Centocittà n.59

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59|2017

Sped. in a.p. - 70% - Filiale di Ancona

Rivista di divulgazione culturale e artistica del territorio marchigiano

ARTE | STORIA | ARCHEOLOGIA | LETTERATURA | SOCIETÀ | MUSICA | SCIENZE

LA FONTANA DI CUCCHI

Luigi Benelli Adolfo Morganti Paola Cimarelli Silvia Vespasiani Paolo Groff Dante Trebbi Alberto Pellegrino Alessandro Rappelli

Porto di Ancona vetrina d’arte NUMERO 59 | 2017

Marco Belogi Gaia Pignocchi Mara Silvestrini Federica Facchini Franco Elisei Claudio Sargenti Fabio Brisighelli Bruna Baiocco Romano Folicaldi

Dalla Cina a Fermo, la nuova via della musica

Mariotti: I miei ricordi più amati del Rof

Malgrado il sisma a Camerino cresce l’Ateneo

A PAGINA 29

A PAGINA 21

A PAGINA 55

NUMERO Euro 6,00

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CO. FER. M.

s.p.a. COMMERCIO ROTTAMI ACCIAIO INOSSIDABILE, FERROLEGHE, METALLI, FERRO

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info@coferm.it www.coferm.it Le Cento Città , n. 56


Editoriale

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Come vivere appieno l'infinita bellezza della regione Marche

N di Marco Belogi Presidente de Le Cento Città

ell’arco di questa mia presidenza che volge al termine ho cercato, insieme a quanti hanno con me condiviso i vari itinerari da tempo programmati, di vivere l’infinita bellezza della nostra regione. Le Marche vantano un patrimonio culturale che davvero stupisce. Oltre mille monumenti storici, un centinaio di città d’arte, migliaia di chiese tra cui duecento romaniche, più di quaranta abbazie tuttora integre, quasi duecento santuari, circa quaranta siti archeologici, oltre settanta teatri storici, numerosi musei e biblioteche con oltre quattro milioni di volumi. Un mare di testimonianze generate da un grande passato all’insegna di un plu-

ralismo carico di sorprese, che si distingue in una varietà di epoche, di stili, tradizioni e suggestioni davvero impagabili e che vale sempre la pena di tornare ad ammirare. Oltre a ciò, le sue coste di quasi duecento chilometri offrono il volto più famoso della regione al grande turismo.

Eppure sono le colline a rappresentare l’essenza e la tipicità di questa terra dove il paesaggio è stato trasformato e modellato dall’uomo fino a formare quello che Piovene definiva un grande giardino. Luogo propizio alla poesia dove toni ricorrenti sono la serenità, la dolcezza, la misura, l’armonia, il forte senso del tempo storico e soprattutto quel sentimento dell’infinito di cui si è fatto interprete Leopardi e che sta al di là di ogni collina marchigiana. S’aprono alla vista gli spaziosi campi e i lieti colli, scrive Leopardi rivolgendosi alla luna. Lo conferma Cardarelli, che nella sua vita aveva due grandi amori: le Marche del padre e quelle di Leopardi. Scrive: ridotto nella sua essenza poetica, il paesaggio marchigiano è quale noi lo conosciamo in Leopardi: bellissimo, dolce, e nondimeno avaro di ogni facile e umana consolazione. Lo riconferma Carlo Bo: le Marche vivono per aria, sospese dentro un’idea di poesia quanto mai libera. Proprio davanti a queste infinite colline, dove la natura è in stretta relazione con l’anima, si è fermato il nostro sguardo. Sull’alta schiena dei dossi arrotondati, dove il vento che ci riporta all’aquilone del Pascoli e le nuvole corrono dritti verso il monte o verso il mare, le querce si ergono a sentinelle del territorio e i fossi sono circondati da pioppi e robinie. Tra bruschi calanchi e rupi coperte di ginestre, tipico fiore di questa terra dai molti confini e dalle tante vallate chiuse tra loro, ma aperte al sole che nasce, abbiamo percepito questi sentimenti. Ed è proprio qui, in questo im-


Editoriale

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Mille monumenti storici, centinaia di città d’arte migliaia tra chiese e abbazie e oltre 4 milioni di volumi nelle biblioteche

pareggiabile paesaggio, dove sorgono città e paesi, sfuggenti e misteriosi, disseminati a guisa di balconi strategici che guardano il mare, con l’alto profilo delle loro mura, torri e chiese, che scopri tesori inaspettati. Ognuno una storia, un capolavoro ,una tradizione. Loreto, scrigno d’arte e di fede, porta il primato. Dal paesaggio naturale al paesaggio interiore

Nella pagina precedente le stupende colline marchigiane nello sfondo della pala del Bellini Qui sopra, il monastero di Fonte Avellana Foto di copertina di Sergio Giantomassi

Abbiamo iniziato dal monastero di Fonte Avellana, alle pendici del monte Catria, con cori e con versi di Dante, poi Pergola con i suoi palazzi e i Bronzi Dorati, quindi Arcevia, l’antica Rocca Contrada, con i suoi castelli e il rinnovato palazzo Pianetti. A seguire, la vista mozzafiato di Casteldimezzo, sospeso sul mare, con il suo Crocefisso miracoloso venuto da lontano e con ancora l’eco delle musiche dei giovani allievi del conservatorio pesarese. Loreto, dimora finale dello sfortunato Lotto, rivisitato nei suoi ultimi lavori. Camerino, città ducale

ferita profondamente, insieme a Matelica, dal recente sisma, ma più che mai viva nel suo antico ateneo. Castignano, paese coronato dai Sibillini, monti azzurri che evocano atmosfere e miti di altri tempi, luoghi da favola. Infine il castello di Barchi, che domina fino al mare stupende colline, posto sui confini meridionali del ducato di Urbino e ridisegnato come cittadella ideale da Filippo Terzi prima della fortunata carriera portoghese. Ogni volta che salgo in queste Terre Roveresche, dove sono nato, ritrovo un paesaggio, certo cambiato, ma che riconosco come familiare, pieno di straordinaria poesia. E diventa allora inevitabile quel richiamo pieno di tenerezza antica, di struggente nostalgia che mi porta sempre a ritornare in questa terra dove il paesaggio naturale scompare e lascia il posto alla rappresentazione di un paesaggio interiore: non più colline con campi coltivati, borghi, rocche, ma nostalgie, emozioni, ricordi… ¤


Editoriale

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Sommario 7

Archeologia

La realtà di Ancona prima di Ankon DI GAIA PIGNOCCHI E MARA SILVESTRINI

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L’artista

Cucchi, la fontana dell’accoglienza DI FEDERICA FACCHINI

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Mare Adriatico

Da Porta d’Oriente a grande polo strategico DI CLAUDIO SARGENTI

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L’intervista

Da Abbado a Ronconi i ricordi amati del Rof DI FABIO BRISIGHELLI

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La danza

Il fascino del tango seduzione infinita DI BRUNA BAIOCCO

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Conservatorio

Da Pechino a Fermo sulla via della musica DI ROMANO FOLICALDI

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L’anniversario

Raffaello e i suoi amici il progetto di Urbino DI LUIGI BENELLI

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Cultura a confronto

L'opera di Tucci ponte tra Europa e Asia DI ADOLFO MORGANTI


Argomenti

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Sommario 37

Il post-terremoto|1

La grande bellezza rinasce dalle macerie DI PAOLA CIMARELLI

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Il post-terremoto|2

Terre ferite dal sisma la forza di ripartire DI SILVIA VESPASIANI E PAOLO GROFF

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Storia delle Marche

Dal telegrafo ottico alla linea vaticana DI DANTE TREBBI

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Il personaggio

La commedia di Caro specchio reale del Cinquecento DI ALBERTO PELLEGRINO

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Freschi d’Accademia|1|2|3|4 > Camerino, università europea > Una scoperta contro la malaria > Il welfare nel nord Europa > Onde gravitazionali, ultima sfida

Le Cento Città Direttore responsabile Franco Elisei Direttore editoriale Maurizio Cinelli Comitato editoriale Fabio Brisighelli Mara Silvestrini Natale G. Frega Silvia Vespasiani Direzione, redazione amministrazione Associazione Le Cento Città redazionecentocitta@ gmail.com

Progetto grafico Poliarte Accademia di design Ancona Coordinamento progetto grafico e impaginazione Prof. Sergio Giantomassi Stampa Errebi Grafiche Ripesi Falconara M.ma Presidente Le Cento Città Marco Belogi

Sede Via Asiago 12 60124, Ancona Poste Italiane Spa spedizione in abbonamento postale 70% CN AN Reg. del Tribunale di Ancona n.20 del 10/7/1995 Prezzo rivista 6,00 Euro Abbonamento annuo 20,00 Euro per 4 numeri


Archeologia

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La realtà di Ancona prima di “Ankon” LE TESTIMONIANZE DELL'ETÀ PREISTORICA E PROTOSTORICA

L

di Gaia Pignocchi e Mara Silvestrini

Frammento di ceramica rusticata da piazza Malatesta

a storia antica della città di Ancona è nota soprattutto in relazione alla tradizione letteraria della colonizzazione siracusana di Ankon, secondo la menzione dello storico latino Strabone, collocabile tra il 388 e il 383 a.C., della quale mancano però ancora testimonianze archeologiche, e soprattutto alle successive fasi di romanizzazione, ben note a partire dall’inizio del II secolo a.C. attraverso i resti di strutture architettoniche, edifici monumentali e i ricchi corredi della necropoli ellenistico-romana, ampiamente estesa tra il colle dei Cappuccini e il colle Cardeto. In realtà l’area collinare del centro storico di Ancona su cui si estendevano gli abitati piceni e la città romana, il colle Guasco, il colle dei Cappuccini e il colle Cardeto, ha conosciuto una lunga e pressoché ininterrotta continuità insediativa anche in età pre-protostorica, favorita da un contesto ambientale particolarmente favorevole e dalla posizione privilegiata alle propaggini settentrionali del promontorio del Monte Conero. Le testimonianze pre-protostoriche di Ancona dall’età del Rame, all’età del Bronzo fino alla prima età del Ferro, sono poco note in quanto non hanno lasciato tracce visibili nel tessuto urbano, ma hanno restituito materiali ceramici, litici e in metallo che consentono di ricostruire la sequenza cronologica degli insediamenti dal III al I millennio a.C. e le attività praticate dalle comunità che si sono succedute. Reperti che sono esposti al

Museo Archeologico Nazionale delle Marche e consentono di seguire le tappe storiche e culturali dei primi nuclei insediativi stanziatisi nelle aree più favorevoli alle attività economiche e produttive ancora basate sullo sfruttamento agricolo e silvo-pastorale del territorio, ma che andavano sviluppando anche necessità commerciali marittime. I primi insediamenti Sono due gli ambiti territoriali nei quali sono sorti i primi insediamenti anconetani, da una parte i rilievi collinari del Guasco, Cappuccini e Cardeto che si snodano da nord-ovest a sud-est formando il caratteristico promontorio a forma di gomito che cinge il golfo a settentrione, interessati anche dalle successive fasi di urbanizzazione della città in età storica, e sul versante opposto dell’ampia insenatura naturale di Ancona, il colle del Montagnolo, in posizione dominante sul mare, rimasto sempre periferico all’urbanizzazione di età moderna. Rinvenimenti ottocenteschi, campagne di scavo condotte dalla Soprintendendenza Archeologica delle Marche tra gli anni ’50 e ’80 del secolo scorso e lo studio e la revisione dei materiali provenienti dagli insediamenti pre-protostorici hanno consentito di avere un quadro più dettagliato e certo della successione cronologica. Pendici del colle Cardeto Il primo rinvenimento in ordine di tempo e anche il più antico risale al 1872, quando


Archeologia

Materiali ceramici litici e in metallo dall’età del Rame a quella del Ferro permettono di ricostruire la storia degli insediamenti

8 in un terreno esterno alla cinta muraria di Ancona subito fuori l’ex Porta Cavour, alla base del versante meridionale del Colle Cardeto, si rinvenne una tomba isolata di età eneolitica (3600-2200 a.C.) dotata anche di lastra di chiusura in pietra in cui giaceva “uno scheletro con la testa rivolta a nord adagiato in un rotondo tufo e alquanto concavo al centro e con attorno parecchie silici lavorate”, reperti purtroppo andati dispersi. Poco distante e ad una quota di poco superiore al precedente rinvenimento, nel 1902, all’inizio di via del Mattatoio (oggi corso Amendola), alle pendici meridionali del Colle Cardeto, in occasione dello scavo di tombe di età preromana e romana (Brizio 1902, Ciavarini 1902) è affiorato un livello insediativo di età preistorica con frammenti di ceramica “lavorata a mano e mal cotta” e “selci lavorate”. Anche in questo caso la mancanza di documentazione non consente un’analisi più precisa, ma si potrebbe ipotizzare la relazione tra questo insediamento e la vicina tomba risalente all’età del Rame (Eneolitico) (3600-2200 a.C.), che non sappiamo se fosse isolata o parte di una necropoli. Piazza Malatesta Nella fase avanzata dell’Eneolitico - età del Rame (28002300 a.C.) si colloca l’importante insediamento di Piazza Malatesta, ubicato nella sella tra i due colli Cardeto e Cappuccini, dove, al di sotto del livello della necropoli picena, nel 1981 sono affiorati i resti di un villaggio dell’età del Rame in parte danneggiati dalla successiva area cimiteriale (cavità diverse per

forma e dimensioni, carboni, pietre, frammenti dell’intonaco delle capanne e una notevole quantità di frammenti di ceramica insieme a fuseruole fittili e manufatti litici). La particolare decorazione rusticata della ceramica d’impasto lavorata a mano e la tipologia di alcune anse di tazze e contenitori colloca l’insediamento di Piazza Malatesta in una rete di contatti e di interrelazioni che coinvolgono ampiamente le regioni centrali, sia adriatiche che tirreniche nella fase avanzata dell’età del Rame. In questo periodo l’economia era ancora basata essenzialmente sull’agricoltura, l’allevamento e la pastorizia, e ne è testimonianza la scelta del sito, un terreno all’epoca in prossimità di corsi d’acqua e non a diretto contatto con il mare. Colle del Montagnolo A ridosso del lato sud-occidentale del golfo di Ancona si erge la collina del Montagnolo che ha restituito materiali riferibili alla media e recente età del Bronzo (seconda metà II millennio a.C.), oltre a ceramica greca di V e IV secolo a.C. e a reperti di età romana, documentando una lunga continuità di insediamento. Saggi di scavo condotti dalla Soprintendenza Archeologica nel 1982 hanno permesso il recupero del materiale purtroppo rimescolato a causa di eventi franosi che hanno interessato il versante del colle anche in epoche antiche, precedenti l’evento della recente e meglio nota frana “Barducci” che proprio nel dicembre 1982 interessò le pendici del colle e il tratto di costa tra Posatora, il Borghetto e Torrette. Dunque un’area anche in antico interessata da dissesto idro-geologico e che infatti non venne più abitata nel periodo successivo all’età ro-


Archeologia

mana, ma che nelle epoche precedenti era stata scelta per la posizione strategica e privilegiata con ampia visuale sul mare e sul golfo. Frammenti di ceramica L’insediamento del Montagnolo è noto soprattutto per il rinvenimento di tre frammenti di ceramica micenea (Tardo Elladico IIIB-C corrispondente al Bronzo Recente in Italia: 1350-1150 a.C.) che recenti analisi chimiche e petrografiche hanno dimostrato essere di produzione locale. Dunque ceramiche lavorate al tornio altamente specializzate, simili per forme ai modelli italo-micenei fabbricati nell’Italia meridionale, che attestano il ruolo attivo e strategico dell’abitato del Montagnolo nell’età del Bronzo Recente, al centro degli scambi commerciali lungo il versante adriatico tra mondo egeo, Italia meridionale e area settentrionale padana e terramaricola. Colle dei Cappuccini Sul versante meridionale del Colle dei Cappuccini, nel età del Bronzo sorse un nuovo insediamento ubicato nell’area tra via Fanti e via del Faro, posteriormente alla chiesa di San Francesco alle Scale, alle pendici di un colle protetto dai venti e affacciato direttamente sul mare. Qui nel 1955 si rinvennero i resti di un insediamento protostorico caratterizzato da un lungo periodo di frequentazione che dal Bronzo medio (1450 – 1350 a.C. e poi soprattutto dal Bronzo finale (1150-900 a.C.) attraverso le fasi della prima età del ferro è proseguito senza soluzione di continuità fino al Piceno IVB (520-470 a.C.) Anche la posizione di questo abitato, speculare a quello del Montagnolo e prospiciente l’estremità opposta del

9 golfo a controllo dell’approdo naturale orientale dell’ampia insenatura, riflette l’importanza che il mare aveva assunto nell’economia delle comunità che vivevano sul golfo di Ancona tra la media età del Bronzo e l’età picena. Lo stretto legame economico e di sussistenza dell’abita-

to del Colle dei Cappuccini con il mare è fornito da una parte dai tantissimi resti di valve di molluschi utilizzati a scopo alimentare, molto abbondanti nei livelli del Bronzo Finale, dall’altra dalla presenza di un frammento di ceramica attica a figure nere di importazione del primo quarto del V sec. a.C. Necropoli picena Poco più ad est e a valle dell’abitato piceno del Colle dei Cappuccini, alle pendici meridionali del colle Cardeto, in direzione dell’attuale Piazza Malatesta e dell’ex Ospedale Umberto I, nella prima età del Ferro sorse anche la più antica necropoli picena (IX-VIII sec. a.C.) di Ancona, con prevalenza di tombe ad inumazione con scheletro in posizione rannicchiata sul fondo di ghiaia e tre tombe ad incinerazione di IX sec. a.C. con i resti del cremato deposti entro un vaso biconico di terracotta posto all’interno di un

Nella pagina precedente frammento di ceramica micenea del colle del Montagnolo Qui sopra, Olla Daunia del Colle Guasco


Archeologia

I primi insediamenti sono avvenuti nei colli del Guasco dei Cappuccini e del Cardeto da una parte Montagnolo dall'altra

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pozzetto chiuso da una lastra. Le tombe degli inumati, sia maschi che femmine, definiscono il ruolo dei defunti, guerrieri o donne di rango elevato con ancora pochi oggetti di corredo, rasoi, poche armi, oggetti di ornamento (uno spillone per quelle più antiche e al massimo tre fibule per quelle più recenti, vaghi di pasta vitrea e ambra). Poco distante dall’abitato del Colle dei Cappuccini nel 1956 è venuta alla luce una tomba del VII sec. a.C. di un individuo connotato come guerriero e pescatore per l'associazione di vari tipi di armi ormai in ferro (una punta di lancia, una spada ricurva e un’ascia) con strumenti per la pesca (due ami e due arpioni). Un personaggio di rango sociale elevato contraddistinto da oggetti emblemi delle attività che lo hanno distinto (la guerra e l’attività marinara) e da un simbolo di potere come l’ascia. Colle Guasco

In alto, materiali del colle dei Cappuccini conservati al museo Archeologico Nazionale delle Marche Qui sopra, la tomba del guerriero-pescatore del colle dei Cappuccini

In questo stesso periodo sul Colle Guasco sorgeva un altro abitato piceno affacciato direttamente sul porto naturale sottostante, da dove provengono frammenti di olle in ceramica daunia, una produzione tipica della Puglia settentrionale molto commercializzata nel VIII e VII sec. a.C. tra le due sponde adriatiche. Già nell’VIII e poi soprattutto nel VII sec. a.C. gli insediamenti del Colle dei Cappuccini e del Guasco sono infatti attivi nel circuito di scambi con i Liburni, stanziati sull’opposta sponda adriatica, at-

traverso una rotta di piccolo cabotaggio che interessava anche altri centri piceni della costa, tra cui Numana. Numana alla fine del VII e poi soprattutto nel VI e V sec. a.C. diverrà un importantissimo centro di attività commerciali grazie al suo porto naturale a sud del Monte Conero , soppiantando lo scalo di Ancona fino alla fine del IV e all’inizio del III sec. a.C., quando la città dorica riprese il suo ruolo attivo come città commerciale durante la fase terminale dell’età picena e nei primi anni della romanizzazione, tra II e I sec. a.C. Via Pio II In questo periodo (fine IV-II sec. a.C.) si colloca l’abitato individuato nella sella tra il colle Guasco e il Colle dei Cappuccini, dove poi sorgerà l’anfiteatro romano, in corrispondenza della attuale via Pio II, l’unica testimonianza archeologica di tipo insediativo a documentare il passaggio tra la fase picena proto-urbana e la fase urbana connessa con l’inizio della romanizzazione di Ancona (scavi Soprintendenza Archeologica delle Marche 1978). Agli inizi del II sec. a.C. Ancona divenne anche base militare per la nuova potenza romana impegnata nella guerra contro gli Illiri (179-178 a.C.), pur conservando la propria autonomia e una forte componente greca ben evidente nella composizione dei ricchi corredi funerari e nelle stele funerarie in marmo e in pietra calcarea con iscrizione in lingua greca. Ma questa è un’altra storia… ¤


L’artista

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ANCONA, CELEBRA L'ALBA E IL TRAMONTO L'OPERA SCULTURA CHE SI RIFÀ ALLE FAMOSE "13 CANNELLE"

Fontana dell’accoglienza Cucchi nel porto antico

C di di Federica Facchini

elebra l’alba e il tramonto della città dorica la “Fontana dei Due Soli”, opera-scultura di Enzo Cucchi che ha inaugurato al pubblico lo scorso 1 giugno al Porto Antico di Ancona. Il titolo dell’opera evidenzia infatti la possibilità di vedere dalle sue sedute, il sorgere e il declinare del sole sul mare, una caratteristica di cui il capoluogo marchigiano si fregia, grazie alla forma “a gomito” della sua linea di costa. La fontana monumentale che si staglia nello spazio poco oltre l’arco Clementino, tra le mura romane e il mare, sulla banchina, rappresenta un progetto che valorizza ciò che esiste e apre a nuove prospettive, integrando opere del passato con quelle del presen-

te. Un anello di congiunzione con la vicina Mole ma anche tassello nel recupero del rapporto porto-città, già avviato. Lunga quindici metri e larga quattro, la fontana è composta da tredici cannelle di acqua salata riciclata e una laterale di acqua potabile e si sviluppa su un corpo centrale e su due laterali con funzioni di seduta. Una chiara citazione alla Fontana del Calamo, al centro della città, «come se le due fontane si salutassero», ha spiegato l’artista. Ma se quella rinascimentale di Corso Mazzini è strettamente vincolata dalla Soprintendenza, quella realizzata dall’artista marchigiano può invece essere vissuta concretamente: è infatti funzionale per dare sollievo a viaggiatori


L’artista

Per la prima volta un’opera dell’artista non solo da ammirare ma da vivere all’interno di un porto

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e cittadini, che possono camminarci dentro, con i piedi nell’acqua, in uno spazio tra le due sedute percorribile anche dai disabili in carrozzina. Un’opera non solo da ammirare ma da vivere e percorrere. Realizzata interamente in pietra bianca d’Istria bocciardata, la Fontana è decorata da grandi piastrelle di colore nero lucido modellate a bassorilievo da un laboratorio di ceramiche fiorentino. Alcune di queste - poste orizzontalmente - raffigurano, attraverso l’inconfondibile stile dell’artista, i principali topoi di Ancona: dalla Mole Vanvitelliana, alla cattedrale di San Ciriaco, dall’Arco di Traiano alla Lanterna rossa. Quelle poste in verticale a ritmare i tredici getti d’acqua giocano sulla ripetizione di coppie di mani, che generose porgono al viator il bene più prezioso, l’acqua. La “Fontana dei Due Soli” pertanto si carica di simbologie: quelle materiali, legate

ai luoghi storico-architettonici della città, ed immateriali perchè riconducibili a concetti quali l’accoglienza, la condivisione e la riappropriazione di uno spazio. Per la prima volta un’opera di Cucchi dentro un porto, cuore pulsante della città di Ancona. Frutto di sinergia tra l’Autorità di sistema portuale del Mare Adriatico centrale, il Comune di Ancona (con parte dei 750 mila euro destinati al progetto Mole Materia dell’uomo) e Fondazione CariVerona, la Fontana di Enzo Cucchi al Porto Antico è costata 130 mila euro anche se la sua valutazione ammonterebbe a 500 mila. C’è da dire che a convincere Cucchi a creare qualcosa per Ancona sono stati il presidente dell’Authority portuale Rodolfo Giampieri e il gallerista anconetano Giancarlo Gioacchini, entrambi amici dell’artista. «Da un paio d’anni anni – per il sindaco di Ancona Valeria


L’artista

Mancinelli durante la serata di inaugurazione - Ancona vive belle novità: dall’apertura del Porto Antico all’ascensore del Passetto, simboli della città. Prende forma la passeggiata da mare a mare, dal porto al Passetto. Ora nel Porto Antico ora c’è una nuova protagonista: la fontana di Cucchi». Per il presidente dell’Autorità Portuale Rodolfo Giampieri «il porto del lavoro si sposa con il porto dell’accoglienza. Un’opera che merita attenzione e rispetto». «Ancona sta crescendo molto, è giusto che noi contribuiamo a farla crescere» ha affermato invece Giampaolo Giampaoli - rappresentante della Fondazione CariVerona. Per l’artista infine «Quella del mare è una presenza importante: fuga dai pensieri e liberazione del cervello». Era importante lasciare un segno con un oggetto che costituisse un luogo di sollievo, una pausa, un’oasi. Un segno di accoglienza». E non parla di ispirazione, anzi, la rinnega. «Non ci credo. Quando decidi di fare un’opera, devi porre attenzione all’ambiente, a quello che vedi, alla sua storia. Fai riposare un po’ l’immaginazione e prendi in considerazione tutti i segni che ti circondano, poi li organizzi in un’armonia, nella tua visione». Sulla bellezza delle formelle che decorano la fontana? «Non sta a me dirlo! Io ho pensato a un’azione etica, prima che estetica. Anche la bellezza ha una sua etica, e questo andrebbe ripetuto in tutta Italia, per non sperperare le bellezze che la storia ci ha lasciato». Non cede troppo al racconto personale Cucchi, non si racconta. L’artista ha lodato la bellezza di Ancona «una città incredibile, con un porto disegnato in maniera eccezionale», ma non si può dire lo stesso del suo legame con il capoluogo. «Mi sento

13 un frigorifero ogni volta che vengo ad Ancona – aveva detto nell’ultima apparizione in pubblico al ridotto del Teatro delle Muse durante la presentazione dell’opera per la città, in conversazione con Francesco Merlo, scrittore ed editorialista di Repubblica – non ho un rapporto facile con la città». Così alla domanda di Merlo che gli ha chiesto un luogo dove si riscalda, ha risposto «dove c’è il sole» e, con una battuta, ha detto: «Sono contento che questa fontana sia dedicata ai due soli, così finalmente potrò riscaldarmi anche qui». Ecco, l’opera-scultura assume il valore di una “ricucitura” del rapporto tra l’artista e la Dorica. Anche se è trapiantato a Roma dalla fine degli anni ‘70, è marchigiano di nascita Enzo Cucchi (Morro d’Alba, AN,1949), uno dei protagonisti italiani della scena artistica internazionale e noto principalmente per essere stato insieme a Sandro Chia, Francesco Clemente, Nicola De Maria e Mimmo Paladino tra gli esponenti storici di quel movimento che Achille Bonito Oliva battezzò nel 1980 come “Trasavanguardia Italiana”. Dalla sua marchigianità Cucchi non si è mai slegato e lo dimostra il suo segno appunto, che dà vita ad un universo poetico spesso allusivo al mondo popolare e alla sua cultura. Un segno incisivo, che si trasforma in un insieme di forme archetipiche ma che hanno capacità di racchiudere la complessa antropologia visiva del XX secolo. Una certa crudezza attraversa la poetica di Enzo Cucchi: la guerra, il conflitto, sono le tematiche fondamentali che traspaiono dalla sua opera pittorica; ricca di rappresentazioni di teschi, concorre a rafforzare la netta separazione tra bene e male, in un conflitto continuo e perenne. Cucchi ha sempre perseguito un proprio caratteristico lin-

Cucchi: Anche la bellezza ha una sua etica e questo concetto andrebbe ripetuto in tutta Italia

Nella pagina a sinistra in alto, l'artista Enzo Cucchi all'inaugurazione della sua Fontana dei due Soli con Federica Zandri; sotto, il sindaco di Ancona Valeria Mancinelli all'interno dell'opera In alto, la folla incuriosita e qui sopra Cucchi con Rodolfo Giampieri Presidente dell'Autorità Portuale


L’artista

Altre opere di Cucchi nelle Marche: a Pesaro Senigallia Falconara e Macerata

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guaggio simbolico attraverso una trasversalità espressiva che si muove tra disegno, pittura, scultura, teatro, architettura e design. Se la sua pittura coincide con un uso personale dei colori, a volte violenti, a volte solo accennati, a volte addensati a volte stirati, la sua espressività viene declinata anche in una sperimentazione di tecniche artistiche ad ampio raggio: dalla pittura alla ceramica, dal mosaico al bronzo. Linguaggi differenti ma nei quali si manifesta con coerenza stilistica, l’incursione continua nel territorio culturale e in quello delle emozioni, l’aggregazione di forme e concetti, la perdita delle coordinate spazio temporali. Impieghi di varie tecniche dunque connotano la produzione artistica di Cucchi, cui si aggiunge una componente istintuale, mossa da quell’ansia di comunicazione che si tramuta in furor artistico che spinge l’autore ad un gesto

artistico spontaneo, aggressivo, violento. L’urgenza comunicativa di imprimere l’estro creativo, la sensazione, sul supporto impiegato di volta in volta, sembra quasi scavalcare ogni sorta di progettazione, di sistematica organizzazione del materiale e dell'intenzione. Un moto di azioni casuali che tuttavia non si percepisce ma che viene assorbito nella narrazione che si compone di immagini fantastiche in una continua commistione di ambiti e saperi, dalla storia alla mitologia passando per la filosofia. Una sinergia tra le arti di cui ha lasciato piena testimonianza anche nelle Marche. Era il 1982 quando a Pesaro realizzò per il Rossini Opera Festival i costumi per “La Bottega Fantastica”; successivamente fu ospitato, con due importanti mostre, anche dalla Pescheria allora rinnovata in Centro Arti Visive: “Quadri al Buio sul Mare Adriatico” (2001) e “Il Segno Marchigia-


L’artista

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Il porto di Ancona, nuova e antica vetrina d’arte

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i sono i simboli di Ancona nella Fontana di Cucchi. Esprimono il legame tra l’arte e la città, collegano ancor più il porto antico all’identità del capoluogo. Un porto che è già dentro la città, un cuore pulsante che negli anni ha vissuto spesso in isolamento. La “creatura” di Cucchi è un motivo in più per rompere le residue barriere e accogliere. La “Fontana dei due soli”, altro simbolo della peculiarità di Ancona, può essere benissimo identificata come “Fontana dell’accoglienza”. Un’opera d’arte che nelle intenzioni stesse dell’autore, va vissuta, non solo ammirata. Va assorbita, calpestata. Un’opera contemporanea che si adagia in un luogo antico dove si affaccia la storia di Ancona, i tesori della dorica, tra vestigia romane e monumenti architettonici di straordinaria bellezza. La Fontana di Cucchi va accolta come una cerniera tra epoche ma anche come una svolta, un’apertura. Un’apertura soprattutto culturale per una realtà che si è candidata a capitale italiana della cultura per il 2020. Un motivo in più per riflettere sul patrimonio stesso della città. E sulla sua valorizzazione maggiore. In tale contesto “un’opera d’arte – come ha detto il presidente dell’Autorità portuale – definisce la sensibilità di una comunità, guarda al futuro e parla un linguaggio universale”. La Fontana dei due soli osserva l’alba e il tramonto, segue l’arco di un giorno. Ci piace immaginare che saluti il risveglio da un letargo troppo lungo e il tramonto di una mentalità progettuale troppo rinunciataria. ¤ Franco Elisei

Una serie di suggestive immagini notturne della Fontana dei due soli (Foto Sergio Giantomassi)


L’artista

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no nell’Arte del ‘900. Scipione, Licini, Cucchi” (2008). Nel 1996 per il Teatro la Fenice di Senigallia realizza il sipario su cui si staglia una grande figura rossa di bimbo che, in posizione prona, osserva alcuni simboli del passato della cittadina: la Fenice, la Campana, la Fontana delle

Qui sopra, particolari artistici della fontana e un dettaglio delle mani con l'Agontano, la moneta di Ancona repubblica marinara

oche, il simbolo di Palazzo del Duca e la Rocca. Nel 2002 a Falconara Alta in quello che allora era l’appena inaugurato Museo della Resistenza (poi trasferito nel 2010 nella ristrutturata sede di Palazzo Bianchi, dove era già presente l’archivio storico municipale) l’estro di Cucchi si concretizzò in un grande mosaico pavimentale che è

ancora lì in attesa del suo trasferimento nel museo della Resistenza, con grande disappunto dello stesso artista. Nel 2010 a Macerata fece dono all' Istituto tecnico per le attività sociali "Padre Matteo Ricci" di un mosaico concepito per celebrare il grande missionario maceratese nell'ambito delle celebrazioni della morte (1610 - 2010). Nello stesso anno e nella stessa città Cucchi fu insignito del titolo di accademico honoris causa dall’Accademia di Belle Arti di Macerata nella quale lo stesso artista si diplomò parecchi anni prima. Sempre nel 2010 ma a Pesaro, inaugurò la Stele commissionata da Marcucci Pinoli per l’ingresso dell’Alexander Museum Palace Hotel. Una colonna costituita da 14 rocchi in fusione di bronzo che, in 16 metri d’altezza, racconta Pesaro con un linguaggio che si basa sul corto circuito tra la forza narrativa del segno e la seduzione formale della materia, enfatizzata anche qui, da un elegante patina nera. L’arte di Cucchi trova dunque la sua dimensione nella matrice segnica, in un’invarianza che resiste alla corrente del tempo, all’obsolescenza, per coltivare non certezze individuali o collettive - ma le ossessioni, le oscurità, le zone d’ombra, quelle che non appaiono a prima vista. Forse è questa la natura della fedeltà di questo artista, che non interroga soltanto il nostro io collettivo o pubblico ma i nostri stessi fantasmi. Il meccanismo che Cucchi ha messo in moto nel suo lavoro è l’accensione di quelle favole nere che tutti noi abbiamo inconsciamente dimenticato. ¤


Mare Adriatico

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Da Porta d’Oriente a grande polo strategico SCALO DORICO, MOTORE DI SVILUPPO DELLA BLUE ECONOMY

N di Claudio Sargenti

La sfida maggiore in questi anni è raccogliere e attivare tutte le potenzialità offerte dalla “crescita blu”

essuna definizione è stata mai tanto azzeccata e forse anche abusata di “Porta d’Oriente” per indicare la funzione e il ruolo strategico del Porto di Ancona. Inserito in una insenatura naturale, fondato dai Greci, lo scalo dorico da sempre ha proiettato le Marche oltre il Mare, diventando nel corso dei secoli l’approdo privilegiato per i traffici non solo commerciali con i Paesi del Sud-Est dei Balcani, fino a Cipro, la Turchia e il Medio Oriente. In anni più recenti, addirittura si è pensato al Porto di Ancona come punto di snodo di un progetto più ambizioso, un progetto che guarda all’Adriatico non come uno spazio che divide, ma un mare che unisce popoli e paesi diversi, accomunati dalla stessa volontà di sviluppo nei campi dell’economia, della cultura, del turismo. Un ruolo e una funzione che hanno trovato il punto più alto nel riconoscimento delle Marche come motore propulsivo a livello internazionale con la costituzione della Macroregione Adriatico Ionica e a livello nazionale con l’assegnazione ad Ancona, di un ruolo decisivo nella creazione dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Centrale, comprendendo al suo interno oltre allo scalo dorico, i porti di Pesaro, quello di San Benedetto del Tronto (sede della seconda flotta peschereccia d’Italia dopo quella di Mazara del Vallo) e poi Pescara e Ortona. Scalo militare per i Romani fin dai tempi dell’Imperatore Traiano, per circa quattro secoli agguerrita repubblica marinara alleata di Ragusa

e dell’Impero Bizantino fiera avversaria di Venezia, Ancona si presenta come un tipico porto a funzioni multiple dove la vocazione principale è da sempre costituita dall’industria marinara, cantieristica e della pesca. E’ nel 1732 che si ha lo sviluppo maggiore, quando diventa porto franco e i relativi lavori voluti da Papa Clemente XII sono il naturale punto di arrivo di una politica che tendeva a valorizzare il ruolo commerciale e marittimo dello scalo. Ma è ai giorni nostri, durante gli anni bui delle guerre nei Balcani, legate alla disgregazione politica della ex Jugoslavia, che si prende piena consapevolezza che quel Mare Adriatico che per anni era stato vissuto come una sorta di confine quasi insormontabile, può diventare una via di pace, un ponte di dialogo e di coesione tra le due sponde e con i popoli che vi si affacciano. Sul finire degli anni ’90 del secolo scorso l’asse Ancona-Spalato diventa uno dei principali canali di flusso degli aiuti alle popolazioni coinvolte nella guerra civile, sul quale vengono movimentate migliaia di tonnellate di medicinali, alimenti e altri beni di prima necessità. Inizierà poi la fase della ricostruzione che vedrà coinvolta anche l’Albania e un po' tutti i Paesi costieri. Il resto è cronaca di questi ultimi anni e degli ultimi mesi. Ovvero. Ricordiamo. La nomina all’Autorità Portuale di un Presidente come Rodolfo Giampieri, (recentemente confermato come Presidente di Sistema Portuale del Medio Adriatico Centrale) par-


Mare Adriatico

Il porto di Ancona snodo di un progetto più ambizioso che guarda all'Adriatico come ponte di dialogo e coesione

18 ticolarmente attento anche alle esigenze del territorio; la consapevolezza che il Porto di Ancona con le sue attività industriali e commerciali, i suoi cantieri navali, rappresenta la principale azienda della città e tra le prime della Regione; il riconoscimento di scalo di primario interesse nazionale con tutto quello che ne consegue in tema di finanziamenti e di infrastrutture; la voglia degli Anconetani di riappropriarsi del proprio porto con la dismissione, almeno parziale, di reti e reticolati che ne ostacolavano la fruizione; lo sviluppo del cosiddetto porto storico a favore di turisti e croceristi, fino alla rimessa in pristino della lanterna rossa e del relativo camminamento con il quale vi si accede, tanto caro ai romantici di ogni età. Adesso il Porto di Ancona ha tutte le carte in regola per guardare oltre, per guardare al suo futuro con maggiori certezze e consapevolezze. Il ruolo affidatole dalla Ma-

croregione e dal Forum delle Camere di Commercio dell’Adriatico e dello Ionio che raggruppa, lo ricordiamo, ben 46 camere di commercio che danno “voce” a 1 milione 800 mila imprese è quello di favorire lo sviluppo dei Paesi che si affacciano sulle sponde di quello che nel frattempo è diventato, finalmente, una sorta di “lago” di pace, in sinergia con gli altri porti dei Balcani. La sfida è quella di saper cogliere le potenzialità offerte dalla blue economy ovvero da tutte quelle opportunità che favoriscono lo sviluppo delle attività economiche: acquacultura, pesca, turismo, trasporto marittimo, porti e settore cantieristico, energie rinnovabili marine. La strategia EUSAIR della Macroregione rappresenta la declinazione regionale della crescita blu. Le regioni che ne fanno parte (Ancona e le Marche in particolare visto il ruolo che rivestono) possono fare molto per sviluppare questo potenziale, soprattutto in un’ottica

Porto in cifre Un milione di passeggeri

turisti transitati per lo scalo dorico. Per quanto riguarda le merci, il porto ha chiuso il 2016 con una movimentazione totale di oltre 8,9 milioni di tonnellate, volume che rappresenta una crescita del 4,0% rispetto al 2015 ed è il risultato migliore dal 2008. Ancora altre cifre. Lo scorso anno il numero di tir e trailer transitati in porto è stato di poco meno le 142 mila unità con un incremento del 3,8% rispetto all’anno precedente. Il risultato si deve all’ottima performance della tratta albanese che con 15.338 tra tir e trailer ha più che raddoppiato il traffico. Positiva è stata anche la movimentazione da e per la Croazia. Numeri con il segno più anche per i containers: sulle banchine di Ancona ne sono transitati poco meno di 186

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ltre un milione di passeggeri in transito. E’ questa la prima cifra (per la precisione 1.005.079) che balza agli occhi e che la dice lunga sull’importanza e sul ruolo di Ancona nel sistema portuale italiano. I dati del 2016 parlano chiaro e dicono che se c’è stato un leggero calo di traffico sulle direttrici greca e croata sono in crescita invece i passeggeri su quella albanese. Ottima la performance croceristica che ha toccato quota 55 mila; di questi, 11 mila hanno scelto Ancona come home port e 44 mila sono i


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di collaborazione per la sostenibilità e la tutela del mare. E poi c’è il rapporto con la città e il territorio. Da un rapporto di ostilità si è tornati all’amore. All’amore degli Anconetani (e non solo) per il mare e il suo porto. Sono tornate le passeggiate, i locali caratteristici, il recupero e la valorizzazione della parte più antica nel cuore stesso del centro storico della città che presto potrà avvalersi di ulteriori motivi di richiamo come la Fontana ideata proprio da un artista anconetano, Enzo Cucchi. In prospettiva, con l’estate l’arrivo delle navi da crociera sarà ancora motivo di orgoglio e di interesse non solo perché la città è ormai stabilmente inserita tra le mete dei maggiori porti e dei grandi centri rivieraschi riscuotendo ogni anno nuovi consensi, ma per l’economia che i croceristi riescono a muovere. Tornerà la grande Sinfonia, ammiraglia della flotta MSC, ma arriveranno anche altre

grandi navi di compagnie prestigiose come la Oceania Cruises e la Ponant, una ulteriore conferma che sempre più armatori credono nel porto di Ancona. E forse non è un caso che sempre più spesso si sente dire in città “finalmente si vedono a spasso anche i turisti”. Ed è uno degli effetti e dei meriti legati proprio alla ritrovata vitalità del porto. D’altra parte la città comincia a crederci puntando molto, dopo anni di inerzia, proprio sull’accoglienza. Intanto, c’è stato un maggiore e significativo coordinamento tra Autorità Portuale e Comune di Ancona, ma soprattutto, lo sviluppo della rete tecnologica con il WI-FI gratuito destinato ad essere potenziato, e la APP Welcome to Ancona per fornire rapidamente informazioni e suggerimenti turistici su cosa fare in città. L’intenzione è quella di perfezionare ulteriormente le iniziative destinate a rafforzare l’immagine di una cit-

mila. Ma Ancona fa ormai parte dell’Autorità di Sistema del Mare Adriatico Centrale e quindi da quest’anno sono disponibili anche i dati che riguardano gli altri scali. E così nel 2016 nel porto di Pesaro sono transitati 7.213 passeggeri sulla direttrice croata; lo scalo di Pescara ha fatto registrare un movimento di 3.930 passeggeri da e per la Croazia e poco meno di 127 mila tonnellate di rinfuse liquide (benzina super e gasolio); lo scalo di Ortona, infine, ha registrato complessivamente poco più di 1 milione di tonnellate di merci tra rinfuse liquide e merci solide, mentre i passeggeri transitati per la Croazia sono stati 653. Da segnalare una novità quest’anno per quanto riguarda il settore delle cro-

ciere. Nei porti di Pesaro e Ortona ci sarà una esclusiva compagnia, la Grand Circle cruise lines, che ha inserito questi porti nella sua rotazione estiva. Infine, i lavori in corso. Allo scalo di Ancona le priorità riguardano il prolungamento di 273 metri della banchina rettilinea: i lavori, una volta completati permetteranno di recuperare altri 35 mila metri quadrati di nuovi piazzali; i dragaggi della banchina rettilinea già operativa per portare i fondali a 14 metri; il potenziamento della banchina 22 per consentire l’operatività delle grandi gru di recente acquisizione da parte degli operatori portuali; lo sviluppo dell’intermodalità tramite il prolungamento dei binari ferroviari interni al porto. c.s.

Ottima performance crocieristica Movimentate merci per quasi nove milioni di tonnellate lavori in corso per nuovi piazzali

Alcune immagini del porto di Ancona nei suoi aspetti commerciali, turistici e storici


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tà aperta, a misura di un turismo alla ricerca di esperienze genuine, diverse dal turismo di massa. Contemporaneamente, grazie anche alla possibilità di togliere un po' di reti e recinzioni, evidentemente non più necessarie alla sicurezza, il porto, la parte più antica e storica della darsena, quella più spettacolare a ridosso del cuore stesso della città, incastonata tra suggestive vestigia storiche e sovrastata dal Duomo di San Ciriaco, viene trasformata nei mesi d’estate in un palcoscenico a cielo aperto. Cento giorni di avvenimenti

Lo scalo in estate si trasforma in palcoscenico a cielo aperto per l’intraprendenza di alcuni operatori locali

Il Duomo, l'aco di Traiano e l'arco Clementino visti dalla Fontana dei due soli

Per l’intraprendenza di alcuni operatori locali si è dato vita al Festival “Ti Ci Porto” che fino a metà settembre, alterna spettacoli di teatro e di danza, con conferenze, presentazione di libri, dj set e workshop. Si tratta di cento giorni di avvenimenti che si tengono negli spazi contigui al Molo Rizzo: oltre 3 mila metri quadrati a disposizione, con un grande palco centrale destinato ad animare ogni serata. Tra le novità del Festival di quest’anno, che è giunto alla seconda edizione, le rassegne tematiche come quelle di musica dedicate al jazz, al blues e ai cantautori italiani. Presente anche una rassegna, dedicata ai più piccoli con “Sulla Luna… Ti Ci Porto” composta da 16 laboratori divertenti e istruttivi, oltre ad un servizio di animazione. Insomma, un calendario articolato di eventi per coniugare cultura e divertimento senza

dimenticare la buona cucina con le nostre specialità e le nostre eccellenze. E così si potrà mangiare il pesce fritto dell’Adriatico, accanto a laboratori con preparazione vegana e vegetariana, mentre tutte le sere si potranno gustare i moscioli selvatici di Portonovo. Tutto questo, naturalmente, potendo ammirare uno dei più suggestivi tramonti, quello che va in scena tutte le sere sul nostro mare, proprio davanti all’imboccatura del porto. Iniziative che la cittadinanza, e non solo, sembrano apprezzare. Lo si è visto con il successo registrato dal Festival l’anno scorso. Lo si è visto in occasione dell’inaugurazione della Fontana dei Due Soli di Enzo Cucchi quando in migliaia si sono ritrovati per l’evento. Insomma, ci piace concludere con le parole pronunciate dal presidente dell’Autorità Portuale, Rodolfo Giampieri in un recente intervento: “… il futuro del porto di Ancona sta nella sua capacità di interpretare il suo ruolo rispetto al sistema portuale dell’Adriatico centrale e rispetto alla portualità nazionale. Il porto – sono sempre parole di Giampieri - deve consentire agli operatori di competere nel difficile mercato dello shipping e della logistica, deve diventare una vetrina con il suo territorio di riferimento, accogliendo i passeggeri come clienti e facendo vivere loro una positiva esperienza di relax e servizio.” In sinergia, aggiungiamo noi, con la città. La strada intrapresa è quella giusta. ¤


L’intervista

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Da Abbado a Ronconi i ricordi amati del Rof A COLLOQUIO CON MARIOTTI SOVRINTENDENTE DEL FESTIVAL

G di Fabio Brisighelli

Giacomo Mariotti sovrintendente del Rossini Opera Festival e nella pagina seguente insieme alle maestranze e nel teatro Rossini (Foto studio Amati Bacciardi)

ianfranco Mariotti, il sovrintendente del Rossini Opera Festival di Pesaro, ci attende in sede per uno dei nostri ricorrenti colloqui. Le nostre occasioni d’incontro non le conto più, tanti sono gli anni di frequentazione comune. Se trentasette anni di Festival (trentotto, quest’anno) vi sembrano pochi... No sono tanti e vorrei naturalmente che fossi tu ad andare indietro, lungo i sentieri della memoria, a recuperare qualcuno dei ricordi amati. «E’ come chiedere chi ami di più dei tuoi figli. La verità è che io ho vissuto tutti i momenti di questa lunga avventura con la stessa intensità emotiva. Potrei indicarne diversi, ma mi limito a evidenziarne uno: la rappresentazione al Rof della cantata scenica Il viaggio a Reims, lo spettacolo-capolavoro di Luca Ronconi, con la direzione di Claudio Abbado, le scene e i costumi di Gae Aulenti e una compagnia di canto stellare, allestito in prima mondiale moderna all’Auditorium Pedrotti di Pesaro il 18 di agosto 1984 e considerato uno dei più importanti del XX °secolo. Devo spiegare. Di questa leggendaria partitura di Rossini, scritta nel 1825 come opera d’occasione per l’incoronazione di Carlo X di Francia, dopo le quattro recite parigine si erano perse le tracce: svanita nel nulla e ricercata per più di un secolo e mezzo. Si sapeva che una parte della musica era stata riutilizzata nel 1828, tre anni dopo, in un’opera nuova, Le Comte Ory (Il Conte Ory). Dopo il fortunoso ritrovamento nei primi anni ’80

della parte superstite dell’autografo presso la biblioteca di Santa Cecilia a Roma, la nostra Fondazione Rossini si è cimentata con successo nella grande impresa musicologica di ricostruzione della partitura, a cura di Janet Johnson, finalmente nella sua interezza. Ricordo ancora l’emozionante sensazione di “epifania” provata allora, legata alla resurrezione pesarese del testo». Per non parlare poi della vostra titanica impresa di allineare e amalgamare diciotto grandi cantanti per gli altrettanti personaggi della Cantata… «Oggi sarebbe impossibile mettere insieme, come abbiamo fatto allora, così tante prime voci del palcoscenico lirico, come fece del resto lo stesso Rossini, che aveva voluto far esibire davanti al re i migliori cantanti del momento. Mentre stiamo conversando, guardo la locandina di quella nostra ‘prima’ appesa alla parete : non so proprio come abbiamo fatto!». E Abbado, come lo avete contattato? «Lo siamo andati a trovare, io e Alberto Zedda, una prima volta nella sua casa in Sardegna, poi a Milano. Lui ha accettato, dopo le nostre assicurazioni circa la realizzabilità di un’operazione così complessa». Un passato, quello del Rof, che in un crescendo rossiniano ha “corroborato” la manifestazione proiettandola verso un presente e un futuro di notorietà e di apprezzamento altissimi. E’ un festival a tema tra i principali al mondo. Che dire nel merito? «Il dato saliente è che si tratta di un festival che comprende


L’intervista

Chi viene a Pesaro ascolta un Rossini poco conosciuto o dimenticato Abbiamo spettatori da cinque continenti

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tutti i titoli rossiniani, e mi riferisco soprattutto a quelli fuori dal repertorio. Raccoglie spettatori dai cinque continenti, con la percentuale degli stranieri che ha superato il 70%, peraltro con una presenza costante del pubblico italiano. Abbiamo una quarantina di titoli rossiniani su cui poter “giocare”, possiamo andare avanti per anni, senza dover ricorrere ad altri autori come fanno ad esempio a Salisburgo, per “ampliare” il loro Mozart. Chi viene a Pesaro, viene ad ascoltare un Rossini poco conosciuto, o dimenticato, e che solo noi abbiamo fatto. Il nostro è un pubblico “fidelizzato” e da noi ben coltivato, perché sappiamo stimolarlo a seguire opere anche “scomode”, indurlo a pensare». Le messinscene di Pizzi e di Ronconi, ma anche di De Ana, di Martone, di Vick; almeno tre generazioni di cantanti; i grandi direttori d’orchestra, a partire da Abbado: formidabili davvero, gli anni trascorsi… «Dopo le prime edizioni, ci siamo resi conto che stavamo restituendo un repertorio rossiniano che non aveva tradizione pregressa. La peculiarità della Rossini Renaissance è stata quella appunto di aver colmato un secolo e mezzo di vuoto. Per questa innovativa operazione dovevamo avere artisti che sapessero contemperare le esigenze vocali proprie con quelle filologiche e drammaturgiche del testo; che fossero capaci di adattare le prestazioni in canto alla bellezza delle nuove rappresentazioni; e poi affidare a registi di grande versatilità il compito di esplorare la ricchezza del linguaggio visivo contenuta

nelle opere del nostro compositore: il tutto certamente nel doveroso ossequio alla musica e alle intenzioni dell’autore, ma tenendo anche in considerazione le percezioni e i gusti degli spettatori di oggi. Penso in tutta sincerità che ci siamo riusciti». Tu sei un personaggio “classico” del Rossini Opera Festival, e dunque, come avrebbe detto Carmelo Bene, sei fuori dal tempo (un “immortale” alla Borges?). Il presente è noto: ma ci pensi al futuro? «Il futuro per me è un auspicio: che il nostro Festival, aldilà delle persone, possa mantenersi sulla linea tracciata della continuità. Alla quale i mutamenti via via apportati in corso d’opera, le varie soluzioni innovative di volta in volta adottate nel linguaggio scenico e visivo, musicale e vocale, si riconducano in piena armonia. Quest’anno c’è il ritorno di Pier Luigi Pizzi (La pietra del paragone) e di Mario Martone (Torvaldo e Dorliska), che “aggiornano” appunto i loro allestimenti precedenti; e c’è il debutto all’insegna del nuovo, per la regia, scene e costumi dello spettacolo che inaugura la stagione (Le siège de Corinthe), del gruppo catalano della Fura dels Baus (visionario quanto eccitante, n.d.r.)». Sarà dura non vedere più Alberto Zedda seduto nel palco di proscenio sopra il tuo, al Teatro Rossini. «Credimi, non mi sono ancora abituato all’idea che non ci sia più. Provo spesso l’impulso di chiamarlo al telefono, e quando la porta del mio ufficio si apre, penso subito: “ecco Alberto”. Ho diviso la vita con lui per quarant’anni!». ¤


La danza

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Il fascino del tango seduzione infinita IL BALLO ARGENTINO CONQUISTA SEMPRE PIÙ LE MARCHE

I di Bruna Baiocco

Leo Calvelli con Eugenia Usandivaras in una esibizione di tango

l tango è una “conversazione” tra due persone che dura il tempo della musica, in un linguaggio che è fatto di abbraccio, di attenzione, di ascolto, di contatto, di respiro, di intenzione, di impulsi e di inerzia. Il tango non è un semplice insieme di passi, come un libro non è una lista di parole. Il ballo assorbe interamente non lasciando posto ad altro, né a pensieri, né a preoccupazioni. Permette di estraniarsi dalla realtà ed entrare in un’altra dimensione, in uno stato di meditazione. Questa è senza dubbio una delle ragioni per cui il tango conquista. Come una droga. In effetti il tango può creare dipendenza, lo sanno bene tutti quei ballerini che percorrono centinaia di km e perdono decine di ore di sonno tutte le settimane per cercare questa atmosfera e provare queste sensazioni. E dà anche assuefazione: nel tempo le aspettative aumentano, quello che piaceva prima, non basta più, in un’escalation di esigenze sempre più sofisticate. Il pavimento deve essere adeguatamente liscio, in parquet ed è importante che i brani musicali siano distribuiti nel tempo, in modo da creare la giusta “onda”. Ma l’aspetto fondamentale è che ci siano i ballerini/e giusti, con un buon livello di ballo, o meglio, con il nostro stesso livello e con il nostro stesso stile. E’ evidente che i gusti sono soggettivi. C’è sempre la ricerca di qualcosa di più. Nelle Marche il tango argentino arriva a metà degli anni 90, in Ancona e poi in tutta la regione, oggi ci sono corsi di tango nelle maggiori città

e milonghe tutte le settimane. Si può ballare quasi tutte le sere, d’estate poi, i locali all’aperto si moltiplicano. Ma cos’è che attrae così tanto del tango? Se non nasce la passione per il tango e si vuole solo socializzare, ci si accorge ben presto che “il gioco non vale la candela”, è troppo lungo il tempo per imparare. In realtà non si apprendono dei passi, si apprende un linguaggio che è quello universale del corpo umano, solo che ne abbiamo perso consapevolezza; camminando nessuno fa caso a come appoggia il piede o a come si spostano spalle e baricentro in funzione della lunghezza del passo da fare, il tango induce all’ascolto di se stessi prima e del partner di ballo poi. Se nasce la passione, si impara a leggere questi minimi movimenti invisibili all’esterno e ballare diventa un dialogo tra i due partner che sarà quello corrispondente alla propria personalità ed al proprio stato d’animo. E’ possibile ballare un tango meraviglioso con perfetti sconosciuti e trovarsi male con partner che si conoscono da tempo, il tango non mente, fa emergere anche ciò che vogliamo tenere nascosto. Tre balli e tre musiche tango, vals e milonga Quando si parla di tango argentino in realtà si parla di tango, vals e milonga. La milonga è la più antica, veloce e ha una forte componente ritmica. Il vals è una musica in tre tempi, come il valzer, ma il ballo è completamente diverso, l’improvvisazione stravolge completamente il ritmo della musica. Il lin-


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guaggio di comunicazione è lo stesso, non si può impararne solo uno. Il ballo è legato indissolubilmente alla musica, eppure il tango, incredibile, si può ballare anche senza musica. Ma dov’è l’unicità del tango argentino? Cos'è che il tango sì e un altro no? L’elemento più importante è l’abbraccio, è un elemento di ascolto, di comunicazione e insieme di vicinanza, quasi di solidarietà. Se ha aiutato gli immigrati argentini di fine 1800, a superare la solitudine e la nostalgia in un ambiente nuovo lontano dai propri cari fa bene anche in questi tempi di comunicazioni mordi e fuggi, fatte di “mi piaci” , “condividi” e faccine di tutti i tipi che dovrebbero avvicinarti ai tuoi 1000 “amici” che invece non ti fanno compagnia neanche un po’. Anche questa solitudine ha bisogno di aiuto e il tango lo sa. Il codice della milonga un insieme di regole Nelle milonghe anche il momento dell’invito al ballo ha delle modalità particolari, con “mirada e cabeceo”. La mirada è un termine che potremmo tradurre a fatica in italiano con occhiata o sguardo, il cabeceo è un cenno con il capo. Come funziona? La donna guarda l’uomo con il quale vorrebbe ballare, l’uomo se guardato capisce che la donna è disposta a ballare con lui e se vuole, la invita alzando il capo. Se la donna accetta abbassa il capo, il tutto guardandosi negli occhi, è un attimo. Se l’uomo non la vuole invitare non muove il capo, se la donna non vuole accettare non guarda verso quel ballerino, e se lui fa il cenno con il capo fa finta di niente. Se l’invito non “va a buon fine” la donna guarda un altro ballerino ed il tutto si ripete. E’ una gestualità tipicamente italiana: sollevare il capo

24 per chiedere qualcosa, abbassare il capo per dire di si. Nel tango non c’è alcun gesto che indica un no. Nessuno viene offeso. E’ un sistema molto democratico, è difficile dire chi ha invitato chi. Quando i due ballerini si sono accordati la donna va a bordo pista, l’uomo la raggiunge e si abbracciano con l’uomo diretto nel senso di marcia, antiorario. Ricordiamoci che questa modalità è nata alla fine del 1800 insieme al tango, nessun uomo poteva rischiare di andare davanti ad una donna a chiederle di ballare e ricevere un rifiuto davanti a tutti, cosa ne sarebbe stato del suo orgoglio? Ed anche oggi… Questo modo di invitarsi e di incontrarsi suscita emozione ancora prima di aver iniziato a ballare, perché richiede attenzione e volontà di comunicazione, lo sanno bene le persone più sensibili ed attente alle dinamiche interne alla milonga. In realtà la parola milonga ha tre significati: un tipo di ballo, la sala in cui si balla il tango, la serata di tango. In quest’ultima accezione è l’evento più diffuso. La milonga ha delle regole ben precise che la differenziano molto dalla balera della nostra tradizione marchigiana o dalle serate di salsa. Differenze che vanno molto al di là della ovvia diversità del ballo. L’insieme di queste regole è definito “codice della

I maestri argentini di fama internazionale Sebastian Arce e Mariana Montes


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25 milonga”. I brani musicali si susseguono con delle sequenze ben precise, selezionate da un DJ specializzato in tango, chiamato anche TJ. La musica è organizzata in tande e cortine: la tanda è una sequenza di 3 o 4 brani omogenei per ballo (tango, vals o milonga) e stile musicale e/o orchestra e/o cantante e/o periodo storico. Questa uniformità permette al ballerino che invita, di essere sicuro di avere lo stesso tipo di musica per tutti i tre brani, senza il rischio di non saper o voler ballare un secondo brano completamente diverso dal primo. La cortina è una parte di brano musicale di genere diverso, come musica classica o disco, non più lunga di un minuto, che generalmente non si balla. La cortina serve a interrompere il ballo e sciogliere le coppie. Quasi tutti tornano al proprio posto e si preparano agli inviti. Questa “regolamentazione” della musica, che può sembrare eccessiva, è nata insieme al tango.

Alla fine dell’800, quando a Buenos Aires le donne erano poche, gli uomini erano molti ed avevano sempre un coltello in tasca, bastava un niente per scatenare una rissa pericolosa. Senza cortina l’uomo una volta che avesse iniziato a ballare con una donna non l’avrebbe lasciata più per buona parte della serata scatenando la rabbia degli altri uomini che non avevano con chi ballare. La cortina obbligava l’uomo a lasciare libera la donna che poteva quindi essere invitata da altri. Anche oggi sarebbe antipatico chiedere al partner di smettere di ballare in modo da cambiare ballerino/a. L’invito quindi, fatto o accettato, riguarda 3 o 4 brani musicali, massimo 10 minuti, ed in questo breve tempo il tango esprime tutto il suo fascino. Durante il ballo bisogna rispettare l’equivalente del codice della strada. Le coppie di ballerini si muovono nella pista da ballo ruotando in senso antiorario: i ballerini più bravi si muovono lungo il perimetro perché il cerchio esterno può essere più veloce ed è più visibile, i principianti si “nascondono” al centro della pista dove, incredibile, hanno più spazio e fanno meno danni. Nella coppia il ballerino, guidando il ballo, non deve fare più di un passo all’indietro, dove non vede. E come per il codice della strada, il tutto con la finalità di non scontrarsi, neanche sfiorarsi, tra coppie diverse e, se accade, il colpevole deve chiedere scusa. Considerando che è il ballerino che guida il ballo, la colpa di uno scontro non può che essere sua. Altra regola: mentre si balla non si parla, tutta l’attenzione è rivolta alla musica e al ballo, ne va della magia del tango. Le origini del tango sono misteriose, è il frutto di una contaminazione musica-


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Corsi di tango e Milonga in tutta la regione Non si apprendono semplici passi ma il linguaggio universale del corpo

In alto, un'immagine del Festival Internazionale di Tango nel 2016 nello storico scenario di Rocca Costanza a Pesaro

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le e culturale, negli ultimi decenni del 1800 sulle rive del Rio de La Plata, Buenos Aires sulla riva destra e Montevideo su quella sinistra. Erano città in forte espansione abitate quasi esclusivamente da immigrati provenienti dall’Europa: più della metà italiani, poi francesi tedeschi, polacchi, austriaci. I ritmi musicali preesistenti (habanera), portati dagli schiavi provenienti dall’Africa e passati per Cuba e per l’Havana, poi decimati dalle guerre del Sud America, incontrando la musica locale avevano generato il candombe e la milonga, dove i ritmi africani erano evidenti. In quel periodo la musica era suonata da piccoli gruppi erranti, tipicamente trii di flauto, violino e chitarra, strumenti che si prestavano ai veloci spostamenti da un locale all’altro nella stessa sera ed erano adatti ai ritmi veloci di quel tipo di musica. Per le strade, il tango era diffuso dall’organetto, strumento azionato da una manovella

con le note incise su un rullo, una specie di carillon. Verso la fine del 1800 a Buenos Aires sbarca, letteralmente, il bandoneon, strumento inventato pochi decenni prima in Germania, e usato come organo portatile per accompagnare la musica sacra. Introdotto dagli immigrati, il bandoneon è destinato a prendere, in poco tempo, il posto del flauto e diventare lo strumento del tango. Qual è il suo segreto? La sua estensione musicale, le sue capacità che vanno dalla melodia all’armonia al ritmo? Il suo timbro malinconico? La somiglianza con la voce umana? Sembra fatto apposta per descrivere le atmosfere di tristezza e solitudine di una città dove sono quasi tutti immigrati. Con il bandoneon i ritmi rallentano e la musica acquista una intensità ed un respiro nuovo. Il tango diventa più stanziale, il pianoforte prende il posto della chitarra ed è presente in ogni locale che si rispetti.


La danza

Se il ballo è improvvisazione la musica non lo è affatto, i musicisti diventano definitivamente professionisti, diplomati al conservatorio, compongono gruppi stabili, ci sono partiture, arrangiamenti, incisioni. Si aggiunge il contrabbasso. Questa è “l’orchestra tipica” del tango: pianoforte, bandoneon, violino, contrabbasso. “Mi Noche triste” Nasce il tango-canciòn Ogni popolo porta la sua cultura musicale, gli italiani portarono l’opera e le canzoni popolari soprattutto napoletane, i ritmi rallentano e arrivano le parole prima assenti, nasce il tango canciòn. “Mi Noche triste” fu il primo tango cantato, inciso nel 1917 da Carlos Gardel diventato la voce del tango, oltre che attore e compositore, morto nel 1935 in un incidente aereo, i suoi tanghi sono ballati ancora oggi. I testi sono dei piccoli melodrammi, raccontano storie di emigrazione, amore, gelosia, nostalgia, solitudine, periferia, vita di strada, tango e soprattutto parlano di Buenos Aires con i suoi luoghi e le sue atmosfere. Ci sono anche testi allegri, quasi da operetta, che ritraggono personaggi singolari. All’inizio del 900 il tango arriva a Parigi dove riscuote grande successo presso la borghesia cittadina molto sensibile alle novità culturali provenienti dall’estero. Qui il tango perde le connotazioni più primitive e sensuali per essere ballato anche dalle persone “perbene”, e si riduce molto l’improvvisazione, per adattarsi all’ambiente europeo ed entrare nei locali dei balli standard. In questa versione riveduta, corretta e standardizzata si diffonde in

27 tutta Europa e viene ballato nei locali insieme a valzer, polka ecc. Lo stesso Pio X nel 1914, non riscontrando nulla di peccaminoso, diede il permesso di ballare il tango. A livello popolare entra a pieno titolo nelle nostre balere marchigiane e romagnole a far parte del ballo “liscio”. Molti decenni più tardi ci sarà bisogno di parlare di tango “argentino” per distinguerlo dal tango “standard”. A Buenos Aires, il successo di Parigi ha molte ripercussioni, il tango da ballo popolare diventa trasversale a tutte le classi sociali, da tradizione nazionale diventa fenomeno culturale internazionale. Da ballo praticato nei bassifondi e nelle periferie giunge alle sale da ballo più eleganti del centro. Fino ad arrivare agli anni

40 quando i locali dedicati al tango si moltiplicano, ospitano orchestre stabili sempre più grandi,

accanto al contrabbasso e al pianoforte i bandoneon arrivano a 4 ed i violini ancora di più. Mentre l’Europa vive la

Miranda e cabeceo rappresentano un codice d'invito dove nessuno ci resta male E in pista esistono altre regole di base Due maestri ballerini Matteo Antonietti e Ravena Abdyli


La danza

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seconda guerra mondiale a Buenos Aires vengono creati, eseguiti ed incisi un numero straordinario di tanghi, vals e milonghe: sono gli anni d’oro del tango. Il tango in lotta con il Rock'n Roll

Da Buenos Aires a Pesaro nella città della musica con un Festival all'insegna di un Rossini “tanguero”

In alto, il Maestro Roberto Molinelli Sotto, i Tango Sonos

Nei decenni successivi il tango subirà un notevole declino, molte orchestre si sciolsero e moltissime milonghe chiusero. Una delle cause è la diffusione del rock and roll che dal Nord America arriva ben presto in Argentina catturando l’interesse musicale dei giovani come nuova cultura al posto del “vecchio” tango. Un’altra causa è da ricercare nei regimi totalitari che si sono succeduti in Argentina, dalla fine degli anni 50 all’inizio degli anni 80, che non vedevano certo di buon occhio lo straordinario strumento di comunicazione che è il tango, in milonga ogni persona poteva incontrare chiunque e le informazioni potevano essere scambiate sottovoce durante il ballo in modo incontrollato. Dopo il ritorno della democrazia, 1983, ci sarà il “rinascimento del tango”: nuova diffusione del tango come ballo sociale. Negli anni 80 viene prodotto “Tango Argentino”, il più grande spettacolo di tango di tutti i tempi. Nel 1983 “Tango Argentino” debutta a Parigi, e negli anni successivi in numerose città di tutta Europa e nel 1985 a Broadway, New York, dove rimarrà in scena per 10 anni. Nel movimento dei ballerini, così come nel loro abbigliamento elegante, il tango di

Tango Argentino fece conoscere la storia del tango e fece pensare alla raffinatezza, anche nelle sue scene più sensuali e seducenti. Dopo la rivoluzione dei costumi degli anni 60 non si scandalizza più nessuno ma si crea un immaginario collettivo di mistero e seduzione legate al tango argentino che persistono ancora oggi. In questo momento avviene la seconda ondata di diffusione in tutto il mondo del tango argentino come danza. Il pubblico viene sedotto dallo spettacolo e vuole imparare a ballare il tango, rigorosamente “argentino”. Si diffondono milonghe e corsi di tango in tutto il mondo. Nel 2009 l’Unesco dichiara il tango argentino “Patrimonio culturale dell’umanità”. A Rocca Costanza una “prima” assoluta E ora il tango entra nella città della musica. Da Buenos Aires a Pesaro, la magia del tango conquista anche la storica Rocca Costanza. E si trasforma in Festival nel primo weekend di agosto: dal 4 al 6, tre serate all’insegna della passione e dell’eleganza con coppie di ballerini argentini e orchestre di fama internazionale. E per la prima volta a Pesaro accetterà “contaminazioni” con la musica di Rossini, nell’ambito delle celebrazioni per il 150esimo della sua scomparsa. I ballerini si cimenteranno nel “Tanguero de Sevilla”, una originale e divertente trasposizione del Maestro Roberto Molinelli in ritmo di tango dei temi principali del "Barbiere di Siviglia". Una prima assoluta. ¤


Conservatorio

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Da Pechino a Fermo sulla via della musica UNA SESSANTINA DI CINESI AL CONSERVATORIO PERGOLESI

L’ di Romano Folicaldi

essere venuto a conoscenza che una sessantina di giovani provenienti dalla Repubblica Popolare Cinese stavano studiando al Conservatorio Statale di Musica “Giovanni Battista Pergolesi” di Fermo, era stata una notizia che mi aveva colpito, piacevolmente se volete, che non mi aveva certamente lasciato indifferente. La presenza di cinquantasette studenti provenienti dalla Cina su un totale di circa cinquecento iscritti all’Anno Accademico 2016-2017 non era stata per me una notizia qualsiasi, tanto che aveva fatto sì che mi soffermassi a cercare di capirne le cause, tra le quali la prima era indubbiamente il livello dell’insegna-

mento impartito. È stato come aver visualizzato su una carta geografica una sessantina di linee rette che partendo da tante parti della Cina andavano a concentrarsi su Fermo. La differenza tra le dimensioni delle realtà in cui viviamo e quelle delle città dalle quali questi giovani provengono, il cui ordine di misura è costituito dai milioni delle persone che le abitano, fa sorgere volta a volta senzazioni di vertigine, di spaesamento, ma anche di un certo orgoglio pensando di poter essere il punto di riferimento per tali realtàEsistono in Cina numerose scuole che a livello di scuola media superiore hanno un indirizzo musicale, e il cui diploma abilita all’insegnamento


Conservatorio

Nel 1710 al religioso e musicista fermano Teodorico Pedrini l’imperatore aveva affidato l’educazione musicale dei figli

Sopra, Zheng Xue, della provincia dello Shan Dong, con il Maestro Cristina Arena della classe di Accompagnamento Pianistico In alto a destra, Xin Ting della provincia dello Hubei mentre studia un preludio di Chopin Sotto, un gruppo di studenti cinesi sullo scalone del palazzo sede del Conservatorio

30 della musica in tutte le scuole fino alle soglie dell’università. Poi si accede allo studio della musica a livello universitario, come avviene in Europa e in Italia, in particolare dopo la Riforma dei Conservatori: il Conservatorio di Fermo assieme a quello di Pesaro sono le sedi in cui il MIUR, Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, ha stabilito che nelle Marche avesse luogo l’Alta formazione Musicale, con il conseguimento della Laurea Triennale di Primo Livello e della successiva, di Secondo Livello, Biennale di Specializzazione. In Cina esistono una decina di Conservatori, che anche se di dimensioni incomparabilmente più grandi dei nostri, molto probabimente non riescono ad assorbire la domanda di accesso, o quanto meno la dilazionano. A fronte di questo c’è una fascia di famiglie il cui reddito permette la frequenza dei propri figli ai Conservatori Europei assumendosene l’onere economico per tutto il corso di studi, pensando forse anche al fatto che nei luoghi in cui la musica che definiamo per brevità “classica” è nata, si sia accumulata una esperienza globale in proposito molto forte, quale non è ancora stata raggiunta in tutto il subcontinente asiatico nonostante i grandissimi progressi messi in opera, stante la precisa volontà di acquisire e incorporare nella loro, questo aspetto della cività occidentale. Sta avvenendo, a ruoli invertiti, quanto aveva fatto nel 1710 il religioso fermano Teodorico Pedrini (Fermo 1671 Pechino 1746) inviato in Cina dalla Congregazione delle Missioni cui apparteneva, proprio in quanto musicista, ripercorrendo la strada che il Gesuita Maceratese Matteo Ricci aveva aperto a metà del ‘500. In virtù della sua preparazione musicale, era sta-

to anche allievo di Arcangelo Corelli, l’anno successivo era stato ammesso alla presenza dell’Imperatore che gli aveva affidato l’educazione musicale dei propri figli. A volte c’è un certo ritegno a parlare di aspetti economici quando si tratta di fatti e di scambi culturali: anche se di nicchia, questo è pur sempre un piccolo mercato, che se non paragonabile a quello delle Ferrari o della moda, ha in sé un’altra valenza, quella evidenziatasi nel corso di una lunga chiacchierata con Paolo Groff, de Le Cento Città, che dirige il Servizio di Pronto Soccorso e Medicina d’Urgenza dell’Ospedale “Madonna del Soccorso” di San Benedetto del Tronto. In Cina il tema della comunicazione Parlandomi della sua lunga e diretta esperienza circa l’organizzazione sanitaria sul territorio Cinese e anche di quella maturata attraverso l’ospitalità a giovani Medici Cinesi venuti in Italia, mi diceva che uno dei problemi avvertiti in Cina è quello di come affrontare la comunicazione con l’esterno, capacità di cui si avvertono carenti, e che impedisce di mettere in campo tutte le loro potenzialità e capacità che sono veramente tante. Oltre al fatto che un suo intervento su queste pagine sarebbe l’occasione di conoscere qualcosa di più di questa realtà, credo che questi giovani, avendo soggiornato a lungo in Europa, possano diventare altrettanti canali di comunicazione capaci di svilupparsi non solamente nello specifico campo di competenza. Per affrontare il problema della comunicazione linguistica e le modalità con le quali questa può avvenire, faccio un passo indietro, anche perché, se è vero che l’esperienza del Conservatorio di Fermo


Conservatorio

ha molti punti in comune con quella di altri Conservatori, è pur anche vero che ognuno ha la propria storia. A cavallo tra la fine del 1990 e l’inizio degli anni 2000 sono stato Presidente del Consiglio di Amministrazione del Conservatorio di Musica di Fermo, un’occasione molto fortunata che mi ha permesso di vivere, di conoscere questa complessa struttura, nel periodo che è coinciso oltretutto con gli inizi della Legge di Riforma, un difficile percorso che si proponeva il compito di allineare, strutturalmente, i Conservatori Italiani agli standards europei. Ero al corrente di come già da diversi anni studiassero al Conservatorio giovani provenienti dall’estero, in numeri che comunque di poco superavano la decina, in particolare dall’Estremo Oriente soprattutto per quanto riguarda lo studio del canto, quel bel canto del quale, nell’immaginario collettivo del mondo intero, sembriamo esserne i princi-

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pali depositari. Recentemente però mi era capitato di essere presente all’esibizione di un quartetto di sassofoni, soprano, contralto, tenore e baritono, e due dei giovani musicisti erano portatori di inequivocabili caratteri asiatici del loro volto. Si veniva quindi in Italia non solo per studiare canto, ma anche gli strumenti: i due giovani in proposito erano di statura piuttosto alta, simpatici, sorridenti, molto gentili, e parlavano un buon italiano, in tono calmo e pacato. Nell’anno 2000 l’attuale Direttore, il M° Massimo Mazzoni, assieme a un gruppo di Musicisti del Conservatorio Romano di Santa Cecilia, aveva compiuto in Cina uno dei primi viaggi esplorativi e di contatto per quanto riguardava la musica e le sue strutture formative. Riandando indietro nella memoria, ricordo i racconti del grande interesse dimostrato dai Musicisti Cinesi nei confronti dei Colleghi Occiden-

Docenti del Conservatorio di Fermo ogni anno in Cina per valutare i potenziali studenti da iscrivere


Conservatorio

Esistono in Cina numerose scuole che hanno un indirizzo musicale il cui diploma abilita all’insegnamento

Gli studenti cinesi per facilitare i rapporti adottano un nome italiano: nella foto Giulio (Yu Yuan Feng) e Luca (Wang You Jiang) della provincia dello Shan Dong nell'aula di sassofono con il Maestro Massimo Mazzoni

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tali, in quanto depositari di conoscenze che derivavano da una tradizione culturale musicale di secoli, tradizione che penso fosse stata marginale in Cina, quanto meno a livello di dimensioni, rispetto a quella della prevalente cultura musicale tradizionale cinese. I rapporti che via via si erano sviluppati avevano portato a che, negli anni successivi, annualmente Docenti del Conservatorio di Fermo si recassero in Cina per dare un giudizio su quali di un gruppo di Studenti Cinesi che avevano completato il ciclo di studi nei Licei a Indirizzo Musicale, sarebbero stati in grado di superare l’esame di ammissione al nostro Conservatorio: l’anno che intercorreva tra questa verifica e l’inizio del corso di laurea triennale, sarebbe stato impiegato per l’apprendimento della lingua italiana. Una delle sedi ove questo avviene è Sarnano, dove esiste una struttura didattica gestita dall’Associazione Le Antiche Torri, in grado di insegnare la nostra lingua a 150-200 Studenti Cinesi, per permettere loro di frequentare non solo il Conservatorio ma anche altre Facoltà Universitarie, appredimento poi testato e certificato da Università quali tra le altre Roma, Macerata, Perugia e Siena. Da non trascurare il fatto di poter nel frattempo continuare la pra-

tica musicale attraverso la supervisione di diplomati del Conservatorio Fermano. Il sisma ha frenato le iscrizioni Quest’anno purtroppo il terremoto e il timore del suo ripetersi hanno fatto sì che solo 70 studenti Cinesi siano presenti a Sarnano, con un riflesso negativo anche sull’economia di alcune famiglie del borgo montano preparate al soggiorno di questi giovani. Accennavo prima ad alcuni aspetti del caratttere e del comportamento di questi giovani, il sorriso, la gentilezza, il rispetto e quel senso di discrezione che non impedisce loro di instaurare poi rapporti di cordialità: sono tratti del loro comportamento sul quale concordano le persone che con loro hanno avuto un incontro. Anche qui, andando per negozi potrà capitarvi di ascoltare i commenti di apprezzamento nei loro confronti come quelli fatti dalla Signora Fabiana che gestisce un negozio di calzature di fronte alla Torretta Matteucci, vicino al Conservatorio, o dei commenti del Macellaio di Piazzetta, cuore della storica contrada di Campoleggio, il Campus Legionis, che racconta di come abbia spiegato a uno Studente Cinese cosa fosse l’osso buco e come lo si doveva cucinare. ¤


L’anniversario

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“Raffaello e i suoi amici” il progetto di Urbino ANTICIPAZIONI PER I 500 ANNI DELLA MORTE DELL'ARTISTA

L di Luigi Benelli

a trattativa è aperta. E guarda ai più importanti musei europei e d’oltreoceano. Perché il Cinquecentenario della morte di Raffaello è vicino, almeno da un punto di vista organizzativo. E il direttore della Galleria Nazionale delle Marche Peter Aufreiter intende mettere un punto fermo. “Vogliamo celebrare il maestro urbinate nel migliore dei modi e per fare una mostra d’interesse, sono necessarie almeno cinque opere di spessore”. Così la ricerca dei quadri è iniziata, una partita fatta di relazioni, attenzione ai costi assicurativi e disponibilità a contropartite. “Stiamo tessendo le giuste relazioni, ne sto parlando coi direttori dei

musei. Non voglio ancora anticipare quali perché è una partita molto delicata, ma l’obiettivo è poter realizzare la mostra “Raffaello e i suoi amici”. Un titolo che il direttore aveva già annunciato a gennaio, nel corso della conferenza stampa di presentazione degli obiettivi della Galle-

ria Nazionale delle Marche. Del resto, appena arrivato, Aufreiter aveva lanciato l’idea di portare un quadro di Raffaello ogni anno. E tra i primi c’era “Orazione nell’Orto” conservato al Metropolitan di New York, ma tutto è stato sospeso perché quelle trattative e quelle conquiste sono state tutte promesse per una data, quella delle celebrazioni del pittore urbinate. Aufreiter sa che deve giocare d’anticipo. “La mostra aprirà nell’autunno 2019, per chiudersi in primavera. Vogliamo essere noi ad aprire le celebrazioni per il Cinquecentenario della morte. Così da creare interesse e avere tanti visitatori”. Ma anche perché sa che tutto il mondo vorrà proporre mostre sul pittore ed è evidente che istituzioni più danarose potranno accaparrarsi più opere, rischiando di lasciare alcune sedi con poco in mano. Ovviamente ci saranno delle contropartite da dare, ma Aufreiter è fermo su un aspetto. “La Muta non lascerà il palazzo ducale di Urbino nell’anno delle celebrazioni. Stiamo ragionando di scambi di altre opere, ma Raffaello non si tocca”. Anche perché si vuole creare un contesto comunicativo efficace. “La nostra idea è quella di far respirare al visitatore il clima che c’era a Urbino al tempo di Raffaello. Un rinascimento matematico, dove il divin pittore si è formato. Per questo avremo anche opere di artisti che gravitavano alla corte di Urbino o sono stati fondamentali per la formazione di Raffaello. Sarà un progetto ambizioso, ma l’obiettivo è quello di far parlare a lungo di Urbino anche dopo la chiu-


L’anniversario

Cinque opere di spessore in arrivo per la grande mostra che si aprirà a Palazzo Ducale nell’autunno 2019

Nella pagina precedente, il cortile di palazzo Ducale, sede della Galleria Nazionale delle Marche Qui sopra, un particolare della Muta di Raffaello

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sura del Cinquecentenario. Quando ero a Vienna, come dirigente del Belvedere, abbiamo organizzato mostre ed eventi per l’anniversario di Klimt, nel 2012. E l’eco dei visitatori, interessati al pittore, è continuato anche negli anni successivi, pur non avendo mostre. E’ quello che vogliamo creare a Urbino. Chi vuole conoscere Raffaello, deve vivere Urbino. Dunque i pacchetti turistici non si chiuderanno nel 2020, ma proseguiranno nel tempo”. Ed è proprio questo il senso del riallestimento delle sale di palazzo ducale che guardano a un percorso più analitico che parte da Giovanni Santi, padre di Raffaello e pittore di gran livello, per approdare ai quadri dell’artista. Sale in cui il visitatore deve sentirsi dentro l’atmosfera dell’epoca e capire il contesto in cui si è formato il maestro ammirato in tutto il mondo. Saranno tre anni di fuoco perché non c’è solo Raffaello. E’ infatti in discussione in Parlamento la norma che prevede la creazione di tre comitati promotori per omaggiare, oltre che il pittore urbinate, i 500 anni della morte di Leonardo Da Vinci (1519) e i 700

anni da quella di Dante Alighieri (1321) La cifra che sarà stanziata è di quasi 3 milioni e mezzo di euro. I soldi saranno equamente ripartiti tra i tre comitati, che avranno così a disposizione 1.150.000 di euro ciascuno. I finanziamenti saranno erogati nei prossimi tre anni (450.000 euro per il 2018, mentre nel triennio 2019-2021 sarà erogato un milione l’anno). A coordinare i lavori sarà una cabina di regia composta da tre componenti scelti in rappresentanza della Presidenza del Consiglio, del ministero dell’istruzione, del ministero dei Beni culturali. “La legge offre notevoli opportunità a questo territorio – ha affermato il deputato Ernesto Preziosi – ogni comitato, infatti, dovrà provvedere ad elaborare il piano delle iniziative culturali”. In particolare Preziosi nel suo intervento ha evidenziato il rapporto tra Raffaello e Urbino. Dopo aver ricordato l’istituzione dell’Ateneo ducale, ha sottolineato come ancora oggi quell’Ateneo sia segno “di una vocazione internazionale, che la Città conserva sin da quando gli spiriti più illustri dell’epoca convenivano alla Corte di Federico e di Guidubaldo I di Montefeltro. Accanto all’Ateneo è sorta, nel 1869, l’Accademia Raffaello con il compito di conservare e promuovere il genio di Raffaello e curare il decoro di Urbino sua città natale”. Aufreiter sottolinea di aver “già lavorato ai progetti da presentare al Ministero per poter ottenere delle risorse. E ovviamente stiamo pensando anche a Dante a Gradara e Leonardo da Vinci”. ¤


Cultura e confronto

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L’opera di Tucci ponte tra Europa e Asia CULTURE A CONFRONTO NELLA "PITTURA SACRA DEL TIBET"

N di Adolfo Morganti

ell’ambito del “Progetto Giuseppe Tucci” promosso dalle Associazioni Artenomade di Macerata, e Identità Europea di Rimini, nel 2015, al termine di tre anni di intenso lavoro è stata data alle stampe, presso l’editore sammarinese Il Cerchio, la prima edizione italiana dell’opera di Giuseppe Tucci “Tibetan Painted Scrolls”, col titolo de “La pittura sacra del Tibet”. L’edizione, per la rilevanza dei contenuti e l’importanza dell’Autore, ha goduto del Patrocinio dell’Assessorato ai Beni ed alle Attività culturali della Regione Marche, è stata edita in una prima tiratura limitata e si presenta composta da due volumi indivisibili in formato 17x24 cm, per complessive 650 pagine circa, e da due DVD anch’essi indivisibili allegati ai due volumi: il primo, sul “Il contesto storico-culturale” (358 pagine); il secondo su “Evoluzione e caratteristiche delle Tanka tibetane” (con, in appendice, la riproduzione fotografica a tutta pagina delle 256 tavole inerenti le circa 120 Tanka analizzate dall'Autore. I DVD contengono, il primo, il testo originale integrale in lingua inglese dell’opera con la riproduzione fotografica in alta definizione dei Testi originali tibetani riprodotti nelle Appendici dell'Opera originale; il secondo, la riproduzione fotografica in alta definizione ed in grande formato delle 256 tavole inerenti le circa 120 Tanka analizzate dall'Autore. L’opera costituisce uno degli studi più approfonditi sull’arte e la cultura tibetana mai scritti fino ad oggi, concen-

trando per gradi la propria attenzione su una delle forme più tipiche di espressione artistica tradizionale tibetana, i rotoli dipinti a soggetto sacro definiti in tibetano “tanka”. Il lettore occidentale colto, per giungere ad una matura comprensione dell’universo simbolico-religioso delle “tanka”, viene tuttavia preventivamente condotto per mano dall’Autore in un viaggio di immenso fascino nella storia, nella geografia, nell’antropologia, della storia delle religioni, nel diritto e nella linguistica dell’altopiano tibetano, senza trascurare le sue secolari relazioni con le vicine culture mongola, cinese, islamica, indiana. Il tutto con il taglio pratico di chi, oltre a studiare e a comprendere in modo profondissimo quelle culture apparentemente lontane, ci è materialmente andato, si è immerso nei rapporti umani, nei linguaggi e negli spazi immensi dell’Himalaya per toccare con mano la realtà storica ed esistenziale delle grandi cultura dell’Asia centrale, fatto che concede ai suoi studi una concretezza ed una compartecipazione uniche. Autore di infinite pubblicazioni Giuseppe Tucci (Macerata 5 giugno 1894 – San Paolo dei Cavalieri, Roma 5 aprile 1984), è stato uno dei più grandi studiosi delle civiltà dell’Oriente del XX secolo. Studioso e profondo conoscitore della filosofia cinese e indiana classiche, a partire dagli anni ’30 del XX secolo guidò numerose spedizioni scientifiche e archeologiche


Cultura e confronto

L'autore maceratese tra i più grandi studiosi delle civiltà d’Oriente guidò numerose spedizioni scientifiche e archeologiche

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in Iran, Afghanistan, Pakistan, Nepal e soprattutto in Tibet. Nel 1933 dette vita all’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente (IsMEO, divenuto IsIAO, Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente nel 1995), che diresse fino al 1978 (dal 1947 ne fu il Presidente). Autore di una immensa quantità di pubblicazioni (saggi, monografie ma anche articoli dispersi sui più vari periodici) di grande valore sul piano scientifico ma anche spesso di attraente fascino letterario, compendiò le sue ricerche in Tibet in due famose opere: Indo-tibetica, 4 voll. in 7 tomi, Reale Accademia d’Italia, Roma 19321941, e appunto Tibetan Painted Scrolls, nell’edizione originale composta da 2 voll. in folio e una cartella con 256 tavole in bianco/nero e a colori di grandissimo formato; edita dalla Libreria dello Stato italiano a Roma nel 1949, è da anni del tutto esaurita ed introvabile anche nel mercato antiquario internazionale. Una versione a difesa del Tibet

Qui sopra, la copertina del volume "La pittura sacra del Tibet" In alto a destra, Giuseppe Tucci in una delle sue spedizioni

La ripubblicazione di "Tibetan Painted Scrolls" nella traduzione italiana, in una versione resa possibile solamente dalle più aggiornate tecniche editoriali, oltre che un dovuto tributo alla figura del grande Orientalista maceratese in occasione del 30° anniversario della Sua morte (1984-2014) ed alla Scuola orientalistica italiana che tanto ha contribuito nel corso del XX secolo a render possibile la reciproca conoscenza e confronto tra le culture di Oriente ed Occidente, assu-

me oggi una difesa e promozione della Cultura tradizionale del Tibet minacciata di estinzione, ed un indiscusso valore editoriale e scientifico di caratura internazionale. Il “Progetto Giuseppe Tucci” prosegue anche oggi attraverso lo studio e la valorizzazione editoriale degli Inediti tucciani che sono oggi custoditi presso il Museo d’Arte orientale “Giuseppe Tucci” di Roma, e nello sviluppo di un ambizioso progetto di “Parco storico-culturale” dedicato a Giuseppe Tucci ed alla secolare esperienza di rapporto fra i missionari e gli esploratori marchigiani e l’Oriente, attualmente in discussione presso i competenti Assessorati della Regione Marche, che vuole estendersi su tutto il territorio regionale per rilanciare nel terzo millennio l’antichissima vocazione del territorio marchigiano ad essere ponte fra Occidente ed Oriente, fra religioni e culture diverse, fra popoli che in un mondo sempre più piccolo non possono più ignorarsi. ¤


Il post-terremoto | 1

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La grande bellezza rinasce dalle macerie A OSIMO E ROMA IN MOSTRA I TESORI SALVATI DELLE MARCHE

D di Paola Cimarelli

alle macerie all'ammirazione. Escono dai depositi, dove forse qualcuno li vorrebbe rinchiusi fino all'arrivo del miracolo della ricostruzione, i beni culturali delle Marche, feriti, offesi, violentati dalle conseguenze del terremoto ma ancora portavoce della ricchezza artistica di questo territorio. La prima iniziativa di valorizzazione è partita da Osimo con la mostra "Capolavori Sibillini. L'arte dei luoghi feriti dal sisma". Un centinaio i capolavori esposti a Palazzo Campana fino al 1 ottobre, conservati, in buona parte, nei musei associati alla Rete Museale dei Sibillini, che comprende otto Comuni, Montefortino, Montefalcone Appennino, Smerillo, Monte Rinaldo, Montelparo, Montalto delle Marche, Loro Piceno e San Ginesio. "Dopo gli eventi sismici, è stato necessario mettere in sicurezza le opere - dice Daniela Tisi, direttrice Rete Museale dei Sibillini -, alcune nostre sedi museali erano danneggiate a tal punto da dover evacuare le intere collezioni. Il nostro deposito attrezzato di Montelparo era anch'esso inagibile e quindi, con tutti i sindaci della Rete e la Soprintendenza, abbiamo deciso di fare un'azione congiunta e di cercare una soluzione alternativa al deposito della Mole Vanvitelliana di Ancona e a quello del Forte Malatesta di Ascoli Piceno. Abbiamo avuto, per fortuna, il sostegno del Comune di Osimo che si è offerto di ospitarci nel Museo Civico, adibendolo a deposito temporaneo delle nostre opere. Abbiamo poi pensato, con il professor Vittorio Sgarbi, che ha chiuso in anticipo "Le stan-

ze segrete", di esporre alcuni dei nostri capolavori che avevamo comunque in deposito". La mostra dove, nei prossimi mesi, dice la Tisi, "sono attesi fra i più grandi direttori di musei nazionali", ha già raggiunto quello che era obiettivo prioritario cioè la raccolta di risorse per realizzare il restauro di opere danneggiate dal sisma. "Al momento è tutto assolutamente immobile - spiega la direttrice-, l'intuizione che avevamo avuto che il territorio non si sarebbe ripreso in fretta si è dimostrata vera. La nostra fortuna è stata quella di avere la lungimiranza di promuovere questa mostra perché attraverso essa e alle varie cordate di aiuto, abbiamo già restaurato venti opere". A Palazzo Campana sono esposte dalle tele di Fortunato Duranti, “artista di genio stravagante” di Montefortino, alle opere di Giaquinto e Unterpergher, dalle nature morte di Spadino, Pfeiler e Munari, alle tele e tavole del Pagani, del Ramazzani e del De Magistris. E' presente la pianeta di Sisto V, in seta e oro, testimone del livello qualitativo dell’arte del ricamo di fine Cinquecento. Muoversi fra queste opere, immaginarle ancorate ai luoghi di provenienza originali, chiese, monasteri, piccoli musei, non può far altro che aumentare l'amore per questa regione. Una passione per questa bellezza che, nel post terremoto, ha superato i confini marchigiani per arrivare nella capitale. Qui era già stata programmata l'esposizione dell'Adorazione dei pastori di Pietro da Cortona per un confronto con quella di Rubens, prestito concesso dalla Pina-


Il post-terremoto | 1

Raggiunto il primo obiettivo delle esposizioni: raccolti fondi necessari per restaurare venti opere

Nella pagina precedente, particolare di Madonna in trono con il Bambino e i santi di Vincenzo Pagani Qui sopra, l'inconorazione di Maria Vergine e santi del Crivelli dalla pinacoteca di Sant'Elpisdio a Mare

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coteca civica di Fermo, "per quella che, come a Milano nel 2015 - dice il sindaco Paolo Calcinaro -, un evento con un ritorno incredibile di visitatori a cui far conoscere la nostra città, abbiamo creduto sia un'occasione per replicare quell'operazione visto anche che stiamo lavorando per il recupero post sisma del Palazzo dei Priori, dove c'è appunto la Pinacoteca". Dopo il terremo-

to, perciò, a Pio Sodalizio dei Piceni e Comune di Fermo, con la collaborazione della Soprintendenza delle Marche e il supporto di Civita Mostre, è nata l'idea di esporre, nel complesso di San Salvatore in Lauro, altri tesori del territorio colpito anche per raccogliere fondi da destinare ai restauri. Dai "Crivelli a Rubens - Tesori d'arte da Fermo e dal suo territorio", aperta fino al

9 luglio, presenta due sezioni. Nella prima, a cura di Anna Lo Bianco, ci sono tre grandi pale che rappresentano l’Adorazione dei pastori, quella di Pieter Paul Rubens, dipinta per la chiesa di San Filippo a Fermo, e quelle di Pietro da Cortona per la chiesa romana di San Salvatore in Lauro e di Giovan Battista Gaulli, detto il Baciccio, proveniente dalla Chiesa di Santa Maria del Carmine a Fermo. Nell’altra, a cura di Claudio Maggini e Stefano Papetti, si può ammirare una raccolta di pale e polittici rinascimentali, a soggetto religioso, di Carlo e Vittore Crivelli, Pietro Alemanno, Ottaviano Dolci e Giuliano Presutti. Oltre che da Fermo, le opere provengono da Massa Fermana, Sant’Elpidio a Mare, Sant’Elpidio Morico e Monte San Pietrangeli da cui emerge la particolare cultura figurativa che ha caratterizzato quei territori nel XV e all’inizio del XVI secolo, a partire dall’arrivo da Venezia di Carlo Crivelli e, dieci anni dopo, di suo fratello Vittore. "Nella sezione, ci sono nove opere, uno su tela e otto su tavole, realizzate nel fermano - dice Maggini -, composte a loro volta da più tavole, in totale 40" con "le grandi macchine d'altare, come il Polittico di Sant'Elpidio a Mare, di grande scena, il dipinto più bello che Vittore Crivelli abbia mai realizzato nelle Marche. Un'esposizione di grande fascino". A Firenze, Aula Magliabechiana degli Uffizi, fino al 30 luglio, si può vedere la mostra "Facciamo presto! Marche 2016-2017: tesori salvati, tesori da salvare" a cura di Gabriele Barucca e Carlo Birrozzi. ¤


Il post-terremoto | 2

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Terre ferite dal sisma la forza di ripartire LA STORIA DI STEFANO E MARCO, GIOVANI ALLEVATORI

S

di Silvia Vespasiani e Paolo Groff

Lucio Porrà, sindaco di Montefiore ci conduce lungo i confini del cratere tra le macerie di Arquata e di Pescara del Tronto

aliamo la Valle del Tronto con una discreta velocità di marcia. Lucio Porrà guida e racconta. Parla dei suoi cani, di come li ha addestrati, della caccia. Parla della sua comunità, del suo paese. E’ il sindaco di Montefiore quasi da sempre e si è offerto di accompagnarci, in questo percorso tra gli allevatori colpiti dal terremoto, all’azienda di un suo compaesano, che resiste poco oltre il confine di Arquata, nel territorio di Amatrice. Intorno a noi la natura sta riprendendo con forza i colori della primavera con un verde giovane e continuamente cangiante tra i prati, i boschi e le coltivazioni, interrotto a tratti dalle curve pietrose del fiume. Lucio ci spiega di come, all’inizio, la risposta di solidarietà nei confronti delle popolazioni delle zone terremotate sia stata intensa, poco coordinata, ma spontanea. In un certo senso ne è orgoglioso perché le varie anime del suo paese si sono sentite in quell’occasione fortemente unite, dimenticando atavici contrasti e rivalità, in un unico sforzo di generosità. Così si sono procurati, in pochissimi giorni e varie peripezie, alcune roulottes ed un camper che sono stati stipati di coperte e vestiti e di tutto ciò che si riteneva potesse servire all’indomani della catastrofe. Siedo accanto a lui nell’angusto abitacolo della Panda, lo assecondo perché voglio che continui a raccontare, a farci rivivere i momenti di intensa umanità che in quei tragici giorni di fine agosto del 2016 si sono moltiplicati in tutto il territorio condiviso tra quattro regioni, e che oggi più

freddamente definiamo con il termine tecnico e un po’ inquietante di “cratere”. Veniamo quindi a sapere della carovana di roulottes partita in fretta e furia da Montefiore e diretta oltre Arquata a sostenere la famiglia di Stefano, la cui neo-avviata attività di allevatore di ovini era stata duramente colpita dal sisma. Scortate per tutto il tragitto da uno stuolo di bikers, solerti a bloccare con le loro Harley Davidson ogni incrocio che potesse, a quell’ora di tarda sera, rendere poco fluido lo scorrere di quell’insolita processione, le roulottes erano giunte a destinazione a notte inoltrata, in un buio pesto; e qui Stefano li aveva accolti tutti con il calore e l’ottimismo che noi stessi abbiamo conosciuto, improvvisando una cena a base di pasta all’olio ed arrosticini. Sul sedile posteriore Romano e Silvia conversano serenamente, ma ad un certo punto del percorso colgo il calare di un inatteso silenzio. Mi distolgo per un attimo dai racconti di Lucio e allungo lo sguardo oltre il finestrino dal suo lato e mi accorgo dei tetti scoperchiati di Trisungo e di Borgo d’Arquata e, poco più oltre, nella direzione di marcia la ferita delle macerie di Arquata e l’infinita devastazione di Pescara del Tronto. Queste visioni, drammaticamente toccanti, appaiono quasi irreali per noi che ricordiamo questi luoghi nei giorni felici dell’estate scorsa, quando con Silvia vi eravamo giunti per fare delle fotografie, completamente ignari, come tutti, di ciò che sarebbe successo di li a poche settimane. Da questo punto del percorso in avanti la presenza delle


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L’emergenza è una costane e la sensazione di immobile sospensione domina le nostre percezioni

Alcune immagini degli allevamenti che i proprietari stanno cercando di salvare dalle conseguenze del sisma Nella pagina a fianco Stefano l'imprenditore "dal sorriso contagioso" che non ha mai mollato

40 macerie alternata a strutture provvisorie d’emergenza diviene una costante: notiamo la presenza delle pattuglie dell’Esercito o delle forze di Polizia a bloccare le vie di accesso ai centri abitati, ma soprattutto, è la sensazione di immobile sospensione, di fuga della storia, di abbandono a dominare le nostre percezioni. E questa “assenza di riempimento” difficilmente può essere colmata dalla visione dei gruppi di moduli abitativi prefabbricati, costruiti ai margini di quelli che erano i centri abitati, ma tuttora vuoti di ogni arredamento o forma di vita. Così riattraversiamo il Tronto nei pressi di una vecchia casa contadina rimasta miracolosamente in piedi, il cui unico abitante residuo appare essere un cane pastore che, diligentemente abbaiando, quasi sfiora la nostra auto ad avvertirci di non ritenere questi luoghi feriti come terra di nessuno. Percorriamo quindi una strada piuttosto stretta e con molti tornanti contornati da sbalzi prativi e boschi di querce in un territorio racchiuso dal massiccio del Vettore a nord ed dai profili arrotondati dei monti della Laga a sud; superiamo sulla nostra destra quello che resta dell’abitato di San Tomasso, e giungiamo infine all’azienda agro-pastorale Passo del Brigante, meta del nostro percorso, salutati da un laconico avvertimento: “pastori abruzzesi al lavoro in libertà”. Ci vengono incontro, anch’essi solerti e quasi zelanti nel loro ruolo di difensori del confine; all’inizio non riusciamo a contarli, ma sapremo in seguito che sono nove cuccioloni scodinzolanti e non troppo feroci, accompagnati da due botoli di colore scuro, in realtà i veri “pastori” del branco. Dietro ai cani, oltre il cancello, compare Stefano, un ragazzone dal sorriso contagioso con uno sguardo intelligente e vagamente

sornione. Tranquillizza i cani, che da quel momento ci considereranno membri del gregge a tutti gli effetti, abbraccia Lucio con sentimento e ci invita ad entrare. Poco più in là una ragazza raffreddata in eskimo e pantofole, Fabrizia, fa gli onori di casa sul porticato di una villetta autocostruita in legno, ma ben presto si scusa, qui fa ancora molto freddo, ha un po’ di febbre, e quindi torna discretamente all’interno. Lavora in un supermercato ad Amatrice ed ha scelto di condividere con Stefano lo sforzo della ripresa. Davanti a noi, sotto il porticato della villetta, notiamo l’accumulo di materiali e di pacchi di conserve alimentari. L’inverno è stato duro come pochi in passato e la neve, caduta copiosissima e nefasta nei gelidi giorni delle scosse, se ne è andata solo da poche settimane. Davanti a noi una distesa di mezzi agricoli, attrezzi, oggetti più o meno abbandonati sul prato in leggera discesa verso la valle e le aspre alture all’orizzonte, nella luce chiara, ma non ancora calda della primavera sul nascere. Non ci sono problemi per le fotografie, possiamo muoverci liberamente; Stefano ci rassicura ed intanto ci spiega, ci racconta di quei giorni, delle notti passate dentro un auto, lui, la compagna e gli anziani genitori, fino all’arrivo delle roulottes. Ci parla del suo gregge, che da poche decine di capi da latte ora è salito a cento, delle stalle fornite dalla Regione a forma di hangar telonato con le coperture di colore bianco o verde alle quali, ormai, siamo abituati. Ci mostra i prefabbricati che dovrebbero servire da abitazione e da laboratorio per la produzione del formaggio. Ci sono, ma non hanno ancora gli allacci per energia elettrica, acqua e gas e quindi lui e Fabrizia continuano a vivere nella villetta in legno autocostruita, circondata dai


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barattoli di conserva. Per ora lui fornisce il latte ad un casaro che si occupa di produrre il formaggio, ma tra poco tempo, quando tutto sarà pronto, potrà diventare totalmente autonomo. Silvia, Romano ed io ci aggiriamo in questo ambiente inconsueto, per noi incantato, raccogliendo immagini qua e là dei mezzi agricoli, delle mungitrici automatiche, degli animali, dei recinti e delle stalle. Rimaniamo rapiti dalla ritualità millenaria con la quale Stefano conduce il vitello all’allattamento, dall’energia con cui getta il foraggio al turbinare di pecore e capre sotto il telone della stalla. Mentre lavora conversa tranquillamente con Lucio; noi scattiamo le nostre fotografie; i pastori abruzzesi ci proteggono e ci conducono persuasivi, appoggiando la fronte massiccia alle nostre gambe. Al momento di accomiatarci, Stefano entra in casa, scompare per qualche minuto, e quindi ricompare con una caffettiera fumante ed un vassoio sul quale ci offre una colomba pasquale alla crema. La assaggio: è buonissima; il caffè ci riscalda e ci ridà tono. Stefano sorride, scherza con Lucio, poi si fa serio per un istante, alza lo sguardo verso un punto indefinito dell’orizzonte. E’ stata dura, ammette, sono morte persone, e questo è l’aspetto più tragico. “Siete stati al paese? La mia casa è quella con le finestre verdi, salendo la strada, sulla destra. E’ ancora apparentemente in piedi. Apparentemente. Ci siamo salvati saltando da una finestra. La nonna è morta. Ma per le persone che vogliono rimboccarsi le maniche ci sono delle opportunità, e la catastrofe può non essere che l’inizio. L’inizio”. Ci abbracciamo e ci salutiamo. Torneremo presto. Ci voltiamo più volte mentre ci allontaniamo sulla stradina scoscesa tra le querce. Lucio riprende a

41 raccontare di cani e di caccia, del suo paese, della sua famiglia, di avventure e di solidarietà. Riprendiamo la strada della montagna quando è maggio inoltrato, uno di quei giorni in cui il sole sembra voler glorificare il trionfo, ormai incontrastato della primavera. Dopo un cappuccino da Torquati, Maurizio e Paola ci fanno strada lungo la valle del Chienti, su verso Pievebovigliana e oltre, Valdieia e il bivio per Camerino; poi la strada gira nella direzione opposta. Silvia ed io li seguiamo con la nostra auto; conversiamo tranquilli programmando le riprese della giornata, ma ben presto rimaniamo rapiti dalla commovente bellezza di questi luoghi, dalle vallate aperte al sole, dai sentieri che si snodano tra prati e coste selvose perdendosi dietro alture dal profilo arrotondato quasi a volerci lanciare un invito: venite, camminate! Da Polverina ci dirigiamo verso Visso, mentre attorno a noi la vegetazione assume i caratteri più tipici della montagna via via che saliamo di quota ed i boschi attorno ai lenti tornanti cominciano a diradarsi. Di quando in quando incon-

triamo alcune frazioni le cui case a lato della strada, vuote, recano sostegni in legno alle finestre, puntelli di contrasto sui muri a prevenire i crolli, crepe di varia foggia, orientamento e profondità. Ricompaiono le voragini, i materiali

Stefano racconta delle notti in auto lui, la compagna e gli anziani genitori Accanto a loro nove cuccioloni di pastori abruzzesi


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La commovente bellezza di quei luoghi delle vallate aperte al sole e dei sentieri tra i prati fa da contrappeso ai tetti scoperchiati

In alto, la bellezza dei paesaggi delle terre colpite dal terremoto Nella pagina a fianco alcuni momenti dell'attività produttiva

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sparsi, i tetti scoperchiati. Poi di nuovo la natura con la sua prepotente rigogliosità. Tra noi non ne parliamo quasi più, ma ogni volta si ripropone nel profondo dell’animo il dilaniante contrasto tra la bellezza dei luoghi e la ferita insanabile di ciò che è accaduto. Sulla strada ci fermiamo all’Agriturismo “Le Casette” per un caffè e due chiacchiere con il gestore. Un uomo gentile ed affabile, ci racconta della sua attività, mentre il personale è indaffarato nei preparativi per il pranzo domenicale. Non vuole lamentarsi, sa di essere stato fortunato ad aver salvato la propria azienda, diversamente da altri che hanno perso tutto. I danni ci sono stati, sì, ma sono riusciti a ripararli subito. Gli aiuti arrivano anche se lentamente. Ci racconta dei danni subiti da varie aziende agro-pastorali della zona e di altri territori fino a Norcia. Ripartiamo e passiamo da Cupi, poche case per lo più puntellate, e sulla nostra destra notiamo le prime strutture ad hangar telonato di un’azienda agro-pastorale colpita dal terremoto. Nell’aia davanti alle stalle un uomo sta solertemente spingendo

un gruppo di oche. Giungiamo nei pressi del gioiello bramantiano del Santuario di Macereto, uno dei tanti tesori nascosti tra le pliche orografiche di questa caleidoscopica regione. Costruito a pianta poligonale all’interno di una cinta muraria nella quale erano ricavati alloggiamenti per uomini e cavalli, testimonia dei pellegrinaggi che nel sedicesimo secolo conducevano viandanti abruzzesi e campani alla Madonna di Loreto lungo la strada detta, appunto, Lauretana. Non si potrebbe per motivi di sicurezza, ma in barba alle transenne decidiamo di farvi una breve visita per ammirare la maestosa eleganza dell’architettura magicamente immersa nella natura primigenia, per nulla scalfita dalle poche crepe e dalle puntellature apposte alle strutture circostanti. Ripresa la strada raggiungiamo finalmente la Tenuta Scolastici, azienda agro-pastorale meta del nostro viaggio. In attesa di Marco, ci aggiriamo all’ingresso dell’azienda, una struttura costituita da una grande casa, al cui piano terra si trovano lo spaccio ed i locali adibiti alla lavorazione del latte per la produzione del


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formaggio. Più a destra ci sono dei depositi e più oltre ancora i moduli abitativi provvisori, anche qui privi di allacciamenti per le utenze. A darci il benvenuto, come sempre, due cuccioloni di pastore abruzzese, non del tutto intenzionati a manifestarci la loro ferocia. Davanti alla casa, nel giardino è montata una vera yurta mongola. “All’inizio c’erano le tende della Protezione Civile” spiega Marco giunto ora dal lavoro, “ma con l’inverno che ha fatto e la neve che c’è stata non era possibile starci, così in attesa dei prefabbricati, che ancora non sono abitabili abbiamo utilizzato questa yurta che ci ha regalato una ditta di fuori regione circa alla metà di dicembre”. Marco è un giovane intraprendente laureato in economia; ha deciso di continuare la tradizione famigliare dell’allevamento con l’aiuto del fratello agronomo ed applicando metodi contemporanei ispirati alla produzione biologica e al rispetto del territorio. Governa settecentocinquanta pecore e una sessantina di asini su un terreno di trecento ettari. “Quando è arrivata la neve a gennaio, che ha raggiunto circa i tre metri, siamo riamasti bloccati per quasi una settimana. Per fortuna la yurta ci ha consentito di rimanere in questi luoghi senza congelare. Il terremoto è stato un duro colpo, ma dopo un periodo di incertezza, abbiamo deciso di investire tutto quello che rimaneva per ripartire. Non potevamo permetterci di fermarci perché quando si hanno gli animali interrompere la filiera produttiva che va dal foraggiamento alla mungitura, alla produzione del formaggio, alla stagionatura è disastroso”. Ci parla della razza ovina sopravvissana, della possibilità di costituire un marchio di tipicità per la produzione e la commercializzazione dei prodotti lattiero-caseari e della carne. Ci spiega della pos-

43 sibilità di curare la qualità ed il sapore a discapito della quantità. Ritiene che ora, più che mai, è importante che i produttori si sentano uniti attorno a questi valori. Di tanto in tanto risponde alle nostre domande curiose rispetto ad un mondo che sappiamo di conoscere poco; ci avviciniamo agli animali, li accarezziamo. Marco ci mostra la separazione dei recinti, ci spiega i percorsi quotidiani degli animali e dei lavoratori; ci illustra l’alternanza al pascolo degli ovini e degli asini a vantaggio della qualità del foraggio e del prodotto finale. Ci parla dell’antichità della sua azienda attraverso la descrizione di un muro all’interno di una stalla sul quale ci sono ancora segnate le tacche che rappresentano la produzione di forme di formaggio a partire dal settecento. “Una cosa ve la devo fare proprio vedere” e ci conduce in una cavità sotterranea, al di sotto della casa, dove da secoli avviene la stagionatura quinquennale delle forme di formaggio. È uno spazio privo di luce alle cui pareti di pietra sono apposte le scaffalature su cui le forme sono appoggiate in condizioni di temperatura ed umidità garantite da un sapiente sistema di aereazione. “E’ stata la preservazione di questo locale, nonostante le scosse di terremoto, a consentirci di mantenere la produzione, altrimenti la filiera sarebbe stata irrimediabilmente interrotta”. Vorremmo rimanere per tutta la giornata, continuare a conversare e a fare domande, mantenere il contatto con questo mondo così diverso dal nostro, eppure così vicino. Ma Marco deve lavorare ancora e nel pomeriggio avrà altri visitatori. Ci accomiatiamo con la promessa di rivederci per approfondire ancora, per raccogliere altri elementi per continuare il nostro racconto. ¤

Marco, giovane imprenditore ha resistito alla neve: È stato un duro colpo ma non potevamo fermarci, sarebbe stato disastroso


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Dal telegrafo ottico alla linea vaticana PAPA PIO IX ESTESE IL COLLEGAMENTO FINO AD ANCONA

L’ di Dante Trebbi

uomo, un po’ per istinto, un po’ per necessità ha sempre cercato di comunicare con i suoi simili. Per secoli, i mezzi utilizzati allo scopo sono stati la voce, i gesti, gli strumenti a fiato e a percussione, i segnali di fumo, i cavalli, i piccioni viaggiatori. A rivoluzionare il sistema di comunicazione furono, alla fine del 1700, i fratelli Chappe che costruirono un telegrafo ottico ad asta “ provvisto di una torre su cui era installato un palo con un braccio rotante con alle estremità due bracci minori che appositamente mossi rappresentavano numeri e lettere”. Questi movimenti potevano essere visti a qualche chilometro di distanza da un operatore munito di cannocchiale che, dopo averli decodificati, provvedeva ad inviare il messaggio ad un altro punto di osservazione. Il telegrafo ottico ad asta si diffuse rapidamente in tutti gli stati europei e particolarmente in Francia. Agli inizi del 1800 Napoleone lo utilizzò spesso per impartire ordini alle sue truppe e lo volle anche come “sentinella” dei confini del suo Regno d’ Italia. Nel 1810 Pesaro vantava due telegrafi ottici ad asta posizionati sul Monti Ardizio e S. Bartolo. Questo sistema di comunicazione molto utile per messaggi brevi e concisi, era, però, inadatto a trasmettere testi lunghi e complessi, per cui, per la normale corrispondenza, si utilizzava il vecchio servizio postale che si affidava ai corrieri a cavallo. Dopo alcuni anni di esperimenti chimici e elettrici, nel 1840 il pittore e storico Samuel Finley Breese Morse brevettò un apparecchio tele-

grafico elettromagnetico che, attraverso un filo, trasmetteva impulsi di due diverse durate (punti e linee) decodificabili con un codice da lui inventato (Morse). Inizialmente l’invenzione non riscosse un grande successo e, a crederci, fu solo nel 1843 il Congresso americano che stanziò 30.000 dollari per la realizzazione della “linea di prova Washington-Baltimora”. La riuscita dell’esperimento fu tale che, ben presto, anche l’Europa, superato lo scetticismo iniziale, sentì la necessità di munirsi di una propria rete telegrafica. In Inghilterra, ad esempio, nel 1852 era attiva una rete telefonica di 6.400 chilometri e, già da oltre un anno, era stato gettato nella Manica un cavo sottomarino che l’univa alla Francia. Anche Pio IX, il grande papa riformista del XIX secolo , non rimase inattivo. Nel 1853 inaugurò la linea telegrafica Roma-Terracina e iniziò la Bologna-Mantova. Proseguendo nel programma di rendere moderno il suo stato, il 28 gennaio 1854 autorizzò il Ministero dei Lavori Pubblici di Roma di comunicare ai delegati pontifici delle Provincie Adriatiche che era stata decisa “ la prosecuzione della linea telegrafica da Roma a Bologna per Ancona in congiungimento di quelle già attivate da Roma al confine napoletano e al confine estense”, e che “la direzione dei relativi lavori erano stati affidati all’ingegnere pontificio d’Acque e Strade, Fedele Salvatori”. Nella lettera si invitava inoltre a mettere a disposizione del direttore incaricato tutto ciò che era necessario a “concorrere alla


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46 spedita esecuzione di questa interessante opera”. Dei tremila pali previsti a coprire l’intera linea, cinquecento, da impiegarsi sulla costa adriatica, erano già da qualche tempo giacenti sulla banchina del porto di Pesaro in attesa di essere “ accuratamente controllati sia nell’altezza che nella larghezza dagli ingegneri di riparto incaricati dall’ingegnere capo” e, a collaudo effettuato, consegnati all’ appaltatore dei lavori, Agostino Buldrini. I lavori interessarono tutto l’anno 1854. Nel frattempo veniva costituita, sotto la direzione del Ministero stesso, una “Direzione Superiori dei Telegrafi” con a capo un direttore Generale. Un impiegato pronto in caso di guasti

I fratelli Chappe alla fine del 1700 rivoluzionarono il sistema di comunicazione con una torre dotata di bracci rotanti

Alcuni esempi di telegrafo ottico ad asta con torre su cui era installato un palo con braccio rotante e due bracci minori che nel movimento rappresentavano numeri e lettere

Gli uffici telegrafici venivano aperti a Bologna, Ancona, Foligno e Terni ed erano a disposizione del pubblico “durante il tempo che il Governo lasciava le linee telegrafiche a servizio dei privati”. Per intervenire immediatamente in casi di guasti, erano stabiliti a Pesaro, Terni e Macerata, dei Posti di Osservazione con un impiegato con il grado di Secondo Telegrafista o Aspirante, e una guardia “che doveva fare da ufficio e anche da portiere”. Fra i compiti del Secondo Telegrafista vi era anche quello di “dimorare sempre nella camera dove era installato il telegrafo per mezzo del quale poteva accertarsi della regolarità del servizio e, se l’eventuale guasto richiedeva una riparazione molto lunga, doveva ricevere i dispacci dall’Ufficio con cui era in comunicazione e provvedere a trasmetterli, per posta o staffetta, alla stazione interrotta ”. L’intera linea era ripartita in cantoni e ognuno di questi era sorvegliato da guardie e da cantonieri stradali con il compito di “riparare i guasti e darsi cura

di scoprire gli autori di danni portati ai fili e a tutti i materiali della linea telegrafica”. Difficile fu trovare a Pesaro il luogo ove situare l’Ufficio di Osservazione. Alla fine venne scelta “per luce e salubrità dell’aria”, una delle tre camere del Palazzo Apostolico, (attuale Prefettura), occupate della Commissione Provinciale. Mentre i lavori della linea proseguivano alacremente, il Delegato Pontificio della Provincia era “sommerso” di domande di richieste di impiego molte delle quali avevano allegato il certificato parrocchiale in cui si rilevava “la morale e civile condotta del richiedente” . Il posto fisso è sempre stato molto ambito e quindi non desta meraviglia se fra questi aspiranti al posto di sorvegliante o cantoniere vi fossero artigiani pronti a chiudere le proprie botteghe o contadini a lasciare i loro campi. Il 13 gennaio 1855 la linea telegrafica era terminata e, riportano le cronache, i cinquecento pali scaricati


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nel porto di Pesaro erano stati utilizzati per il tratto Fano-Cattolica. Ad occupare il Posto di Osservazione di Pesaro, vennero nominati: come Aspirante, Raimondo Bilancioni e, come Guardia – Portiere, Annibale Soriani. Il far correre dei fili sorretti da pali per decine di chilometri si rilevò ben presto una impresa ardua e piena di imprevisti. Pochi giorni dopo l’attivazione della linea, una serie di guasti mise a dura prova le guardie e i cantonieri. Caccia agli autori degli atti vandalici Soltanto nel primo cantone Cattolica-Marotta si contarono decine di interruzioni. Dapprima si pensò che la causa fosse da ricercare nella scarsa qualità dei materiali impiegati in quanto molti “porta-isolatori” risultavano staccati dal palo. I tecnici, pur ammettendo l’inconveniente, ritenevano però che il distacco del porta-isolatore non po-

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teva produrre la rottura del filo per cui l’interruzione della linea era dovuta soltanto ad atti vandalici. A tale scopo venne ordinato alle direzioni di Polizia di Fano, Mondolfo e Senigallia, nelle cui giurisdizioni i guasti erano molto frequenti, l’ordine di impiegare ogni mezzo possibile per scoprire l’autore e gli autori promettendo “una regalia da dare a chiunque ne fosse stato il denunciante”. Il 23 marzo 1855, la Direzione Superiore dei Telegrafi Vaticani, comunicava a tutti gli Stati limitrofi che la sua linea telegrafica aveva raggiunto tutti i loro confini. L’anno successivo, dopo un periodo di prova riservato solo alla pubblica amministrazione, il servizio venne esteso anche ai privati per cui si rese necessario trasformare i posti di osservazione in vere e proprie stazioni telegrafiche. Una lettera inviata da Roma il 5 luglio 1856 al Delegato Apostolico della Provincia di Pesaro-Urbino comunicava la notizia della

Pesaro poteva vantare due telegrafi ottici su Ardizio e San Bartolo e un Posto di Osservazione


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Molti artigiani e contadini disposti a lasciare campi e botteghe per un posto fisso come sorvegliante del telegrafo

In alto, uno dei fratelli Chappe che alla fine del 1700 rivoluzionò il sistema di comunicazione

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trasformazione e ordinava di ampliarla con altri due locali: uno da riservarsi al pubblico per invio o ricevimento di messaggi; l’altro, per poter “alloggiare” le batterie. Nello stesso mese, Senigallia che nonostante le suppliche, si era vista negare nel 1854 il Posto di Osservazione, ebbe finalmente la propria stazione telegrafica. Fu proprio Senigallia che ricevette il 27 aprile 1857 l’ordine di controllare accuratamente la linea Ancona- Senigallia in occasione della visita di Papa Pio IX al Santuario di Loreto. Negli anni seguenti lo sviluppo della linea telegrafica continuò senza soste in tutto il territorio vaticano: il 24 settembre 1858 venne inaugurata la stazione di Perugia; il 2 ottobre 1859 quella di Fano nel Palazzo Maccheroni sul Corso (dichiarata inadatta e trasferita dopo soli 15 giorni nel palazzo del Canonico Paolo Palazzi) e un primo tempo riservata ai soli messaggi di Stato. Molto probabilmente lo Stato Pontificio, saldamente protet-

to dall’Austria, pensava di rimanere immune dagli eventi politici che da qualche anno turbavano gli Stati a lui confinanti. La sua politica era sempre stata di una “neutralità disarmata”. Infatti, da secoli permetteva alle truppe straniere di transitare sul suo territorio chiedendo soltanto di non provocare danni ai suoi abitanti. Con questa illusione, nei primi mesi del 1860, nonostante l’Austria avesse ritirato le sue truppe da Ancona, erno state aperte le stazioni telegrafiche a Urbino e Gubbio e quelle di Fossombrone e Città di Castello erano già in via di costruzione. L’11 settembre 1860, con l’occupazione dello Stato Pontificio, fu molto facile per il nuovo Regno d’Italia terminare l'intera linea. I due grandi innovativi progetti, voluti da Pio IX, la ferrovia e la linea telegrafica rimanevano per il Papa un sogno. Nel 1861, a beneficiarne senza aver sostenuto alcuna spesa, era Vittorio Emanuele II. ¤


Il personaggio

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La commedia di Caro specchio reale del ’500 ANNIBAL, TRADUTTORE E DRAMMATURGO CIVITANOVESE

A

di Alberto Pellegrino

nnibal Caro deve essere considerato una delle figure più rappresentative del Rinascimento, autore di una raccolta di 485 Lettere ai Familiari (Venezia, 1572-1575) che costituiscono un epistolario particolarmente importante per la storia italiana, in quanto contiene una serie d’informazioni sulla cultura rinascimentale con argomenti di carattere letterario, artistico, religioso, politico e sociale. Il Caro ha scritto anche il Commento di ser Agresto da Ficaruolo sopra la farina Ficata del padre Siceo, la Diceria composta in omaggio al naso di Giovanfrancesco Leoni e La statua della Foia, ovvero di Santa Nafisa; ha lasciato diverse canzoni e raccolte di sonetti d’ispirazione burlesca, amorosa o celebrativa, opere che sono state poi riunite nel volume Le rime. Ha tradotto la Poetica di Aristotele e le Lettere a Lucilio di Lucio Anneo Seneca. Annibal Caro nasce a Civitanova Marche nel 1507 da una famiglia benestante e compie gli studi umanistici con il poeta teramano Rodolfo Iracinto. Nel 1525 è assunto a Firenze come precettore di Lorenzo e Antonio Lanzi, nipoti del cardinale Giovanni Gaddi, avendo così modo di frequentare gli ambienti letterari cittadini. Nel 1529 segue monsignor Gaddi a Roma, dove rimane fino al 1542, entrando a far parte dell’Accademia dei Vignaioli che in seguito prende il nome di Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Letteratura dei Virtuosi del Pantheon. Nel 1533, durante un breve soggiorno a Napoli, conosce i letterati Bernardo

Tasso e Luigi Tansillo, il filosofo Bernardino Telesio e il riformatore religioso Giovanni Valdes. Dopo la morte del Gaddi, nel 1543 Annibal Caro passa a Roma al servizio di Pier Luigi Farnese, figlio del papa Paolo III, svolgendo missioni di carattere giuridico, politico e diplomatico. Nel 1547 Pier Luigi Farnese è assassinato a Piacenza e il Caro, dopo un breve periodo al servizio di Ranuccio Farnese, entra nella corte del cardinale Alessandro Farnese, influente uomo politico e grande mecenate delle arti, con il quale rimane dal 1548 al 1563 conquistando la fama e la stima tra i letterati e gli artisti che lavorano per il cardinale. Sempre per conto del cardinale Alessandro Farnese, tra il 1562 e il 1565, compone una serie di soggetti mitologici per gli affreschi che Taddeo Zuccari realizza per gli appartamenti privati del cardinale nella magnifica villa di Caprarola. Siamo di fronte al primo esempio di una sceneggiatura che viene scritta da un letterato per un pittore, il quale si assume il compito di tradurre in immagini le scene così come sono state descritte. Di particolare importanza è il soggetto allegorico dell’Aurora che il Caro inventa per la camera da letto cardinalizia, dedicato al sonno e al risveglio. Annibal Caro ripete l’operazione nel 1564, scrivendo i soggetti degli affreschi per la sala dei Giganti nel Palazzo del principe Pierfrancesco Orsini. Stanco della vita pubblica, nel 1563 il Caro si ritira a vita privata nella sua villa presso Frascati, dove si dedica alle sue ultime opere. Muo-


Il personaggio

50 re a Roma nel 1566 e viene sepolto nella Chiesa di San Lorenzo in Damaso. Riscopre Longo Sofista

Con “Gli Straccioni” occupa un posto di rilievo nella storia della commedia italiana del Cinquecento

Annibal Caro ha avuto il merito di avere riscoperto e fatto arrivare fino a noi quest’opera narrativa che egli ha tradotto in un italiano raffinato ed estremamente espressivo. Si hanno poche notizie su Longo Sofista che, tra i romanzieri dell’antica Grecia, deve la sua fama al romanzo pastorale Le avventure pastorali di Dafni e di Cloe il quale, soprattutto per merito del Caro, è diventato un modello della narrativa erotica moderna. L’opera, probabilmente scritta tra il 235 e il 238 d.C., è ambientata nell’isola di Lesbo e narra le vicende di Dafni e Cloe che, abbandonati appena nati dai loro genitori, diventano pastori di capre e di pecore. L’opera, basata su un intreccio di diverse avventure, risulta interessante per la descrizione poetica del mondo arcadico-pastorale, per il nascere e l’intensificarsi del desiderio sessuale e dell'amore tra due adolescenti allevati da due pastori in una Lesbo bucolica e fantastica. Il traduttore dell’Eneide

In alto, Annibal Caro traduttore, poeta e drammaturgo del 1500 A fianco, un particolare della Sala del Mappamondo a Palazzo Farnese

Tra il 1563 e il 1566 Annibal Caro porta a termine la sua celebre traduzione dell’Eneide di Virgilio, che nel 1581 è pubblicata a Venezia dall’editore Giunti. Non si tratta di una semplice traduzione ma di un rifacimento imitativo del poema virgiliano, perché Caro non concepisce questa operazione come un recupero filologico, ma come un grande e nobile esercizio di riscrittura creativa. Questa Eneide, la cui fama è arrivata fino ai nostri giorni, presenta alcuni stilemi espressivi danteschi e petrarcheschi, ma si può definire soprattutto un’opera ariostesca per la perfetta

fusione tra l’eroico e il meraviglioso. Il grande poema di Virgilio rivive attraverso la nuova linfa poetica che Annibal Caro infonde nelle vicende di Enea, nel dramma di Didone, nell’eroismo e nella generosità di Eurialo e Niso, nella dolorosa morte della guerriera Camilla, nel valore di Turno. Il letterato marchigiano, scegliendo di rendere in ottave il poema virgiliano, si rifà alla tradizione epico-cavalleresca delle corti italiane tra Quattrocento e Cinquecento, per cui questo rifacimento si riallaccia ai poemi dell’Orlando Innamorato del Boiardo, dell’Orlando furioso dell’Ariosto, della Gerusalemme liberata del Tasso; ha poi influenzato le traduzioni dell’Odissea del Pindemonte e dell’Iliade del Monti, nonché i poemi Il giorno del Parini e Le Grazie del Foscolo. L'opera degli Straccioni Con quest’opera, scritta nel 1543 e stampata postuma a Venezia nel 1582 da Aldo Manuzio, Annibal Caro entra a pieno diritto nella storia della commedia italiana del Cinquecento, occupandovi un posto di rilievo. La Commedia degli Straccioni si allontana dalla tradizione del teatro erudito rinascimentale, perché l’autore non s’ispira a Plauto e a Boccaccio, ma sceglie come fonte d’ispirazione il romanzo greco Le avventure di Leucippe e di Clitofonte di Achille Tazio, Un particolare aspetto della commedia è costituito dal fatto che i personaggi hanno una precisa caratterizzazione umana e sociologica: Giovanni e Battista Canali detti Gli Straccioni sono realmente esistiti, appartengono alla nuova borghesia mercantile e sono noti per la loro avarizia e per il loro abbigliamento trasandato; l’amministratore Marabeo e lo stampatore Barbagrigia (anche lui un perso-


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naggio realmente esistito con il nome di Antonio Blado d’Asola) sono esponenti della piccola borghesia urbana; i servi e i bravi Ciullo, Lispa e Fuligatto sono i rappresentati del proletariato delle borgate romane. La componente “colta” della commedia traspare nell’azione del quarto atto (scena V), quando un pazzo di nome Mirandola rivendica dagli Straccioni il possesso di una certa quantità di gioielli; allora i mercanti lo ingannano, convincendolo a rinunciare ai preziosi in cambio di una pietra eliotropia e di un anello che rende invisibili. La pietra eliotropia è un preciso riferimento al dono che gli amici fanno a Calandrino nel Decamerone (terza giornata, terza novella), mentre l’anello magico ricorda quello usato da Angelica nell’Orlando Furioso per sfuggire alle voglie dei suoi pretendenti. La trama della commedia L’antefatto. Franco, fratello del padre di Tindaro, nel 1527 arriva da Genova a Roma, dove muore subito dopo la nascita del figlio Giordano, che qualche anno dopo si reca in Oriente per reclamare l’eredità di Paolo, padre di Argentina e fratello di Giovanni, ma è catturato dai pirati turchi. Dopo due anni, la moglie Argentina lo manda a cercare dal servo Pilucca, che a sua volta è fatto prigioniero dai Turchi e che apprende la notizia della morte di Giordano. A Genova Tindaro s’innamora di Giulietta, figlia del mercante Giovanni degli Straccioni che nega il suo consenso, ma Giulietta ricambia l’amore per Tindaro, che decide di rapire la fanciulla e di fuggire verso Corfù, ma i due sono catturati dai pirati turchi. Allora Tindaro, con la scusa di cercare i soldi per il riscatto, convince i turchi a sbarcarlo su un’isola, dove incontra il capitano di una galea vene-

51 ziana che accetta di inseguire i pirati, i quali decidono di assassinare Giulietta, uccidendo in realtà un’altra donna. Tindaro è costretto a fermare la nave per recuperare il cadavere della fanciulla amata, quindi si reca a Roma assumendo il nome di Gisippo. Di lui s’innamora la vedova Argentina, ma il giovane non ricambia questo sentimento per restare fedele alla memoria di Giulietta. I pirati sono sconfitti dalle galee pontificie e Giulietta diventa la schiava di un capitano cristiano che la vende a Marabeo, il quale porta la ragazza (che ha preso il nome di Agatina) nella sua casa di Roma per tenerla come schiava e farne l’oggetto delle sue voglie sessuali, senza però riuscire a vincere la sua resistenza. Giovanni e Battista Straccioni inviano una lettera alla madre di Tindaro, nella quale danno il loro consenso alle nozze con Giulietta. La donna manda allora a cercare il figlio dall’amico Demetrio che è a sua volta catturato dai Turchi e che incontra il servo Pilucca. Dopo cinque anni i due riescono a fuggire e arrivano a Roma: Demetrio vuole cercare Tindaro, mentre Pilucca vuole ritornare al servizio di Argentina. Giungono a Roma anche i fratelli Straccioni per avere notizie di Tindaro, ma anche per farsi restituire alcuni gioielli rubati alla famiglia genovese dei Grimaldi. La vicenda scenica. Gli avvenimenti si svolgono a Roma nel 1543 sotto il pontificato di Paolo III e precisamente a Campo de’ Fiori, dove sorge Palazzo Farnese e dove si trovano anche la bottega dello stampatore Barbagrigia e la casa di Marabeo. Demetrio e Pilucca, una volta giunti a Roma, incontrano Barbagrigia, al quale comunicano la notizia della morte di Giordano, il marito di Argentina. Demetrio incontra prima gli Straccioni poi Gisippo (Tinda-

Gli Straccioni sono realmente esistiti appartengono alla nuova borghesia mercantile, noti per l’avarizia e gli abiti trasandati


Il personaggio

L’azione teatrale si svolge in una Roma convulsa e caotica dove regnano inganno e violenza malaffare e imbroglio

52 ro), il quale gli dice della morte di Giulietta e dell’infatuazione che ha per lui la vedova Argentina, allora Demetrio e Barbagrigia cercano di convincere il giovane a prenderla in moglie. Pilucca incontra Marabeo e viene a sapere che l’uomo tiene prigioniera Agatina (Giulietta) e decide di aiutarlo nei suoi intrighi per tenere a bada la serva Nuta che ha parlato con Giulietta e ha ricevuto da lei una lettera da consegnare al governatore per impedire le nozze fra Tindaro e Argentina e poter così continuare a derubare la padrona. Per ostacolare il matrimonio, essi fanno credere a Demetrio che Argentina è rimasta incinta per opera di un cardinale. A questo punto Demetrio suggerisce a Gisippo (Tindaro) di fingersi malato. I due Straccioni scoprono la vera identità di Tindaro e l’avvenuta morte di Giulietta, per cui decidono di rivolgersi al procuratore Rossello per avere giustizia. Frattanto Giordano, che è fuggito dai pirati, è ritornato a Roma e apprende che Marabeo tiene chiusa in casa Agatina (Giulietta) e cerca a sua volta di sedurla senza riuscirci. Egli apprende anche la notizia del prossimo matrimonio di sua moglie con Tindaro, per cui Marabeo e Pilucca suggeriscono a Giordano di uccidere il giovane nella speranza che i due si eliminino a vicenda. I due malandrini vorrebbero nascondere Giulietta in un altro luogo, ma la ragazza riesce a fuggire e a chiedere soccorso al procuratore Rossello che le trova rifugio in casa di Argentina. Si arriva così al lieto fine: Tindaro e Giordano scoprono di essere cugini e si riconciliano; Argentina scopre di essere la nipote di Giovanni degli Straccioni, il quale dà il suo consenso al matrimonio tra Giulietta e Tindaro; Marabeo e Pilucca sono perdonati di tutti i loro inganni.

Le note della commedia La commedia di Annibal Caro rientra in quel teatro rinascimentale che assume una nuova dignità letteraria e diventa l’espressione della borghesia urbana più colta e spregiudicata che esalta i valori dell’Umanesimo, ma nello stesso tempo porta sulla scena con un certo realismo materialista la vita quotidiana, di cui la commedia vuole rappresentare lo “specchio” (comedia imitatio vitae). La commedia diventa un “gioco” che tende allo sconvolgimento sociale ma, una volta fatto un determinato percorso e raggiunto il culmine della turbativa, tutto ritorna nell’ordine costituito e i conflitti si ricompongono anche nelle opere di quegli autori che sembrano voler affermare una loro autonomia critica e una violenza contestativa nei confronti del sistema sociale (Pietro Aretino, Niccolò Machiavelli, Giordano Bruno). La commedia rinascimentale prende come punto di riferimento ideologico il Decamerone del Boccaccio, opera sostanzialmente “borghese” che fornisce un vasto repertorio d’intrighi, inganni amorosi e atroci beffe, risultando l’immagine più variegata, laica, intelligente e moralmente disinibita di quella società urbana che la commedia si propone di “riflettere”. E’ evidente che dinanzi a una realtà che si evolve rapidamente, si preferisce rappresentare le classi sociali presenti nella società del tempo: l’aristocrazia che comincia a perdere potere e che ha ormai un peso marginale; una borghesia che consolida la propria fisionomia di classe socialmente emergente fino a diventare la vera protagonista teatrale, come nel caso degli Straccioni; le classi subalterne che sono rappresentate da qualche artigiano, dai bravi e soprattutto dai “servi” che, pur mettendo spesso la


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loro intelligenza al servizio dei padroni, rimangono sempre in sott’ordine rispetto alle altre classi sociali. Bisogna anche rilevare che La Commedia degli Straccioni appartiene al genere della commedia urbana, nella quale l’azione teatrale si svolge in un ambiente cittadino che in alcuni casi corrisponde alla città di Roma (Gli straccioni, La cortigiana e La Talanta dell’Aretino) alla città di Firenze (La Mandragola), alla città di Venezia (La Venexiana). Nel caso della commedia del Caro siamo di fronte a una Roma convulsa e caotica abitata da funzionari e cortigiani della curia papale, dalla categoria emergente dei mercanti, da una plebe composta di servitori e parassiti, bravi e mendicanti, una società che ruota intorno alla corte pontificia che ha già subito lo choc della Riforma protestante e che ora comincia ad avvertire i rigori della Controriforma. E’ uno spaccato della Roma cinquecentesca con le sue strade e le piazze dei sobborghi, nelle quali circolano il malaffare e l’imbroglio, dove regnano l’inganno e la violenza, lo specchio di una nuova società mercantile basata sulla mimesi del quotidiano dove le azioni si complicano a causa delle doppie personalità, dei travestimenti, degli scoppi di gelosia e delle liti furibonde, delle disgrazie vere o presunte, delle finte morti e delle improvvise resurrezioni. Annibal Caro non è uno scrittore problematico e aggressivo come il suo contemporaneo Pietro Aretino, che vedeva nella realtà sempre qualcosa di provocatorio. Il letterato marchigiano guarda con indulgenza il formicolante mondo minore che si agita a Campo de’ Fiori. Egli osserva in modo divertito persino i raggiri dei furbi, le soperchierie dei prepotenti e dei marioli e ci presenta uno spaccato di vita sociale dominata dal

53 culto della robba e del denaro, da un desiderio di possedere uomini e cose che coinvolge ricchi e poveri, artigiani e fattori, donne e servi, ladri e profittatori. L’altro sentimento dominante è l’amore, una forza così potente da rendere schiavi, “un gioco” basato su comportamenti che riflettono il moralismo rinascimentale, il quale impone l’obbedienza a precise regole e l’uso di azioni da cui ogni personaggio tende a ricavare il massimo utile possibile. In questo gioco dei sentimenti non rientrano i due innamorati (Tindaro e Giulietta) che sono infelici e perseguitati dalla sfortuna, ma che arrivano a una felice soluzione con l’affermazione dei loro sentimenti amorosi basati sulla “dedizione eterna e fedeltà indiscussa”. I personaggi femminili meritano una particolare attenzione, perché riflettono la condizione della donna nella società del Cinquecento e quindi della mentalità dell’autore. Nella commedia le donne hanno un ruolo marginale, perché sono “raccontate” dai personaggi maschili più che essere realmente presenti sulla scena. La ricca e bella vedova Argentina fa una brevissima apparizione nel quinto atto (scena I). Giulietta, che dovrebbe essere la protagonista femminile, compare solo nel quarto atto (scene III e IV), mentre si conoscono le sue avventure e i suoi sentimenti amorosi attraverso una lettera indirizzata al giovane Tindaro. Bella, saggia, onesta, decisa a difendere la propria illibatezza, Giulietta è la” vergine e martire” che non si arrende alle disgrazie e che non concede il proprio corpo nemmeno di fronte alla violenza; è l’oggetto del desiderio maschile che trova il proprio riscatto morale e sociale soltanto attraverso il matrimonio. La figura opposta è quella della serva Nuta, che appartiene

Nella sua commedia i personaggi femminili hanno un ruolo marginale Riflettono la loro condizione in quel periodo

A sinistra, la tomba di Annibal Caro nella Chiesa di San Lorenzo in Damaso Sopra, il frontespizio di un volume dell'autore Nella pagina seguente, un'immagine della celebre traduzione dell'Eneide compiuta tra il 1563 e il 1566


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Celebre la sua traduzione dell’Eneide concepita come esercizio di riscrittura creativa influenzando i lavori di altri autori

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al proletariato urbano e che non trova il proprio riscatto nemmeno con il matrimonio, perché rimane un oggetto sessuale nelle mani del disonesto e spietato Marabeo. Struttura della commedia Nella Commedia degli Straccioni è presente la tipica struttura della commedia cinquecentesca con la suddivisione in cinque atti, a loro volta suddivisi in scene per rendere più funzionale l’azione teatrale. Il testo, che di solito si apre con la dedica a un personaggio illustre, ha invece inizio con un’Avvertenza degli stampatori seguita dall’indicazione dei personaggi e da un ampio Prologo, nel quale viene esposto l’antefatto, cioè gli avvenimenti avvenuti nel passato che servono a comprendere meglio quanto avverrà sulla scena. Seguono quindi gli atti secondo un consolidato schema teatrale: nel primo è introdotta la storia e sono presentati i personaggi principali; nel secondo, terzo e quarto atto si procede allo svolgimento dell’azione con i vari episodi che compongono l’intreccio; nel quinto si arriva allo scioglimento della vicenda, ripristinando l’ordine ed eliminando ogni elemento di sovvertimento e di stravolgimento dei ruoli assegnati alle varie classi sociali. Gli stessi personaggi rientrano nella tipologia della commedia rinascimentale: vi sono i giovani innamorati destinati a superare ogni tipo di ostacoli che si frappongono al felice epilogo del loro amore; i padri severi che, per eccessivo rigore morale o per avarizia, cercano di ostacolare il

disegno amoroso dei loro figli o figlie; i mariti gelosi e violenti e le vedove (o presunte tali) smaniose di nuovi amori; gli amici e i servitori che sono fedeli consiglieri, oppure autori d’intrighi e di congiure per fare i propri interessi e migliorare il loro status sociale; vi sono infine i bravi disposti a compiere delle vere e proprie azioni criminali destinate a essere puntualmente sventate. Nella commedia del Caro sono presenti alcuni elementi ricorrenti nell’azione teatrale cinquecentesca. Il primo è costituito dal motivo matrimoniale intorno al quale ruotano i vari microcosmi familiari, introducendovi un disordine iniziale che via via si ricompone nell’armonia finale, per cui anche i personaggi “negativi” finiscono per riacquistare una fisonomia positiva, oppure sono definitivamente espulsi dalla società per non comprometterne l’equilibrio. Il secondo elemento è lo scambio di persona cui l’autore ricorre per rendere più spettacolare l’intreccio, ponendo i personaggi principali al centro di complicati inganni ed equivoci. Il terzo elemento è l’agnizione, la quale si verifica quando tutti coloro che hanno assunto le sembianze e il nome di un altro riprendono la loro vera identità e il loro ruolo sociale, per cui si arriva alla ricomposizione dell’ordine sociale e della morale vigente, messi momentaneamente in crisi dallo scambio di persona. L’azione teatrale si conclude con l’immancabile lieto fine che pone termine a ogni scontro ed equivoco, ripristinando la pace sociale e il gioco amoroso dei giovani innamorati. ¤


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Camerino, università di ambizione europea BELOGI: QUEST'ISTITUTO SECOLARE DÀ DEL TU ALLA STORIA

A cura di Alessandro Rappelli

A sinistra, il coordinatore di "Freschi d'Accademia" Alessandro Rappelli A destra, il presidente delle "Cento Città" Marco Belogi

“F

reschi d’Accademia” è una iniziativa dell’Associazione Le Cento Città che intende valorizzare e far conoscere le eccellenze scientifico-culturali espresse nell’ultimo triennio dalle Università marchigiane. In questo contesto, i Rettori individuano quelli che, a loro giudizio, sono stati i migliori risultati ottenuti nell’ultimo triennio. E i docenti o ricercatori responsabili di tali successi li illustrano nel corso di un convegno. Dopo la prima edizione ad Ancona nel 2016, quest’anno l’iniziativa “Freschi d’Accademia” si è svolta a Camerino nella Sala Convegni del Rettorato dove sono state presentate le relazioni dei professori Guido Favia per l’Area Agro-Bio-Medica, Paolo Bianchi per l’Area Giuridico-Economica e Fabio Marchesoni per l’Area Tecnologica. “Più volte – è intervenuto il presidente dell’Associazione Le Cento Città Marco Belogi - in passato ci siamo recati in questa bella città per ammirare i suoi tesori artistici, i suoi monumenti, i suoi stupendi paesaggi. Questa volta il motivo è diverso: entriamo dentro l’Università di Camerino, il cuore pulsante della città, per conoscere e rendere visibili le eccellenze scientifico culturali, attraverso l’evento Freschi di Accademia, curato egregiamente dal nostro prof. Alessandro Rappelli, evento che rientra tra le iniziative più importanti e di maggior prestigio della nostra associazione. Oggi Camerino rappresenta una delle più interessanti e innovative realtà universitarie italiane. Camerino è l’Università stessa,

anche perché il numero degli studenti supera quello degli abitanti. Questa istituzione trae la sua linfa da una storia secolare che si è perfettamente integrata nella realtà attuale, proponendo un’offerta didattica differenziata e all’avanguardia come testimoniano i numerosi master e le moderne tecnologie telematiche adottate. Una vera sfida, tesa anche a difendere la prima industria del territorio, che offre la magia dell’accoglienza, un messaggio culturale quale modello di vita, di qualità, di appartenenza, di riservatezza che continua a proporre da secoli e oggi più che mai valida di fronte alla devastazione del terremoto. Camas, parola da cui deriva il nome Camerino, significa roccia. Infatti la città sorge su una delle tante rocce che caratterizzano la nostra terra e che resiste senza crollare, nemmeno davanti ai disastri del terremoto. Questa istituzione universitaria secolare può dare del tu alla storia. Generatore di potenzialità, come ama definire l’Università il prof. Cacciari, Camerino è luogo del sapere da tempo immemorabile. Di ambizione europea, ieri come oggi. Spigolando tra gli antichi statuti della Città, sono rimasto colpito dall’attenzione riservata da sempre allo studio. Siamo nel Duecento e la Comunità Camerte si preoccupa e dispone che siano adeguatamente divulgati i bandi per i giovani che si rendono pellegrini per amore della scienza. Le Marche, terra cosparsa di Civitates, è ricca di comunità che si preoccupano per diffondere il sapere, lo studio, la scientia humanitatis. Tutto questo ancor’oggi ci affascina e ci ri-


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Il rettore Corradini: nonostante il sisma l’ateneo ha registrato un incremento degli iscritti e delle matricole

empie di orgoglio. Come medico non posso non ricordare la facoltà di medicina, purtroppo soppressa nel 1923 anche per incomprensioni campanilistiche con il capoluogo regionale, le cui propaggini rimangono vive nelle facoltà di Farmacia con il famoso orto botanico, Veterinaria, Scienze. Scuola da cui è uscito Augusto Murri, il più grande clinico dei primi Novecento, che ha posto le basi del moderno metodo

clinico. Uno dei geni marchigiani, che D’Annunzio stimava ‘come il medico che meglio sapeva scrivere’, che qui Camerino aveva avuto come maestro Leopardo Betti, antesignano negli studi di fisiopatologia. Scuola da cui sono usciti schiere di valenti medici ,poi docenti presso altri luoghi dopo essere stati abilitati nelle due università maggiori dello Stato Pontificio, Roma e Bologna. E che dire della scuola di Ostetricia, tra le prime in Italia, collegata alla Sapienza di Roma e soppressa nel 1998. Di fronte a questa storia luminosa, noi che apparteniamo al terzo Millennio ci poniamo ancora gli interrogativi di sempre: antico - moderno, passato - futuro, conoscen-

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za - competenza, formazione-professione, riecheggiando più o meno consapevolmente la Querelle seicentesca degli Antichi e dei Moderni. L’augurio dunque che noi facciamo a questo antico ateneo marchigiano, è quello di continuare ad accogliere i giovani che si rendono pellegrini per amore della scienza con i mezzi comunicativi di oggi, ma nel solco di quello spirito antico che ha sorretto l’ateneo fino ai nostri giorni.” I momenti drammatici del recente sisma e le conseguenze sono stati ricordati dal Rettore Flavio Corradini: sede centrale dell’Ateneo totalmente inagibile, dal Rettorato alla Direzione Amministrativa alle Aule, così come centinaia di abitazioni che ospitavano migliaia di studenti. In tempi rapidi l’Università ha dovuto trovare nuove aule, nuovi spazi e nuove sistemazioni per gli studenti. E malgrado le difficoltà ed i tempi stretti a garantire lo svolgimento dell’anno accademico, l’Ateneo ha registrato un incremento del numero di iscritti, con un aumento significativo delle matricole. Il rettore ha poi ricordato che per garantire a tutti gli studenti lo studio, è stata attivata una convenzione con un gestore telefonico per trasmettere in streaming tutte le lezioni di modo da seguirle con un qualunque tablet o smartphone. Ha infine espresso la sua soddisfazione per i prestigiosi risultati dell’attività di ricerca che si svolge a Camerino tanto da aver avuto l’imbarazzo della scelta nel proporre alle “Cento Città” i nominativi dei tre professori da premiare quali espressione delle eccellenze scientifico-culturali. ¤


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Il “cavallo di Troia” contro la malaria BATTERIO GENETICAMENTE MODIFICATO BLOCCA LA ZANZARA

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In alto, il professor Guido Favia docente di Parassitologia alla scuola di Bioscienze e Medicina Veterinaria A sinistra, il tavolo dei relatori

n batterio considerato un vero e proprio “cavallo di Troia” potrebbe contribuire al controllo della malaria. Gli studi in laboratorio sono coordinati dal professor Guido Favia, ordinario di Parassitologia e Malattie Parassitarie degli Animali alla Scuola di Bioscienze e Medicina Veterinaria dell’Ateneo di Camerino. La sua ricerca si è focalizzata da sempre su aspetti parassitologici generali e molecolari in particolare dei vettori della malaria e della dirofilariosi. Su questi argomenti ha pubblicato più di 150 lavori scientifici nella letteratura internazionale. E’ stato vincitore nel 2002 del Premio “G.B.Grassi” per giovani parassitologi. Dal 2012 è titolare di brevetto per lo sviluppo di un anticorpo monoclonale anti-Asaia. Le zanzare sono vettori di moltissimi patogeni tra i quali, il Plasmodio della malaria, moltissimi virus responsabili, tra le tante , di malattie quali dengue, febbre gialla, zika, febbre del Nilo occidentale, chikungunya e di alcuni nematodi. Alcune di queste malattie sono endemiche in moltissime regioni. E’ il caso della malaria che rappresenta uno dei principali problemi di salute che affliggono i paesi in via di sviluppo, soprattutto in Africa sub-sahariana e in Asia. A livello mondiale, oltre tre miliardi di persone sono a rischio di nuove infezioni di malaria. I decessi sono nell’ordine delle centinaia di migliaia per anno. D’altro canto, il numero degli episodi di malaria è sceso a livello globale da circa 262 milioni nel 2000, a 214 milioni nel 2015, con un calo del 18%.

Nel 2015, la maggior parte dei casi, si stima si sia verificata in regioni africane (88%); una quota molto minore, ma comunque significativa, si è registrata anche nel Sud-Est Asiatico (10%). La situazione quindi, pur mostrando un miglioramento rilevante, permane grave in molte aree del pianeta, particolarmente nell’Africa sub-sahariana. Molti sono gli interventi messi in atto per tentare di arginare il problema e tenere sotto controllo la diffusione della malattia: - l’utilizzo di tende impregnate con insetticida (ITN). La percentuale di individui che dorme protetta da un ITN è aumentata da meno del 2% nel 2000 al 55% nel 2015. Quasi 500 milioni di ITN sono state consegnate ai paesi dell'Africa sub-sahariana tra il 2013 e il 2015, e la percentuale di popolazione con l'accesso alle ITN é aumentato di circa 67% nel 2015. - L’uso di insetticidi spray residuali per ambienti interni (IRS). Programmi nazionali di controllo della malaria (NMCPs) spesso hanno come target per l’utilizzo degli IRS solo pochi gruppi endemici selezionati. La proporzione della popolazione a rischio protetta da IRS è così diminuita a livello globale dal 5,7% nel 2010 al 3,4% nel 2014. - La chemio-prevenzione nelle donne in gravidanza. La percentuale di donne in gravidanza cui sono state somministrate tre o più dosi di terapia preventiva antimalarica é aumentata negli ultimi anni; essa è però ancora inferiore al 20%. - La chemio-prevenzione nei bambini. L'adozione e l'attua-


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Lo studio innovativo del professor Favia sul genere Asaia un batterio che vive stabilmente nell'insetto

zione di chemio-prevenzione nei bambini, é ancora limitata. - Test diagnostici. La proporzione di casi sospetti di malaria, soggetti a test diagnostico, è aumentata costantemente dal 2005. - Trattamenti con combinazioni terapeutiche basate sull’artemisinina (ACTs). La percentuale di casi di malaria in Africa sub-sahariana trattata con ACT è aumentata, ma è ancora inferiore al 20%. Come detto, l’utilizzo singolo o combinato di questi metodi ha consentito una riduzione generale dei casi di malaria su scala mondiale, ma la situazione permane ancora estremamente grave, rendendo necessario lo sviluppo di metodi innovativi che possano essere alternativi o integrativi di quelli prima descritti. “Il laboratorio di entomologia molecolare da me coordinato – ha spiegato il professor Favia - ha sviluppato, pionieristicamente, una nuova metodologia che consiste nell’uso di batteri “simbionti” della zanzara. Questo metodo che, unitamente ad altri approcci consimili, prende il nome di “controllo simbiotico”, utilizza batteri che vivono stabilmente nella zanzara, ben tollerati o addirittura utili alla stessa. Tali batteri vengono modificati in modo da esprimere molecole attive contro il Plasmodio, l’agente eziologico della malaria, o da interferire con la fisiologia della zanzara stessa, e reintrodotti nella zanzara per “bloccare” la trasmissione del patogeno. L’attività di ricerca che abbiamo condotto negli ultimi dodici anni si è perlopiù contraddistinta per l’isolamento e la caratteriz-

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zazione, sia microbiologica, che molecolare, di alcuni batteri simbionti della zanzara. Mediante tecniche biotecnologiche avanzate, abbiamo selezionato alcuni batteri che vivono stabilmente associati alle zanzare appartenenti a specie che trasmettono la malaria, ma anche ad altre specie che trasmettono patogeni diversi. In particolare ci siamo soffermati su un genere di batteri, il genere Asaia, che si caratterizza per la propria localizzazione a livello dell’intestino, delle ghiandole salivari e degli organi riproduttori delle zanzare. Queste localizzazioni risultano estremamente importanti perché si sovrappongono a quella del parassita (intestini e ghiandole salivari) e permettono la trasmissione del batterio dalla madre alla progenie (organi riproduttori). Tale batterio è stato da noi geneticamente trasformato e riproposto alla zanzara con il pasto di zucchero evidenziando la sua capacità di colonizzare i tre diversi distretti anatomici dell’insetto. I primi dati sperimentali in nostro possesso testimoniano l’alto potenziale di questa innovazione e siamo già entrati in una fase intermedia del percorso di transizione che dalle indagini di laboratorio trasferisce queste competenze direttamente “su campo”. Al momento, il batterio Asaia sembra potere rappresentare un moderno cavallo di Troia: se quello omerico permise ai Greci, dopo tanti tentativi falliti, di contrastare (e battere) l’esercito di Priamo, il nostro cavallo di Troia “biotecnologico” potrebbe contribuire al controllo della malaria”. ¤


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Nord Europa, crisi e forza del welfare STUDI DEL PROF BIANCHI SUL MODELLO DEI PAESI SCANDINAVI

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Il professor Paolo Bianchi docente di Diritto Costituzionale alla facoltà di Giurisprudenza

l modello di welfare dei paesi del Nord Europa ha costituito a lungo un riferimento imprescindibile nel dibattito intorno alla garanzia dei diritti sociali. Nell’ultimo decennio però anche tali sistemi hanno incontrato crescenti difficoltà, che hanno indotto alcuni studiosi a parlare di crisi o di tramonto del welfare scandinavo, adducendo di volta in volta cause diverse (la globalizzazione, l’immigrazione, il mutamento degli equilibri politici) e prospettando scenari anche molto lontani tra loro: dalla trasformazione in senso neoliberista, all’adattamento con semplici aggiustamenti, alla riforma profonda del sistema. “Prima di poter parlare di una crisi e del suo possibile esito – spiega il professor Paolo Bianchi, Ordinario di Diritto Costituzionale presso la Scuola di Giurisprudenza dell’Università di Camerino. responsabile del Corso di Laurea in “Scienze Sociali per gli enti non-profit e la cooperazione internazionale nella Scuola di Giurisprudenza - è però necessario che ci confrontiamo con i caratteri distintivi del modello. Tradizionalmente il sistema è definito come universale, onnicomprensivo, basato sulla fiscalità generale. L’universalità indica che i servizi di assistenza sono rivolti a tutti i cittadini che ne abbiano bisogno, indipendentemente dalle condizioni di reddito, diimpiego o familiari. Il sistema è onnicomprensivo nel senso che si occupa dei cittadini in relazione a (tendenzialmente) tutti i bisogni che possono emergere: dall’istruzione alla sanità, all’assistenza, al lavoro, alla tutela giudiziaria, alle pensioni e così via. Non tanto, dunque, prestazioni

assistenziali, quanto piuttosto uno stato che assiste i cittadini “dalla culla alla tomba”. Gli interventi sono finanziati principalmente tramite il prelievo fiscale sulle persone fisiche e giuridiche”. “Il welfare scandinavo – continua il professor Bianchi - non nasce universale: esattamente come i modelli anglosassone e centro-europeo, si sviluppa a partire da schemi assicurativi creati con rapporti privati tra datori di lavoro e prestatori d’opera, per espandersi progressivamente verso soggetti privi di tali connotazioni. La logica degli interventi in questa prima fase è quella di fornire ai destinatari gli strumenti per rendersi autonomi. In tale prospettiva, le autorità selezionano i destinatari, distinguendo i meritevoli, ai quali erogare le prestazioni, da coloro che dovrebbero a proprie colpe la situazione di bisogno. Ad es., le prime leggi di sostegno ai poveri premiavano i lavoratori o i disoccupati “senza colpa”, escludendo gli alcolisti, i mendicanti e analoghe categorie di reietti. A partire dagli anni ’30 il quadro degli interventi si è notevolmente ampliato, in un contesto di politiche economiche di contrasto alla crisi del 1929. Da allora, per un trentennio, si è assistito sia alla crescita delle tipologie di sostegno che alla loro estensione, fino a comprendere tendenzialmente tutti i cittadini. L’universalismo si è pertanto affermato solo negli ultimi cinquanta anni. La convergenza piena, per quanto riguarda la Finlandia e l’Islanda, sarebbe stata raggiunta solo negli anni ’80”. “Le implicazioni negative – commenta - non sono parse


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Negli anni '30 alcolisti o “devianti” ritenuti soggetti irresponsabili venivano sterilizzati per impedirne la riproduzione

subito evidenti, anzi in almeno un caso clamoroso sono emerse a decenni di distanza. Mi riferisco alla legislazione che negli anni ’30 ha introdotto pratiche eugenetiche (ad es. sterilizzazione forzata degli alcolisti o di soggetti qualificati come devianti), della quale si è discusso approfonditamente solo negli ultimi decenni. Nella concezione allora comunemente accettata di welfare state vi era la possibilità che autorità pubbliche scrupolose impedissero a soggetti irresponsabili di riprodursi, in nome di un generale miglioramento delle condizioni di vita. Finora abbiamo posto al centro del sistema assistenziale lo Stato. In realtà il modello scandinavo è centrato sulla comunità locale. Il cittadino fruisce essenzialmente di prestazioni erogate in linea di principio dagli enti locali, sulla base di trasferimenti statali. L’assistenza agli anziani e ai disabili in Norvegia compete esclusivamente ai comuni, che provvedono in piena autonomia a gestire il servizio, ricorrendo sia a strutture pubbliche che a privati. Nel complesso, il modello di welfare nordico presenta una notevole stabilità per quanto riguarda il suo radicamento nella politica e nella società, mentre è evidente la sua fragilità sul piano normativo. Si tratta infatti di un sistema che ha avuto origine e mantiene gran parte dei suoi contenuti nella legislazione ordinaria e nella normativa secondaria, mentre solo alcune disposizioni di principio sono state trasposte nei testi costituzionali”. “La forza del sistema ne segna anche i punti di debolezza: ogni misura assistenziale è suscettibile di essere ridotta, modu-

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lata, eliminata se cambiano i presupposti, ad es. economici o di consenso sociale”. “Ad esempio oggi la Finlandia, di fronte alla crisi delle sue principali imprese, ha serie difficoltà a mantenere il livello dei propri servizi sociali senza intaccare gli equilibri della finanza pubblica. A ciò si aggiunge un altro effetto della globalizzazione, consistente in un forte afflusso di migranti, di fronte al quale si pone un dilemma tragico: aprire lo stato sociale a tutti, mettendone a rischio la sostenibilità finanziaria, oppure escludere una parte crescente di soggetti che vivono stabilmente in quei paesi, pregiudicando l’applicazione di principi cardine quali l’eguaglianza o l’integrazione sociale? Ancora oggi non si intravedono risposte nette: la Danimarca ha già iniziato un processo di limitazione dell’accesso ai servizi da parte degli stranieri (anche residenti nei paesi dell’Unione Europea); la Svezia ha introdotto soglie di reddito oltre le quali non vi è più diritto ai servizi, al punto che già oggi oltre il 25% degli uomini e l’8% delle donne in età lavorativa deve ricorrere a forme assicurative private per integrare le insufficienti prestazioni pubbliche. Al tempo stesso si levano grida d’allarme per la crisi cui va incontro il modello universalistico, la rottura del quale porterebbe con sé effetti negativi per la stabilità sociale e un aumento della conflittualità, che a queste latitudini è pressoché sconosciuta. Si prospetta insomma un ritorno al welfare delle origini, legato alla condizione lavorativa dell’assistito e tendenzialmente escludente nei confronti dei soggetti a vario titolo emarginati”. ¤


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Onde gravitazionali ultima sfida di Einstein UNA NUOVA BRANCA DELLA FISICA PER LO STUDIO DEL COSMO

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Il professor Fabio Marchesoni docente di Fisica della Materia alla scuola di Scienze e Tecnologia

ino ad oggi abbiamo studiato l’Universo captando tante radiazioni diverse (luce visibile, luce infrarossa e ultravioletta, microonde, raggi X e gamma, ecc.), ma tutte di origine elettromagnetica, dunque dovute alle cariche elettriche presenti nella materia dei corpi celesti. Ora si registra la nascita di una nuova branca della fisica sperimentale: l’astrofisica gravitazionale. “Le onde gravitazionali – spiega il professor Fabio Marchesoni, Ordinario di Fisica della Materia presso la Scuola di Scienze e Tecnologia dell’Università di Camerino - hanno natura completamente diversa dalle più note onde elettromagnetiche, ma sono generate da un meccanismo molto simile: è sufficiente sostituire le cariche elettriche con masse, cioè le sorgenti del campo elettromagnetico con le sorgenti del campo gravitazionale e diremo, con il linguaggio di Einstein, ‘Se una massa si muove di moto accelerato, genera oscillazioni del campo gravitazionale’ (onde gravitazionali) che si propagano alla velocità della luce. Così come nel diciannovesimo secolo aveva fatto Maxwell per le onde elettromagnetiche, Einstein, nel 1916, previde l’esistenza delle onde gravitazionali in modo puramente speculativo. Ci sono, però, importanti differenze fra elettromagnetismo e gravitazione: per esempio le cariche elettriche sono positive o negative e si attraggono o si respingono, mentre le masse hanno tutte lo stesso segno e si attraggono sempre. Connesso a ciò, c’è il fatto che masse in moto accelerato generano onde gravitazionali

solo se il movimento non ha simmetria sferica (per esempio, due stelle che si scontrano producono sì onde gravitazionali, ma non così una stella che collassi mantenendo ad ogni istante una forma sferica). Inoltre la gravitazione è diversa da qualunque altra interazione: qui entrano in gioco la ‘relatività speciale’ e la ‘relatività generale’ di Einstein con effetti sorprendenti: massa ed energia sono ‘la stessa cosa’; la presenza di massa deforma lo spazio-tempo, lo stesso spazio-tempo in cui noi viviamo; corpi liberi si muovono su traiettorie curve; in condizioni diverse, il tempo scorre a velocità diverse. Con le parole di J. A. Wheeler, ‘Le masse dicono allo spazio-tempo come deformarsi, lo spazio-tempo dice alle masse come muoversi’. Possiamo ora cercare di capire cosa succeda al passaggio di un’onda gravitazionale: con Newton diremmo che il campo gravitazionale oscilla, con Einstein diciamo che la trama dello spazio-tempo viene modulata nel tempo”. “All’inizio degli anni ’80 – racconta il professor Marchesoni - Alain Brillet del Centre National de la Recherche Scientifique (Cnrs, Orsay) ed Adalberto Giazotto dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn, Pisa), decisero di collaborare al progetto ‘Virgo’, un gigantesco strumento per rivelare le onde gravitazionali, basato sull’interferenza di fasci di luce laser. Nel 1989 la proposta ufficiale per l’esperimento Virgo fu firmata da 41 ricercatori di quattro istituti italiani (tra i quali la sezione Infn di Perugia, gruppo da me diretto), di quattro istituti francesi e da un fisico dell’U-


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Il prof. Marchesoni: è lecito attendersi dalle onde gravitazionali nuove e sorprendenti informazioni sulla materia oscura

niversità dell’Illinois in Urbana. La proposta fu approvata il 27 giugno 1994, quando i presidenti del Cnrs e dell’Infn firmarono l’accordo per costruire l’antenna di Virgo a Cascina, presso Pisa, in Italia. Il ‘Final Design Report’ per la costruzione di Virgo fu firmato nel maggio del 1997 da 178 ricercatori, ingegneri e tecnici di 11 istituti italiani e francesi. Il sito di Cascina è gestito attualmente dal consorzio italo-francese European Gravitational Observatory (Ego) istituito nel 2000. Lo strumento è stato completato nel 2003 e ha iniziato i primi periodi di osservazione nel 2007. Oggi la collaborazione Virgo è completamente impegnata in Advanced Virgo, una versione perfezionata del rivelatore, che permetterà l’esplorazione di un volume di Universo mille volte più grande di quello accessibile alla prima versione dell’antenna. Più di 300 persone compongono attualmente la collaborazione Virgo, provenendo da molti istituti di sei paesi europei: Francia, Italia, Olanda, Polonia, Spagna e Ungheria”. “Il 14 settembre 2015, alle ore 09:50:45, i due interferometri americani hanno captato contemporaneamente un breve segnale, visibile per circa due decimi di secondo, che, ad una accurata analisi, durata alcuni mesi, si è confermato essere il primo segnale gravitazionale mai rivelato. E la sorgente di questo primo segnale è stata la coalescenza di un buco nero da 36 masse solari con uno da 29 masse solari, che si sono fusi in un unico buco nero da 62 masse solari, irraggiando 3 masse solari in energia trasportata dalle onde

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gravitazionali. Questa enorme energia irraggiata è in accordo con l’enorme distanza della sorgente (1.3 miliardi di anni luce) e con la violenza dell’impatto (nell’istante finale i due buchi neri si sono scontrati ad una velocità di 0.6 volte la velocità della luce: circa 600 milioni di km/h). Il risultato sperimentale non è, quindi, soltanto la rivelazione del primo segnale di onde gravitazionali, ma anche la prima prova diretta dell’esistenza di buchi neri di alcune decine di masse solari, dell’esistenza di sistemi di due buchi neri e della loro coalescenza in un unico buco nero più massiccio”. “Le onde gravitazionali, come abbiamo visto, sono dovute alla massa, una entità del tutto diversa e indipendente dalla carica elettrica, anzi, sulla base dei più recenti modelli cosmogonici, una entità fisica generatasi prima della formazione delle sorgenti stesse delle onde elettromagnetiche, cioè di atomi e molecole. E’ lecito quindi attendersi che ci daranno informazioni del tutto nuove e sorprendenti. Per esempio sulla materia oscura: i quattro quinti della massa delle galassie, di cui non sappiamo assolutamente nulla, salvo vederne gli effetti gravitazionali sul moto delle stelle. Sarà, poi, importantissimo studiare le onde gravitazionali generate negli eventi astrofisici catastrofici, in situazioni di campo gravitazionale intenso. Infine, migliorando ulteriormente la sensibilità degli strumenti riteniamo di poter rivelare il fondo cosmologico di onde gravitazionali che ci porterebbero informazioni sui primissimi istanti dopo il Big Bang”. ¤


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