Le Cento Città
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Editoriale/L. Capodaglio; Attualità /G. Nori; Il Saggio/M. Canti; I nuovi confini/G. Di Paola; La storia/A. Pellegrino; Il benessere/S. Rappelli, M. Balzano, N.G. Frega; Portfolio: R. Folicaldi Le Cento Città, n. 54, 2015, III quadr., sped. in a. p. - 70% - Filiale di Ancona. Euro 10,00.
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1 Sommario Le Cento Città
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Direttore Editoriale Mario Canti Comitato Editoriale Fabio Brisighelli Romano Folicaldi Natale G. Frega Giuseppe Oresti Giancarlo Polidori Direzione, redazione, amministrazione Associazione Le Cento Città redazione@lecentocitta.it Direttore Responsabile Edoardo Danieli Prezzo a copia Euro 10,00 Abb. annuale Euro 25,00 Poste Italiane Spa - spedizione in abbonamento postale 70% CN AN Reg. del Tribunale di Ancona n. 20 del 10/7/1995 Stampa Errebi Grafiche Ripesi Falconara M.ma
Periodico quadrimestrale de Le Cento Città, Associazione per le Marche Sede, Piazza del Senato 9, 60121 Ancona. Tel. 071/2070443, fax 071/205955 info@lecentocitta.it www.lecentocitta.it
* Hanno collaborato a questo numero: Michele Balzano, Mario Canti, Luciano Capodaglio, Giuseppe Di Paola, Natale G. Frega, Glauco Nori, Alberto Pellegrino, Sandro Rappelli
In copertina
Il porto antico di Ancona. Foto Mario Canti
3 Editoriale Ha ancora senso parlare di Regione? di Luciano Capodaglio 4 La rivista, il sito: il punto di svolta di Mario Canti 5 Attualità Quando l’informazione non è sufficiente di Glauco Nori 11 Il Saggio Paesaggio, Istituzioni, Comunità: un incontro mancato di Mario Canti 21 I nuovi confini Il Ruolo della Iniziativa Adriatico Ionica nel lancio della “Strategia UE per la Regione Adriatico ionica” EUSAIR di Giuseppe Di Paola 23 La storia Un mondo dimenticato. Miniere e minatori delle Marche di Alberto Pellegrino 31 Il benessere La forbice alimentare nel mondo: da “Nutrire il pianeta, energia per la vita” a “Obesità, epidemia del terzo millennio” di Sandro Rappelli 34 Le eccellenze agroalimentari marchigiane di Michele Balzano, Natale G. Frega 36 Portfolio Romano Folicaldi. Un’autobiografia per immagini di Alberto Pellegrino
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TVS è fermamente convinta dell’importanza di saper riconoscere la bellezza in tutte le sue forme. Per questo, da sempre è impegnata nella produzione di articoli per la cottura che si distinguono per design e funzionalità. Ma l’amore per il bello di TVS si esprime anche nella collezione di opere d’arte, che conta opere di pregio realizzate dai più importanti autori del periodo dal XIV secolo al XIX secolo. L’opera qui presentata ne è solo un esempio.
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Amore per il bello, passione per l’utile.
Editoriale
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Ha ancora senso parlare di Regione? di Luciano Capodaglio Presidente de Le Cento Città
Ha ancora senso parlare di Regione? Negli ultimi anni tale dubbio incalza sempre di più la mia mente e ora, come Presidente de Le Cento Città, sento il bisogno di condividerlo con gli Associati. Le Regioni in genere stanno diventando un mero contenitore amministrativo che, di fatto, concentra la maggior parte delle energie nella gestione del fondo sanitario, peraltro con sempre meno risorse assegnate ed in presenza di un crescente aumento dei costi e della domanda di salute dei cittadini. L’abolizione delle Provincie non si sta associando ad una presa in carico sostitutiva delle funzioni delle stesse da parte delle Regioni. Gli scandali nazionali degli ultimi tempi, una pubblica amministrazione percepita come ostacolo stanno sempre più allontanando i cittadini dalle istituzioni locali. Il risultato finale è la percezione diffusa che la Regione non rappresenti più l’identità territoriale e quindi le radici di una popolazione. Si sta creando un divario tra regioni e territori in esse contenuti. Lo tocchiamo con mano tutti i giorni: le eccellenze, le buone pratiche, la produzione di ricchezze scaturiscono dai singoli territori ed i territori sono nodi di reti sovra regionali od europee: è più semplice collegare a rete più distretti produttivi omogenei che inserire un distretto in una rete di supporto regionale. Le cause sono molteplici ma una spicca fra tutte: la burocrazia che da strumento facilitatore è divenuta soggetto portatore di interessi in concorrenza con i soggetti che dovrebbe servire…. Se all’eccesso di burocrazia uniamo la perdita di leadership politica il cerchio si chiude:il
Da sinistra il Sindaco di Montefiore dell’Aso Lucio Porrà e il Presidente de Le Cento Città Luciano Capodaglio
cittadino si riconosce nel proprio territorio in cui vive e lavora e sempre meno riconosce la rappresentatività della Regione. Ma allora stiamo perdendo le nostre radici? Niente affatto, ci stiamo sempre più legando ai nostri territori (che non necessariamente coincidono con quelli di nascita) e questo può essere un bene se riusciamo a collegarli in reti omogenee per garantire supporto,sviluppo e rappresentatività. Si sta, di fatto, attuando un superamento delle Regioni; è una fase delicata in cui ser-
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vono modelli di integrazione nazionale (governativi) ed europei (strategie macroregionali) con una legislazione adeguata e pronta a recepire i bisogni dei cittadini. E Le Cento Città? Siamo perfettamente al passo con i tempi; la nostra Associazione sta dando da anni voce ai territori: Cagli, Comunanza, Montefiore dell’Aso, la smart house al Santo Stefano di Porto Potenza Picena sono meravigliosi esempi di come i territori possano costruire l’immagine di una Regione.
Editoriale
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La rivista, il sito: il punto di svolta di Mario Canti
Con questo cinquantaquattresimo numero della nostra rivista siamo arrivati ad un punto di svolta, sia per quello che riguarda i contenuti che la organizzazione editoriale; le ragioni di questi cambiamenti sono già note agli associati perché presentate e discusse nelle nostre ultime assemblee, in questa sede ci sembra opportuno riepilogarle proponendole all’attenzione dei lettori esterni all’associazione. Le Cento Città si è finalmente dotata di un suo sito informatico aperto a chiunque voglia essere posto a conoscenza delle sue attività, regolarmente registrato e dotato di una sia pur minima struttura, prevalentemente costituita da suoi membri; in esso vengono pubblicate con la massima tempestività tutte le iniziative che vengono volte nel corso dell’anno. Gli eventi sociali, la recensioni di pubblicazioni, l’esame critico di qualsivoglia iniziativa culturale, possono da qualche tempo essere riversate nel sito non appena realizzate e note; questa possibilità libera la rivista dalla redazione di molte delle sue tra-
dizionali rubriche e le consente di affrontare alcune tematiche di particolare interesse con livelli di approfondimento fino a ieri impensabili. Questa scelta deriva anche dalla necessità di contenere i costi delle nostre attività in conseguenza della minore consistenza delle erogazioni da parte di alcuni dei nostri tradizionali sostenitori. Per converso i temi che si intendono affrontare, e con essi i relativi testi dovranno rappresentare snodi significativi sul piano culturale, economico e sociale per la società regionale. Ottenere la disponibilità di questi contributi per così dire “pesanti” non sarà forse facile, ma certo è possibile considerando il livello culturale dei nostri soci e di tanti amici che da tempo ci seguono. Per la redazione questa nuova impostazione vorrà dire promuovere la sempre maggiore partecipazione dei soci, organizzare momenti di confronto con la società e produrre su questi gli opportuni commenti, così come si cercherà di avere contributi diretti attraverso interviste ed
La home page del sito www.lecentocitta.it
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incontri con protagonisti della vita regionale; tutte azioni che abbiamo svolto anche in passato ma che da ora in poi diverranno prevalenti nella nostra attività. I soci ed i lettori sono vivamente invitati ad esprimere valutazioni e proposte sulle linee di indirizzo della rivista sopra esposte: la redazione sarà lieta di esaminarle tutte con la massima attenzione ricavandone preziosi contributi. In questo numero, diciamo di transizione, abbiamo raccolto dei contributi particolari ( democrazia e paesaggio ) ed abbiamo raccolto sul tema del benessere, che potrà divenire un argomento costantemente trattato; i contributi di carattere culturale si limitano al portfolio su Romano Folicaldi e vengono corredati da alcune importanti anticipazioni sui temi che la Associazione intende affrontare con i prossimi eventi. Vi invitiamo caldamente a frequentare il sito poiché è in esso che continua, con frequenza maggiore, il rapporto tra Le Cento Città ed i suoi amici.
Attualità
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Quando l’informazione non è sufficiente di Glauco Nori
Quando l’informazione non è sufficiente Chi non fa vita di partito, o non pratica gli ambienti circostanti, dà l’impressione di subire le vicende recenti della vita pubblica italiana quasi con rassegnazione. L’apporto di buon senso del cittadino che cerca di vivere in forma ordinata senza pregiudiziali di schieramento sembra che sia considerato inutile, se non addirittura fastidioso. Il fenomeno, di portata nazionale, investe anche le Regioni con conseguenze diversificate che risentono delle condizioni ambientali. L’apporto di tutte, per essere variegato, potrebbe, invece, riuscire utile ai c.d. decisori. Anche per questo vale le pena di affrontare qualche argomento di attualità in una sede culturale e politicamente neutra come Le Cento Città. Sono stati scelti quelli sui quali – è naturalmente una impressione del tutto personale – sembra che la pubblica opinione si sia fermata di meno. 1 – In Italia la democrazia è diventata una specie di ciambella di salvataggio alla quale si ricorre nei momenti di difficoltà. Il richiamo é così frequente e le occasioni così diverse che la nozione ha perso di chiarezza. Stando alle tesi, che di volta in volta riemergono, si ha l’impressione che la vera democrazia sarebbe quella che ciascuno propone per convenienza; non lo sarebbero, di conseguenza, tutte le versioni diverse. Secondo una formula ricorrente si starebbe nella fase della democrazia à la carte. Non ci si dovrebbe nemmeno meravigliare se democratico si definiva anche il sistema sovietico. Secondo uno tra i più noti studiosi fondamento della democrazia (non il solo, va sottolineato) è il principio maggioritario. Una volta che hanno il diritto di voto tutti i cittadini che si tro-
vano nelle condizioni fissate da una legge precostituita, la volontà della maggioranza deve prevalere. Come è stato fatto rilevare, più che di una scelta si tratta di una necessità perché non ci sono alternative. Naturalmente vanno tutelati alcuni interessi della minoranza: di fare, per esempio, valere le proprie idee in forme appropriate; di fare proselitismo per diventare maggioranza; di informare il pubblico sui pro e i contro della iniziative del momento. Alla minoranza oggi non basta; per questo in Parlamento ricorre a tutti i mezzi praticabili non per fare valere le proprie tesi, ma per impedire che la maggioranza realizzi i suoi programmi. Queste pratiche, sorte in Paesi dove all’ostruzionismo, il cd.filibustering, in passato si è ricorsi per tutelare interessi al tempo considerati vitali, sono diventate di applicazione ormai generale, anche per interessi che con quelli generali hanno poco a che fare. Non c’è da pensare di metterle fuori legge, tanto si sono radicate, ma non si può nemmeno sostenere, come pure succede, che sarebbero antidemocratiche le iniziative per neutralizzare o limitare gli impedimenti o anche i soli effetti dilatori. Sempre che non si abbiano posizioni preconcetti da difendere, non può essere considerato antidemocratico fare del tutto per attuare il programma che è stato votato dalla maggioranza degli elettori. Può diventare antidemocratico, caso mai, impedirlo con mezzi anomali. E’ contraddittorio vedere la democrazia nella possibilità di impedire che si attui quanto ha voluto la maggioranza. Le contestazioni hanno investito anche le modifiche alla Costituzione. Per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali il procedimento è regolato dall’art.138. Le Cento Città, n. 54
Sono previste due deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi e la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Sostenere che sia antidemocratico ricorrere alle maggioranze fissate dalla Costituzione è quanto meno azzardato. Maggioranze superiori consentono di adottare modifiche più stabili, mantenute probabilmente anche quando la situazione parlamentare dovesse cambiare; ma è questione di opportunità e non di legittimità costituzionale, tanto meno di democrazia. 2 – Anche all’interno dei partiti il principio democratico ha creato qualche equivoco che, forse per motivi di schieramento, non si è ancora chiarito. “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”(art.49 della Costituzione). Il metodo democratico è richiesto nei rapporti con gli altri partiti nel determinare le politiche. Non è richiesto, invece, al loro interno e non per distrazione.”Domani potrebbe svilupparsi un movimento nuovo, anarchico, per esempio. Io mi domando su quali basi si dovrebbe combatterlo. Sono del parere che bisognerebbe combatterlo sul terreno della competizione democratica, convincendo gli aderenti al movimento della falsità delle loro idee. Ora non si potrà negargli il diritto di esistere e di svilupparsi, solo perché rinunzia al metodo democratico”. E’ questa la dichiarazione di Togliatti nell’Assemblea Costituente (meglio, nell’ambito della Commissione incaricata di redigere il testo di base della Costituzione). La questione è stata proposta sotto il profilo dei principi, ma è evidente quale fosse l’interesse sottostante.
Glauco Nori L’art.67 svolge una funzione complementare: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita la sue funzioni senza vincolo di mandato”. Non si dice nei confronti di chi; quindi nei confronti di tutti, anche del proprio partito, malgrado l’interpretazione corrente lo intenda solo verso gli elettori. Il fatto che il metodo democratico interno non sia richiesto dalla Costituzione non significa che non possa essere seguito. Accettato il metodo, per essere coerenti bisognerebbe poi osservare il principio maggioritario. Per derogare si è talvolta ricorsi ad una argomentazione suggestiva: il metodo democratico va rispettato , ma se il partito propone una politica che non rientra nella sua tradizione, diventa un nuovo partito e chi non è d’accordo ne esce per essere coerente con la tradizione. Formalmente il ragionamento fila; qualche perplessità può sorgere quando dalla forma si passa alla sostanza, perché si tratta di vedere quando la politica di un partito sia tale da cambiarne la fisionomia. Tutti ormai riconoscono che, almeno negli ultimi venti anni, la situazione è mutata radicalmente sia all’interno dei singoli Paesi che nelle relazione tra di loro; che la crisi mondiale ha assegnato alla politica economica orizzonti fino a poco fa nemmeno pensabili; che le immigrazioni, per la loro dimensione, hanno creato problemi aggiuntivi di ordine interno; che il terrorismo mette in pericolo tutti i Paesi, con difficoltà a prevenirlo per la sua capacità di utilizzare gli strumenti tecnologici più avanzati. Anche i partiti si sono dovuti aggiornare. Alcune idee, radicate da tempo, sono rimaste superate e la elaborazione delle nuove, certamente non facile, non può avvenire che in fasi successive. In queste condizioni lamentare che si stanno cambiando i connotati dei partiti richiederebbe che si dimostrasse almeno che le idee tradizionali sono ancora utili nelle nuove condizioni, indicando il procedimento ed i metodi per attuarle. Non basta dire: va combattuta
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La Corte Costituzionale a Roma.
l’evasione; non bisogna dare la prevalenza alla finanza; debbono essere sostenute le classi più deboli; si deve rafforzare la tutela dell’ordine pubblico; la giustizia va resa efficiente, e cosi via. I problemi sono tanti e nessuno di soluzione rapida. Che possano essere risolti tutti insieme sembra che nessuno lo sostenga. Diventa, pertanto, necessario fissare le priorità indicando i mezzi da utilizzare, mezzi non ipotetici, ma di cui sia possibile disporre tempestivamente. Per esempio, combattere l‘evasione colpendo redditi non dichiarati richiede tempo sia per l’accertamento che per risolvere le contestazioni. I proventi non potranno essere disponibili nel bilancio in corso. Se è necessario averli entro l’anno le scelte restano poche: o si riducono le spese o si aumentano le imposte riscuotibili immediatamente, in pratica iva e imposte di consumo. Per questo diventa decisivo, nell’enunciare quello che si vuole fare , indicare i temi ed i mezzi. L’opinione pubblica comincia ad essere perplessa vedendo, a destra e a sinistra, partiti e partitini che contestano le politiche di governo con enunciazioni generiche, senza proporre programmi articolati. Viene il dubbio che tutelino interessi di settore, difficilmente definibili come generali, piccole lobbies anche se si dichiarano avversari Le Cento Città, n. 54
delle grandi. La democrazia è una bella cosa, ma ne andrebbe fato un uso equilibrato per non rimanere intossicati. 3 – Sempre in nome della democrazia si è sostenuto che i componenti del nuovo Senato debbano essere eletti. L’elezione è stata considerata come problema autonomo senza connessione con le funzioni dell’organo. Solo per fare un esempio: c’è qualcuno a sostenere che i giudici vadano eletti?. Sembra di no. Per la natura dell’attività che svolgono l‘elezione sarebbe fuori posto, almeno stando all’organizzazione costituzionale italiana. Secondo le modifiche costituzionali in corso (che non è detto siano le definitive) il Senato dovrebbe essere la Camera dei Territori dove i Territori dovrebbero far valere i loro interessi. Che questa trasformazione sia opportuna, o non, è questione politica a proposito della quale si può discutere. Ma, una volta che sia accettata, si dovrebbe essere coerenti: dovrebbe farne parte chi è stato eletto dal proprio Territorio per interpretarne gli interessi. Saranno gli Statuti regionali ad indicare chi, tra il presidente,o governatore, e gli assessori ne avrà l’investitura. Non si dovrebbe per questo lamentare un difetto di democrazia perché del Senato farebbe parte chi è stato eletto proprio
Attualità per definire e attuare gli interessi regionali. Si è arrivati ad una soluzione di compromesso che prevede una elezione parallela con quella degli organi regionali. Come tutti i compromessi, consente di superare le difficoltà del momento, ma ne crea in prospettiva. E’ singolare la tesi di chi sostiene che per i senatori l’elezione dovrebbe essere autonoma. L’eletto potrebbe assumere posizioni incompatibili con quelle del Governo regionale. Che questo sia richiesto dal principio democratico avrebbe bisogno di qualche argomentazione. Non si può, dunque, richiedere l’elezione dei Senatori, come oggi spesso si dice, a prescindere. Se ne dovesse fare parte il presidente della regione si avrebbe solo l’ampliamento delle sue funzioni, aggiungendone una, sempre per la tutela degli interessi in vista dei quali è stato eletto. Per essere trasparenti, aggettivo oggi di moda, si dovrebbe dire non che si vogliono eliminare i non eletti, ma salvare alcuni centri di potere anche a costo di produrre danni. E’ ricorrente anche l’obiezione che gli ultimi governi sarebbero stati di non eletti. La formula è suggestiva e su molti ha fatto presa. La Costituzione non richiede che i Ministri siano membri del Parlamento. Chi vota sa che gli eletti hanno la responsabilità della scelta dei Ministri, che dovrebbero essere quelli considerati i più adatti a fare fronte alle esigenze del momento. Il fatto che possano non essere eletti non significa che non siano affidabili; potrebbero addirittura esserlo più degli eletti. La garanzia è, o dovrebbe vedersi, nella fiducia che il Governo riceve dalle Camere. 4 – E’ in discussione anche la posizione dei magistrati. E’ forse il momento di verificare quello che da più parti già si pensa: che la giurisdizione non è un potere, almeno secondo la nozione desumibile dalla Costituzione. La teoria dei tre poteri è nata tempo a dietro, quando serviva come base teorica per certe garanzie. Oggi la Costituzione
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Marco Aurelio nei Musei Capitolini a Roma.
pone al più alto livello, come veri poteri, quelli di natura politica, assegnati a chi ha il compito di individuare nel tempo gli interessi generali da perseguire, fissandone la graduatoria e le risorse da utilizzare. Poteri del genere sono solo del Parlamento, che attraverso le leggi individua i fini ed i mezzi, e del Governo che deve provvedere all’attuazione. Sono questi i poteri che debbono avere la base elettiva per la natura delle scelte che abilitano a fare. La Magistratura per l’art.104 è un ordine, inteso come complesso organizzato a tutela dell’ordinamento, con una competenza tecnica e non politica. Attua quanto è programmato nelle leggi (del Parlamento)e nei regolamenti (del Governo), dando le tutele predisposte dalle norme. Deve mettere in pratica le scelte, fatte da altri, nei casi singoli che sono sottoposti a giudizio. Il suo Le Cento Città, n. 54
è, pertanto, un servizio di natura tecnica tanto è vero che ai giudici si chiede solo la preparazione richiesta per l’applicazione di norme giuridiche, vincolanti per i destinatari. Coloro che lo vogliono, a certe condizioni, possono far decidere le controversie da arbitri, scelti per la loro maggiore competenza. E’ quanto succede anche in altri servizi: ci si può rivolgere a proprie spese ad una clinica privata invece che al servizio sanitario nazionale, se se ne ha interesse. Questa iniziativa, consentita per un servizio, sarebbe meno giustificabile per un potere. In pratica le cose stanno diversamente. Per ‘art.112 Cos. “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. La norma attua anche il principio di uguaglianza: il procedimento deve essere avviato in tutti i casi di notizia di fatti che possono
Glauco Nori
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Il Pantheon a Roma.
costituire reato. Oggi, per la insufficienza dei magistrati addetti, è indispensabile una scelta. Se dare la precedenza all’uso improprio dell’auto di servizio o alle lesioni prodotte da un incidente stradale è una decisione di ordine politico perché si stabilisce un ordine tra interessi ugualmente rilevanti. La scelta, per essere di natura politica. dovrebbe essere lasciata non ai magistrati, ma a chi la Costituzione ha assegnato i poteri corrispondenti, vale a dire al Parlamento. Quando è stato proposto di stabilire per legge quali reati, in un certo periodo, perseguire per primi, c’è stata la reazione della magistratura. Quello che dovrebbe essere un servizio è così diventato un vero potere per la scelta, oggi consentita, dei reati da lasciare in dietro. Ormai sulle conseguenze non si fa più caso, tanto sono date per scontate. Un esempio. Per reati finanziari, data la notorietà che in genere hanno gli imputati, i giornali possono fare titoli suggestivi che richiamano l’attenzione del pubblico. Gli effetti di questi re-
ati non possono essere localizzati esattamente perché si producono contemporaneamente su tutto il territorio nazionale. Per questo si è affermato il principio che la competenza è dell’Ufficio che per primo assume l’iniziativa. C’è una procura della Repubblica che è sempre la più pronta e per questo si occupa di molti tra i casi di maggiore rilievo. E’ perché si vuole svolgere il servizio nel modo più rapido nell’interesse generale o diventare protagonisti, e in parte arbitri, nel mondo finanziario? 5 - Sono sorte polemiche per alcuni provvedimenti che hanno portato la sospensione di attività produttive che impegnavano diverse migliaia di lavoratori. Anche a questo riguardo si sono sentite tesi contrastanti. In conflitto si sono trovati il diritto alla salute (art.31) e i diritto al lavoro (art.35). La magistratura, chiamata a tutelare il primo, non ha potuto tenere conto del secondo, non preso in considerazione dalle norme che doveva applicare. Le Cento Città, n. 54
Se il pericolo dura da qualche decennio e richiede rimedi anche essi diluiti nel tempo, non si può dare per scontato, come qualcuno ha fatto, che il diritto alla salute debba sempre prevalere. La Costituzione non gli dà questa posizione privilegiata. E’ un diritto anche quello al lavoro e tra i due non è fissata una gerarchia, fatta salva l’urgenza. Quale venga prima dovrebbe essere la Corte costituzionale a dirlo e non un Giudice E’ singolare che nessuno abbia richiamato l’art.15 del decreto legislativo n.231 del 2001: “se sussistono i presupposti per l’applicazione di una sanzione interdittiva che determina l’interruzione dell’attività dell’ente, il giudice, in luogo dell’applicazione della sanzione, dispone la prosecuzione dell’attività dell’ente da parte di un commissario per un periodo pari alla durata della pena interdittiva che sarebbe stata applicata,m quando ….. b) l’interruzione dell’attività dell’ente può provocare, tenuto conto delle dimensioni e delle condizioni economiche
Attualità
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La Piazza del Quirinale a Roma.
del territorio in cui è situato, rilevanti ripercussioni sull’occupazione”. Può anche essere che la norma sia stata considerata non applicabile, ma sarebbe stato opportuno spiegare almeno il perché per evitare che il silenzio faccia pensare alla elusione. 6 – Che i rapporti tra diritto e giudici stiano prendendo una piega, quanto meno singolare, lo conferma anche quello che è successo recentemente. Due eletti alle cariche apicali di un Comune e di una Regione sono state sospesi dalle funzioni per essere stati condannati in primo grado. Secondo la c.d. legge Severino “sono sospesi di diritto” coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per certi reati. Per essere “di diritto” la sospensione è un effetto della legge che si produce automaticamente. L’atto governativo ha, come si dice, valore dichiarativo: verificato che la condanna è intervenuta e per i reati previsti, si limita a confermare che per legge si resta la sospesi. L’atto può essere illegittimo solo se ha preso per
una condanna quella che non lo era o se è stato emesso per reati diversi da quelli indicati dalla legge. Se è la legittimità costituzionale della legge che è messa in dubbio, ci si deve rivolgere alla Corte costituzionale, la sola che può verificarla. “Quando la Corte dichiara la illegittimità costituzionale di una norma di legge …. la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” (art.136 Cost.).; fino ad allora a norma è efficace, va applicata. I giudici, reintegrando gli eletti nelle funzioni, hanno disapplicato la legge. A parole hanno sospeso gli effetti del provvedimento governativo, ma si è trattato di un accorgimento verbale perché quel provvedimento, vale la pena di ripeterlo, aveva solo accertato che si erano verificati i fatti a seguito dei quali la legge disponeva la sospensione. All’equivoco hanno contribuito anche le polemiche su quando il governo avrebbe dovuto “sospendere”, dando per scontato che la sospensione derivasse dal provvedimento.
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A proposito delle legge Severino è stato trascurato anche dell’altro. Non si dovrebbe parlare della “legge”, ma del “decreto legislativo” Severino perché le norme che hanno creato i problemi richiamati, ed altri, si trovano in un decreto legislativo (n.235/2012), emanato in base ad una delega della legge (art.64). Non risulta che qualcuno sia andato a verificare se l’art.76 Cost. fosse stato rispettato. Si è solo contestata l’applicazione retroattiva delle legge. Come dicono “i dottori” del diritto la retroattività va valutata con criteri formali. Detto in parole più semplici, si deve tenere conto dei fatti che la legge prende in considerazione: è retroattiva quando si applica anche a fatti anteriori all’entrata in vigore. Tutte le norme richiamate considerano la condanna come fatto rilevante e sono state applicate a condanne intervenute dopo la loro entrata in vigore. Di retroattività, pertanto, non si potrebbe parlare. Si è sostenuto che la legge avrebbe dato rilievo alla condanna e non al fatto imputato, compiuto quando l’inte-
Glauco Nori ressato non ne poteva conoscere tutti i possibili effetti negativi. Questo, sempre secondo i “dottori”, potrebbe determinare la irragionevolezza della norma a proposito della individuazione dei fatti, che è questione diversa dalla sua retroattività: è la norma, nella sua concezione, che non va e non la sfera temporale della sua applicazione. Nel frattempo in nessuno dei giudizi, sorti fino ad ora, sono state sollevate tutte le questioni fondate sull’art.76 Cost.: sulla legge di delega, se avesse i requisiti richiesti; sul rapporto tra legge di delega a decreto delegato; sui contenuti della legge delegata considerata di per sé. 7 – Anche le pensioni sono in discussione. L’argomento è serio per le difficoltà finanziarie provocate dalla demografia: si è squilibrato il rapporto tra chi paga i contributi e chi le percepisce. E’ sulle pensioni c.d. “d’oro” che si è intervenuti e la ragione è evidente. Ma, come in Italia capita spesso, si è fatta di ogni erba un fascio, complicando la situazione. Quello che richiama l‘attenzione è l’ammontare, che peraltro andrebbe valutato in rapporto alla durata dell’attività svolta. Oggi i c.d. manager pubblici, soprattutto quelli impegnati nei settori produttivi non burocratici, sono ingaggiati con contratti personali, calibrati in genere sugli effetti economici delle funzioni che debbono svolgere. Con un’attività di una diecina di anni si può arrivare a maturare una pensione elevata. La situazione è
10 diversa per chi è stato dipendente dello Stato per più di quaranta anni ed è arrivato al vertice della carriera. Un esempio per evitare equivoci. Nel pubblico impiego la posizione di vertice è del primo presidente della Cassazione e solo sua. Che lo Stato paghi una pensione elevata per chi ha esercitato quelle funzioni non dovrebbe creare scandalo. Negli anni ’80 la Thatcher, intervenendo sugli stipendi dei pubblici dipendenti, aumentò quelle delle massime cariche dello Stato. I sindacati contestarono l’iniziativa anche nelle piazze. La Thatcher rispose che avevano avuto l’aumento quelli che avrebbero dovuto assicurare la stabilità del potere di acquisto di tutti gli altri che, pertanto, avrebbero dovuto vedervi una ragione di tutela. L’Italia non è l’Inghilterra, ma non per questo si deve mettere da parte la ragionevolezza. Il Governo è intervenuto a suo tempo con una prima legge, dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale. Il ragionamento della Corte è stato questo: il prelievo ha colpito solo le pensioni che sono una reddito; gli altri redditi dello stesso importo non sono stati toccati; è stato così violato l’art.3 della Costituzione. I centri di informazione, con titoli ad effetto, hanno scritto che la Corte aveva salvato le pensioni d’oro, mentre ad essere salvato era stato il principio di uguaglianza. Quando si tratta di procurare risorse si è portati a dimenticarsi della Costituzione. Non ci si dovrebbe poi meravigliare che poi la Corte richiami all’ordine. Le pensioni, non solo quelle
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d’oro, sono tornate di attualità: ogni tanto c’è qualche proposta nuova. Si dovrebbe dare per presupposto (il condizionale è d’obbligo) che non si possa andare al di sotto della misura corrispondente ai contributi versati. Nel prendere l’iniziativa legislativa qualche volta si è tentato di farlo, ma si è dovuto rinunciare per la difficoltà da parte dell’Inps a fare i calcoli pensione per pensione. Questa difficoltà non giustifica che si facciano leggi incostituzionali. Ancora una volta un esempio può aiutare. Nel settore pubblico la contribuzione utile è fino a quaranta anni: i contributi per il periodo successivo non sono utili per chi li versa, ma va nel c.d. calderone. Se il limite massimo è fissato per chi ha potuto utilizzare tutti i suoi contributi e per chi non, sorge un problema di costituzionalità perché casi diversi sono trattati allo stesso modo Le pensioni sono un argomento delicato, soprattutto in una situazione demografica come l’attuale. Per questo si dovrebbe essere accorti nel metterci mano: fino a quando certe norme costituzionali sono in vigore, è necessario rispettarle. Sono questi alcuni degli argomenti oggi più dibattuti; ce ne sono molti altri e forse anche più seri. Come si è premesso, sono stati scelti per richiamare l’attenzione su aspetti che sono stati trascurati anche dalla stampa specializzata per ragioni non sempre evidenti. L’opinione pubblica, di conseguenza, se ne potuta fare un’idea non informata.
Il Saggio
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Paesaggio, Istituzioni, Comunità: un incontro mancato di Mario Canti
La ricerca intorno al paesaggio Da molti anni mi interesso al tema del paesaggio nei suoi diversi aspetti e credo che questo mio interesse nasca da almeno tre ragioni; inizialmente un personale interesse per le discipline storiche, abbastanza scontato in un liceale della fine degli anni quaranta, in seguito il concatenarsi nel tempo di diverse esperienze professionali, infine dallo sviluppo che il tema ha riscontrato negli ultimi anni sul piano culturale ed operativo, testimoniato dall’ampiezza della pubblicistica relativa. Questo mio interesse nasce dunque nel lontano 1956, quando un mio collega all’università mi volle prestare un libro che aveva letto ritenendo che, dato che io mi interessavo di storia, mi sarebbe sicuramente piaciuto. Il libro in questione era la “storia del paesaggio agrario italiano” di Emilio Sereni, il mio amico aveva perfettamente ragione, tanto che quel libro non lo ho mai restituito ed ancora oggi stanzia sul mio comodino . Qualche anno dopo, qui comincia il mio interesse per il paesaggio nel campo della ricerca, mi trovai a svolgere l’attività si assistente universitario presso una particolare cattedra della Facoltà di Architettura di Roma (allora non c’era bisogno di specificare La Sapienza), l’insegnamento in questione era il restauro dei monumenti, ma, per uno di quegli eventi universitari difficilmente spiegabili, sia il titolare del corso che i suoi assistenti erano in larga misura interessati alla disciplina urbanistica e alla pianificazione territoriale nelle sue diverse componenti. Ebbe così origine il corso di Restauro Urbanistico, una idea geniale, molto aderente alle esigenze specifiche dell’ambiente italiano, che purtroppo ebbe
vita accademica breve; di conseguenza il gruppo si sciolse, alcuni assistenti passarono all’Istituto di Pianificazione, io tra questi, ed altri restarono nell’Istituto di Storia dell’Arte. Tutti noi conservammo comunque il ricordo di una esperienza unica, per quei tempi (1964), finalizzata a collegare elementi urbani, naturali e monumentali in progetti di conservazione e recupero del patrimonio storico considerato come elemento costitutivo del paesaggio. Nello stesso anno fui incaricato da Italia Nostra, allora presieduta da Giorgio Bassani, di allestire per l’Associazione una mostra sul paesaggio agrario nell’ambito della annuale Fiera Agricola di Verona; esperienza per me fondamentale perché mi consenti di approfondire le conoscenze relative a questo particolare aspetto del paesaggio, ma anche perché mi mise in contatto con l’architetto Bazzoni, grande studioso del paesaggio storico italiano, che in quegli anni era impegnato nella proposta della costituzione in Italia di una associazione per la tutela del patrimonio culturale del paese sul modello del National Trust britannico, proposta che si concretizzò di li a poco nella fondazione del FAI, il Fondo per l’Ambiente Italiano. Qualche anno dopo (1968) fui chiamato a fare parte del gruppo di progettisti incaricato dalla Casmez della redazione del Piano Paesistico dell’Alta Valle del Tronto, incarico che consentì di mettere a punto gli aspetti metodologici ed operativi insiti nella tutela del paesaggio a grande scala; l’esperienza si interruppe prima della definizione del vero e proprio piano perché le competenze della pianificazione territoriale passarono dallo Stato alle Regioni Le Cento Città, n. 54
istituite nel 1970. Quando la Regione Marche, del cui organico tecnico ero entrato a far parte, decise, di redigere il Piano Paesistico Regionale in attuazione della cosiddetta legge Galasso, affidandone la responsabilità politica a Elio Capodaglio, un assessore particolarmente sensibile alle questioni culturali, mi trovai a dirigere sotto il profilo tecnico l’operazione con una certa competenza. Va notato che, a partire dall’insegnamento di Emilio Sereni, era ormai divenuto inevitabile comprendere il paesaggio agrario nella sua complessità, sia nei suoi aspetti formali, anche utilizzando la documentazione iconografica storica, sia nelle sue componenti economiche e tecnico-ambientali: rapporti tra condizioni politiche e organizzazione produttive, tra situazioni ambientali e tecniche di lavorazione dei campi che, a loro volta, conducono ad assetti formali diversi dei territori. Il paesaggio come memoria Lo sviluppo che il tema del paesaggio ha avuto negli ultimi decenni, in Italia e nel resto dei paesi occidentali, ha portato alla consapevolezza del suo essere una testimonianza storica, anzi la più completa e complessa testimonianza delle culture e degli eventi succedutisi nel tempo e nello spazio. Le diverse epoche storiche, le diverse vicende socioeconomiche vissute dalle comunità e il succedersi degli eventi naturali lasciano comunque tracce, più o meno evidenti sul territorio; questa osservazione merita alcune considerazioni integrative: non tutte le tracce sono presenti ovunque, la condizione fisica e/o lo sviluppo culturale preesistente ad un determinato accadimento condiziona l’entità della traccia, enfatizzandone o
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Fig. 1 - Nicolas Poussin Paesaggio con Orfeo ed Euridice.
Fig. 2 - Jean-Baptiste Camille Corot Il ponte di Narni.
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Il Saggio minimizzandone la consistenza, in altre parole ogni fase storica lascia sul territorio segni particolari e diversi da luogo a luogo; così è possibile affermare che un determinato fenomeno ha interessato più territori e tuttavia le tracce visibili appaiono diversificate da luogo a luogo e consentono di parlare di identità anche paesaggistiche specifiche, sia pure all’interno di ambiti sociali, culturali e fisici comuni. L’Italia nel corso di circa tremila anni ha visto succedersi sul suo territorio una serie continua, quasi senza interruzioni, di eventi storici che hanno comportato modificazioni significative delle culture agricole, degli insediamenti umani e degli stessi ambiti naturali originari, così ché appare possibile affermare la pressoché completa artificiosità del paesaggio italiano e riconoscere la sua estrema varietà, frutto, come si è detto, non solo delle diversità originarie di carattere geologico, orografico e climatico-vegetazionale, ma anche e soprattutto della varietà nel tempo e nello spazio delle vicende storiche. La rilevanza delle vicende succedutesi nel nostro Paese consente di comprendere le ragioni, per così dire, del campanilismo, vale a dire dell’orgoglio di ogni singolo cittadino di appartenere ad una comunità, alla sua cultura ed al suo sito, e, contemporaneamente. permette di condividere valori culturali comuni ad un ambito territoriale e culturale vastissimo: l’Europa, il Mediterraneo, il Medio Oriente. Questa costante caratteristica del patrimonio culturale italiano di esprimere contestualmente valori universali e locali motiva l’attrazione che esercita su quanti hanno la possibilità di conoscerlo, sia pure in parte e per brevi periodi; è probabile che al fascino esercitato dalle memorie storiche debba sommarsi la disponibilità all’incontro e all’accettazione delle diversità che prevale nei costumi e nelle tradizioni della nostra gente,anch’essi probabilmente
13 frutto delle lunghe e travagliate vicende che essa ha vissuto, vedi in questo senso quanto sostiene Klaus Wagenbach nel suo “la libertà dell’editore”. Il paesaggio come fattore identitario Se si accetta di intendere il paesaggio come una sorta di archivio delle testimonianze materiali delle culture del passato si pongono conseguentemente due ordini di problemi: in primo luogo quello della lettura interpretativa dello stesso, cioè la capacità di leggere nell’ambiente che ci circonda le tracce delle vicende e delle culture che in passato sono state presenti in quello stesso ambiente; in secondo luogo quello della conservazione di quelle stesse tracce, posto che, in larga misura, queste concorrono alla definizione della identità dei diversi luoghi e di quanti in essi vivono e agiscono. Individuare le componenti del paesaggio nel quale di volta in volta ci troviamo immersi risulta essere una operazione oltremodo complessa in una realtà come quella italiana che è caratterizzata da una grande varietà di situazioni climatiche, vegetazìonali e geomorfologiche e da una infinita serie di trasformazioni corrispondente alle vicende storiche, cioè sociali, economiche e culturali, che sul territorio nazionale si sono succedute nel corso di tremila anni. In una stessa area possono essersi alternati sistemi insediativi ed ordinamenti produttivi assai diversi: la foresta primigenia, le prime bonifiche delle civilizzazioni protostoriche, le bonifiche e le delimitazioni etrusche e romane, il ritorno della foresta, le nuove bonifiche monastiche, il latifondo e l’ordinamento produttivo feudale, la parcellizzazione dei suoli produttivi connessi allo sviluppo delle attività produttive urbane e della nuova organizzazione economica cittadina. A queste trasformazioni a carattere territoriale hanno corrisposto realizzazioni di scala Le Cento Città, n. 54
locale, ma bene definite negli obiettivi e nelle formalizzazioni ed in alcuni casi arrivate fino a noi con una sufficiente comprensibilità: insediamenti rupestri, campi funerari con la loro eccezionale capacità di raccontare la cultura che li aveva generati, opere di bonifica e centuriazioni, castelli e luoghi fortificati, abbazie e monasteri, luoghi di delizia e cinte urbane, e poi ancora teatri, mercati, ospedali, ed oggi infrastrutture per i trasporti, parcheggi e centri commerciali. Per individuare queste testimonianze, intese come elementi componenti del paesaggio, occorre il concorso di studiosi di diversa formazione, capaci anche di collocarle nei contesti corretti e, nei limiti del possibile, di farle comprendere anche ai non specialisti; a quei cittadini ai quali i più recenti indirizzi normativi europei affidano addirittura il compito di definire e proteggere il paesaggio a scale locale. Il paesaggio nei suoi rapporti con le manifestazioni artistiche In tempi recenti si sono sviluppati gli studi sui rapporti che intercorrono tra il paesaggio e la diverse espressioni artistiche; personalmente sotto questo aspetto debbo denunciare un debito di riconoscenza per una grande figura della nostra cultura: Federico Zeri, che in più occasioni ha posto in evidenza il ruolo ed il significato che la pittura di paesaggio ha avuto nel panorama culturale italiano ed europeo, avviando un filone di ricerca ed approfondimento che recentemente ha trovato espressione in “terre senza ombre” di Anna Ottavi Cavina. In particolare è stato posto in evidenza una sorta di rapporto ambivalente tra pittura ed ambiente, sia esso naturale che costruito; per un verso la rappresentazione dell’ambiente è essa stessa manifestazione della cultura di un certo periodo, esemplare in questo senso la rappresentazione pittorica della campagna romana che esprime sensi di grandezza e di tranquil-
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Villa d’Este a Tivoli.
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Il Saggio lità nelle opere di Poussin (Fig. 1), cioè dell’artista principe del classicismo, ma che nelle opere del Corot (Fig. 2), e di altri a lui contemporanei, accoglie ed enfatizza la complessità drammatica della sensibilità romantica. Più sottilmente viene notato che la rappresentazione pittorica dell’ambiente non solo manifesta la cultura e la sensibilità dell’autore, ma anche condiziona le capacità di osservazione e comprensione di coloro che vivono, magari occasionalmente, un luogo che hanno visto, ed ammirato, nell’opera di un artista che prima di loro lo ha visto e rappresentato. La forza della espressione artistica segna, in un certo senso, il paesaggio, conferendogli un significato ulteriore oltre quello che gli è proprio e che deriva dai valori ambientali e da quelli storici. Gli stessi rapporti, ancora più cogenti, possono essere individuati nella produzione artistico-letteraria; in essa il paesaggio assume il valore espressivo che l’autore vive o intende far vivere ai personaggi delle sue opere, ma come tale si manifesta agli occhi e alla sensibilità del lettore che, casualmente o volontariamente, percorre i luoghi della narrazione. Credo che ognuno di noi ha vissuto, prima o poi, l’emozione che deriva dal vivere il luogo già percepito come espressione poetica; mi piace sottolineare che per me, che pure sono nato e vissuto a lungo a Roma, da molto tempo arrivare a Piazza di Spagna dalle strade trasversali al Corso significa rivivere i versi di un piemontese come Cesare Pavese “si apriranno le strade sul colle di pini e di pietra”, e con essi l’emozione dell’incontro e del ricordo: di pietre odorose, di fontane mormoranti, di gatti allarmati. La tutela del paesaggio Come è noto la tutela del paesaggio in Italia è sancita da un preciso dettato dell’articolo 9 della Costituzione, che oggi dovrebbe trovare applicazione anche in raccordo con gli indirizzi della
15 normativa paesaggistica europea quale è stata espressa dalla Convenzione sul Paesaggio compresa nella Carta di Firenze approvata nel 2000; il nostro Paese è stato senza dubbio uno dei primi a porsi la questione della tutela del patrimonio culturale nelle sue diverse accezioni, ma, in un certo senso, questa priorità comporta oggi alcuni problemi interpretativi e amministrativi. Convivono infatti approcci diversi al tema, prevalentemente orientati ad interpretare la tutela come “conservazione” secondo una tradizione secolare riferita inizialmente al patrimonio storico-artistico (in questo caso si cita inevitabilmente la lettera di Raffaello a Papa Leone X), poi trasferita anche ai beni paesaggistici, restando in larga misura la tutela di questi ultimi affidata agli stessi organi pubblici custodi dei beni culturali. La impostazione conservatrice fu confermata dalla legislazione italiana postunitaria, il provvedimento del 1939 concernente le bellezze naturali ipotizzò anche la redazione di piani territoriali per la tutela di ambiti paesistici di particolare rilevanza, sia formale che storica; non v’è dubbio che questi ambiti erano pensati di ridotte dimensioni, non a caso si faceva riferimento a “quadri” paesaggistici più che a territori. La norma, seppure emanata nel 1939, non ha trovato in pratica applicazioni prima del trasferimento delle competenze sul paesaggio alle Regioni (che io sappia furono presentati solamente i piani per Portofino e Portonovo). In questa logica dell’ambito territoriale contenuto, il quadro appunto, era ancora possibile identificare la tutela con la conservazione tout court, e provvedere di conseguenza attraverso un rigoroso vincolo conservativo. Negli anni settanta come sopra accennato le competenze urbanistiche vennero trasferite alle Regioni, costituite appunto nel 1970, ed ebbe inizio un Le Cento Città, n. 54
lungo e faticoso processo, ancor oggi non interamente risolto, per cercare di contemperare le esigenze di sviluppo del territorio, obiettivo degli strumenti urbanistici, con quelle di tutela del patrimonio culturale e paesaggistico, che potevano trovare soluzione nei piani paesaggistici. Nel bel mezzo di questo processo (nel 1985) si inserì la cosiddetta Legge Galasso che, sia pure attraverso tipologie diversificate, estese a tutto il territorio nazionale la tutela paesaggistica, affidando alle Regioni il compito di provvedere alla stessa, o attraverso Piani urbanistici-territoriali con valenza paesaggistica o con veri e propri Piani Paesistici. La prima generazione di piani paesistici regionali, peraltro redatti da un numero assai contenuto di Regioni, non ebbe esiti significativi, cosi che nel 2004 il nuovo codice dei beni culturali ne previde nuovamente la redazione, immaginando una intesa tra Regioni e Ministero e, addirittura, la possibilità del Ministero di intervenire in caso di inadempienza delle Regioni; naturalmente sono passati dieci anni dall’emanazione del Codice e non è avvenuto gran che (solo quest’anno sono stati approvati i piani della Toscana e della Puglia). Negli ultimi decenni lo sviluppo della sensibilità comune nei riguardi dell’ambiente naturale ha originato altri strumenti di tutela territoriale: parchi, riserve, zone protette, ecc., affidati ad apposite entità amministrative, nazionali e locali, o da queste messi in opera attraverso organismi istituiti allo scopo: enti parco,convenzioni, ecc.; anche in questi casi la tutela viene essenzialmente intesa come “conservazione” dell’assetto esistente o, al più, come ricostituzione di uno stato primigenio, più o meno presunto. La inadeguatezza della politica regionale Alla prova dei fatti le Regioni nel loro insieme non hanno saputo soddisfare le speran-
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Mappa di Beemsterlants (1658).
Planimetria di Villa d’Este a Tivoli.
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Il Saggio ze che si erano manifestate al momento della loro istituzione, peraltro avvenuta ad oltre trenta anni dalla previsione normativa della Carta Costituzionale; parafrasando il titolo di un bel film di Mario Martone coloro che pensarono allora che l’istituzione delle Regioni avrebbe significato lo sviluppo di quelle potenzialità economiche e culturali che lo Stato centralista non aveva saputo riconoscere e sviluppare possono oggi dichiarare che “noi pensavamo che” come l’avvilito patriota risorgimentale protagonista del film. Ancora una volta sono state vanificate le speranze di realizzare una Italia più coesa, capace di utilizzare appieno il suo patrimonio umano e culturale. Se nel primo decennio di vita dell’istituto regionale vi fu un impegno significativo per cercare di creare modi nuovi di intendere l’amministrazione pubblica ed il rapporto tra amministrazione centrale e realtà regionali a partire dai primi anni ottanta il vecchio modo, conflittuale e burocratico, trovò modo di confermarsi e di consolidarsi. L’entrata in campo della Unione Europea non cambiò questa situazione, ma forse, a mio avviso, l’aggravò, inducendo nelle politiche di intervento pubblico una omogeneità fittizia, che ha gradualmente cancellato molte delle specificità delle Regioni italiane. Comunque occorre riconoscere che nel campo delle politiche territoriali, nel quale le competenze istituzionali delle regioni hanno sempre conservato ampi limiti e potestà di intervento non si sono manifestati espressioni significative di autonomia e di volontà di cambiamento. Queste, comunque, quando vi sono state,sono state abbandonate dopo poco tempo, occorre riconoscere col pieno consenso delle realtà locali. Le vicende della pianificazione paesistica a cui si è fatto cenno in precedenza dimostrano la quasi totale accettazione da parte delle amministrazioni regionali di un modello eco-
17 nomico e sociale improntato al rispetto ossequioso delle esigenze della cementificazione edilizia ed accompagnato dalla incapacità di comprendere le esigenze di crescita qualitativa dell’ambiente, che pure nelle società civile sono presenti e alle quali si è inteso rispondere con le “riserve indiane” delle aree naturalistiche. Il caso della pianificazione paesistica nelle Marche L’esperienza della redazione del primo Piano Paesistico Regionale, conclusa nel 1984, fu condotta con grande entusiasmo, non solo dal personale regionale addetto, ma anche dagli esperti chiamati a collaborare e suscitò una partecipazione volontaria e non retribuita di eccezionale ampiezza e valore; con tempi e modalità diverse si ebbe il contributo di oltre trenta personalità tra professori universitari e professionisti: archeologhi, naturalisti, economisti, storici, ecc. Purtroppo gli esiti reali di tanto sapere e di tanto impegno risultarono, alla prova della gestione amministrativa meno che modesti: la decisione della Regione di affidare l’attuazione del Piano ai singoli Comuni attraverso l’adeguamento dei loro strumenti urbanistici risultò del tutto errata, infatti i Comuni non procedettero, se non con molto ritardo e senza convinzione, all’adempimento previsto, vanificando gli obiettivi di conservazione e qualificazione del paesaggio previsti dal Piano. Dopo l’entrata in vigore del Codice dei Beni Culturali, a cui si è fatto precedentemente riferimento, si tratta del 2004, anche nelle Marche venne presa l’iniziativa per adeguare il vecchio Piano Paesistico alla nuova normativa, della quale a me sembra che fu assunta la nuova definizione di Piano Paesaggistico (!), peraltro sicuramente più corretta sul piano lessicaleNelle sostanza ancora una volta la nostra Regione, e con essa la maggiore parte delle sue “consorelle”, è riuscita a Le Cento Città, n. 54
non prendere nessuna decisione in merito, pur recitando la consueta pantomima: nomina di consulenti, costituzione di gruppi di lavoro, consultazioni con gli enti locali e con le associazioni, ecc.; in occasione della recente scadenza elettorale regionale nessun impegno significativo è stato assunto in merito alla redazione del Piano Paesaggistico ed ai suoi contenuti; per quello che riguarda il paesaggio ed in genere la pianificazione territoriale l’amministrazione sembra orientata ad operare all’insegna della più ignava continuità. Peraltro le Marche sono in una compagnia numerosa, ancorché non buona, infatti, come già ricordato solo due Regioni hanno adottato i loro Piani Paesaggistici ai sensi di legge, mentre il Ministero, come tradizione, latita e, nel caso delle Marche, non è riuscito ad arrivare a firmare l’intesa prevista dal Codice dei Beni Culturali dopo ben quattro anni dalla presentazione della proposta regionale. Il protrarsi di questa situazione caratterizzata da una quasi completa assenza di politiche per il paesaggio ha consentito non solo la messa in opera senza una reale valutazione di interventi paesaggisticamente rilevanti, quali ad esempio quelli del cosiddetto Quadrilatero, ma anche, e direi soprattutto, la realizzazione di un gran numero di interventi privati, spesso di modeste dimensioni, diffusi però dovunque, senza alcun criterio che non sia quello del rispetto degli interessi particolari, realizzati con il costante consenso degli enti locali; una vera e propria esaltazione del romano” jus aedificandi” interpretato in chiave familistica. Occorre cercare una prospettiva Se come si è cercato di porre in evidenza il Ministero per i Beni Culturali ed il Turismo, impegnato a far rendere economicamente il patrimonio culturale, non ha né tempo né voglia di interessarsi della tutela del paesaggio, se da parte sua la
Mario Canti Regione procede con ferma e costante lentezza all’approntamento degli strumenti di sua competenza, spetta allora alla opinione pubblica più avvertita l’onere di riconoscere che tutto questo avviene soprattutto per una carenza culturale diffusa ad ogni livello ed in ogni territorio e non per prava malvagità delle pubbliche amministrazioni competenti. Ci si sentirebbe quanto meno ridicoli se ci si impegnasse ancora una volta a richiamare le Istituzioni all’assolvimento dei loro compiti, sono anni che benemerite associazioni si impegnano in tale improbo e sisifico compito; se vogliamo fare qualcosa di utile, almeno nei tempi lunghi, non resta che sviluppare l’impegno per la crescita culturale del Paese. In primo luogo nella scuola, dove sarebbe necessario procedere allo sviluppo delle conoscenze in termini intersettoriali senza rinunciare alle qualificazioni specialistiche, ma anche nella società dove peraltro una pluralità di associazioni e movimenti volontaristici è costantemente impegnata nella difesa e nella diffusione delle conoscenze concernenti il patrimonio culturale. Negli ultimi venti anni sono nati e cresciuti associazioni e movimenti volontaristici che si sono sforzati di porre in risalto la mancanza di una politica ambientale nella quale trovassero spazio anche le tematiche paesaggistiche; anche Le Cento Città ha partecipato al dibattito con numerosi interventi sulla rivista, con uno specifico convegno tenutosi nel 2008 e con i recenti forum di Camerino ed Urbino del 2015. Non resta che continuare su questa strada sapendo di essere in buona e abbastanza numerosa compagnia. Oggi assistiamo alla crescita degli “osservatorii del patrimonio culturale” rivolti all’incontro, a livello locale, nazionale ed europeo, di soggetti diversi e diversamente interessati, che vogliono confrontarsi e comunicarsi esperienze e valutazioni, una linea operativa nuova che può aiutarci a cambiare, alme-
18 no un poco, la prospettiva di degrado crescente che, più o meno, avvertiamo tutti. Davanti ad un fallimento della tutela paesistica tanto ampio nello spazio e tanto protratto nel tempo diviene naturale porsi l’interrogativo della correttezza dell’assunto: tutela eguale a conservazione a cui si è fatto riferimento in precedenza ricordando gli inizi della tutela e gli strumenti adottati. Riflessione a cui dovremmo essere indotti anche dai contenuti della Convenzione Europea che, semplificando un poco per ricerca di chiarezza, individua tre categorie di paesaggio: quello da conservare (che significa fare manutenzione), quello da recuperare (evidentemente perché degradato o incongruo), quello normale (cioè da gestire anche attraverso trasformazioni sostenibili sul piano ambientale e coerenti sul piano culturale). La intensità e la violenza delle trasformazioni in atto nel nostro Paese a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso hanno cancellato quelle tradizioni di operosità colta e provveduta, diffusa ad ogni livello sociale, che sono state alla base della creazione del “paesaggio italiano”, così come è stato e, per una sua parte, viene avvertito dalla popolazione residente e dagli stranieri. La campagna, per restare al tema dal quale in questa occasione ha preso avvio il discorso, era soggetta ad una utilizzazione razionale, consapevole del valore delle risorse naturali, della loro delicatezza, della loro irriproducibilità; il contadino operava come “ un orefice”, secondo una comparazione di Pasolini, consapevole della preziosità della materia che trattava. Quanto è avvenuto ed i fenomeni in atto non consentono di immaginare ritorni al passato, cambiare il futuro non può che significare immaginarlo, nello spazio e nel tempo, come sempre, rifiutando la casualità di un mercato di rapina del quale soffriamo gli esiti, ma non conosciamo né prospettive, né i reali protagonisti. Le Cento Città, n. 54
Riportare le trasformazioni sotto il controllo delle comunità e secondo le loro esigenze non può che significare, al giorno d’oggi, altro che porre al centro dell’attenzione e del controllo la loro progettazione, sviluppata con la dovuta attenzione alle diverse esigenze alle quali devono fare fronte: economiche, certo, ma anche ambientali e sociali. Il tema del dissesto ci fornisce purtroppo molti esempi di quello che può avvenire quando una esigenza prevale sulle altre o, addirittura, le ignora. Va riconosciuto che l’identificazione tra tutela e conservazione ha ormai costruito nel nostro Paese una cultura del rifiuto delle trasformazioni, soprattutto se incidono su le componenti naturali; la natura prima di tutto! Essa conserva e protegge, non pensiamo che il creato (vedi il senso del termine) sia una proprietà degli uomini, ecc. ecc. Queste convinzioni peraltro non facevano parte, ad esempio, della cultura di quegli olandesi che a partire dal XIV secolo hanno gradualmente prosciugato paludi litoranee ed addirittura interrato parti di aree marine, costruendo un paesaggio del tutto artificiale, che come tale deve essere mantenuto, ma tutto sommato equilibrato, socialmente utile e, guarda caso piacevole sul piano estetico. Sempre per esemplificare credo che alcune infrastrutture realizzate dalla Roma repubblicana ed imperiale, segnatamente strade ed acquedotti, non possano essere considerate di ridotto impatto ambientale, come oggi non lo sono le nostre autostrade; la comparazione non è casuale, infatti quest’ultime possono anche raccordarsi piacevolmente con l’ambiente di una volta che sia stata realizzata una progettazione questo raccordo come dimostrano numerosi esempi, purtroppo non sempre italiani. Per concludere questa mia esaltazione della progettazione, e per attirarmi l’esecrazione di qualche ambientalista arriverò ad affermare che anche
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Planimetria di Chandigarh.
gli impianti fotovoltaici nelle zone collinari potrebbero essere accettati, una volta accertata la loro sostenibilità per quanto attiene la conservazione del suolo e delle sue caratteristiche, se progettati tenendo conto degli esiti formali e non solo della loro redditività economica.
Anche in questo caso la prassi è: o si fanno, o non si fanno; sarebbe interessante verificare se sia possibile farli bene. Continuando su questa strada vorrei sottolineare le contraddizioni insite nel rifiuto aprioristico delle trivellazioni a mare per le ricerche petroli-
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fere; la questione ancora una volta è quella delle garanzie, della verifica scientifica dei dati e delle valutazioni, posto che comunque idrocarburi bruceremo ancora per qualche tempo a sempre maggiore beneficio di emiri e califfi.
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Milano, il riuscito inserimento di un edificio moderno nel tessuto urbano storico negli anni Trenta.
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I nuovi confini
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Il Ruolo della Iniziativa Adriatico Ionica nel lancio della “Strategia UE per la Regione Adriatico ionica” EUSAIR di Giuseppe Di Paola
La cooperazione nella regione adriatico ionica non è una novità e precede di molto la costituzione della Macro Regione, o meglio della “Strategia UE per la Regione Adriatico Ionica” (EUSAIR), che è solo la naturale conclusione di un lungo percorso di collaborazione, di scambi e di progetti comuni. Il mare adriatico è stato da sempre un mare condiviso e di condivisione. Una civiltà adriatica fatta di scambi, di commerci, di uomini che si sono spostati da una sponda all’altra con estrema facilità, è sempre esistita. Il periodo buio della “Cortina di Ferro” che da Trieste si prolungava lungo tutto l’Adriatico è stato solo una breve parentesi tra secoli di scambio pacifico. Dopo la tragedia delle guerre degli anni ‘90 e dello smembramento della Yugoslavia, il Governo Italiano ha sentito la necessità di riallacciare i rapporti con quelle comunità duramente colpite e di lavorare insieme, in modo strutturato, per ricreare condizioni di stabilità e sicurezza
nella regione. A questo scopo, la “Conferenza per lo Sviluppo e la Sicurezza dell’Adriatico e dello Ionio” (Ancona, 20-52000) ha dato vita alla “Iniziativa Adriatico Ionica”(IAI) che con il passare del tempo ed il migliorare delle condizioni si è evoluta concentrandosi su aspetti diversi di cooperazione più legati allo sviluppo sostenibile della regione (PMI, Ambiente, Trasporti, Cooperazione Marittima, ecc. ) Da 15 anni, dunque, l’Iniziativa Adriatico Ionica si impegna perché gli otto paesi partecipanti comunichino tra di loro, lavorino insieme, decidano azioni e strategie comuni per la crescita. Nonostante anni di cooperazione, di scambi di esperienza e di progetti comuni siano stati importanti per consolidare il senso di comunità dell’area adriatico ionica e per favorire il processo di stabilizzazione di un’area, fino a pochi anni prima, turbolenta (basti pensare alle guerre degli anni ’90, alle grandi ondate migratorie, ai traffici criminali, ecc.), la nuova congiuntura globale ha richiesto
un cambio di marcia. Convinti dei punti di forza e delle opportunità che offre questa Regione meravigliosa, ma consapevoli dei limiti e delle sfide da superare per ottenere risultati tangibili di crescita, gli otto Governi hanno deciso insieme che la strada da intraprendere fosse l’approvazione di una Strategia Macroregionale dell’UE prendendo esempio ed allo stesso tempo evitando gli errori delle due esperienze macroregionali già esistenti nel mare Baltico e nell’area Danubiana. La proposta di iniziare un percorso che portasse all’adozione di una “Strategia Europea per la Regione Adriatico Ionica” (EUSAIR), allo scopo di “promuovere una prosperità economica e sociale sostenibile nella regione mediante la crescita e la creazione di posti di lavoro e il miglioramento della sua attrattiva, competitività e connettività, preservando al tempo stesso l’ambiente e assicurandosi che gli ecosistemi costieri e marini restino sani ed equilibrati” è stata presentata dai Ministri degli Esteri
Uno scontro navale nell’VIII secolo a.c. Stèle di Novilara, 6e s. Musei Oliveriani, Pesaro.
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Il mito di Ulisse e le Sirene, Museo Archeologico nella Galleria Nazionale di Urbino.
degli otto paesi ad Ancona, in occasione del Consiglio Adriatico Ionico del 5 Maggio 2010, precisamente 10 anni dopo la costituzione della IAI. Gli stessi hanno compreso che la IAI, uno strumento già esistente e funzionante, dovesse essere l’ancoraggio governativo alla Strategia e parteciparne a pieno titolo sia nelle fasi di preparazione che di implementazione. Successivamente, l’impegno politico dei Governi, insieme a quello tecnico degli Stakeholders regionali hanno fatto si che si arrivasse, il 24 Ottobre 2014 all’adozione della EUSAIR in sede di Consiglio Europeo ed al suo lancio il 18 Novembre 2014 a Bruxelles. Le tappe fondamentali che hanno reso possibile tale risultato sono state: l’adozione della Strategia Marittima per l’Adriatico e per lo Ionio (poi incorporata nella EUSAIR); il mandato del Consiglio Europeo alla Commissione di presentare entro il 2014 una Strategia UE per la Regione Adriatico Ionica (13 Dicembre 2012); le consultazioni pubbliche con gli
stakeholders regionali, in particolare la Conferenza di Atene e il Consiglio Adriatico Ionico Speciale del 6 Febbraio 2014; l’adozione del Piano d’Azione della EUSAIR da parte della Commissione il 17 Giugno 2014. Dal punto di vista delle possibilità, nonostante la EUSAIR non porti con sé nuovi fondi, essa dovrà avere la capacità di mobilitare gli strumenti finanziari europei e nazionali esistenti, in particolare, i Fondi Strutturali per i paesi membri e quelli di pre-adesione per i paesi ancora fuori dall’UE, ma anche il Fondo Europeo Affari Marittimi e Pesca, da Horizon 2020 per la ricerca e l’innovazione, dal Connecting Europe Facility (CEF) per i trasporti, dal programma LIFE per l’ambiente, dal COSME per le PMI, eccetera. Oltre a ciò sarà necessario coinvolgere le istituzioni finanziarie internazionali come la Banca Europea per gli Investimenti. Con la EUSAIR si aprono grandi possibilità di sviluppo che potranno contribuire a realizzare l’obbiettivo europeo delLe Cento Città, n. 54
la convergenza, cioè portare una regione periferica e meno sviluppata d’Europa ad un livello di crescita più vicino alla media europea e facilitare il processo di adesione di quei paesi ancora non membri ampliando così il mercato unico europeo. Nel momento in cui si scrive, la EUSAIR è nella prima parte della fase di implementazione: Il Piano d’Azione (documento fondamentale della EUSAIR) è stato approvato, la Governance è in una fase di perfezionamento che sarà completata a breve, e si attende l’attivazione dei primi progetti e delle prime azioni previste dal Piano d’Azione stesso. È ora, dunque, responsabilità dei Governi Adriatico Ionici, insieme alla Commissione Europea, far funzionare la macchina macroregionale e di tutti gli stakeholders dare il proprio contributo di idee per la realizzazione di grandi progetti strategici vero carburante della Strategia - che abbiano la capacità e la forza di realizzare gli ambiziosi obiettivi che i gli otto Governi si sono posti.
La storia
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Un mondo dimenticato. Miniere e minatori delle Marche di Alberto Pellegrino
La chiusura delle miniere e dei pozzi minerari per l’estrazione del carbone, dello zolfo e di altri minerali, che sta avvenendo in tutto il mondo occidentale, è una delle testimonianze circa le trasformazioni che stanno provocando le innovazioni tecnologiche e scientifiche, la globalizzazione e la libera circolazione delle merci, l’uso sempre più vasto di nuove fonti energetiche e di nuove materie, per cui stanno diminuendo i consumi dei combustibili e dei materiali che sono stati alla base della prima e della seconda rivoluzione industriale. E’ evidente che la chiusura di un impianto minerario provochi una grave crisi economica e sociale in una vasta area regionale (si pensi al destino toccato alle miniere della Sardegna), per cui lo scrittore Marcello Fois ha scritto che, quando si chiude una miniera, “finisce un’intera cultura: la miniera aveva prodotto anche una vita sociale. I minatori stavano tutti insieme in comunità organizzate, con le loro famiglie, lo spaccio, l’ambulatorio, nei villaggi minerari, accanto al posto di produzione. Era un mondo a parte, quasi autosufficiente”. Questo triste evento, di cui proviamo a raccontare brevemente la storia, è toccato negli anni Cinquanta alle miniere di zolfo delle Marche che avevano un notevole perso economico e sociale nell’Alta Marca centrale. L’industria dello zolfo in Sicilia In Italia l’industria mineraria è stata soprattutto legata all’estrazione dello zolfo che ebbe inizio in Sicilia nel XII secolo, ma prese consistenza alla fine del Settecento e nel primo Ottocento, quando la produzione e la commercializzazione dello zolfo aumentarono notevolmente grazie all’accresciuta produzione di acido solforico e allo sviluppo dell’intera industria chimica europea. Nell’Ottocento il vastissimo
bacino solfifero della Sicilia, pur avendo un’importanza primaria nell’economia dell’isola, rimase sempre difficile da gestire e da ammodernare, tanto che il governo borbonico, a causa del disordine commerciale del settore, decise di affidare il monopolio della commercializzazione a una società francese; inoltre non furono introdotte le innovazioni tecnologiche prodotte dalla rivoluzione industriale. La situazione non migliorò dopo l’Unità d’Italia a causa dell’arretrato sistema contrattuale degli affitti che regolava l’esercizio delle miniere, lo sfruttamento della manodopera, favorita dal fatto che oltre il 90% dei lavoratori era analfabeta, con l’imposizione di orari di lavoro massacranti e di bassi salari, con le pessime condizioni sanitarie che producevano malattie professionali unite a debilitazioni mentali. Senza trascurare la grave piaga costituita dall’impiego di manodopera minorile, poiché i carusi erano usati per trasportare il materiale nelle gallerie con pesanti ceste sulla testa o sulle spalle con danni gravi alla spina dorsale e alla pelle, processi d’invecchiamento precoce, fratture malcurate che spesso portavano all’amputazione dell’arto. Le denunce dei medici siciliani, indusse finalmente il Parlamento a varare nel 1886 una legge che vietava l’impiego dei bambini nei lavori sotterranei sotto i dieci anni e introduceva il divieto del traporto di materiale per chi era al disotto dei dodici anni, determinando la progressiva anche se lenta diminuzione dell’impiego dei carusi. Durante il periodo giolittiano la situazione del comparto dello zolfo si aggravò per la forte concorrenza straniera, per cui su iniziativa della Banca Commerciale Italiana fu costituita una Società per l’utilizzazione dello zolfo cui si aggiunsero altre due imprese con un potenziale di 10 mila tonnellate di zolfo raffinato. Sorse sucLe Cento Città, n. 54
Impianti della miniera di Perticara.
cessivamente la Società mineraria siciliana finanziata dal Credito Italiano con una capacità di raffinazione di 60 mila tonnellate; infine, nel 1915 si ebbe l’intervento della Montecatini che creò l’Unione delle Raffinerie siciliane con alcuni impianti capaci di una produzione di 80 mila tonnellate annue. Nel corso della prima guerra mondiale si ebbe un notevole incremento della produzione, perché la concorrenza straniera ebbe una minore rilevanza, ma dopo il 1922, per il ritorno sul mercato delle miniere statunitensi, tutto il settore ritornò nuovamente in crisi con scioperi e licenziamenti del personale. Il Governo fascista ripianò i debiti del Consorzio zolfifero, si schierò dalla parte dei proprietari delle miniere e non appoggiò i progetti di ammodernamento della Montecatini e della nuova borghesia industriale, per cui si ebbe un aggravamento della crisi in tutto il comparto solfifero che fu salvato da un massiccio intervento statale. Nel secondo dopoguerra la crisi del settore divenne irreversibile: la manodopera scese da 17.500 addetti (1920) a 7.500 (1946) distribuiti su 53 miniere, mentre la produzione diminuì da 225 mila a 75 mila tonnellate. Nonostante la crea-
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Municipio di Pergola. A conclusione dell’occupazione Giuseppe Di Vittorio, segretario nazionale della C.G.I.L. (a destra) incontra il sindaco Galliano Binotti (al centro) e Toti Burattini (segretario della Commissione Interna della miniera di Cabernardi).
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La storia
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Galleria della miniera di Cabernardi. Operai e carrelli trasportatori.
zione dell’Ente Zolfi Italiani, la crisi si aggravò per la concorrenza dallo zolfo di recupero rispetto a quello di estrazione, per cui tra gli anni Cinquanta e Sessanta quasi tutte le miniere solfifere siciliane e del continente furono chiuse, lasciando drammaticamente disoccupati 6.300 zolfatari siciliani (50% analfabeti), difficilmente riqualificabili per altre attività produttive, per cui molti di questi emigrarono per lavorare nelle miniere estere, una parte fu assorbita dalla Montecatini e un certo numero fu collocato in pensione. Soltanto una piccola parte delle miniere siciliane, dotate di moderni impianti, rimase in funzione fino alla fine degli anni Settanta. L’industria dello zolfo nel comparto marchigiano A partire dall’anno Mille nelle pergamene del Monastero di Fonte Avellana esistono notizie sull’esistenza di solfatare nelle zone del Monte Catria, a Serra Sant’Abbondio e nelle colline del fabrianese. Dal Cinquecento in poi l’attività estrattiva si concentrò nella zona della Romagna e del Montefeltro per prendere consistenza nel XVIII secolo con una produzione annua di 10 mila quitali. Nacque anche una via dello zolfo che sfociava nel porto di Cesenatico per la Romagna e nel porto di Rimini per il Montefel-
tro, dove rilevanti attività estrattive si riscontravano nel territorio di Pergola, soprattutto in località Canneto dove fu rinvenuta una forte quantità di zolfo. Durante il Regno d’Italia furono aperte sette miniere di zolfo tra Pergola e Sassoferrato, ma con il ritorno del governo pontificio la produzione non ebbe un rilevante incremento anche per la concorrenza delle miniere inglesi e francesi. Soltanto dopo l’Unità d’Italia, si registrò una ripresa delle attività di ricerca per individuare l’esistenza di giacimenti di zolfo nei Comuni di Pergola e Sassoferrato su iniziativa di un dinamico proprietario di terreni Pietro Brilli-Cattarini (1836-1915). Finalmente queste ricerche diedero un primo risultato positivo agli inizi del 1877, quando fu scoperto un consistente filone di zolfo che si estendeva da Percozzone a Cabernardi. A causa delle indecisioni e delle resistenze degli imprenditori locali, la gestione delle miniere fu assunta dalla società tedesca Francesco Armando Buhl, specializzata nel settore e ben presto nacquero delle miniere di vaste proporzioni, che incideranno positivamente sull’economia del Pergolese per l’assunzione della manodopera, il commercio, la creazione di servizi e infrastrutture per i trasporti. Fu proposta al Governo la costruzione del tronco ferroviario FabriaLe Cento Città, n. 54
no-Sassoferrato-Bellisio BassoPergola-Urbino, che si sarebbe dovuto ricongiungere in un secondo momento con la stazione di Sant’Angelo di Romagna. Il Ministero dei Lavori Pubblica approvò nel 1889, come stralcio del progetto, la tratta FabrianoBelliso-Pergola che fu solennemente inaugurata nel 1895. La Società Buhl, una volta venuta a conoscenza del progetto per la costruzione della ferrovia, decise d’impiantare una raffineria dello zolfo a Bellisio Basso e nello stesso tempo prese la decisione di costruire una funivia con carrelli trasportatori per far arrivare il materiale grezzo da CabernardiVallonica fino alla raffineria di Bellisio Solfare (Pergola), che divenne un importante centro abitativo, perché nei pressi della raffineria si provvide a costruire un edificio per i dirigenti e per ospitare politici, industriali, economisti e ospiti stranieri in visita agli impianti; si procedette anche alla realizzazione di un quartiere popolare per gli operai, della stazione dei carabinieri e della chiesa parrocchiale del Sacro Cuore di Gesù. Il ruolo della miniera di Cabernardi nel contesto minerario marchigiano Il bacino solfifero di Cabernardi si estendeva dal torrente Cesano (Pergola) alla Valle del Setino (Sassoferrato) per circa 8 chilometri di lunghezza, 1.500 metri di larghezza, una profondità di 800 metri di cui 515 sotto il livello del mare, con 15 gallerie e due pozzi di estrazione profondi 400 metri. Le prime esplorazioni furono effettuate nella metà dell’Ottocento e, negli anni Settanta, la miniera di Cabernardi, attiva fin dal 1877, divenne in breve tempo il centro minerario più grande d’Europa con un’occupazione massima di 2850 unità tra operai e impiegati, basti pensare che, tra il 1889 e il 1899 la miniera produsse 325.638 tonnellate di minerale, dal quale si ricavarono 65.517 tonnellate di zolfo greggio che veniva poi lavorato nella raffineria di Bellisio Solfare. Lo sviluppo degli impianti di Cabernardi ebbe inizio nel 1889, quando si verificò un periodo
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Vallonica. Argano di sollevamento
Giugno 1952. Carabinieri armati di moschetto pattugliano la recinzione della miniera durante l’occupazione.
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La storia
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Un minatore riabbraccia i familiari dopo l’occupazione della miniera di Cabernardi.
particolarmente difficile per il comparto dello zolfo e chiusero diverse miniere In Romagna e nell’Urbinate, tanto che nel 1895 rimasero attive solo le miniere di Perticara, San Lorenzo in Zolfinelli e Cabernardi, ma solo in quest’ultima si ebbe un forte aumento della produzione, determinato dal forte aumento di richieste dello zolfo sul mercato nazionale ed estero. Nel 1904 si costituì un consorzio di miniere sotto la direzione della Società Trezza-Albani-Romagna che gestiva cinque miniere nell’Urbinate, due nel Montefeltro e quella di Cabernardi che continuava a fornire la maggiore produzione di materiale. Nel 1906 la situazione nazionale si aggravò ulteriormente, per cui ne risentirono negativamente tutte le miniere marchigiane meno quella di Cabernardi che continuò a prosperare, arrivando nel 1914 a fare una produzione di 14.680 tonnellate. Nel 1917 la Società Montecatini acquistò le miniere di Cabernardi e Percozzone, nonché gli stabilimenti di raffinazione di Pesaro, Bellizzone e Cesena. Con
la fine della Grande Guerra, ebbe fine la carenza di personale, perché si registrò un nuovo reclutamento di manodopera, tanto che la Montecatini, vista la mancanza di alloggi, fu obbligata a costruire rapidamente un villaggio di piccole abitazioni per gli operai. Agli inizi del 1919 i minatori si organizzarono nella Unione Professionale per il Lavoro e nel 1920 ottennero un aumento del 20% dei salari, il riconoscimento della Lega Zolfatai e delle Commissioni interne. Nel 1922 si aprì una nuova crisi del settore, ma nel 1923 si registrò una ripresa del mercato dello zolfo a causa dello sbocco verso i mercati dell’Oriente; a partire dal 1931, ci fu un nuovo un incremento produttivo delle miniere di Perticara e Cabernardi, favorito anche dall’introduzione di alcune innovazioni tecnologiche. Nel 1938 le due miniere arrivarono a produrre 67.436 tonnellate di materiale che rappresentavano il 30% del prodotto nazionale su un totale di 139 miniere, di cui 128 siciliane.
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Condizioni di lavoro e conflitti sociali dei minatori Lo sfruttamento del giacimento solfifero di Cabernardi, insieme alle altre miniere minori, divenne un centro industriale estremamente importante per quell’area dell’entroterra marchigiano, perché per circa novant’anni riuscì ad assicurare benessere e prosperità alla popolazione del luogo poiché gli occupati arrivarono a sfiorare le tremila unità. Per un certo periodo, dal momento dell’apertura della miniera, lo zolfo estratto era raffinato con il metodo del calcarone che consisteva nel riempire una forma conica inclinata con pezzi di materiale misto a roccia (“ganga”); si procedeva collocando alla base del cono i pezzi di maggiore dimensione, continuando con quelli più piccoli fino al riempimento del cono, quindi si accedeva il fuoco e, dopo alcun giorni, incominciava a colare lo zolfo parzialmente raffinato. Purtroppo il fumo della combustione conteneva anidride solforosa talmente nociva da distruggere la vegetazione pe alcuni chilometri di raggio, tanto che la società amministratrice della miniera fu costretta a risarcire i contadini danneggiati. In un secondo momento furono istallati i forni Gill, nei quali la combustione non avveniva in una sola fornace ma in celle successive, nelle quali passavano i gas caldi che via via si raffreddavano e si condensavano, fino a quando lo zolfo liquido veniva colato in appositi stampi quadrati (“pani”) che erano in parte mandati all’estero e in parte trasferiti, per mezzo della teleferica, nella raffineria di Bellisio . Il procedimento per l’estrazione dello zolfo non era semplice perché, una volta individuata una falda di minerale, si doveva aprire nel sottosuolo una galleria centrale con pilastri di sostegno per evitare il franamento del terreno. Una volta estratto il materiale grezzo con i martelli pneumatici, il minerale era caricato su vagoncini trainati da asinelli e portato alla “discenderia” o pozzo da dove era trasportato in superfice con gabbie sollevate da un argano a vapore. All’inizio la discesa nel
Alberto Pellegrino sottosuolo dei minatori avveniva in modo rudimentale e solo con l’avvento della Montecatini, che trasformò l’impianto di estrazione in una vera e propria industria, furono aperti due pozzi e furono istallati gli argani a vapore e gli impianti di areazione, che producevano una ventilazione artificiale e quindi permettevano di lavorare con meno fatica, ma di evitare anche il pericolo delle esplosioni. Nelle gallerie la presenza dell’ossigeno era di fondamentale importanza e doveva essere assicurata in modo costante, perché esso era consumato dagli uomini, dagli animali addetti al trasporto e dalle lampade. Bisognava, inoltre, tenere presente che il pericolo maggiore per i minatori era costituito dal grisou (una miscela di gas metano e ossigeno), dal gas solfidrico e dal calore che si sprigionava dalle rocce. Era sufficiente che l’aria della miniera contenesse una percentuale di grisou tra il 5 e il 14%, perché lo scoppio di una mina o l’accensione di una lampadina provocassero un’esplosione, per cui si continuarono a usare, anche dopo l’introduzione degli impianti di luce elettrica, le lampade a benzina per misurare la presenza del gas, perché queste si spegnevano quando si verificava una mancanza di ossigeno. Nonostante le condizioni dei lavoratori fossero molto dure e pericolose a causa della polvere, del calore, dell’umidità e delle esalazioni che erano comunque dannose per la salute, molti minatori risiedevano a Cabernardi, mentre altri affluivano ogni mattina dai centri vicini, percorrendo in bicicletta o a piedi diversi chilometri per fare un estenuante turno di lavoro di otto ore. In compenso il paese di Cabernardi divenne un piccolo centro urbano di tipo industriale completamente diverso dal territorio agricolo circostante, acquistando una notevole importanza lo sotto il profilo economico e sociale. La presenza degli impiegati e delle maestranze con le loro famiglie comportò l’istituzione delle scuole elementari di Doglio e Cabernardi, l’apertura di un ambulatorio medico e di
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Cabernardi. Torre di sollevamento Donegani.
una farmacia, la creazione di uno spaccio della Cooperativa Miniere dei Lavoratori, dove il personale poteva approvvigionarsi dei beni di consumo di prima necessità. La Società delle miniere organizzò con una certa regolarità colonie marine e “campi solari” per i figli dei dipendenti e sorsero diverse strutture per il tempo libero: si costruì un piccolo teatro sede di una Filodrammatica; si organizzò una Banda musicale; si fecero diverse attività culturali e sportive come il Circuito ciclistico delle Due Miniere, al quale partecipavano ciclisti dilettanti provenienti da tutte le Marche; venne fondata la Società Calcistica Carbernardi, che partecipava ai Campionato Regionale di Promozione. Nel 1943-1944, con il passaggio del fronte, i lavoratori delle miniere presero attivamente parte al movimento partigiano e alla lotta di Liberazione ma, quando nel 1945 riprese l’attività mineraria, le condizioni economiche erano mutate negativamente, perché la crisi del settore minerario solfifero, già iniziata nel durante la seconda guerra monLe Cento Città, n. 54
diale, si era andata aggravando per la concorrenza estera e per le mutate condizioni tecnologiche di produzione dello zolfo. Si cominciarono a diffondere notizie sulla volontà della Montecatini di procedere a una progressiva chiusura degli impianti minerari per cui, al fine di difendere i posti di lavoro, le organizzazioni sindacali avanzarono delle richieste per l’attuazione di un piano organico di ricerche sul territorio con lo scopo d’individuare nuovi giacimenti solfiferi; si denunciò lo sfruttamento di “rapina” dei giacimenti esistenti; si avanzo la proposta d’introdurre l’impiego di metodi più moderni per la fusione dello zolfo e si fecero proposte alternative d’impiego degli impianti. Il 15 luglio 1951 si tenne un convegno sulle risorse solfifere del comparto minerario Marche-Romagna e il successivo 22 luglio fu organizzata a Pesaro la Conferenza degli Zolfi per mettere a fuoco i problemi del settore, le condizioni di lavoro e di vita dei minatori e delle loro famiglie. Il 3 maggio 1952 la Montecatini annunciò il licenziamento di 860 operai e la riduzione delle
La storia attività estrattive, giustificando il provvedimento con il progressivo esaurimento del minerale. Il 28 maggio 1952 circa 400 minatori, all’apparire della parola d’ordine “Coppi maglia gialla” scritta sul fianco di un vagoncino, dettero inizio all’occupazione della miniera di Cabernardi e 176 lavoratori scesero a cinquecento metri di profondità per difendere il loro posto loro e quello dei loro compagni. Si svolsero lunghe trattive tra l’azienda, i sindacati e le forze politiche e il 5 luglio 1952, alle ore 9,30, i minatori cessarono l’occupazione, dopo una resistenza di quaranta giorni e quaranta notti. Ad attenderli c’erano i loro familiari e l’intera popolazione di Cabernardi che per tutto il periodo dell’occupazione li aveva sostenuti e aveva fornito i viveri per la loro sopravvivenza. La speranza di avere ottenuto il riconoscimento di almeno una parte delle loro rivendicazioni durò molto poco, perché non si ebbero risultati soddisfacenti malgrado la lotta dei minatori marchigiani fosse arrivata in Parlamento e sulle prime pagine dei quotidiani e vi fu l’intervento di molte personalità a livello locale e nazionale, compreso il segretario generale della CGIL Giuseppe di Vittorio che era arrivato a Cabernardi per sostenere di persona la lotta dei minatori. La Montecatini, forte di una politica monopolistica appoggiata dagli organi dello Stato, diede seguito ai licenziamenti annunciati, mentre un centinaio di lavoratori furono collocati in pensione e circa trecento furono trasferiti nello Stabilimento Petrolchimico della Montecatini a Ferrara, dove si producevano materie plastiche e fertilizzanti. Dopo una progressiva riduzione della produzione, con la presenza nella miniera di pochi operai, Il 5 maggio 1959 si arrivo alla chiusura definitiva dell’impianto minerario di Cabernardi e questo avvenimento gettò in una gravissima crisi economica e sociale sette Comuni che si trovano in quella vallata della zona di Sassoferrato. Di quella lunga stagione di attività mineraria e di quell’appassionato periodo di lotta, vis-
29 suto con dignità e fierezza dai lavoratori delle miniere, non resta altro che la memoria, anche se quell’episodio sia stato considerato un “significativo esempio di azione sindacale e politica” nella storia del movimento operaio in Italia. Il Museo della Miniera di Zolfo di Cabernardi Per ricordare questa importante pagina dell’industria estrattiva marchigiana è stato istituito nel 2005 il Parco Minerario dello Zolfo delle Marche comprendente i siti minerari di Cabernardi, Perticara e Bellisio Solfare, un ecomuseo che si configura come un itinerario architettonico-naturalistico con numerose testimonianze di archeologia industriale, costituite da una serie di vecchi capannoni, dai resti delle miniere, dai forni circolari a livello del suolo e da strutture in muratura più elevate, tra le quali spicca l’imponente Torre Donegani che era utilizzata per il trasporto del materiale in superfice. A testimoniare l’esistenza del centro minerario rimangono la chiesa, l’ex scuola elementare e la vecchia insegna di una farmacia. A Cabernardi (Comune di Sassoferrato) è stato istituito nei pressi dell’ex miniera di zolfo gestita dalla Società Montecatini Il Museo della Miniera di Zolfo, inaugurato nel 1993, nel quale sono conservati documenti e circa 200 fotografie d’epoca; vari attrezzi di lavoro come maschere anti-gas, caschi da minatore, martelli pneumatici, lampade; esempi di minerali estrattivi sotto forma di “cristalli”, di pani, di zolfo allo stato puro; altri minerali provenienti dal sottosuolo come pirite, aragonite, rame, fluorite e quarzo. Sono stati inoltre realizzati un modellino automatizzato che fa vedere il funzionamento dei pozzi di estrazione e dei depositi, un plastico della miniera che illustra in maniera significativa qual era il duro lavoro dei minatori; è stato infine ricostruito un tunnel intitolato “Galleria della memoria” che richiama quelli costruiti nel sottosuolo. Una delle ragioni che rende interessante una visita al “Museo Le Cento Città, n. 54
della Miniera” è’ la possibilità di prendere visione di una rara copia del documentario Pane e zolfo che fu girato nel 1956 dal regista Gillo Pontecorvo per conto della Camera del Lavoro di Pesaro per documentare le giornate lavorative dei minatori di Cabernardi con le loro fatiche quotidiane all’interno della miniera, ma anche i loro momenti di allegria durante le giornate di festa. Dice Pontecorvo “Figurativamente i documentari (come Pane e zolfo) che facevo avevano parecchi punti in comune con il neorealismo: come “pasta”, come materia, come linguaggio c’erano evidenti legami con il cinema che si girava in quegli anni”. Il Museo, è stato fondato ed è ora gestito dall’Associazione culturale La Miniera ed è inserito nel circuito turistico “Musei da scoprire”, perché parte significativa del Sistema Museale della Provincia di Ancona. Attraverso il sito www.minieracabernardi.it. possibile avere notizie su questa struttura museale che è aperta ai visitatori tutte le domeniche dalle ore 17 alle 20 nel periodo compreso tra il 15 giugno e il 15 settembre. Per visite da compiere in altri periodi e nei giorni feriali, è possibile fare una richiesta di apertura all’Associazione “La Miniera” (tel. 0732.975241 – 0732.975013), oppure presso l’Ufficio Turistico (tel. 0732.956231) o alla Segreteria (tel. 956205 – 0732.956218) del Comune di Sassoferrato. Bibliografia M. Rinaldi, Minatore e fotografo a Perticara, 1983 I. Rinaldi, Perticara, la miniera di zolfo, la sua gente, 1988 D. Marcucci – G. Paroli, Cabernardi la miniera di zolfo, 1992 B. Fabbri – A. Gianti, La miniera di zolfo di Cabernardi-Percozzone, 1993 E. Antinori, La buga. Storia “minore” della miniera di Perticara, 1994 P. Mattias – G. Crocetti – A. Scicli, Le zolfo nelle Marche. Giacimenti e vicende, 1995 G. Pedrocco (a cura di), Un mondo cancellato. Miniere e minatori a Cabernardi, 1995 Le foto provengono dall’archivio del Museo della Miniera di Cabernardi (Sassoferrato)
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Cabernardi. Minatori con maschere.
Cabernardi. Lo spaccio della Cooperativa Miniere.
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Il benessere
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La forbice alimentare nel mondo: da “Nutrire il pianeta, energia per la vita” a “Obesità, epidemia del terzo millennio” di Sandro Rappelli
L’EXPO 2105, apertosi a Milano, sottolinea giustamente il grave problema della fame nel mondo ed affronta a tutto campo le politiche agroalimentari attraverso le quali in ogni angolo del pianeta vi sia cibo per tutti. Poca attenzione, tuttavia, viene data al problema opposto rappresentato dall’impressionante crescita della percentuale di soggetti obesi nei paesi industrializzati. Da un lato, quindi, abbiamo oltre 800 milioni di persone che soffrono la fame e dall’altro milioni di persone rischiano gravi malattie a causa della sovralimentazione. Il problema della fame nel mondo è all’attenzione delle organizzazioni internazionali in particolare dalla fine della seconda guerra mondiale. S i n dalla sua nascita, nel 1945, l’ONU creava la FAO (Food and Agriculture Organization) che ha come compito primario quello di coordinare gli sforzi internazionali per sconfiggere la fame aiutando i paesi in via di sviluppo a modernizzare e migliorare l’agricoltura e la pesca per assicurare a tutti una buona alimentazione. Dal 1962 poi la stessa FAO, nell’ambito delle Nazioni Unite, dava il via al World Food Programme (WFP) agenzia che opera per conseguire i seguenti cinque obiettivi: Salvare vite umane e salvaguardare i mezzi di sussistenza nelle emergenze Prevenire la fame acuta, investire nella prevenzione dei disastri naturali e nelle misure di attenuazione del loro impatto Favorire la ricostruzione nelle fasi successive a un conflitto, a un disastro naturale o nei periodi di transizione Ridurre la fame cronica e la malnutrizione Rafforzare le capacità nazionali di lotta alla fame, anche attra-
verso la presa in carico, da parte dei governi locali, dei programmi WFP. Purtroppo tanta attenzione internazionale al problema della fame nel mondo in questi ultimi sessantanni non ha portato a significativi risultati se ancor oggi quasi un miliardo di persone ha difficoltà a procurarsi il cibo per sopravvivere. La stessa agenzia WFP attribuisce l’attuale scenario ad un insieme di fattori negativi quali i disastri naturali (inondazioni, tempeste tropicali, lunghi periodi di siccità) così come i conflitti tuttora presenti in Africa, Medio Oriente, Asia e America Latina. Tra i fattori naturali la siccità è oggigiorno la causa più comune della mancanza di cibo nel mondo. Nel 2006 siccità ricorrenti hanno causato il fallimento dei raccolti e la perdita di ingenti quantità di bestiame in zone dell’Etiopia, della Somalia e del Kenya. In molti paesi, il cambiamento climatico sta esacerbando le già sfavorevoli condizioni naturali. Ad esempio, gli agricoltori poveri in Etiopia o Guatemala, in assenza di piogge, tendono generalmente a vendere il bestiame per coprire le perdite e acquistare cibo. Tuttavia, anni consecutivi di siccità, sempre più frequenti nel Corno d’Africa e nel Centro America, stanno mettendo a dura prova le loro risorse. Per quanto riguarda poi i fattori umani, dal 1992 la percentuale delle crisi alimentari causate dall’uomo, di breve o lunga durata, è più che raddoppiata, passando dal 15 al 35 per cento e molto spesso sono i conflitti ad esserne la causa scatenante. In Asia, Africa ed America Latina, i conflitti costringono milioni di persone ad abbandonare le proprie case causando tra le peggiori emergenze alimentari globali. Basti pensare che dal 2004 nel Darfur sudanese oltre Le Cento Città, n. 54
un milione di persone ha dovuto abbandonare le proprie abitazioni a causa del conflitto con conseguente grave crisi alimentare in una regione ove di solito non mancavano piogge e buoni raccolti. A volte, in guerra, il cibo diventa un’arma. I soldati portano alla fame i nemici rubando o distruggendo il loro cibo e il loro bestiame e colpendo sistematicamente i mercati locali. I campi vengono minati e i pozzi contaminati per costringere i contadini ad abbandonare la propria terra. Quando, negli anni ‘90, la guerra sconvolse l’Africa centrale, la percentuale degli affamati passò dal 53 al 58 per cento. Invece, la malnutrizione diminuisce nelle zone più pacifiche del continente africano, come il Ghana e il Malawi. Nei paesi in via di sviluppo gli agricoltori spesso non possono permettersi l’acquisto di sementi sufficienti a produrre un raccolto che soddisferebbe i bisogni alimentari delle proprie famiglie. Agli artigiani mancano i mezzi per acquistare il materiale necessario a sviluppare le proprie attività. Molti altri non hanno né acqua, né terra né l’istruzione necessaria a costruire le fondamenta di un futuro sicuro. Gli indigenti non hanno abbastanza denaro per comprare o produrre il cibo necessario al sostentamento delle proprie famiglie. Essi diventano a loro volta troppo deboli per produrre il necessario per procurarsi più cibo. I poveri sono affamati ed è la stessa fame ad intrappolarli nella povertà. La soluzione del problema non può quindi prescindere da un lato da una prospettiva di pace che porti alla civile ed armonica convivenza fra i popoli e dall’altro al miglioramento delle tecniche agricole, delle
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Picnic di Fernando Botero.
infrastrutture adeguate a sostenere l’agricoltura con particolare attenzione all’irrigazione e a limitare l’eccessivo sfruttamento dell’ambiente. Va da sé che questi obiettivi sono alquanto ambiziosi ma non per questo possiamo permetterci di rinunciare a tentare di raggiungerli: in quest’ottica appunto si colloca la tematica dell’EXPO 2015. Come dicevo poco sopra, tuttavia, in un’ampia parte del mondo il cibo non solo è abbondante e facilmente acquistabile ma è assunto in quantità eccessive tanto da essere, unitamente ad altri fattori, la causa principale del sovrappeso e dell’obesità. Si pensi che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), se da un lato fa ogni sforzo per combattere la fame, dall’altra ha lanciato l’allarme obesità definendola l’epidemia del terzo millennio: questa rappresenta infatti un importante fattore di rischio per patologie croniche quali le malattie cardiovascolari (infarto, ictus, aneurismi ecc.), ipertensione arteriosa, diabete mellito, osteoartriti ed alcune neoplasie (mammella, utero).
Fino a circa la metà del secolo scorso il sovrappeso e l’obesità erano presenti in minime percentuali anche nelle nazioni a più rapido sviluppo economico industriale. Oggi invece l’OMS stima che circa un miliardo e mezzo di adulti nel mondo sia in sovrappeso e che, di questi, 500 milioni siano obesi. Ciò non stupisce se consideriamo che fino alla metà del XX secolo, oltre a non disporre di efficienti catene di distribuzione dei generi alimentari ed in assenza di mezzi di trasporto moderni, la gran massa delle popolazioni era soggetta ad un dispendio energetico quotidiano molto spesso non compensato da un adeguato introito calorico. Va poi considerato, inoltre, che sia la prima che la seconda guerra mondiale, coinvolgendo i paesi industrialmente e tecnologicamente più avanzati, hanno sottoposto per anni le popolazioni a rinunce e difficoltà alimentari. Premesso che l’obesità non è altro che l’eccessivo accumulo di grasso e che questo è in primis la conseguenza di uno squilibrio fra introito calorico e consumo Le Cento Città, n. 54
energetico non possiamo, tuttavia, dimenticare che a parità di apporto calorico-alimentare non tutti gli individui accumulano grasso nello stesso modo; in altre parole alcuni soggetti sono, geneticamente, predisposti ad accumulare il grasso adiposo mentre altri hanno un metabolismo più accelerato e non ingrassano. Se quindi la stragrande maggioranza della popolazione è geneticamente predisposta all’accumulo di grasso anziché al suo smaltimento, si comprende facilmente come con l’epocale cambiamento delle abitudini di vita dei paesi industrializzati negli ultimi decenni si sia assistito ad un’ impressionante crescita della percentuale di obesi. Da un lato abbiamo la facilità con la quale ci si procura ogni tipo di alimento anche sotto la spinta commerciale dei più svariati prodotti alimentari, i cibi preconfezionati e precotti e, dall’altro la vita è sempre più sedentaria: tra ascensori e scale mobili chi sale ancora le scale a piedi? Quanti vanno in auto a lavorare o anche solo a comprare il giornale, anziché a pie-
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L’alimentazione nel mondo è un problema epocale.
di? Ma anche soltanto alla guida dell’auto un tempo fra aprire e chiudere i finestrini e cambiare le marce, scendere ad aprire il cancello o il portone del garage si consumavano molte più energie. Seduti a guardare la televisione un tempo, per cambiare canale, bisognava alzarsi mentre oggi abbiamo il telecomando! Oggi tutto è automatizzato e se ciò non può non rappresentare una grande comodità non v’è dubbio che la sedentarietà gioca un ruolo non indifferente nello sviluppo dell’obesità. Abbiamo prima accennato al fatto che gli individui possono essere geneticamente diversi rispetto alla ritenzione o al dispendio delle calorie. Fra le teorie accreditate a spiegare, fra le altre, l’impressionante crescita dell’obesità vi è quella
del “gene risparmiatore”. Fin dall’antichità le probabilità di sopravvivenza alle carestie erano appannaggio di coloro che, geneticamente, erano predisposti ad accumulare grasso anche a fronte di scarsissimo apporto calorico mentre i soggetti geneticamente “dispersivi” morivano di fame precocemente. Ciò avrebbe portato, secondo la teoria di Darwin, ad una selezione naturale attraverso la quale al giorno d’oggi la stragrande maggioranza della popolazione è geneticamente portatrice del gene “risparmiatore”. Fino a quando, tutto sommato, fra guerre e carestie l’accesso al cibo non era poi così semplice l’obesità ed il sovrappeso erano piuttosto rari. Ma quando, come abbiamo visto negli ultimi decenni, accanto alla sedentarietà, l’accesso al cibo e
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di conseguenza l’introito calorico è enormemente cresciuto, la predisposizione ad accumulare grasso ha inevitabilmente favorito lo sviluppo dell’obesità. Le autorità sanitarie e le politiche internazionali sono quindi di fronte ad uno scenario paradossale: da una parte la stringente necessità di venire incontro ai bisogni alimentari di milioni dei persone affamate e dall’altra frenare la tendenza all’incremento del sovrappeso e dell’obesità nei paesi civilizzati. Questo maggior equilibrio delle risorse alimentari e del loro utilizzo nel pianeta è proprio l’obiettivo principale dell’EXPO 2015 che, ci auguriamo, possa condurre ad un maggior benessere e a preservare la salute di tutti.
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Le eccellenze agroalimentari marchigiane di Michele Balzano, Natale G. Frega
Sebbene le Marche rappresentino solamente il 3,8% della superficie agricola utilizzata italiana, il territorio regionale è caratterizzato da produzioni agroalimentari di notevole pregio sia dal punto di vista culinario che economico. Le industrie alimentari e delle bevande rappresentano il 9% dell’intero settore manifatturiero regionale. L’agroalimentare rappresenta quindi un’importante risorsa per gli agricoltori locali, nonché una vera e propria opportunità per l’occupazione. Prendendo in considerazione le certificazioni DOP (denominazione di origine protetta) e le IGP (indicazione geografica protetta) nella Marche è possibile annoverare rispettivamente sei ed otto. Della DOP si fregiano l’olio extravergine d’oliva Cartoceto, la casciotta d’Urbino, Formaggio di fossa di Sogliano, l’oliva ascolana del Piceno, il prosciutto di Carpegna e i salamini italiani alla cacciatora, mentre tra i prodotti IGP si possono annoverare l’agnello del centro Italia, il salame ciauscolo, la lenticchia di Castelluccio di Norcia, i maccheroncini di Campofilone, la Mortadella di Bologna, la patata rossa di Colfiorito e il vitellone bianco dell’Appennino centrale. Per il settore vinicolo va fatto un discorso a parte, sono presenti infatti 40 vini che possono fregiarsi delle certificazioni marchi DOCG, DOC e IGT. Le principali nonché le più interessanti produzioni tipiche regionali sono rappresentate da vino, olio formaggi e carni lavorate, alcuni prodotti di particolar pregio appartenenti a tali categorie rientrano anche nei disciplinari precedentemente citati. Degna di nota è anche una particolare tipologia di pesca, dalla caratteristica forma schiacciata, tale pesca saturnia si ben affermando nei mercati ortofrutticoli nazionali ed esteri.
La viticoltura occupa prevalentemente i versanti collinari esposti a mezzogiorno e contribuisce alla caratterizzazione di un paesaggio che esprime l’altissima vocazione sia dell’ambiente pedoclimatico sia della componente umana che ha trasferito nella moderna conduzione del vigneto l’antica sapienza contadina, frutto delle osservazioni e dell’esperienza in campo acquisita e sedimentata dall’avvicendarsi di tante generazioni. Le Marche sono sinonimo di pluralità in ogni espressione, proprio per questa ragione la viticoltura regionale si è concentrata da decenni ad oggi sulle identità autoctone, non a caso nell’elenco regionale delle varietà di vite idonee alla produzione ci sono ben cinquantadue vitigni, di cui trenta identificati col territorio. In questo contesto senza dubbio il Verdicchio, anch’esso plurale nella doppia accezione di Jesi e Matelica, con i suoi colori, odori e sapori irripetibili è il principe dei vini marchigiani. Nella Regione sono presenti sette vini a denominazione di origine controllata e garantita (DOCG) Castelli di Jesi Verdicchio riserva, Conero riserva, Offida rosso, Offida passerina, Offida pecorino, Verdicchio di Matelica riserva, Vernaccia di Serrapetrona, quindici vini a deLe Cento Città, n. 54
nominazione di origine controllata Bianchello del Metauro, Colli maceratesi, Colli pesaresi, Esino, Falerio, I terreni di Sanseverino, La lacrima di Morro d’Alba, Pergola, Rosso Conero, Rosso Piceno, San Ginesio, Serrapetrona, Terre di Offida, Verdicchio dei castelli di Jesi, Verdicchio di Matelica e ben diciotto vini a identificazione geografica tipica (IGT) Marche bianco, Marche rosso, Marche rosato, Marche bianco passito, Marche rosso passito, Marche rosato Passito, Marche bianco spumante di qualità, Marche rosso spumante di qualità, Marche rosato spumante di qualità, Marche bianco spumante di qualità di tipo aromatico, Marche rosso spumante di qualità di tipo aromatico, Marche rosato spumante di qualità di tipo aromatico, Marche bianco frizzante, Marche rosso frizzante, Marche rosato frizzante, Marche bianco novello, Marche rosso Novello, Marche rosato Novello. L’olio rappresenta un’altra importante produzione di qualità, nelle Marche sono coltivate più di trentadue varietà di olive, tra queste ventuno sono cultivar locali fortemente legate al territorio. Tra le varietà locali, si possono ricordare le dieci cultivar
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Salumificio a Carpegna.
più interessanti: la Coroncina, il Piantone di Falerone, il Piantone di Mogliano, la Rosciola, il Sargano, l’Orbetana, la Mignola, la Carboncella, la Raggia, la Raggiola. Alcune di queste cultivar danno origine ad oli monovarietali le cui produzioni, ancora a carattere sperimentale, lasciano intravedere interessanti prospettive un mercato di nicchia riservato ai consumatori più attenti, che non si accontentano di un olio qualsiasi. Inoltre la Regione vanta la DOP Cartoceto, la denominazione di origine protetta cartoceto si riferisce all’olio extravergine di oliva ottenuto dal frutto dell’Olea europea L. varietà Raggiola, Frantoio e Leccino, presenti negli oliveti, da sole o congiuntamente, in misura non inferiore al 70%. L’extravergine Cartoceto presenta un colore verde intenso con riflessi giallo oro o giallo oro con lievi note verdognole a seconda dello stadio di maturazione, un odore fruttato di oliva verde ed un sapore armonico, con una sensazione di fruttato verde, dolce, amaro e piccante. Ottimo il dosaggio tra amaro e piccante. Per tutte queste sue caratteristiche, l’olio extravergine di oliva Cartoceto DOP è condimento ideale per numerosi piatti, sia crudi che cotti. I formaggi tipici anch’essi di una vasta sentanza nella Regione, rini caratterizzano tutte
godono rapprei pecole zone
montane, ricche di pascoli, tra le produzioni di nicchia si distingue il pecorino conservato in botti di rovere, barili o tini, in cui viene lasciato fino a tre mesi avvolto in foglie di noce o, in alternativa, disposto a strati insieme ad erbe aromatiche o vinacce. Completano il panorama prodotti quali l il Casecc, il Caprino, il formaggio di fossa, lo Slattato, il Raviggiolo e infine il Cacio in forma di limone Salumi e insaccati tipici caratterizzano il territorio delle Marche. L’arte della lavorazione delle carni affonda le sue radici in un passato lontano ma non troppo, la famiglia mezzadrile infatti era solita utilizzare ai fini alimentari tutte le parti del maiale, proprio il connubio tra il recupero dei tagli meno pregiati e l’esigenza di utilizzare anche il lardo ha dato vita a due dei salumi più tipici del panorama regionale ovvero il salame di Fabriano e il Ciauscolo. Il primo, che rientra nella tipologia dei salami lardellati, è un composto di carne magra, pestata sottilissimamente, con l’aggiunta di lardelli a dadini, condito con sale e pepe nero e insaccato nel budello. Nel Ciauscolo invece, che vanta il riconoscimento della certificazione DOP, il lardo viene macinato ed amalgamato alla carne con la quale forma una pasta omogenea e facilmente spalmabile sul pane. La coppa di testa e il mazzafegato dimostrano come del maiale non si buttasse veraLe Cento Città, n. 54
mente nulla, mentre il principe dei salumi è senza dubbio il prosciutto di Carpegna, che ha ottenuto nel 1996 la denominazione di origine protetta (DOP). In fine lungo le dorsali collinari e le valli regionali abbondano i frutteti. Tra i frutti coltivati in regione il pesco è la specie più rinomata, già i poeti romani Orazio e Giovenale decantavano le qualità della “persica” picena. Delle pesche la saturnia® rappresenta una produzione di nicchia ma in grande ascesa sia nel panorama nazionale che estero. Tale pesca a forma di disco volante è considerata per le eccezionali caratteristiche organolettiche un gioiello della gastronomia marchigiana e uno dei diamanti dell’intero comparto agricolo nazionale al punto da conquistare un posto nelle cucine degli chef più blasonati d’Europa. Questa esplosione di richieste ha incrementato la produzione a tal punto che per la prossima raccolta è previsto un aumento del 30% con la conseguente produzione di 15000 quintali di pesche saturnia®. Numerose sono le potenzialità del settore agroalimentare marchigiano, tante produzioni si sono già affermate altre si stanno affermando ma senza dubbio il panorama delle eccellenze culinarie regionali è in continua crescita e differenziazione.
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Romano Folicaldi. Un’autobiografia per immagini di Alberto Pellegrino
Romano Folicaldi (1931) arriva a Fermo all’inizio degli anni Sessanta come primario del reparto di ortopedia dell’Ospedale Civile e nello stesso periodo, già appassionato di fotografia, entra a parte attiva del Centro per la Cultura della Fotografia di Luigi Crocenzi, importante autore neorealista e teorizzatore del racconto fotografico. Folicaldi si afferma ben presto come uno dei più interessanti a creativi fotografi italiani, partecipa a numerose mostre nazionali, espone in diverse personali a Roma, Milano, Fermo, Macerata, San Severino Marche, pubblica sue opere su quotidiani, riviste e antologie scolastiche. Per i meriti acquisiti nel campo della fotografia gli viene assegnato a Spilimbergo nel 2011 il Premio Friuli Venezia Giulia per un Autore italiano, giunto alla sua XXV edizione. Come autore Romano Folicaldi si è sempre mosso su due personali direttrici: la rappresentazione in chiave lirico-realista del paesaggio inteso come metafora del complesso mistero dell’umana esistenza, in quanto segnato da un costante rapporto con la presenza umana che ha prodotto una continua antropizzazione della natura; un’attenta e partecipata osservazione e rappresentazione di quella vita quotidiana che pulsa nelle segrete stanze della sua casa, nelle strade e nelle piazze delle città e dei paesi che ha scelto come soggetto narrativo. Infatti, una “costante” della fotografia di Folicaldi è quella della narrazione che può racchiudersi sinteticamente in una sola immagine o può svilupparsi attraverso più immagini coordinate secondo precise sequenze fotografiche (è sufficiente citare per tutti i racconti Quando i nostri figli erano piccoli; Il tempo, i riti, le immagini del cristo Morto di Monterubbiano; La Cavalcata dell’Assunta. Alba di macchine, lavoro, sabbia).
Giunto in una fase di bilanci esistenziali, Romano Folicaldi ha avvertito il bisogno di mettere insieme cinque “ricordi fotografici” che sono altrettanti racconti in un piccolo ma prezioso libriccino intitolato, parafrasando Enzo Iannacci, A tutti quelli che…se non ci fossero mica stati loro, queste fotografie non le avrei fatte…oh Yes! (Belvedere di Altidona, Fototeca Provinciale di Fermo, 2015). Folicaldi scrive: “Quello che le fotografie mostrano è il momento conclusivo di un rapporto cominciato molto tempo prima, magari con persone differenti che, tutte insieme, di queste hanno costituito la motivazione, attraverso i racconti che erano venuti prima di quel momento, l’esser stati portati fin su quel luogo, tanto da avere l’impressione che, di fronte a situazione di grande impatto anche visivo, l’unica cosa che ci mancava era quella di qualcuno che schiacciasse il bottone dell’otturatore”. Nella sua naturale modestia Romano tende a sminuire l’importanza determinante del suo essere fotografo, ma poi rivela il suo spessore culturale quando comincia a citare autori e narratori legati alla sua memoria e alla sua formazione: Robert Capa, Henry CartierBresson, George Orwell (Omaggio ala Catalogna), James Agee e Walker Evans (Sia Lode a Uomini di Fama), Woody Guthrie (Una Casa di Terra), l’amico Luigi Crocenzi di Conversazione in Sicilia, Orhan Pamuk (Istanbul), Minika Bulaj (Genti di Dio), Ugo Mulas e Roman Vishniac. Il primo ricordo è legato a uno dei più bei racconti di Folicaldi, una narrazione per immagini dal sapore elegiaco costruita intorno alla statua di Giacomo Leopardi (Odoardo Tabacchi, Fermo, 1874), un monumento che prende vita e diventa poesia iconica attraverso magiche atmosfere notturne impregnate di solitudiLe Cento Città, n. 54
ne, oppure nella diurna indifferenza degli adulti e il festoso giocare dei bambini nella piazzetta illuminata da un “taglio” di luce solare. Nel racconto Giuseppe Arimathea Dramatic Factory Folicaldi documenta e fissa la memoria storica del lavoro fatto da due scrittori firmani, Sandro Del Zozzo e Luigi Maria Musati, che hanno presentato in forma di dramma nel ciclo I Luoghi, La Memoria, le vicende di Oliverotto, di Ludovico Euffreducci, del condottiero Saporoso Matteucci e del Pittore Jacobello del Fiore che hanno segnato la vita politica, artistica e culturale della città di Fermo. Di quella intensa attività letteraria e teatrale, oltre ai tre volumi Poesia, Teatro, Pagine di Diario di Del Zozzo, rimangono le immagini di Romano a documentare il lavoro di laboratorio e alcune rappresentazioni teatrali come gli scatti eseguiti durante le prove di Due Drammi Celtici di Yeats, immagini che colgono l’effimera vita di una rappresentazione teatrale per fissare nella memoria collettiva quel particolare momento di magia artistica. In Romano Folicaldi anche lavori di pura documentazione diventano racconto fotografico imbevuto di significati più o meno nascosti come nel caso di Momenti del restauro di Palazzo Buonaccorsi a Macerata, dove un passato di grande bellezza e spessore culturale sembra riprendere vita sotto le mani di abili artigiani e restauratori, attraverso le immagini suggestive di Romano. Ancora immagini che diventano storia nella loro assoluta originalità e unicità sono quelle che formano l’inedito racconto nato intorno all’Atelier Le Corbusier fondato nel 1970 in un vecchio edificio nel Sestiere Canaregio, Fondamenta, Parochia San Giobbe, vulgo Sant’Agiopo, dove si era insediato un gruppo di gio-
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Notturno leopardiano
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Arimathea Dramatic Factory
Le Corbusier a Venezia
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Le Corbusier a Venezia il progetto del Nuovo Ospedale
Le Valli di Comacchio
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Le nebbie a Comacchio
vani architetti per rendere esecutivo il progetto generale che Le Corbusier aveva redatto per la costrizione del Nuovo Ospedale di Venezia per conto degli Ospedali Civili Riuniti. Quel progetto non è stato mai realizzato e nonostante gli sforzi di quei giovani progettisti “l’ospedale avrebbe finito per essere inghiottito nella laguna come era accaduto ai progetti di Frank Lloyd Wright e di Louis Kanh…Timidezza, gelosia, impotenza, mediocrità…poco importa: Era adnata perduta una magnifica opportunità per Venezia e per il mondo” (Josè Oubrerie). A ricordare
quella straordinaria avventura creativa rimangono soltanto le fotografie che Romano Folicaldi ebbe la fortuna di scattare l’11 maggio 1970 accompagnato dall’arch. Giuliano Gresleri. Siamo giunti al quinto e ultimo “ricordo” intitolato Le Valli di Comacchio, magico luogo della memoria legato ai racconti materni pari per fascino al Mar dei Sargassi percorso dalle salgariane Tigri della Malesia. In questo intreccio di canali, dove il mare s’insinua tra la costa emiliano- romagnola e la costa veneta, Folicaldi si muove con la sua macchina fotografica tra barche
e poveri capanni di canne di cacciatori e pescatori, tra acquitrini e piccole isole segnate dalla presenza dell’uomo che un tempo le abitava in case ormai ridotte a scheletri di pietra. Qui siamo lontani dalla fascinosa presenza del mare nella laguna di Venezia, qui il paesaggio è dominato da cortine di nebbia, dove uomini e cose emergono e si perdono come fantasmi ed anche quando la prua di una barca sembra puntare verso l’alto mare una barriera di nebbia sembra voler nascondere l’eterno mistero dell’infinito.
La pubblicazione de Le Cento Città avviene grazie al generoso contributo di
Carifano (Gruppo CreVal), Co.Fer.M., Fox Petroli, TVS Si ringrazia per la collaborazione Banca dell’Adriatico - Gruppo Intesa Le Cento Città, n. 54
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