto Qui sopra, una veduta dell'opera scultorea in piazza Toschi Mosca
34 che crede nel valore essenziale di cultura e bellezza per una comunità. A Pesaro Giuliano Vangi ha insegnato, dal 1950 al 1958, Discipline Plastiche all’Istituto d’arte Mengaroni ed ha iniziato a realizzare ritratti in terracotta policroma e figure femminili di grandi dimensioni, in vari materiali, dalle caratteristiche statuarie e ie¬ratiche. Lasciata la provincia marchigiana per una parentesi brasiliana e statunitense (1959 - 1962) - quella della consacrazione, raggiunta con opere incentra¬te non più sulla figura ma su una ricerca astratta - torna a vi¬vere e lavorare a Pesaro, recuperando la figurazione e ricorrendo a quelle doti plastiche dalla straordinaria forza espressiva. L’artista toscano dagli anni Sessanta inizia una proficua stagione di mostre in Italia e all’estero. Del 1995 è l’imponente esposizione al Forte di Belvedere a Firenze e nello stesso anno, partecipa alla Biennale di Venezia con una sala personale. Nel 2002 viene inaugurato in Giappone, nella città di Mishima, il Mu-
seo Vangi, un edificio di circa 2.000 mq che sorge in un parco di 30.000 mq: le opere, circa un centinaio, fra sculture e disegni, sono collocate in parte nel grande parco e in parte nel magnifico edificio. Molte opere sono state commissionate a Vangi da enti pubblici statali e religiosi: la scultura in legno policromo
per la Sala Italia di Palazzo Madama a Roma, la Lupa per la piazza Postierla di Siena e il San Giovanni Battista per il Lungarno di Firenze (1996); il presbiterio, l’altare, l’ambone, la cattedra vescovile e il grande crocifisso per il Duomo di Padova (1997); la gigantesca scultura “Donna con albero” per la sede della Banca d’Italia a Vermicino (1998); “Varcare la soglia” per l’ingresso dei Musei Vaticani (1999); l’ambone e l’altare per il Duomo di Pisa (2001); l’abside nella chiesa di Giovanni XXIII a Seriate progettata da Mario Botta e l’ambone per la chiesa di Padre Pio a San Giovanni Rotondo progettata da Renzo Piano (entrambe nel 2004). L’altare, l’ambone, e la cattedra vescovile nel Duomo di Arezzo (2012). Numerosi e prestigiosi sono anche i premi che Vangi ha ricevuto nel corso della sua lunga attività artistica come il come il famosissimo Praemium Imperiale a Tokyo (2002). Dopo la grande mostra del 2016 che Fano dedicò all’artista nell’appena ristrutturato polo museale di Palazzo Bracci Pagani, anche la città della Fortuna in quell’occasione promuoveva la realizzazione di un monumento cittadino già identificato nella realizzazione della fontana che lo stesso Vangi ideò negli anni Novanta del secolo scorso. Il bozzetto, che si poteva ammirare in gesso alla mostra, è rimasto inattuato. Anche la sua eventuale collocazione era stata pensata: piazza Amiani, dove si affacciano alcune qualificanti istituzioni culturali, quali la Mediateca Montanari, il polo museale di Palazzo Bracci Pagani, la Galleria di Palazzo Corbelli e la pinacoteca di San Domenico. Un solido impianto, una figurazione tradizionale e un’attenzione profonda all’uomo contemporaneo e alle sue connotazioni esistenziali, sono dunque le caratteristiche
Arte
principali della plastica di Giuliano Vangi. Una ricerca artistica che parte dalla considerazione di uno spazio psichico interiore e intimo, per dilatarsi a quella dello spazio esterno, vivibile e di relazione, approdando alla scoperta di un personale senso culturale, sociale ed umano. Verrebbe da dire che la scultura di Giuliano Vangi non sia stata intaccata dai mutamenti radicali derivati dalla grande rivoluzione delle arti del ‘900 che ha portato la scultura a considerare non più fondanti i suoi caratteri distintivi di monumentalità e di finalità celebrativa. Anche nel passaggio dal grande al piccolo lo scultore dimostra una destrezza con la materia di nobile impostazione clas-
35
sica, dove i volumi, i chiaroscuri, la spinta ascensionale, la levigatezza delle superfici sono i principi distintivi sui quali domina l’equilibrio delle forze dinamiche. Una modalità creativa che è però lungi dall’essere anacronistica, Vangi carica infatti i suoi personaggi della tensione interiore dell’uomo moderno. Nonostante la prorompente fisicità dei volumi e la robustezza delle parti, si percepisce la fragilità e l’incertezza della condizione umana. Non è da meno la sperimentazione dei materiali, dalla pietra al bronzo, dal legno all’avorio, dal marmo alla cera, declinati di volta in volta, a plasmare figure ora dal modellato morbido e delicato ora portatori di una tensione violenta. ¤
Vangi non si ferma: sta terminando la porta centrale, l’altare, l’ambone il pulpito e un mosaico di grandi dimensioni a Monsummano Terme
Nelle foto in alto, in senso orario Giuliano Vangi con l'architetto svizzero Mario Botta accompagnato da una delegazione coreana per un progetto in corso con l'artista in una chiesa in Corea Vangi al lavoro nel suo laboratorio alle prese con la sua scultura monumentale ed un particolare di un bozzetto dell'opera
L'evento
37
Corrado Cagli from Rome to New York A LONDRA IN MOSTRA OLTRE 50 OPERE DELL'ARTISTA
I di Alberto Mazzacchera
Andamento fantastico 1951 - olio su carta intelata
n collaborazione con l'Archivio Corrado Cagli di Roma è stata inaugurata a Londra nei prestigiosi spazi espositivi della Brun Fine Art in Old Bond Street n. 38 la mostra da me curata di oltre 50 opere (23 febbraio - 14 giugno 2018) dell'artista Corrado Cagli (Ancona, 1910 - Roma, 1976) incentrata su due grandi nuclei della sua produzione: gli anni Trenta dell'Ăˆcole de Rome e gli anni Cinquanta dell'astratto nel segno di Cagli. Dall'universo di Cagli (che si estende dalla ceramica alla pittura, alle scenografie teatrali, alla scultura, alle grandi pitture murali, ai costumi teatrali e agli arazzi) sono stati dunque selezionati per questa esposizione due gruppi di dipinti e alcune rare ceramiche Rometti della fine
Pergola, scrittrice di novelle e apprezzati testi per l'infanzia sotto lo pseudonimo di "Fiducia". Due fasi artistiche, tra capitali scelte di vita, che sono centrali per comprenderne l'itinerario artistico ed il percorso sapienziale. Qui, infatti, si avvicenda l'apprezzato giovane artista di successo che in chiave antiborghese rivendica i "muri ai pittori" e l'esule infine non fuggiasco a seguito dell'applicazione anche in Italia delle leggi razziali del 1938. Alla breve ma intensa parentesi della produzione di ceramiche interrotta per sempre a seguito di una intossicazione da piombo fa seguito nel 1931 la conoscenza di Cavalli, Capogrossi e Pirandello con i quali nel 1932 Cagli tiene la prima mostra
degli anni Venti che bene illustrano due fondamentali momenti di questo prolifico artista di origine marchigiana che si trasferisce a Roma nel 1915 con il padre imprenditore e poi insegnante di matematica e la madre, Ada Della
collettiva. Il sopraggiungere di Cagli nel gruppo fa compiere un determinante balzo organizzativo. Lunghe notti insonni sature di estenuanti dibattiti sono il tributo al Manifesto del Primordialismo Plastico dell'ottobre 1933
L'evento
38 dove emergono le posizioni di Cagli sul primordio (dopo la folgorante immersione nella pittura pompeiana) e quelle di Cavalli legate al tonalismo che nel tempo si avviluppa in una dimensione esoterica: un manifesto non a caso propedeutico alla mostra di Parigi di quello stesso anno dove Capogrossi, Cavalli e Cagli sono individuati e presentati dal critico Waldemar George (il critico del gruppo Les Italiens de Paris) con la felice e celebre etichetta di École de Rome. Sono questi gli anni dell'affermazione di Cagli che prosegue nella visione di una pittura libera, una pittura capace di dispiegarsi su pareti franche per essere vista da tutti e di interagire con tutti. Un approccio totalmente antiborghese rispetto alla pittura da cavalletto che Cagli teorizza peraltro in un articolo del 1933 dal titolo "Muri ai pittori" apparso sulla rivista milanese Quadrante. Con tali presupposti a metà degli anni Trenta il linguaggio dell'École
de Rome, moderno e condiviso dalle differenti tendenze giovanili, conquista una posizione dominante nella pittura dell'Italia di quegli anni. Poco dopo, nel 1935, per Cagli si apre il fertile spazio culturale costituito dalla Galleria della Cometa voluta dalla contessa Anna Laetitia Pecci, nipote di Leone XIII e moglie del banchiere newyorkese Cecil Blunt. Egli è il consulente artistico di quello che si struttura come un cenacolo di artisti e intellettuali, uno spazio aperto alle commistioni di pittura, scultura, letteratura, poesia e musica in grado di radunare i maggiori artisti italiani ed anche poeti e intellettuali del calibro di Ungaretti e Moravia. Nel novembre del 1937, negli anni in cui New York corre sempre più verso la sua consacrazione di caput mundi dell'arte, la contessa Pecci Blunt e Cagli vi inaugurano con mirabile lungimiranza la sede della Cometa Art Gallery. Quando a gennaio del 1938 fanno ri-
Pittura e fotografia gli appuntamenti nelle Marche
A
Macerata è in corso la mostra Capriccio e Natura. Arte nelle Marche del secondo Cinquecento. Percorsi di rinascita (fino al 13 maggio 2018), a cura di Alessandro Delpriori e Anna Maria Ambrosini Massari e collocata nei Musei Civici di Palazzo Buonaccorsi. La mostra fa parte del progetto regionale Mostrare le Marche, nato dal protocollo d’intesa tra Regione Marche, Mibact, Anci, Conferenza Episcopale e i Comuni di Macerata, Ascoli Piceno, Fermo, Loreto, Matelica e Fabriano con la finalità di organizzare un ciclo di sei mostre entro il 2018 per promuovere la conoscenza del
patrimonio artistico e lo sviluppo dei territori colpiti dal sisma. E fino al 13 maggio sarà visitabile a Urbino negli orari di apertura della Casa di Raffaello la mostra di incisioni storiche dedicata ai Proverbi di Francisco Goya, rese disponibili dalla Galleria Ceribelli di Bergamo. Le 22 tavole, che ricevono in un secondo tempo la titolazione di Proverbios, portano sotto gli occhi diverse rappresentazioni della follia; per queste incisioni, la cui realizzazione deve aver occupato Goya tra il 1816 e il 1819, l'artista mise a frutto la grande maestria nell'arte incisoria, attraverso un suggestivo
concorrere delle singole tecniche (acquaforte, acquatinta, puntasecca). Infine le opere di due grandi fotografi del bianco e nero in contemporanea nelle Marche. La prima, su "Henri Cartier-Bresson fotografo" (fino al 17 giugno a La Mole Vanvitelliana di Ancona) dove sono esposti 140 scatti che raccontano lo sguardo di un fotografo "dal lucido pensiero, verso la realtà storica e sociologica". La seconda a Senigallia, a Palazzo del Duca (fino al 2 settembre), con la retrospettiva Robert Doisneau: le Temps Retrouvè, dedicata al pioniere della fotografia di strada e del reportage.
L'evento
entro in Italia, lasciando un calendario newyorkese fitto di esposizioni fino all'aprile del 1938 e forti del successo raggiunto, tutto sembra svolgersi per il meglio ma in verità tutto sta già precipitando irrimediabilmente dietro un sipario ufficiale di apparente tranquilla tolleranza. La Galleria della Cometa a Roma è in quel buio 1938 individuata dalla critica organica al regime fascista come promotrice di "arte degenerata, internazionalista, cosmopolita, decadente". Dal canto suo Cagli, il cui vasto ciclo pittorico delle Vedute di Roma all'Expo di Parigi del 1937 suscita lo sdegno del Ministro degli Affari Esteri Galeazzo Ciano per il suo modernismo e per la chiave antieroica con cui sono raffigurati i personaggi storici italiani, è accusato di disfattismo. Quando decide di lasciare l'Italia alla volta di Parigi la Galleria della Cometa è oramai in liquidazione e lui stesso è messo all'indice come il burattinaio intento a manovrare "ai fini dell'adulterazione ebraica del gusto italiano". Nel periodo dell'entre-deux-guerres Cagli è, dunque, uno dei maggiori punti di riferimento del panorama artistico italiano e la sua pittura è una delle più dense di suggestioni tanto che Guttuso nel 1951 non aveva dubbi nell'affermare che "Cagli svegliò i morti in quegli anni (dal 1932 al 1938 all'incirca)". L'incrinarsi dei rapporti con il fascismo fino alla loro definitiva rottura, il pesante clima che sfocia nelle leggi razziali con le persecuzioni dapprima verbali (ma poi anche fisiche nei riguardi della famiglia che rimane in Italia) si tramutano nell'insopprimibile urgenza di una profonda viscerale riflessione. Mentalmente intrappolato, esule smarrito in terra americana, (ove era giunto nel 1939) Cagli dopo aver assunto la cittadinanza statunitense si
39 arruola volontario nel 1941 e, fedele ai suoi ideali di libertà, nel 1944, quale ufficiale di un reparto di artiglieria, è di nuovo in Europa, attraverso il fronte della Normandia, per concorrere alla sua liberazione. Dopo la Francia e la Parigi della liberazione, il Belgio le Ardenne e la Germania giunge tra i primi al campo di concentramento di Dachau di cui lascia un piccolo ma vibrante
nucleo di disegni dei corpi dilaniati dall'orrore. Il rientro negli Stati Uniti al termine della guerra avviene con ben altro approccio mentale. Ora tutto si direbbe compresso in una mirabile accelerazione in cui prendono corpo i risultati delle letture scientifiche, dei confronti dialettici e delle esperienze che matura a New York. Ci sono gli stimoli di due importanti matematici (peraltro mariti di due sorelle di Cagli): ossia Oscar Zariski con la geometria proiettiva nello spazio euclideo tridimensionale e di Abraham Seidenberg che estende i suoi approfondimenti agli spazi proiettivi a n dimensioni. Sono gli anni in cui Cagli approccia le teorie psicoanalitiche di Jung che gli consentono di scandagliare gli strati profondi della psiche umana. E mentre con il poeta Charles Olson (1910-
Nella pagina a fianco dall'alto Guerrieri (1959) olio su carta applicata su tavola e Icaro (1929) ceramica dipinta in nero fratta In questa pagina, in alto a sinistra Bagatto (1952) olio su carta intelata A destra, Dioscuri (1947) olio su tela Qui sopra, Irving Penn, Ballet Society, New York (1948), Corrado Cagli con Vittorio Rieti, Tanaquil Leclerc e George Balanchine
L'evento
Le sue creazioni spaziano dalla pittura alla ceramica alle scenografie e costumi teatrali fino alla scultura
Dall'alto La dama (1959) olio su carta intelata Le mura di Gerico (1958) olio su carta intelata e Sirena (1933) olio su tavola
40
1970) approfondisce partendo dai tarocchi una comune ricerca intorno all'archetipo, entra in contatto con Paul Samuel Donchian rimanendo colpito dai suoi spettacolari modelli tridimensionali in quarta dimensione. Nel febbrile periodo newyorkese Cagli raggiunge, come asserisce Crispolti, una reale "libertà espressiva del segno" che ora assume maggiore potenza per esprime con forza gli strati profondi della coscienza. Nel mentre a New York diviene tra i fondatori della compagnia The Ballet Society e riceve nel 1946 il prestigioso premio Guggenheim Fellowship per le Belle Arti, si apre, per Cagli la feconda esperienza del teatro che gli consente di superare i limiti della tela e che poi avrebbe ampiamente sviluppato anche in Italia. Con il coreografo George Balanchine nel 1948 mette mano alle scene, al sipario e ai costumi di due opere e collabora con The Poet's Theatre di Maria Piscator mentre si moltiplicano le mostre a New York ma anche a Chicago, San Francisco e Santa Barbara. Così accanto ad un rientro in Italia non facile (è del 1948 l'attacco dalle pagine di Rinascita di Palmiro Togliatti, Segretario del P.C.I. sotto
lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, contro gli artisti astratti della Prima mostra d'Arte Contemporanea di Bologna di quell'anno tra i quali anche Cagli) ben diversa rimane la percezione internazionale. Al MoMA di New York espongono infatti nel 1949 Cagli, Afro, Santomaso e Pizzinato che poi sarebbero tornati l'anno successivo per la mostra newyorkese curata nella galleria di Catherine Viviano. Se l'illusione di trovare una nuova spazialità nella quarta dimensione e nella geometria non euclidea rimane tale, tuttavia quelle ricerche producono fecondi risultati in termini pittorici. E proprio in quella produzione degli anni cinquanta, Crispolti individua il "primo importante, aspetto della significativa tangenza delle ricerche di Cagli con le incipienti ipotesi informali italiane, per queste prove in posizione chiave ed originaria rispetto all'area segnica confluente all'informale stesso, appunto in Italia". Le opere presenti in questa mostra londinese (Cagli aveva esposto nel 1944 in una galleria di New Bond Street) rappresentano non solo una raggiunta libertà di linguaggi ma anche una totale libertà sul fronte delle tecniche utilizzate. Il ciclo intenso seppure breve delle Carte per le quali Cagli fa ricorso alla polverizzazione ad aerografo del colore raggiunge ad esempio risultati davvero originali e coinvolgenti creando effetti tridimensionali illusori e proponendo nel biennio 1958-59 una eccezionale meditazione sulla dialettica materia-immagine. ¤
I protagonisti
41
Il realismo magico del pittore Antonelli ARTISTA POLIEDRICO, TUTT ’ALTRO CHE “PROVINCIALE”
U di Maurizio Cinelli
n artista ancora sconosciuto alla grande critica, ma la cui opera pittorica, vastissima e rigorosa, ha conquistato da tempo una folta schiera di convinti estimatori che va ben oltre i confini nazionali. Nella scintillante monografia “Piero Antonelli. Un pittore del Novecento tra realismo magico e verità”, meritoriamente promossa (nella ricorrenza del centenario dalla nascita dell’artista) dalla Cassa di risparmio di Fermo e stampata con eleganza da Andrea Livi editore, figura un ricco apparato critico e iconografico, autorevolmente curato da Stefano Papetti. Un’opera che ambisce a rimediare, dunque, alla carente attenzione criti-
ca, fin qui tributata all’illustre marchigiano. In effetti, Piero Antonelli (1916-1989), nato a Falerone e ivi vissuto per buona parte della sua esistenza, è tutt’altro che un pittore “provinciale”. È quanto emerge già dalla poliedricità delle espressioni
e sperimentazioni artistiche e dall’alto livello qualitativo della complessiva produzione pittorica: lo conferma il significativo e godibilissimo florilegio di riproduzioni che compongono la sezione iconografica del volume. D’altra parte, se manifesti sono i legami con il territorio marchigiano, manifesta è anche la ricchezza dei nessi con le correnti artistiche contemporanee, delle quali la complessiva opera dell’artista si rivela frutto e, insieme, espressione. Prigioniero di guerra dopo la battaglia di El Alamein, prima in Algeria, poi in Inghilterra e, infine, negli Stati uniti d’America (precisamente, in Virginia), la conoscenza delle lingue, e dell’inglese in particolare, consente a Piero Antonelli di ritagliarsi, nello stesso campo di internamento nel quale si trova ristretto, il ruolo di apprezzato interprete e traduttore; e ciò gli vale, in breve, anche la fortunosa attribuzione di un impiego a New York. E New York, con i suoi grattacieli e le sue singolari atmosfere, diviene subito soggetto di suggestive opere, composte, alcune, en plein air, ma, in maggior parte, tramite l’ausilio della fotografia. Prende avvio così un amore per la fotografia che non si sarebbe esaurito, ma, anzi, si sarebbe ampiamente sviluppato muovendo proprio da quella prima, intensa esperienza. Rientrato in Italia dopo la lunga prigionia, Antonelli effettua un tentativo di attività imprenditoriale nel settore della produzione di sciarpe da donna in seta, fantasiosamente colorate. Ma la passio-
I protagonisti
La sua pittura sfida per tanti versi la fotografia ed eccelle nel trompe-l’oeil nelle nature morte e nei paesaggi
42
ne per la pittura finisce per prevalere, e, nel contrasto tra fautori dell’arte figurativa e fautori dell’astrattismo – particolarmente vivo in quell’epoca, e significativo di ricadute pratiche personali non indifferenti a seconda del campo prescelto –, egli rivolge la sua scelta senza tentennamenti ad una pittura che, per tanti versi, sfida, quanto a nitore e precisione, la fotografia. In effetti, il primo genere nel quale Antonelli eccelle e con il quale si afferma è il trompe-l’oeil. Un genere pittorico che, come precisa nel suo saggio critico Stefano Papetti, “attraverso espedienti, induce nell’osservatore l’illusione di guardare oggetti reali e tridimensionali dipinti su una superficie piana: tale inganno richiede all’artista una approfondita conoscenza delle regole prospettiche e dell’uso del chiaro-scuro, al fine di riprodurre la realtà in modo che agli occhi dello spettatore l’illusione risulti reale”. Molti i generi amati dall'artista
Nella pagina precedente e in alto alcune opere di Piero Antonelli
In tale occasione, punto di riferimento ideale di Antonelli sono le sperimentazioni del pittore armeno Gregorio Sciltian (1900-1985) – a sua volta tributario della tradizione fiamminga e caravaggesca –, all’epoca già artista di successo, sull’onda della presentazione tributatagli, sul finire degli anni Venti, dal grande critico dell’arte, Roberto Longhi. Ma Antonelli eccelle anche nelle nature morte. Nel genere (uso sono ancora le parole di Stefano Papetti)
egli “pratica quel realismo descrittivo che, a furia di essere preciso, sfocia nella pittura metafisica, nell’incantesimo degli oggetti immersi in una atmosfera senza tempo, realizzati con una cura minuziosa e una incredibile analisi”. Il terzo genere che Antonelli pratica con effetti di grande suggestione e valenza artistica è il paesaggio. Stimolano la creatività dell’artista soprattutto gli alberi e i campi di Falerone, con i casolari sparsi sulle colline, la campagna modellata dalla secolare fatica dei mezzadri; ma ne stimolano la creatività anche, nel periodo trascorso a Porto San Giorgio, il mare, sopratutto nella stagione invernale, e le barche in secco, emblema di una solitudine senza tempo. Sono queste ultime, forse, le opere dedicate al paesaggio, quelle più struggenti: almeno per chi, da marchigiano, subisce il fascino del paesaggio della propria terra. Un intimo, profondo coinvolgimento, d’altra parte, subito ed espresso anche da altri artisti contemporanei che si sono trovati a vivere e operare tra quelle stesse colline; quasi a lasciare intravedere il misterioso esprimersi di un genius loci: Osvaldo Licini, dal paese di Monte Vidon Corrado, a un tiro di schioppo dalla collina sulla quale sorge Falerone; Tullio Pericoli, dalle colline a sud della Valle del Tenna sulla quale Falerone si affaccia; e, perché no, dalla non lontana marina, anche le atmosfere sospese e struggenti del rientro, sul far della sera, della paranze, fissate, qualche lustro prima, dal pennello di Adolfo De Carolis. ¤
Le grandi mostre nelle Marche
43
Ad Ascoli si scopre l’arte di Filotesio ESPOSIZIONE DELL’ ARTISTA DETTO COLA DELL’ AMATRICE
N di Franco De Marco
icola Filotesio, detto Cola dell'Amatrice, ex sconosciuto, ex sottovalutato in epoca moderna. La grande mostra, con 60 opere per gran parte su tavola, in svolgimento ad Ascoli Piceno, sino al 15 luglio, titolo «Cola dell'Amatrice da Pinturicchio a Raffaello», scopre e rivaluta definitivamente, dopo un oblio secolare, questo artista poliedrico che fu pittore, scultore e architetto. Anche se nato a Filetta di Amatrice (1480/1489), Nicola Filotesio ha operato per 40 anni nel capoluogo piceno dove ebbe la cittadinanza nel 1521, con tanto di nomina a pubblico architetto, e dove morì nel 1547 lasciando tanti tesori. Scolpì letteralmente Ascoli Piceno. «Ne ha disegnato lo skyline», fa notare il sindaco Guido Castelli. Forse però Cola dell'Amatrice non è né il pittore di Amatrice né di Ascoli Piceno ma della strada Salaria. «Nel senso - dice sempre il primo cittadino - che testimonia la vocazione appenninica culturale verso Roma che è la storia di Ascoli Piceno. Una esperienza sentimentale, un tracciato, una strada, che dopo il Seicento ha avuto tanti guai». Ecco perché questa è anche una esposizione identitaria. Cola dell'Amatrice è stato un maestro dell'arte del '500 che ha dato un contributo molto importante al Rinascimento. Oggi tutti i maggiori critici d'arte concordano. Il merito principale di questa mostra, all'interno del progetto della Regione “Mostrare le Marche”, fatto di grandi mostre per tutto il 2018, è proprio far conoscere questo artista “provinciale” in senso geografico
ma con un orizzonte artistico molto più vasto. I suoi viaggi a Roma, per carpire i segreti di Raffaello o Michelangelo, hanno prodotto opere di assoluto valore. “Cola dell'Amatrice da Pinturicchio a Raffaello” vuole anche riportare l'attenzione del turismo culturale su un territorio ferito dal terremoto ma in possesso di un patrimonio artististico immenso ancora da valorizzare. Curata da Stefano Papetti e Luca Pezzuto, la mostra guarda alla produzione dell’artista in tutto il territorio, porta ad Ascoli per la prima volta documenti importanti di Cola dell’Amatrice, riunisce oltre sessanta opere provenienti da sedi prestigiose che tutte insieme donano una visione esaustiva del valore dell’artista. Ma la rassegna non si ferma alla creazione di un importante percorso espositivo e conoscitivo dell’artista e del contesto. Dieci tavole sono state oggetto di importanti indagini diagnostiche e, fra queste, sei sono state restaurate. Dunque, con la mostra si è creato uno corpus di studi sulle tecniche utilizzate da Cola con risultati importanti sotto l’aspetto scientifico. Com'è importante il percorso di Cola che nella mostra si ricompone, da Amatrice, città del Filotesio, a luoghi emblematici come l’Abbazia di Farfa lungo la Salaria, ai passaggi tra Roma e gli Appennini, a l’Aquila, Perugia, Siena, Urbino. Attraverso l’arte di Cola c’è uno spaccato di ciò che l’artista ha vissuto e studiato. Accanto alle sue realizzazioni ci sono 3 opere di Raffaello, tra le quali un nudo di uomo disegno preparatorio fatto a 17 anni, di Pinturicchio, Perugino, Crivel-
Le grandi mostre nelle Marche
La mostra riunisce oltre 60 opere di Cola dell’Amatrice e vuole riportare l’attenzione sui territori feriti dal sisma
Alcune immagini significative della mostra "Cola dell'Amatrice" da Pinturicchio a Raffaello ad Ascoli Piceno (Foto Andrea Vagnoni)
li, Luca Signorelli, Pietro Vannini, Filippino Lippi eccetera. Per la prima volta è esposto il taccuino di disegni di Cola dell’Amatrice fra cui spiccano i suoi studi su Luca Pacioli, su Leonardo, le sue riflessioni sulla stanza della Segnatura e dunque su Raffaello. Molte delle tavole di Cola dell’Amatrice esposte in questa mostra, che fa seguito alla esposizione del 1991 tenutasi presso la Pinacoteca di Ascoli Piceno, provengono dai centri appenninici segnati dal recente terremoto, da quelle località comprese fra Lazio, Abruzzo, Marche ed Umbria dove nel Rinascimento ha avuto luogo una insospettabile fioritura artistica segnalata fin dagli anni cinquanta da Federico Zeri. Grazie alla disponibilità di alcune importanti istituzioni museali, come la Pinacoteca Vaticana ed i Musei Capitolini, nonché di alcune prestigiose fondazioni bancarie è possibile rivedere per qualche tempo nel capoluogo piceno le imponenti tavole dipinte da Cola dell’Amatrice per le chiese della città e del territorio, dalle quali furono alienate nei primi decenni dell’Ottocento per essere immesse sul mercato antiquario romano da conoscitori senza scrupoli, come l’ascolano Ignazio Cantalamessa Carboni, i quali, approfittando della dabbenaggine e dell’incompetenza del clero locale, riuscirono ad acquistare per cifre modeste le opere che oggi possiamo ammirare nei più importanti musei internazionali: persino al Museo di Melbourne è esposta una tavola raffigurante sant’Elena con la croce, che faceva parte di un imponente retablo dipinto da Cola dell’Amatrice
44
per la chiesa di San Francesco ad Ascoli Piceno, sfuggita alla musealizzazione delle restanti porzioni dell’opera dopo l’Unità d’Italia. Le tavole di Cola dell’Amatrice presenti nei musei civici di Ascoli Piceno, in vista della mostra, sono state oggetto di una ricognizione diagnostica effettuata dai tecnici dello spin off “A.R.T. and Co.”, attivato dall’Università degli Studi di Camerino nell’ambito del corso in tecnologia per la conservazione dei beni culturali che ha sede nel capoluogo piceno: attraverso la riflettografia è stato possibile rilevare le profonde trasformazioni che l’artista stesso realizzò in corso d’opera e la tecnica disegnativa da lui utilizzata. Anche i pigmenti usati da Cola non sono più un mistero e possiamo finalmente conoscere con esattezza le sostanze da lui sfruttate per dipingere i suoi capolavori. Dalla Pinacoteca civica, che già ospita alcune delle opere più rappresentative di Cola dell’Amatrice, il percorso espositivo si allarga ad altri luoghi della città di Ascoli Piceno legati alla presenza del pittore di Amatrice: l’antico capitolo del complesso monumentale di San Francesco, dove da poco sono stati ricollocati gli affreschi vetero testamentari che erano stati strappati a metà degli anni Cinquanta del Novecento, ospita la sezione dedicata alla grafica, mentre nel refettorio del convento dell’Annunziata, oggi sede della Facoltà di Scienze dell’Architettura dell’Università degli Studi di Camerino, è possibile ammirare l’affresco di Cola raffigurante la “Salita al calvario”. ¤
Solidarietà
45
Un lungo “filo d’oro” di amore e di forza VIAGGIO NEL CENTRO DI RIABILITAZIONE DI OSIMO
U di Claudio Sargenti
La struttura nasce nel 1964 per volontà di una bimba rimasta sordocieca di un sacerdote e di un gruppo di volontari
n filo. Un lungo filo nobile e prezioso come sa essere solo l’oro, Un filo d’oro, dunque, che lega amore, assistenza, passione, solidarietà. In un Mondo dove rischiano di prevalere guerre, egoismo e sopraffazioni e dove anche le parole di Papa Francesco sembrano cadere nel vuoto, quel filo invisibile sì, ma duro, coriaceo, è cresciuto e via via si è consolidato e da Osimo si sta estendendo gradualmente, grazie all’impegno di tanti, in tutta Italia. E’ una bella pagina, che fa onore ancora una volta alle Marche, quella scritta nell’ormai lontano 1964, quando nasce ufficialmente la Lega del Filo d’Oro con l’intento di impegnarsi nell’assistenza, educazione, riabilitazione e reinserimento nella famiglia e nella società di bambini, giovani e adulti sordociechi e pluriminorati psicosensoriali. L’iniziativa, vale la pena di ricordarlo, è di Sabina Santilli, originaria di San Benedetto dei Marsi, che a 7 anni, diventa sordocieca a causa di una meningite. Ma è una donna determinata, intelligente con una instancabile volontà, quella di entrare in dialogo con il mondo. E’ lei che riesce a mettere in contatto i sordociechi italiani fino a fondare, appunto nel 1964, la Lega del Filo d’Oro grazie anche all’aiuto di un sacerdote e di un gruppo di volontari. La sordocecità, vale forse la pena di spiegarlo, è la combinazione di una minorazione visiva con una uditiva, totale o parziale; la pluriminorazione psicosensoriale si ha quando, alla minorazione della vista o dell’udito, se ne aggiungono altre come la disabilità intel-
lettiva, deficit motori, problemi comportamentali. Secondo il primo studio sul fenomeno della sordocecità promosso proprio dalla Lega del Filo d’Oro e realizzato dall’ISTAT, in Italia le persone affette da problematiche legate sia alla vista che all’udito sono 189 mila, pari allo 0,3% della popolazione italiana; per circa il 57% di loro uscire di casa rappresenta un problema a volte insormontabile che le spinge verso una condizione di completo isolamento anche affettivo. L’Associazione ha la propria sede nazionale appunto ad Osimo, dove opera con un Centro di Riabilitazione riconosciuto dalla Regione come “Unità speciale per sordociechi e pluriminorati psicosensoriali”. Ciò consente il ricovero di utenti provenienti da tutta Italia, con retta di degenza a carico della ASL di residenza. Ha una capacità operativa di 56 posti a tempo pieno, 15 a degenza diurna e prestazioni ambulatoriali e domiciliari. Qui si svolgono le attività di diagnosi e riabilitazione e vengono ospitati persone di diverse fasce di età: bambini, giovani e adulti. Nella sede trovano posto il Centro Diagnostico, che formula una valutazione globale ed effettua interventi precoci per bambini al di sotto dei 4 anni, i Servizi educativo-riabilitativi che attuano programmi di riabilitazione personalizzati, il Settore medico, il Centro di ricerca e il Centro di Documentazione oltre al Servizio Territoriale. Ma dicevamo, che nel corso del tempo quel filo prezioso da Osimo via via si è allargato ed è cresciuto un po' in tutta Italia. Grazie al continuo impegno, all’intensa atti-
Solidarietà
46 vità tecnico- scientifica e alla solidarietà di tanti, la Lega è riuscita ad aprire altri quattro centri con annessi servizi territoriali. A partire dal 2004 in Lombardia, a Lesmo, e poi in Puglia, a Molfetta, a Termini
La struttura può contare su otre 600 operatori qualificati e su testimonial d’eccezione come Arbore e Marcorè
Imerese, in Sicilia, a Modena nel 2013. Un impegno volto ad offrire maggiori opportunità in particolare alla fascia di età giovane e adulta che più incontra difficoltà a trovare risposte qualificate a livello territoriale. La Lega del Filo d’Oro è inoltre presente nelle sedi territoriali di Roma, Napoli e Padova, sedi che rappresentano un punto di riferimento fondamentale per favorire l’integrazione delle persone sordocieche e delle loro famiglie nel contesto in cui vivono, con le strutture e i servizi del territorio e per migliorare la qualità della loro vita, attivando progetti personalizzati, formando e coordinando gruppi di volontari a livello locale, sensibilizzando e offrendo informazione. Non solo. Accanto per così dire
alle attività proprie di una struttura riabilitativa, l’Associazione lavora anche su altri fronti. Nella ricerca, ad esempio, è impegnata da sempre per una maggiore salvaguardia dei diritti delle persone sordocieche ed è stata parte attiva per il riconoscimento della sordocecità quale disabilità unica e specifica, così come previsto dal Parlamento Europeo sulla "Dichiarazione scritta sui diritti delle persone sordocieche" del 12 aprile 2004. L’obiettivo della Lega è quello di un costante miglioramento, in modo da offrire a utenti e famiglie un servizio affidabile e di qualità, attraverso la creazione di apposite strutture, la formazione di operatori qualificati e lo svolgimento di attività di ricerca e sperimentazione. Per questo l’Ente ha istituito un proprio Centro di Ricerca, collabora con numerosi istituti universitari ed è in contatto con le Istituzioni Europee e con Enti ed Organizzazioni nazionali ed estere; fa parte del Deafblind International (Associazione internazionale che raggruppa quanti lavorano con e per i sordociechi) ed è componente del gruppo MDVI Euronet (per l'educazione di bambini e ragazzi pluriminorati psicosensoriali). La Lega del Filo d’Oro promuove inoltre, numerose iniziative nel campo della divulgazione scientifica e della formazione e gestisce corsi per operatori specializzati. Cura anche per i suoi utenti, l’organizzazione dei soggiorni estivi, di momenti socio-ricreativi e culturali, di gite e pratiche sportive, per la cui realizzazione rappresentano una risorsa fondamentale i volontari, oggi più di 600, preparati e qualificati grazie a specifici corsi di formazione. Alla base dell’impegno e del lavoro di tanti, volontari, infermieri, medici, specialisti, ricercatori, c’è la solidarietà di molti grazie all’azione di
Solidarietà
sensibilizzazione a livello nazionale con campagne di comunicazione ed iniziative di raccolta fondi rivolte a private, aziende e fondazioni grazie anche ad un testimonial d’eccezione come Renzo Arbore al quale da qualche anno si è affiancato l’attore marchigiano Neri Marcorè. Le risorse private nel loro complesso costituiscono il 65% delle entrate del bilancio: solo coì è riuscita a differenziare i suoi interventi rispondendo sempre più sul piano quantitativo e qualitativo alle esigenze della popolazione sordocieca. Ma l’impegno della Lega del Filo d’Oro non si ferma qui. Perché tanti sono i progetti in cantiere. Oltre al completamento del nuovo Centro Nazionale (il primo lotto funzionale è stato inaugurato il 1 dicembre dell’anno scorso), tra i progetti in corso c’è anche quello di continuare ad estendere la presenza in Italia con
47 nuove sedi territoriali per consentire un sostegno ulteriore alle famiglie e una maggiore integrazione con il tessuto sociale, le strutture presenti e i servizi locali. A questo si aggiunge l’impegno
continuo per offrire a utenti e famiglie un servizio affidabile e di qualità, attraverso la formazione di operatori qualificati, lo svolgimento di attività di ricerca e sperimentazione nel campo della sordocecità e della pluriminorazione psicosensoriale e la partecipazione a progetti di studio europei. ¤
Commosso per la pazienza e amore verso quei bambini
L
a prima volta che sono entrato in contatto direttamente con la Lega del Filo d’Oro è stato a fine estate di qualche anno fa. Come cronista del Tg Regionale della televisione del Servizio Pubblico sono andato ad un’iniziativa che l’Associazione faceva fuori della sua Sede Istituzionale. Alcuni giorni di vacanza e soggiorno in un grande albergo a Marcelli di Numana. Ricordo ancora con quanta attenzione e con quanto affetto gli operatori facevamo giocare (era ancora caldo e l’albergo aveva una grande piscina) quei bambini; ma soprattutto ricordo con quanta gioia i genitori guardavano i loro figli divertirsi proprio come gli altri, quelli che avevano avuto la “fortuna” dalla natura
di nascere normali. Non nascondo la commozione in quegli attimi e soprattutto i mille pensieri che in quel momento hanno affollato la mia mente: la pazienza, l’esperienza, la capacità, il vero e proprio amore degli operatori nei confronti di quei bambini. Avrei avuto voglia di abbracciarli tutti, uno per uno, per esprimere in qualche modo riconoscenza per quello che stavano facendo. Forse per la prima volta in un Mondo pieno di egoismo e violenza, ho potuto vedere e capire cosa significa la parola solidarietà, solidarietà nei confronti di chi soffre, solidarietà nei confronti di chi ha veramente bisogno. Al ritorno in Redazione dissi al mio Capo (anzi alla mia Capa, visto che la Responsa-
Nelle pagine, in senso orario la passione e l'amore degli operatori della Lega del Filo d'Oro In alto i testimonial dell'associazione Neri Marcorè e Renzo Arbore Qui sopra un momento dell'inaugurazione del centro con l'ex presidente della Camera Laura Boldrini
Solidarietà
Una bella pagina di assistenza sorta nelle Marche per bambini e adulti pluriminorati psicosensoriali
In alto una veduta del centro della Lega del Filo d'Oro Qui sopra da sinistra Francesco Marchesi presidente Lega Laura Boldrini e Rossano Bartoli segretario generale dell'Associazione
48
bile all’epoca era una donna) che quel servizio, quell’uscita di troupe (come si chiama, come lo chiamiamo noi, in senso tecnico) mi era piaciuta davvero. Spero solo di aver confezionato un bel servizio televisivo, spero cioè di aver fatto capire ai marchigiani cos’è e cosa fa la Lega del Filo d’Oro; il ruolo prezioso che svolge, come lavorano i suoi operatori. L’Associazione “Lega del filo d’oro” appena dieci anni dopo la sua costituzione, viene riconosciuta dal ministero della Sanità come “Istituto di Riabilitazione”. E nel trentennale della sua fondazione, nel 1994, il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, si reca in visita nel Centro incontrando il personale e intrattenendosi con i piccoli ospiti e i loro familiari. Il primo dicembre dell’anno scorso è stato inaugurato il primo lotto funzionale del nuovo Centro Nazionale di Osimo. In poco più di mezzo secolo di vita, dunque, l’Associazione di strada ne ha fatta davvero tanta. Nei vari centri sparsi per l’Italia ci sono quasi 200 posti a tempo pieno; decine per la degenza diurna; complessivamente sono oltre 600 i dipendenti tra operatori educativo-riabilitativi, fisioterapisti, psicologi, medici, infermieri e assistenti sociali oltre a tutto il personale amministrativo e dei servizi generali. Ma la vera forza sono gli oltre 450 mila sostenitori a livello nazionale che con le loro donazioni rappresentano, nel loro complesso, il 65% delle entrate di bilancio. Adesso l’obiettivo più imme-
diato della Lega è quello di dare avvio ai lavori per la realizzazione del secondo lotto del nuovo Centro Nazionale, mentre rimane fermo l’impegno dell’Associazione ad accrescere la propria presenza sul territorio, tanto che a breve ci sarà l’apertura di una nuova sede a Novara. Anche la Ricerca e la sperimentazione sono da sempre aree strategiche di grande impegno per la Lega del Filo d’Oro. Per questo, presso la sede di Osimo opera un Centro di Ricerca che progetta e sperimenta metodologie e strumenti di supporto per gli utenti. “Ma tutto questo è possibile - spiega Rossano Bartoli, segretario generale della Lega del Filo d’Oro - solo grazie alla solidarietà di tanti sostenitori. Si è poi aggiunta una recente esperienza per intraprendere l’attività di raccolta fondi all’estero, in particolare negli Stati Uniti. Appena due anni fa – prosegue Bartoli - la Lega del Filo d’Oro si è registrata a New York accreditandosi presso una fondazione americana. In questo modo potrà ricevere contributi assicurando ai donatori d’Oltreoceano importanti agevolazioni fiscali previste dalla loro normativa”. “Insomma, guardiamo al futuro con ottimismo, conclude Bartoli, pur sapendo che la strada intrapresa non sarà semplice. Ma questo fa parte della storia stessa della Lega del Filo d’Oro e dello spirito della nostra fondatrice, Sabina Santilli che amava ripetere: “Avanti e buon coraggio, senza mai tirarsi indietro”. ¤
Le pagine del passato
49
Si affaccia sul porto la storia di Ancona GRECI E ROMANI COMPRESERO L’IMPORTANZA STRATEGICA
N di Claudio Desideri
on era facile solcare l’Adriatico nel periodo invernale e la nave greca, proveniente da Siracusa, con la stiva piena di vasi attici, non aspettava altro che il promontorio, da fiancheggiare terminasse. Serviva una baia per riparare l’imbarcazione dall’imminente burrasca annunciata dal vento. Ecco finalmente spuntare la china del colle e dietro una rada di sabbia gialla e fine, con un mare più calmo e accogliente. La nave si arenò sulla sabbia e svelti i marinai la tirarono in secca. Da quel giorno i Dori Siracusani decisero di stabilirsi lì, in quel luogo che vollero chiamare Ankòn per la sua conformazione a gomito che la faceva sembrare un’isola. Era il IV secolo a.C.
Dal quel giorno in poi, Ancona e il suo porto resteranno per sempre legati in una cordata che li vedrà vivere, insieme, momenti di decadenza e momenti di grande splendore. I Greci compresero l’importanza strategica del golfo naturale e iniziarono a costruire i primi insediamenti attorno alla rada e un molo sullo scoglio sotto il colle Guasco. Istaurarono sin da subito un buon rapporto di convivenza con le popolazioni residenti, i Piceni, che allora vivevano sul colle della Montagnola, e fecero di Ancona un punto cruciale per i loro commerci. Le opere edificate dai Greci furono ingrandite dai Romani e fu soprattutto l’imperatore Traiano a far eseguire importanti interventi di amplia-
Le pagine del passato
Nello scalo dorico la più alta concentrazione di monumenti un patrimonio culturale di incredibile bellezza
50 mento nel II secolo d.C. quando scelse Ancona come base strategica della flotta romana nella guerra contro i Daci. L’imperatore fece edificare magazzini per le merci, locali per i soldati e ambienti adibiti alla costruzione e al riparo delle navi. Il porto, a forma di emiciclo, è oggi ben visibile negli scavi di Via Vanvitelli. Traiano vinse la guerra e il Senato anconetano eresse in suo onore un arco sotto il quale l’imperatore non passò mai. Questa bellissima costruzione è attribuita da molti ad Apollodoro di Damasco, l’architetto cui l’imperatore affidò numerosi progetti, ed è sicuramente l’opera più affascinante del porto per la sua austera bellezza, per la sua forma originale, alta e stretta, differente della maggior parte degli archi trionfali romani. Si crede, inoltre, porti fortuna in quanto è il più antico monumento rimasto perfettamente eretto, nonostante i ripetuti terremoti che hanno colpito Ancona, le incursioni dei Saraceni - la leggenda vuole abbiano provato ad abbatterlo senza riuscirvi - gli eserciti invasori, le bombe della seconda guerra mondiale, che cancellarono i quartieri del porto e del colle Guasco. Solo il mare, con la sua salsedine, è riuscito a sfumare le sue forme. Ancora, oggi e nonostante i numerosi studi, non si comprende il metodo con cui i romani lo ancorarono allo scoglio sottostante. Dopo le invasioni dei Saraceni, avvenute intorno al IX secolo, Ancona comprese che non era sufficiente difendersi sul lato terrestre ma doveva farlo anche sul mare. Furono edificate le mura del porto con alte torri quadrate, per avvistare eventuali nemici con alla base delle portelle cui si accedeva al molo. La banchina percorreva tutta la cinta muraria ed era ampia circa due metri, solo innanzi alle portelle si allargava per permettere l’ancoraggio delle barche che servivano a
raggiungere le navi in rada. Oggi sono ben visibili le due Portelle della Loggia dei Mercanti, della Dogana, davanti a Santa Maria della Piazza, la Palunci e la Torriglioni, poco più avanti. Queste ultime due portano il nome delle famiglie che le amministravano e che esigevano il pedaggio per le persone e le merci che le oltrepassavano. Per chi giungeva dal mare la città appariva abbagliante con le sue mura che emergevano dall’acqua come una diga a difesa di ogni pericolo. In vari racconti di viaggio si parla di una città dalle mura d’oro per la luce che queste assumevano al tramonto. Quelli furono per il porto e la città secoli di splendore. Ancona, libero comune, repubblica marinara allacciò importanti rapporti commerciali con tutti i paesi del Mediterraneo, inviando ambasciatori nelle città più importanti per tutelare i suoi interessi e suoi affari, da Costantinopoli a Barcellona, previlegiando, soprattutto i rapporti con l’altra sponda dell’Adriatico. In quegli anni, partendo da Ancona, s’impiegava una notte per arrivare a Ragusa via mare e un mese per raggiungere Roma a cavallo. Nei secoli XIII e XIV furono redatti gli Statuti del mare che dettarono norme per i commerci marittimi, per la navigazione, per la costruzione delle navi, per il cantiere navale, il Terzenale e per il porto. Molte di queste norme rimasero valide sino al XVIII secolo. La città di fatto abbandonò ogni pretesa di espansione in terra ferma e rivolse il suo esclusivo interesse verso il mare e le attività di commercio. I suoi attuali confini risentono ancora di quella scelta. Solo Venezia riuscì a frenare la sua potenza, costringendola a porsi sotto la protezione e il dominio dello Stato della Chiesa. Nel XVI secolo Ancona era tra le città più impor-
Le pagine del passato
tanti del Mediterraneo. Greci, Armeni, Israeliti d’Oriente e di Occidente, Turchi, Veneziani, Dalmati e Croati, Lucchesi e Fiorentini, vi si trasferirono per commerciare lane, sete, pellami, piombo fiammingo. Una città cosmopolita ricca e sicura. I commercianti stranieri italianizzarono il proprio cognome ed entrarono a far parte della classe nobile e benestante della città. E’ di quel periodo la costruzione della Loggia dei Mercanti, con la facciata su via della Loggia, opera di Giorgio di Matteo da Zara, più noto come Giorgio da Sebenico. Fu chiamata loggia perché la parte alta della costruzione era allora una grande terrazza coperta da cui i commercianti attendevano il rientro o assistevano alla partenza delle loro navi. Nel secolo successivo il porto e Ancona vissero lunghi periodi di decadenza. I traffici diminuirono, le opere marittime e le mura difensive andarono in rovina e molti commercianti lasciarono la città trasferendosi altrove. Occorrerà attendere la metà del XVIII secolo per assistere ad una decisiva ripresa grazie alla politica di Clemente XII. Il Papa concesse la franchigia doganale per attrarre nuovi traffici, fece ricostruire i moli e affidò ad uno dei suoi architetti favoriti, Luigi Vanvitelli, la progettazione del nuovo Lazzaretto. Ancona come città di mare aveva un lazzaretto già nell'XI secolo. Una struttura fondamentale per una città marinara, che fu più volte restaurata o ricostruita sotto le rupi di San Ciriaco. L'istituzione del porto franco, voluta da Clemente XII, richiedeva però una costruzione nuova e più adatta a rispondere all’aumento dei traffici marittimi fortemente auspicato dal Papa che intendeva risollevare la città e con essa anche l’economia dello Stato. Il Pontefice, dopo l'affidamento
51 della costruzione della Mole, assegnò a Vanvitelli anche il progetto dell'ampliamento del porto con il prolungamento del molo traianeo e la costruzione dell'arco Clementino che rappresentava la porta di Ancona sull’Adriatico. L’insieme dei progetti, per chi giungeva dal mare, appariva come un simbolico abbraccio che diede nuova bellezza alla città: a sinistra l’Arco, a destra la Mole, al centro la semicircolare facciata della chiesa del Gesù. Nel XIX secolo Ancona divenne teatro di avvenimenti storici legati alle guerre per l’indipendenza. Le continue occupazioni di eserciti stranieri, Francesi e Austriaci, e le gravi difficoltà economiche in cui versava tutto il territorio nazionale fecero trascurare le opere necessarie al mantenimento strutturale del porto che visse un nuovo momento di decadenza. Fu in quegli anni, sotto il fuoco navale dei Piemontesi, che perse la sua lanterna. Alta 32 metri fu distrutta da una granata che colpì il deposito di polveri il 24 settembre del 1860. Eretta nel 1784, su disegno del Vanvitelli, era considerata uno dei forti a mare più potenti d’Italia. Oggi ne resta la sola base di mattoni rossi e gialli. Nei primi anni della costruzione dello Stato unitario Italiano il porto, per la sua posizione al centro dell’Adriatico ed essendo l’unico scalo nel versante orientale, assunse nuovamente un ruolo strategico. Trieste e Venezia erano ancora in mano austriaca e Ancona divenne base della flotta Italiana. I cantieri navali furono riadattati e i moli ricostruiti per rendere più agevole l’attracco delle navi da guerra. Un nuovo impulso che durò poco più di sei anni, sino a quando Venezia entrò a far parte dell’Italia Sabauda. Ancora una volta la città di San Marco sottraeva ad Ancona potere e importanza. Ma sarà il secondo conflitto
Nella pagina a sinistra in alto l'arco di Traiano in un dipinto d'epoca in basso l'arco Clementino Qui sopra, riproduzioni storiche del porto
Le pagine del passato
Nel 1860 i Piemontesi distrussero la lanterna alta 32 metri oggi resta solo la base di mattoni rossi e gialli
In alto, una panoramica del porto di Ancona (foto di Sauro Marini) Sotto, uno dei tanti bombardamenti subiti dallo scalo dorico e gli antichi cannoni esposti fronte mare
52
mondiale a recare veramente dolore e distruzione. Obiettivo nemico era colpire il porto e con esso la città. I bombardamenti navali ed aerei trasformarono irrimediabilmente il volto di Ancona. Furono cancellati interi quartieri e con essi chiese, monasteri, palazzi nobiliari e la vecchia città medioevale. Oggi ne rimangono solo pochi resti nella casa detta del Capitano, in alcuni tratti originali di mura, nei due archi gotici, uno accanto all’Istituto nautico e l’altro imprigionato nella sede della Capitaneria di Porto. Con i bombardamenti Ancona fu ferita a morte e la sua comunità più vera che da secoli viveva attorno allo scalo fu dispersa. Il tessuto sociale fu disgregato e quelli che un giorno erano centri vitali, con vie e piazze, divennero i luoghi simbolo della lesione bellica. Ci vorranno anni e anni prima che questi spazi tornino ad essere vissuti ed amati dagli anconetani. Dopo la seconda guerra mondiale, con notevoli sforzi ebbero inizio i lavori di recupero dei moli e delle banchine e vecchi cannoni furono trasformati in bitte. Un riutilizzo forse necessario, in un momento di difficoltà economica, ma al tempo stesso un indubbio e significativo messaggio di pace. Due di questi sono stati recuperati ed esposti sotto la Loggia dei Mercanti. Recano ancora impressi i segni delle gomene che negli anni li hanno consumati. Oggi il porto ha assunto un nuovo, grande valore per l’economia locale e rappresenta, per numero di addetti, la prima industria delle Marche. E’ sede di una delle più im-
portanti Autorità portuali e il suo cantiere è tornato a creare navi richieste in tutto il mondo. Da qui partono i traghetti per l’altra sponda, per la Grecia e per molti paesi del Mediterraneo. Qui giungono grandi navi da crociera che hanno scelto Ancona soprattutto per la sua indiscutibile bellezza. Ma il porto è anche l’area più amata dagli anconetani per le affascinanti tracce del passato, per i rossi tramonti, per le navi che sembra possibile toccare quando entrano ed escono dal porto sfiorando i moli. E’ in questo luogo che ogni anconetano si sente veramente a “casa sua”. Ed è al porto che risiede la più alta concentrazione di monumenti cittadini, un concentrato di storia e arte unico nel suo genere. Un patrimonio culturale di incredibile ricchezza che altri porti non hanno, che va conservato e tutelato per non perdere l’identità di una società nata, cresciuta e maturata in quel luogo. Molti anni orsono realizzai una guida ai monumenti del porto. Mi fu chiesta in occasione della visita del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, avvenuta il 19 giugno del 2000. Ricordo che in quei giorni il Presidente dell’Autorità portuale, Alessandro Pavlidi, mi chiese di accompagnarlo in un sopralluogo al patrimonio artistico e archeologico dello scalo. Partimmo dal Lazzaretto e, ad uno ad uno, glieli mostrai tutti sino alla Lanterna. Quando scendemmo dall’auto, che ci aveva accompagnati mi disse: “La storia di Ancona è qui. In poche centinaia di metri c’è tutto il suo passato e tutto il nostro futuro.” ¤
Freschi di stampa
53
Sul podio, narratori e poeti marchigiani A SAN SEVERINO VALORIZZATI AUTORI DEL TERRITORIO
L
I soci de "le Centocittà" in visita a San Severino Marche dopo la presentazione di "Freschi di stampa"
a IX edizione di “Freschi di stampa” si è tenuta quest’anno a San Severino Marche, come segno di solidarietà verso uno dei Comuni compresi nel “cratere”. Nella mattina dell’11 febbraio oltre cinquanta soci si sono riuniti in Piazza del Popolo per poi visitare la Pinacoteca Comunale “P. Tacchi Venturi”, che recentemente è stata oggetto di un nuovo allestimento e ampliamento.
borghi compresi nel territorio settempedano. Successivamente si effettuata la visita, guidata dal Luigi Maria Cristini, dell’antica Basilica di San Lorenzo in Doliolo, capolavoro dell’arte romanico-gotica e sede d’importanti affreschi dei Fratelli Salimbeni. Per la pausa pranzo il gruppo si è recato presso il ristorante LK, dove è stato presentato un menù composto di tipiche ricette marchigiane. Nel primo pomeriggio
Nel primo piano sono state collocate le opere comprese tra il Trecento e il Cinquecento, presentate da Alberto Pellegrino con particolare riferimento ai lavori di Allegretto Nuzi, Paolo Veneziano, i Fratelli Lorenzo e Jacopo Salimbeni e Vittore Crivelli. Nel piano terra la nuova sezione dedicata alle opere del Seicento e Settecento è stata illustrata da Luca Maria Cristini e la visita si è conclusa con la presentazione dei gonfaloni dei
il gruppo si è spostato nel Teatro Comunale Feronia, gentilmente messo a disposizione dall’Amministrazione Comunale, dove Alberto Pellegrino ha ricordato i 280 anni della costruzione dell’edificio e ha tracciato una breve storia del teatro a cominciare dalla sua apertura avvenuta nel 1828, soffermandosi poi sul sipario storico, un piccolo capolavoro dell’arte neoclassica opera del pittore sanseverinate Filippo Bigioli (autore del
Freschi di stampa
Sottolineati l’importanza della diffusione del libro e il ruolo svolto dalle piccole case editrici
54
bozzetto) e dello scenografo ascolano Raffaele Fogliardi. All’apertura del sipario, grazie alla collaborazione con l’Accademia musicale Feronia diretta dal M° Giorgio Lorenzini, due giovanissimi musicisti, il violoncellista Filippo Boldrini (15 anni) e il contrabbassista Ludovico Rapaccioni (17 anni), hanno eseguito brani di Bach e Rossini, ottenendo il plauso del pubblico che nel frattempo aveva riempito la platea e il primo ordine di palchi. Una selezione di opere di grande interesse Ha avuto quindi inizio la cerimonia ufficiale di Freschi di Stampa. Il contributo della Nostra regione al patrimonio culturale italiano con la presentazione di una selezione di opere letterarie pubblicate nel 2017 da Autori o Editori marchigiani. Ha preso per primo la parola il presidente delle Cento Città Giorgio Rossi che ha porto il saluto dell’Associazione, ha premiato con una targa i due giovani musicisti e ha ringraziato l’Amministrazione comunale per il patrocinio concesso alla nostra iniziativa. Il Sindaco di San Severino Marche Rosa Piermattei ha espresso il ringraziamento della città, così duramente colpita dal sisma, per averla scelta come sede di una manifestazione di così alto livello culturale. Ha preso la parola quindi il coordinatore di “Freschi di Stampa” Maurizio Cinelli, il quale ha illustrato brevemente le finalità dell’iniziativa e i volumi che sono stati segnalati all’at-
tenzione del pubblico. Si è passati infine alla presentazione delle opere prescelte per l’Edizione 2017 che sono state illustrare nei contenuti e nel loro valore nel seguente ordine: Maria Luisa Polichetti ha parlato del volume Il complesso di San Francesco ad Alto a Capodimonte di Fabio Mariano (Andrea Livi Editore); Renato Pasqualetti del romanzo La ragazza dal costume rosso di Misha F. Ricci (Affinità elettive); Claudio Bruschi del saggio storico Souvenirs d’Ancone. Cronache di un assedio (Affinità elettive); Alberto Pellegrino del Teatro di Dante Cecchi (Fondazione Carima); Fabio Brisighelli del romanzo La Zarina del porto (Affinità elettive); Guido Garufi della raccolta di poesie Quasi un consuntivo del poeta maceratese Remo Pagnanelli (Donzelli Editore). Al termine della manifestazione Alberto Pellegrino ha intervistato Valentina Conti, fondatrice e direttrice della casa editrice anconetana Affinità elettive. Dopo una breve presentazione del personaggio e delle principali collane editoriali, è stato affrontato il problema dell’importanza della diffusione del libro e del ruolo rilevante svolto dalle piccole case editrici sul territorio regionale. In particolare si è parlato delle finalità della casa editrice per quanto riguarda la diffusione della storia marchigiana soprattutto riguardo al Novecento, nonché della valorizzazione di quei narratori e poeti che sono presenti nella nostra regione. ¤
Freschi d'accademia
55
Post sisma, i sentieri dello sviluppo L'ATENEO DI MACERATA STUDIA IL PROGETTO DELLA REGIONE
L di Alessandro Rappelli
I relatori dell'iniziativa "Freschi d'Accademia" che ha visto protagonista l'Università di Macerata
a terza edizione di Freschi d’Accademia, l’evento annuale che l’Associazione Le Cento Città ho voluto istituire per dare risalto alle eccellenze scientifico-culturali dai quattro atenei marchigiani, si è svolta all’Università degli Studi di Macerata. Nel porgere il saluto inaugurale il Presidente Giorgio Rossi ha brevemente ricordato che tra gli scopi culturali delle Cento Città particolare attenzione doveva necessariamente essere rivolta ai risultati che i docenti ed i ricercatori dei nostri atenei ottengono con il loro lavoro e la loro passione per lo studio e la scienza. E’ per questo motivo che tre anni fa si è dato inizio a “Freschi d’Accademia” che prevede un evento nell’ambito del quale vengono illustrati i migliori risultati scientifico-culturali degli ultimi tre anni coinvolgendo un ateneo marchigiano secondo una rotazione annuale in ordine
alfabetico: così, dopo Ancona e Camerino, le terza edizione si è svolta a Macerata e il prossimo anno saremo ospiti dell’Università di Urbino.
Il Rettore Francesco Adornato ci ha proposto di premiare nel suo complesso il contributo che l’Università di Macerata ha dato, e sta tuttora dando, ad un progetto istituito dalla Regione Marche denominato “Nuovi sentieri di sviluppo dell’Appennino marchigiano” progetto teso a venire incontro alle mutate esigenze delle zone interne così profondamente provate dal sisma articolato in cinque filoni culturali: beni archeologici e museali; archivi e biblioteche; scuole e sostegno alla popolazione; turismo; valutazioni economiche, illustrati dai docenti Roberto Perna e Rosa Maria Borraccini per l’Area Umanistica, Paola Nicolini e Mara Cerquetti per l’Area di Formazione, Comunicazione e Turismo ed infine Eleonora Cutrini per l’Area Giuridico-Economica. Il Presidente del Consiglio della Regione Marche Antonio Mastrovincenzo ha ricordato il progetto di rinascita delle aree colpite dal sisma denominato “Nuovi sentieri di sviluppo per le aree interne dell’Appennino Marchigiano” che coinvolge le quattro Università della Regione in stretta sinergia con il Dipartimento per la Strategia Nazionale delle Aree Interne. Il progetto prevede in particolare: una mappatura delle condizioni territoriali, sociali ed economiche degli 87 comuni marchigiani colpiti dagli eventi sismici; una campagna di ascolto inerente le attese delle comunità locali; una sintesi interpretativa delle criticità e delle potenzialità dei luoghi. E’ infine intervenuto il Prof. Adornato, Magnifico Rettore
Freschi d'accademia
L’archeologo deve avere un ruolo propositivo e non oppositivo in una governance finalizzata a gestire il territorio
56 dell’Università degli Studi di Macerata che ha ricordato come l’Ateneo di Macerata, per le proprie vicende storiche svolga un ruolo assolutamente singolare. I suoi Dipartimenti e le sue Scuole costituiscono un insieme omogeneo, specificatamente umanistico, nel quale docenti e studenti possono quotidianamente trovare comuni interessi culturali e motivi di dialogo, nello spirito di una vera universitas studiorum. Il Rettore ha poi sottolineato che l’Università di Macerata si impegna ad essere un Ateneo sempre più orientato a raggiungere risultati di eccellenza nella ricerca scientifica di base e applicata, focalizzato nell’ambito delle scienze umane e sociali (l’umanesimo che innova), orientato ad una didattica di qualità e innovativa, aperto e sensibile alle istanze di sviluppo culturale, sociale ed economico del suo territorio, capace di motivare e valorizzare studenti, docenti e personale tecnico amministrativo ed infine in grado di rispondere alle sfide del futuro con una strategia trasparente e condivisa. ¤
I beni culturali spesso percepiti come ostacolo
“L
Roberto Perna professore associato di Archeologia Classica
a legislazione del 1939 – afferma il professor Roberto Perna, professore associato di Archeologia classica - avendo individuato nel vincolo il principale e più efficace strumento di tutela e consolidando una distinzione tra questa e pianificazione -non ancora definitivamente superata anche dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.L. 22 gennaio 2004, n. 42)-, è stata certamente una delle principali cause che ha contribuito al mancato organico inserimento dei beni
culturali in feconde politiche di gestione e valorizzazione del territorio. È dunque anche per tale motivo che l’Italia non ha elaborato una politica per i beni culturali che supera una concezione degli stessi come elementi puntuali, spesso percepiti come ostacolo allo sviluppo, che si fondi invece sull’idea che essi possano essere incardinati nelle politiche di gestione territoriale. Nonostante questo, negli ultimi anni il processo culturale di integrazione del tematismo culturale, e di quello archeologico in particolare, nei processi di pianificazione urbanistica e territoriale ha compiuto notevoli progressi. La politica di conservazione del patrimonio culturale, basata sostanzialmente sul Codice dei beni culturali e del paesaggio e sul vincolo paesaggistico, di fatto scaturisce ancora da strategie difensive, troppo spesso legate ad esigenze contingenti tese alla riduzione del danno e scisse da una significativa politica programmatoria e alimentate/rafforzate sul piano culturale anche da una concezione accademica della cultura, spesso settoriale ed iperspecializzata, che ha determinato, tra le altre conseguenze, anche il ruolo spesso “negativo” rivestito dalla figura dell’operatore nel settore dei beni culturali e dell’archeologo in particolare, spesso visto, nell’ottica del vincolo, come limite ai processi di sviluppo urbanistico e di pianificazione. Tutto ciò si traduce, ancora oggi, non solo nell’assenza di una ricerca intorno alle metodologie, alle norme e alla legislazione utili per la pianificazione urbana e territoriale che, diffuse e condivise, possano tenere al centro anche l’obiettivo di integrare il valore del patrimonio culturale ed archeologico in particolare, ma anche nella difficoltà, sul piano amministrativo, di pro-
Freschi d'accademia
durre forme di conoscenza, normalizzate, gestibili e condivisibili anche da professionisti con competenze diverse, a partire dagli architetti pianificatori. Si tratta però anche di definire, fattivamente, il ruolo che l’archeologo, e più in generale estendendo l’approccio, l’operatore nel settore dei beni culturali, deve assumere in tale diversa modalità operativa. Tenendo sempre in mente le imprescindibili necessità della tutela, l’unica strada percorribile, io credo, sia quella di attivare un confronto serrato fra dimensione archeologica e le molteplici esigenze, i soggetti ed i valori coinvolti nei processi decisionali che sottendono alla gestione del territorio con l’obiettivo di individuare un piano di lavoro comune: si tratta quindi in definitiva di partecipare alla predisposizione di una governance finalizzata a regolare, gestire e pianificare le trasformazioni del paesaggio che non solo tiene conto delle necessità della tutela, ma che fa del patrimonio archeologico una occasione di sviluppo passando da un ruolo “oppositivo”, o ritenuto tale, ad uno propositivo e collaborativo ed, infine, ad uno di integrazione nelle scelte. La sfida che devono affrontare le Università e gli archeologi militanti, che operano sul territorio e formano le nuove generazioni, è dunque particolarmente affascinante: uscire dalla semplice logica dello studio e della ricerca, per passare all’archeologia globale dei paesaggi, fino ad affrontare processi epistemologici che ci consentano di dialogare interdisciplinarmente con le scienze urbanistiche e dell’ambiente in genere, al fine di partecipare ai processi decisionali che trasformano il paesaggio in collaborazione con professionisti di altre discipline”. ¤
57
Biblioteche e archivi feriti quale futuro?
“A
rchivi e Biblioteche – affermano Rosa Marisa Borraccini professoressa ordinaria di Archivistica, Bibliografia e Biblioteconomia e Monica Bocchetta - sono spesso percepiti come contenitori culturali enigmatici, entità distanti, non amichevoli e non utili alle pratiche di vita dei cittadini. Al contrario, noi crediamo che essi siano – o almeno dovrebbero essere – i cardini della vita civile e sociale di una comunità bene ordinata, consapevole e partecipe nell’esercizio dei diritti di cittadinanza. Dall’indagine condotta per il progetto Nuovi sentieri di sviluppo per le aree interne dell’Appennino marchigiano su 87 Comuni interessati 21 non avevano una biblioteca pubblica prima del sisma. In tre di essi il suo allestimento è avvenuto – o è in corso – nel post-sisma. Questo il quadro generale in sintesi: il 22% (21 Comuni) non ha la biblioteca; il 35% (30) ha una biblioteca comunale fruibile; il 25% (21) non fruibile; il 5% (4) parzialmente fruibile; per il 13% (11) i dati non sono pervenuti: Archivi comunali: 39 archivi (ossia il 45%) risultano non fruibili; 7 archivi (l’8%) parzialmente fruibili; 37 archivi (il 43%) sono fruibili. Solo per 4 di essi i dati non sono pervenuti. Questa la sintesi in tabella per province. Pur nella diversa natura e configurazione istituzionale, Archivi e Biblioteche condividono la stessa generica dimensione di “beni culturali”, sebbene in posizione subalterna rispetto al patrimonio artistico e archeologico. Essi faticano a trovare una posizione autonoma, uno spazio
Rosa Marisa Borraccini professoressa ordinaria di Archivistica, Bibliografia e Biblioteconomia
Dall’indagine emerge che su 87 comuni presenti nel cratere 21 non avevano una biblioteca pubblica prima del sisma
Freschi d'accademia
Paola Nicolini professoressa associata di Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione
Obiettivo: la costruzione di una cultura della prevenzione e comportamenti da adottare in caso di rischio
58 sociale di risorsa strategica per le comunità, a ragione del loro ruolo ritenuto da sempre marginale rispetto a bisogni più urgenti. In condizioni di carenza di risorse umane e finanziarie, la loro presenza non viene sentita come indispensabile. Il che non giustifica ma spiega i motivi per cui molti dei piccoli centri e borghi del territorio ne erano privi anche prima del terremoto. In breve, per le biblioteche le proposte di intervento fattibile sono le seguenti: creare punti di aggregazione identitari per superare la disgregazione post-sisma attraverso la condivisione di spazi e di attività che favoriscano l’apprendimento permanente delle competenze per l’esercizio dei diritti di cittadinanza; individuare sul territorio istituti-capifila di prossimità per allargare la rete del Polo bibliotecario unico delle Marche del Sud, in via di costituzione da parte della Regione; condividere i cataloghi online e intensificare i progetti di digitalizzazione; favorire il prestito dei contenuti digitali delle biblioteche aderenti per rendere disponibili le risorse, quali ebook, musica, film, giornali, banche dati, archivi di immagini (MediaLibrary online); se ritenuto utile, in casi particolari, attivare il servizio di prestito con bibliobus; estendere i progetti regionali già avviati dell'Agenda Digitale Marche – in particolare “Cultura Smart!” – a tutti i Comuni del cratere per la condivisione facilitata delle risorse informative; riattivare e potenziare iniziative e attività inclusive per i più piccoli – se e dove già avviati – quali “Nati per leggere”, “Nati per la Musica”; pensare e realizzare laboratori e/o corsi di formazione per gli adulti nell’ottica dell’apprendimento permanente, che siano anche adeguati alla riappropriazione di conoscenze teoriche e competenze pratiche su
arti e mestieri della tradizione e dell’artigianato locale, in collaborazione dinamica con istituti di formazione e con aziende del territorio”. ¤
Aiuto psicologico agli studenti dall'Università
“F
in dai primi momenti del sisma, - afferma Paola Nicolini, professoressa associata di Psicologia dello Sviluppo e dell’educazione l’Università di Macerata si è mossa rapidamente mettendo in campo una serie di azioni a sostegno della popolazione, animata dallo spirito dell’Umanesimo che costituisce un suo pilastro essenziale. Tra le prime azioni, si è messa a disposizione la consulenza psicologica gratuita per studenti universitari, in collaborazione con l’Ufficio Orientamento, grazie alla collaborazione volontaria di psicologi abilitati tra i quali alcuni dottorandi (Cristina Formiconi, Matteo Papantuono, Margherita Rampioni) e il consulente dell’Ufficio Gianluca Vergari. Considerando inoltre le fasce più deboli della popolazione, il pensiero è andato immediatamente alle bambine e ai bambini, sia quelli direttamente colpiti dagli eventi sismici, sia quelli che hanno subito l’ondata mediatica dell’informazione spesso non filtrata. Articoli di giornale online sono stati perciò rivolti a loro, grazie alla collaborazione in atto con la testata Cronache Maceratesi, nella sua versione Junior. Si è inteso comunicare con i linguaggi e le modalità adeguati al pubblico dei più piccoli, rivolgendosi al medesimo tempo a genitori e a adulti, per sostenere l’elaborazione della paura e la rappresentazione verosimile di rischi e pericoli. Con la stessa intenzione, in collaborazione
Freschi d'accademia
con il Comune di Macerata e le dottorande Valentina Corinaldi, Sara D’angelo, Monica De Chiro e Federica Ramazzotti, sono stati realizzati dei laboratori ludici per bambine e bambini dedicati ad attività di rielaborazione delle emozioni e di debriefing da post trauma. Dopo aver fatto fronte alle questioni più emergenti, ci si è dedicati anche al tema della raccolta di dati che fotografasse la situazione delle istituzioni educative quali asili nido e scuole. La ricerca si è mossa dal presupposto che, senza i servizi essenziali come asili nido e scuole, non ci sia futuro per i territori colpiti dal sisma, sia in termini di diritti all’educazione e all’istruzione per le più giovani generazioni, sia in termini di sostegno alle famiglie per poter mantenere le proprie residenze e le proprie attività lavorative in luoghi già molto deprivati. La costante ricognizione sul campo ha dato la possibilità di realizzare una mappa interattiva sulla situazione dei servizi per la fascia 0-18 in tutta la zona del cratere, grazie alla collaborazione del prof Paolo Coppari (Istituto storico della resistenza), di Alessandra Pierini (Cronache Maceratesi),. Francesca Urbani (Cronache Maceratesi), Federica Nardi (dottoranda Unimc), Massimo Scopigno (borsista Unimc) e. Francesca Ciabotti (Associazione Nazionale Nidi d’Infanzia). Ci si è poi dedicati alla formazione e alla diffusione di una cultura della prevenzione, con un ciclo di incontri rivolti a studenti. Il corso ha visto la presenza di Anna Giulia Chiatti (esperta in protezione civile), Sergio Raccichini (geologo). Alessia Ciccola (psicologa), Consuelo Agnesi (architetto), Arch. Giuseppe Campagnoli, M.Letizia Capparucci (pedagogista) e Federica Nardi (dottoranda) che, in forma di volontariato hanno lavorato
59 insieme per costruire conoscenze e competenze utili a una corretta rappresentazione dei rischi e dei pericoli, arrivando alla progettazione di giochi e attività didattiche finalizzate a sostenere la comprensione in termini scientifici di fenomeni quali il terremoto. La finalità ultima della serie di incontri è stata la costruzione di una cultura della prevenzione del rischio e la condivisione di schemi di comportamento funzionali, da adottare in situazioni di pericolo. Molta di questa attività di documentazione è confluita sul tavolo di lavoro organizzato dal Consiglio regionale delle Marche “Nuovi sentieri di sviluppo delle aree interne dell’Appennino marchigiano”. In particolare si attinge alle premesse e ai risultati del lavoro svolto il progetto “Qui si vive meglio per una rinnovata attrattività dei borghi appenninici del cratere”, cui hanno preso parte la prof.ssa Lucia D’Ambrosi (Unimc), la prof.ssa Carla Danani (Unimc), il prof. Fulvio Esposito (Miur), la dott. ssa Valentina Polci (Unimc), oltre alla scrivente”. ¤
Una ricerca ha individuato i punti di forza e debolezza del sistema e le sue ulteriori possibilità di sviluppo
Territorio vivace e da valorizzare nonostante tutto
“N
ell’ambito del progetto Nuovi Sentieri di Sviluppo per l’Appennino Marchigiano, - afferma Mara Cerquetti ricercatrice di Economia e Gestione delle imprese – per quanto riguarda il tema del turismo, il gruppo di lavoro, coordinato da chi scrive e composto da Simone Betti, Alessio Cavicchi, Lucia D’Ambrosi, Pierluigi Feliciati e Valentina Polci, si è avvalso del valido supporto di uno dei borsisti selezionati dall’Ateneo, la dott.ssa Concetta Ferrara. La ricerca ha preso le mosse
Mara Cerquetti ricercatrice di Economia e Gestione delle Imprese
Freschi d'accademia
Eleonora Cutrini professoressa associata di Economia Applicata
60 dalle indicazioni fornite dalla Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI 2013) e dal più recente Piano Strategico di Sviluppo per il turismo (PST 2017-2022). Prendendo in esame le possibilità di sviluppo delle aree interne, la SNAI sottolinea la necessità di trattenere in loco le giovani generazioni, valorizzandone la presenza in qualità di «depositari delle eredità storico-culturali del territorio». Il PST evidenzia, come elemento di debolezza, la concentrazione dei flussi turistici nelle top destinations nazionali, con oltre il 60% degli arrivi in sole 4 regioni. Per questo, tra le strategie di sviluppo, viene posto il sostegno allo sviluppo turistico di destinazioni emergenti, come le città d’arte e i borghi, e alla strategia nazionale per i parchi e le aree protette, nonché per le aree rurali e interne. Partendo da questi presupposti, nella prima fase della ricerca si è deciso di prendere in esame l’offerta turistica e culturale pre e post terremoto negli 87 comuni del cratere, pervenendo al censimento di oltre 100 percorsi e itinerari in diversi ambiti tematici (sport, natura, cultura, enogastronomia). Il secondo step della ricerca ha focalizzato l’attenzione sull’analisi delle esperienze di cooperazione finalizzate alla valorizzazione e alla promozione turistica del territorio presenti nel territorio indagato, con l’obiettivo di individuare i punti di forza e di debolezza del sistema e le sue ulteriori possibilità di sviluppo. Sono state prese in esame 45 esperienze di cooperazione, di cui 34 nate prima del sisma e 11 dopo il sisma, 16 avviate a seguito di specifiche azioni di policy, come Gal, distretti culturali e turistici e sistemi museali e 29 promosse dal basso, dall’iniziativa di soggetti pubblici e privati, come le reti museali costituite dai Comuni, le reti
turistiche e di imprese e altri progetti di varia tipologia. Da questa prima ricognizione è emersa una particolare vivacità del territorio oggetto di indagine. La successiva indagine sul campo è stata condotta attraverso interviste in profondità ai referenti o responsabili delle esperienze individuate. Complessivamente sono state effettuate 22 interviste. Gli intervistati hanno fornito utili indicazioni per la definizione delle possibili strategie di ricostruzione e sviluppo post-sisma. In primo luogo è stata segnalata la necessità di tener conto del carattere diversificato dei comuni del cratere, non solo per quanto riguarda i danni subiti, ma anche per le diverse caratteristiche socio-demografiche ed economiche dei comuni coinvolti, oltre che per le disparità socio-economiche interne alle comunità stesse, al fine di evitare di ampliare divari già esistenti. Gli intervistati hanno segnalato la necessità di: innalzare la qualità dell’offerta turistica, trasformando le risorse in prodotti turistici di qualità; qualificare l’offerta turistica in chiave esperienziale, prevedendo specifici canali di finanziamento e ulteriori occasioni di formazione e approfondimento; valorizzare il collegamento tra territorio e comunità residenti, facendo sì che ogni residente sia un agente di promozione turistica del suo territorio; intercettare i flussi del turismo costiero per indirizzarli nella fascia collinare e montana”. ¤
Ricostruzione la sfida delle imprese
“È
stato costruito– afferma Eleonora Cutrini professoressa associata di Economia applicata - un database informativo attraver-
Freschi d'accademia
so la raccolta ed elaborazione di dati riguardanti l’evoluzione socio-economica di lungo periodo dell’area oggetto di analisi (cratere sismico). Ciò ha permesso di realizzare un quadro della configurazione economica dell'area del cratere. I risultati dell’analisi confermano che l’area del cratere è stata interessata, seppur con ritardo, dallo stesso cambiamento strutturale -declino dell’industria e terziarizzazione- già in atto nell’economia marchigiana a partire dagli anni ottanta. La ricerca ha consentito di delineare l’eterogeneità interna al cratere. E sarebbe errato non tenere conto di questa forte diversità nel progettare gli interventi. Con riferimento alle attività manifatturiere, nel complesso si riscontra lo stesso declino che caratterizza l’intera regione. Tuttavia, all’interno della manifattura, le industrie alimentari, che costituiscono il terzo settore più importante in termini di addetti - dopo gli elettrodomestici e pelli, cuoio e calzature – presentano una crescita sia nel periodo 2001-2011 sia delle imprese attive in anni più recenti. Le diverse risposte all’emergenza possono avere ripercussioni sulle prospettive di reinsediamento della popolazione ovvero del loro definitivo scivolamento verso i fondovalle e le aree costiere che hanno svolto e svolgono una funzione di recettori di migrazioni interne e di nuova imprenditorialità. Con riferimento alle aree distrettuali del Made in Italy, le reali possibilità di sviluppo territoriale nell’area colpita dal sisma poggiano sia sulla capacità di creare integrazione tra risorse culturali e creative, sia sulla soluzione di problemi diffusi nel sistema delle imprese minori. Le difficoltà maggiori per le imprese locali di piccola dimensione continuano ad essere: l’accesso ai
61 mercati esteri, in particolare verso i paesi più distanti non solo in termini geografici ma anche in termini culturali; le limitate competenze nel campo della gestione finanziaria; il ricambio generazionale e la rigenerazione delle competenze specifiche, che hanno rappresentato in passato e rappresentano ancora oggi una delle principali fonti di vantaggio competitivo delle imprese distrettuali poiché non riproducibili in altri territori. Gli interventi non debbono essere fondati su visioni parziali ma su un sentiero di sviluppo integrato, con la finalità di accompagnare il cambiamento senza forzarlo in una direzione o nell’altra, cercando di salvaguardare l’eredità del passato e, nel contempo, suscitare risorse sotto-utilizzate o latenti (nuove professionalità che si affacciano sul mercato del lavoro ad esempio con qualifiche legate alla creatività, stile…). In linea generale, design, comunicazione, architettura costituiscono fattori competitivi fondamentali affinché l’apparato produttivo delle Marche possa affrontare la sfida della ricostruzione e della competizione internazionale. Per l’area del cratere, il sostegno alle attività economiche, con le connesse prospettive occupazionali, non può prescindere dal miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti e da un adeguamento agli standard europei, o quantomeno nazionali, delle infrastrutture viarie e di connettività digitale. L’efficacia di una politica di sviluppo locale pensata dall’esterno e sostenuta dall’alto, per essere pienamente efficace, necessita del pieno coinvolgimento dei destinatari ultimi degli interventi (comunità locale, imprese, lavoratori, altri portatori di interessi), dei loro rappresentanti e delle istituzioni intermedie”. ¤
Il sostegno alle attività economiche non può prescindere dal miglioramento delle condizioni di vita
L’associazione
62 LE CENTO CITTA’ Associazione per le Marche Fondata nel 1995
“L’Associazione si pone lo scopo di promuovere e coordinare studi ed azioni finalizzati a rafforzare l’identità culturale della Regione Marche e a favorirne lo sviluppo economico e sociale attraverso la conoscenza e la valorizzazione delle realtà esistenti, il recupero e la tutela del passato, la collaborazione tra soggetti pubblici e privati, la partecipazione al dialogo culturale interregionale ed europeo, nonché con le comunità marchigiane all’estero.” (Art.3 dello Statuto)
Presidenti Giovanni Danieli
(marzo 1995 – dicembre 1996)
Catervo Cangiotti
(gennaio 1996 – dicembre 1997)
Folco Di Santo
(gennaio 1998 – dicembre 1999)
Alberto Berardi
(gennaio 2000 – dicembre 2001)
Evio Hermas Ercoli
(gennaio 2002 – dicembre 2003)
Mario Canti
(gennaio 2004 – luglio 2005)
Enrico Paciaroni
(agosto 2005 – dicembre 2006)
Tullio Tonnini
(gennaio 2007 – dicembre 2007)
Bruno Brandoni
(gennaio 2008 – luglio 2008)
Alberto Pellegrino
(agosto 2008 – luglio 2009)
Walter Scotucci
(agosto 2009 – luglio 2010)
Maria Luisa Polichetti (agosto 2010 – luglio 2011) Ettore Franca
(agosto 2011 – luglio 2012)
Natale Frega
(agosto 2012 – luglio 2013)
Maurizio Cinelli
(agosto 2013 – luglio 2014)
Giovanni Danieli
(agosto 2014 – luglio 2015)
Luciano Capodaglio
(agosto 2015 – luglio 2016)
Marco Belogi
(agosto 2016 – luglio 2017)
Le Cento Città Direttore responsabile Franco Elisei Direttore editoriale Maurizio Cinelli Comitato editoriale Fabio Brisighelli Mara Silvestrini Alberto Pellegrino Silvia Vespasiani Giordano Pierlorenzi Direzione, redazione amministrazione Associazione Le Cento Città redazionecentocitta@ gmail.com
Progetto grafico Poliarte Accademia di design Ancona Coordinamento progetto grafico e impaginazione Prof. Sergio Giantomassi Stampa Errebi Grafiche Ripesi Falconara M.ma Presidente Le Cento Città Giorgio Rossi
Sede Via Asiago 12 60124, Ancona Poste Italiane Spa spedizione in abbonamento postale 70% CN AN Reg. del Tribunale di Ancona n.20 del 10/7/1995
52
Le Cento CittĂ , n. 56
62|2018
Sped. in a.p. - 70% - Filiale di Ancona
Rivista di divulgazione culturale e artistica del territorio marchigiano
ARTE | STORIA | ARCHEOLOGIA | LETTERATURA | SOCIETÀ | MUSICA | SCIENZE
“L’ARTE DI VANGI”
Luigi Benelli Federica Facchini Alberto Mazzacchera Maurizio Cinelli Franco De Marco Claudio Sargenti Claudio Desideri Alessandro Rappelli
L’esistenza umana dietro la
maschera
La memoria Tasselli di storia nel selciato A PAGINA 7
Anni ribelli Il sessantotto tra miti e speranze A PAGINA 11 NUMERO 62 | 2018
Giorgio Rossi Paola Cimarelli Giordano Pierlorenzi Grazia Calegari Ettore Franca Lella Mazzoli Alberto Pellegrino Dante Trebbi Luca Fabbri
Innovazione Beni culturali sotto una nuova luce A PAGINA 27
NUMERO
62|2018 APRILE