25° Rivista di divulgazione culturale e artistica del territorio marchigiano | Sped. in a.p. - 70% - Filiale di Ancona
ISSN 1127-5871
ARTE | STORIA | ARCHEOLOGIA | LETTERATURA | SOCIETÀ | MUSICA | SCIENZE
Valentini sciamano celeste Segni aristocratici ed eleganti che trasformano il muro in cielo
NUMERO
72/73|2020 DICEMBRE
L’editoriale
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Arte e cultura in un anno difficile
È di Filiberto Bracalente Presidente de Le Cento Città
La pandemia ha bloccato il programma sulla prima delle dodici tappe Ora solo eventi virtuali
iniziata ad Agosto l’avventura di questo nuovo anno de Le Cento Città con un composito programma che contemplava anche il recupero di alcune attività dell’anno precedente che non si erano svolte a causa della pandemia che dapprima ha cambiato ed ora sconvolto il nostro consueto modo di esistere, soprattutto il distanziamento sociale incide pesantemente nelle nostre relazioni. Non è piacevole ammetterlo ma nel fare un consuntivo di questo anno temo che il 2020 verrà ricordato come annus horribilis che, fra i tanti sconvolgimenti, ha portato purtroppo molti dei lutti avuti fra i nostri soci; voglio ricordare con affetto e gratitudine i past president Alberto Berardi ed Ettore Franca, i soci Carlo Amodio, Nicola Spano, Wolfram Sterry, Emilio D’Alessio e Valerio Trubbiani, ognuno di loro ha contribuito con le proprie conoscenze e capacità e la loro presenza ha arricchito i nostri incontri ed il nostro stare insieme. Il sottotitolo al programma per l’anno 2020-2021 recita navigando a vista, Covid… permettendo, in verità questa breve frase è stata voluta in funzione apotropaica quasi ad allontanare qualsiasi impedimento durante la navigazione, ed invece… lo svolgimento del programma si è fermato alla prima delle dodici tappe previste, la visita a tre significative realtà della media Valle del Tenna: il teatro neoclassico Domenico Alaleona di Montegiorgio, il Teatro Romano di Falerio Picenus ed ìl museo Archeologico di Belmonte Piceno. Sia-
mo ora impegnati nell’ organizzare una serie di eventi virtuali alternativi a quelli classici, consapevoli di poter agire con i mezzi che, per fortuna, abbiamo a disposizione. Uno di questi è la nostra pregevole rivista che si rivela ora strumento prezioso per mantenere vivo il contatto con i soci insieme alla realizzazione degli obiettivi de Le Cento Città. In questo numero troviamo tre articoli attinenti alle attività già in programma per il periodo autunnale, quella ad Ascoli Piceno sull’ arch. Francesco Tamburini, a San Severino Marche sull’artista e fotografo Remo Scuriatti ed infine un’ampia panoramica su “Freschi di Stampa”. Un ringraziamento va alla Regione Marche che, dopo il contributo per l’edizione del Venticinquennale, ci ha ammesso ad un ulteriore sostegno economico. E’ un fatto concreto questo che onora il successo della rivista che ha già ottenuto il riconoscimento del Ministero dei Beni ed Attività Culturali quale oggetto di interesse storico particolarmente rilevante. Nel mentre continuano le consuete attività; ad Ottobre si è svolta con successo l’assemblea straordinaria “on line” per aggiornare lo Statuto alle nuove direttive delle ODV (Organizzazioni di volontariato). Sia di buon auspicio il recente rinvenimento a Sirolo di una tomba di guerriero di età picena; questa scoperta ci stimola a continuare instancabilmente, con animo e passione, il nostro navigare… a vista sperando in un auspicabile annus mirabilis. ¤
Il punto
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La bellezza dell’arte e il convitato di pietra
U di Franco Elisei Direttore de Le Cento Città
Ancora un lutto ne Le Cento città ci ha lasciato Ettore Franca past president tra i più attivi e impegnati
Ettore Franca, uno dei soci più attivi che ci ha recentemente lasciato
n doppio numero ancora nel segno della pandemia che come un’ombra inquietante ha modificato equilibri economici, sanitari e sociali già fragili, ha distanziato e unito al tempo stesso, ha suscitato solidarietà ma anche egoismi, ha alzato muri e barriere dando però la facoltà di scavalcarli con l’uso delle nuove tecnologie. Cause ed effetti non sempre gestibili. Ha generato il “lavoro agile”, cioè lo smart working, il lavoro a distanza, ovvero il lavoro a casa. Termini non sempre da usare come sinonimi. Con luci e criticità, criticità spesso sorvolate dall’emergenza, dalla necessità di attuare immediatamente una soluzione alternativa. Ne parliamo diffusamente e con perizia in un servizio ricco di dettagli e spunti normativi. Ed è interessante anche leggere come gli italiani, si sono informati in questo periodo proprio sulla pandemia. Un approccio volutamente giuridico e sociologico, non solo sanitario ed economico. L’antidoto? Vogliamo credere che la bellezza dell’arte possa in qualche maniera distoglierci da questa “guerra” anomala, dal “coprifuoco”, dalla paura dell’isolamento e dal silenzio che si porta dietro. E all’arte abbiamo voluto dedicare il “cuore” della rivista, spargendo emozioni positive dalle pagine dedicate ad artisti , “mostri sacri” come Valentini, Vangi, Trubbiani e alle loro opere. Ma abbiamo voluto anche aprire uno spazio ai marchigiani sparsi per il mondo, alle loro storie, ai loro sacrifici e ai loro successi. Così come riscoprire borghi troppo spesso oscurati dalle luci del-
la costa. Borghi che ancora custodiscono sapori genuini, memorie e bellezze naturali o scorci d’altri tempi. Il Covid ha sfiorato tutti i servizi, in modo trasversale. Ha inciso nelle storie, come un convitato di pietra scomodo e sgradito. E di segni ne ha lasciati. Il più profondo, per i soci de Le Cento città, è legato all’articolo che chiude questa edizione. E’ firmato Ettore Franca, amico tra i più attivi e impegnati dell’Associazione, autore di tante pubblicazioni sul mondo agronomo, di cui era docente ed espertissimo. Ettore ci ha lasciati. Il Covid gli ha dato la spallata che non si aspettava. Ha lottato come un leone fino in fondo, fino all’ultimo giorno, come sapeva fare. Come ha sempre fatto in ogni circostanza quando ha preso in mano l’associazione come presidente e quando ha organizzato importanti eventi culturali. Sempre insieme a Maria Grazia Calegari in un sostegno reciproco e straordinario. I soci lo ricordano per i suoi modi equilibrati, tesi a unire, non dividere. E con questo ricordo abbiamo deciso di pubblicare il suo ultimo articolo per la rivista, consegnato poche settimane prima di lasciarci. Scritto con quell’entusiasmo che lo contraddistingueva. Un modo per sentirlo ancora vicino. A tutti noi. E’ un testo sul giuggiolo, le sue proprietà e la sua storia di oltre quattromila anni che lo ha trasformato da portafortuna per i casolari di campagna a simbolo del silenzio per i Romani. Ci piace credere che sia così anche per Ettore, nel suo nuovo cammino, accompagnato da un silenzio di rispetto, di stima e di riconoscenza. ¤
Argomenti
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Sommario 09
L’intervista
Portonovo, si mobilitino personalità delle Marche DI CLAUDIO DESIDERI
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Smart working
Covid-19, luci e ombre del “Lavoro agile” DI MAURIZIO CINELLI
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Festival del giornalismo culturale
Fame d’informazione effetto della pandemia DI LELLA MAZZOLI
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Marchigiani nel mondo
Spaghettifresser, la vita degli italiani in miniera DI PAOLA CIMARELLI
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L’opera
Cristo di Vangi trionfante per la chiesa santuario di Seul DI FEDERICA FACCHINI
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Il genetliaco
Ricci, l’arte per amica ed esercizio spirituale DI LUCIO DEL GOBBO
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Mostre impossibili
Musei chiusi? L’arte affianca lo shopping DI LUCILLA NICCOLINI
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L’arte in lutto | 1
Trubbiani, l’Esopo dell’acciaio che incantava Federico Fellini DI GIORDANO PIERLORENZI
Argomenti
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Sommario 47
L’arte in lutto | 2
Grande affabulatore naturalista e visionario DI ARMANDO GINESI
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Appassionate visioni
Il segno di Farabollini sul destino dell’uomo DI PAOLA BALLESI
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Fotografia
Scuriatti, maestro del glamour femminile DI ALBERTO PELLEGRINO E GIULIANA PASCUCCI
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L’artista
Walter Valentini, il cielo infinito si fa poesia e si tinge di bellezza DI ARMANDO GINESI E FRANCO ELISEI
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Scultura
Kovalenko a Piticchio una scelta dell’anima DI GRAZIA CALEGARI
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Il codice, il segno, il significato
Alfabeta, un evento di simboli e non solo DI SERGIO GIANTOMASSI
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Le donne nella storia
Laura Dux, dolce e dura da Fano all’Europa DI MARCO BELOGI
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Alla scoperta del territorio
I piccoli borghi delle Marche vera bellezza infinita DI DINO ZACCHILLI
Argomenti
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Sommario 77
Architettura
Ascoli vs Rio de la Plata con il vento alle vele DI FABIO MARIANO
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I 90 anni dell’attore
Mauri: “Ho portato la mia vita nel teatro” DI ELISABETTA MARSIGLI
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La storia
Difese Pio IX ad Ancona ucciso insieme a Custer DI LUCIO MARTINO
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Le donne protagoniste
A piccoli grandi passi danzando nel mondo DI MAURIZIO MARINUCCI
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Il fascino del dialetto
Nasce in un manicomio la poesia di Pasqualon DI DANTE TREBBI
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Focus | 1
L’inchiesta, temi caldi a confronto a Osimo DI CLAUDIO SARGENTI
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Focus | 2
La libertà di pensiero finisce sotto scorta Il personaggio
Le carte di Fuà, maestro della “scuola di Ancona” DI ROSANGELA GUERRA
Argomenti
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Sommario 103
Freschi d’accademia | 1
Politecnica Marche obiettivo sostenibilità DI ALESSANDRO RAPPELLI
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Freschi d’accademia | 2
Il valore dell’acqua nell’economia circolare DI FRANCESCO FATONE
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Freschi d’accademia | 3
Olio extravergine proprietà terapeutiche DI NATALE GIUSEPPE FREGA
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Freschi d’accademia | 4
Il Pil non basta più molto meglio il Bes DI FRANCESCO MARIA CHELLI
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Freschi di stampa
Saggi, romanzi e poesie nel segno delle Marche DI MAURIZIO CINELLI
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Uno sguardo alla natura
Quel dattero cinese importato dai veneziani DI ETTORE FRANCA
Illustrazione di Sergio Giantomassi
L’intervista
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Portonovo, si mobilitino personalità delle Marche L'AMBASCIATORE DE BOSIS RILANCIA L'IDEA UNESCO
P di Claudio Desideri
La torre dei De Bosis a Portonovo vista dal mare
ortonovo, agosto 2020. Il vento caldo del sud soffia forte sulla baia e la torre spicca estrema tra le onde. Adriana de Bosis, nel suo consueto abbigliamento bianco, ci apre il cancello e ci accompagna al salottino allestito nel giardino dietro una siepe di pitosforo che lo isola dagli occhi indiscreti dei bagnanti. Sul tavolino quotidiani, libri, enigmistica e seduto comodamente, con le gambe incrociate, l’Ambasciatore Alessandro Cortese de Bosis che ci accoglie con occhi sorridenti e vivaci. Per noi è un grande piacere intervistare una persona che non è solamente tra le più note nella comunità di Portonovo ma che è anche una figura di spicco
nazionale ed internazionale. É stato Console italiano a Parigi, Mosca, New York, dove ha istituito la prima scuola italiana negli Usa, e a Washington. Ambasciatore italiano in Ungheria e Danimarca. Nato a Roma è il nipote di Lauro de Bosis, autore del famoso “Volo su Roma”; ha partecipato alla guerra contro i nazifascisti come ufficiale del Corpo Italiano di Libera-
zione per il collegamento con l’8° Armata Britannica. Oggi gira l’Italia per tenere incontri con i giovani studenti e parlare di libertà e democrazia come Presidente dell’Associazione nazionale combattenti forze armate regolari Guerra di Liberazione. Scrittore, tra le sue ultime opere “Il romanzo della Torre di Portonovo” dove racconta la storia di un luogo, Portonovo, di un monumento, la Torre, di una famiglia, i de Bosis. Con lui abbiamo voluto parlare di Portonovo e del progetto, lanciato da Le Cento Città, per il riconoscimento della Riviera del Conero a Patrimonio dell’Unesco. Ambasciatore cosa la lega a questo luogo? “Arrivai a Portonovo per la prima volta quando avevo pochi mesi di vita, a casa di mio nonno. Questa torre appartiene alla mia famiglia dal 1920. Una costruzione di avvistamento voluta dal Papa Albani e poi abbandonata per lungo tempo. Mio nonno Adolfo, che ha fondato il Convito, la grande rassegna letteraria cui parteciparono Pascoli, Dannunzio, Carducci, il nostro primo Premio Nobel per la letteratura, veniva spesso qui con i suoi amici e colleghi. Noi l’abbiamo ereditata e abbiamo cercato di mantenerla con il massimo rispetto per la manutenzione negli anni seguenti.” Lei ha vissuto ogni estate della sua vita a Portonovo. Che ricordi ha della Torre? “Prima di ogni altro l’attività qui svolta da un nostro congiunto, Lauro, che è stato un martire inerme della Resistenza degli anni 30,’ dopo il delitto Matteotti, contro il regime fascista. Ha scritto qui “Icaro”, premiato alle olimpiadi
L’intervista
In alto da sinistra, Matilde Serao Eleonora Duse, Paolo Tosti e Adolfo de Bosis Al centro pagina, Alessandro Cortese de Bosis in una conferenza e a fianco un suo ritratto Qui sopra, l'ambasciatore durante l'intervista e in basso a destra la copertina del libro realizzata da Floriano Ippoliti
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letterarie di Amsterdam, e progettato il volo del 3 ottobre su Roma quando lanciò quattrocentomila manifestini antifascisti con un appello rivolto al re e al popolo contro il regime totalitario del fascismo. Lauro frequentava Portonovo con la sua compagna, Ruth Draper, che creò poi la cattedra Lauro de Bosis Lectureschip on Italian Civilization all’Università di Harvard. Legare il nome di Lauro alla diffusione della cultura Italiana in America era il tributo più nobile e più gradito alla sua memoria.” Com’era Portonovo negli anni della sua giovinezza? “Era del tutto isolato. Noi scendevamo con il calesse in una strada sterrata che attraversava il bosco. I contadini del Poggio ci portavano il latte e altre vivande. Ricordo il naufragio della nave spagnola Rita Garcia, davanti al Fortino Napoleonico che era in rovina; il restauro del Fortino e della Chiesetta, sotto gli auspici della Sovrintendente Maria Luisa Polichetti; il periodo in cui
erano qui dieci soldati del regio esercito, negli anni 1941 - 1942, per vigilare sul passaggio delle navi e dei sommergibili britannici nel tratto di mare prospiciente Ancona. I militari avevano preso la stanza più in alto nella torre e noi vivevamo al piano di sotto.” La baia era abitata? “All’epoca le persone non abitavano a Portonovo e venivano prevalentemente dal Poggio e da Ancona e poi tornavano su. Eravamo del tutto isolati tranne per la presenza del ristorante Emilia e di Giacchetti che sono stati i pionieri degli anni 40’. Una comunità molto unita, di grande solidarietà e amicizia.” Com’è Portonovo oggi? “Portonovo è considerato uno dei luoghi più belli d’Italia. Uno tra i più rari tratti di costa dove non si vedono case e la quiete regna suprema. Guido Piovene ne ha parlato nel suo “Viaggio in Italia” come di una bellezza unica.” Ambasciatore i turisti che visitano questo luogo sono
L’intervista
sempre in costante aumento. Lo considera positivo? “Si ma l’afflusso va disciplinato nel modo migliore. Servirebbero maggiori servizi per i bagnanti come ad esempio docce, bagni e percorsi agevolati per le persone che hanno difficoltà nel percorrere certi tratti. Come pure non sarebbe male riaprire ai pedoni la vecchia strada che conduceva a Portonovo da cui, oltretutto, si gode una bella vista sulla baia.” Lei è stato anche insignito, da Slow Food, con il Mosciolo d’oro per aver contribuito a promuovere Portonovo nel Mondo. “L’ho fatto scrivendo, in occasione del trecentesimo anniversario, un libro sulla Torre, sui miei ricordi e sugli inquilini di Portonovo che poi si sono recati nei vari paesi del Mondo, incluso il sottoscritto che lo ha portato con sé in ogni luogo in cui ha prestato servizio. Ho visto crescere Portonovo dalla civiltà contadina a quella moderna e attuale attraverso tutte le famiglie che hanno vissuto
11 la baia e con le quali abbiamo una grande amicizia.” Perché ha scritto questo libro? “Come le ho detto per i trecento anni della Torre ma anche perché sono molto legato a questo luogo. In tanti anni di lavoro all’estero, con la famiglia abbiamo cambiato circa sedici abitazioni, questo sito ha rappresentato il nostro rifugio. Un punto fermo per tutti noi e tale rimarrà, spero, nei secoli.” Le Cento Città hanno avanzato la proposta affinché la Riviera del Conero entri a far parte del Patrimonio dell’Unesco. Cosa ne pensa? “La considero assolutamente indispensabile. Uno dei pochi lembi d’Italia con la presenza di tre monumenti nazionali come la Chiesetta, la Torre e il Fortino napoleonico, ognuno con una sua storia. Forse si è esitato troppo tempo e sarebbe necessario farlo il più presto possibile anche per rilanciare l’Italia nel Mondo. Potete contare su tutto l’appoggio degli abitanti di Portonovo.” Un suo desiderio per questo tratto di costa? “Che rimanesse intatto e che i funzionari dell’Unesco, che amministrano questi tesori, venissero a visitarlo personalmente. Si renderebbero subito conto del suo valore storico e ambientale.” Una proposta? “Istituire un elenco di personalità legate alle Marche e che hanno una certa notorietà in Italia e nel Mondo per poi formulare una richiesta al Ministro della Cultura Franceschini affinché agevoli e promuova, presso l’Unesco, la candidatura di tutta la Riviera del Conero a patrimonio dell’umanità.” Restiamo qualche minuto ancora. Adriana ci ha preparato un ottimo caffè che sorseggiamo molto lentamente continuando a parlare. Non è facile lasciare questo luogo e il Genius Loci che lo avvolge. ¤
Ho visto crescere questa baia dalla civiltà contadina a quella attuale La torre appartiene alla mia famiglia dal 1920
Smart working
L di Maurizio Cinelli
Il raffronto tra le norme dettate dall’emergenza e la disciplina ordinaria svelano opportunità ma anche criticità Illustrazione di Sergio Giantomassi
avorare da casa stanca di meno e rende di più. È quanto sostengono alcuni autorevoli sociologi del lavoro o ingegneri aziendali. Con il che si dovrebbe riconoscere che tra le tante drammatiche situazioni determinate dalla attuale pandemia da coronavirus, ve ne sia almeno una che non ha connotati negativi: la sperimentazione ad ampio raggio e in forma massiva del “lavoro agile”, o smart working. Modalità lavorativa che, tra le proprie caratteristiche, ha appunto, quella di essere “comodamente” svolta da casa. L’imposizione dello svolgimento delle prestazioni lavorative “in modalità agile”, infatti, ha costituito, come ben sappiamo, una delle scelte portanti che fin dal primo manifestarsi dell’emergenza Covid-19 il Governo ha adottato per contrastare, con il massimo della determinazione, il rischio di diffusione del contagio negli ambienti di lavoro. La scelta ha riguardato, ovviamente, tanto il settore
del lavoro privato, quanto il settore del pubblico impiego, coinvolti dalle medesime esigenze di “distanziamento” sociale. Tuttavia, mentre nel settore privato di fatto quella misura ha rappresentato, nella maggior parte dei casi, l’accelerazione di un fenomeno già avviato – almeno nel contesto delle imprese più avanzate o con attività tecnologicamente più disponibili alla innovazione organizzativa –, diversa è la fisionomia per quanto riguarda il lavoro presso le pubbliche amministrazioni. Qui essa appare piuttosto il frutto dell’idea che l’occasione emergenziale possa servire a sperimentare a tutto campo – e, in definitiva, promuovere – tale modalità lavorativa, giudicata essenziale per quel processo di rinnovamento e di efficientamento del settore del quale da tempo si avverte la necessità. Tale aspettativa può considerarsi realmente fondata? E, eventualmente, a quali condizioni e entro quali limiti
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Covid-19, luci e ombre del “Lavoro agile” PIÙ CHE SMART WORKING SI DEVE INTENDERE HOME WORKING
può considerarsi tale? E, poi, è proprio vero che, in generale, lavorare da casa presenta tutti i pregi che vengono comunemente vantati? Per tentare di fornire una risposta, anche approssimativa, a tali impegnative domande, è necessario innanzitutto soffermarsi, per qualche considerazione preliminare, sul raffronto tra normativa emergenziale e disciplina ordinaria preemergenza (legge n. 81 del 2017) del “lavoro agile”. Ebbene, va subito sottolineato che la normativa emergenziale specifica (art. 1, lett. ff., d.l. n. 19 del 2020) che la modalità lavorativa “agile” può svolgersi “in deroga alla disciplina vigente” fino a quando verrà dichiarata la fine del periodo di emergenza. Senonché, in concreto, più che derogare alla disciplina ordinaria in vigore, detta normativa configura un modello diverso da quello propriamente identificabile come “lavoro agile”, nonostante che a questo essa espressamente si richiami.
Nel dettaglio, va osservato, innanzitutto, che la disciplina ordinaria dettata dalla legge del 2017 definisce come “lavoro agile”, quello che viene svolto in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno, senza una postazione fissa, in luoghi scelti dal dipendente. E, al proposito, va anche ricordato che lo scopo di tale particolare modalità lavorativa è duplice (come espressamente enuncia l’art. 18 di quella legge): “incrementare la competitività”, da un lato; “agevolare la conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro”, dall’altro lato. In questo la vigente legge si è discostata – e anche questa è circostanza che merita di essere considerata – dalla logica della normativa che, nel 1998, ha introdotto per la prima volta il lavoro “da remoto” nelle pubbliche amministrazioni; questa, in quanto finalizzata a “razionalizzare l’organizzazione del lavoro” e a “realizzare economie di gestione attraverso l’impiego flessibile delle risorse umane” (art. 4, comma
1, legge n. 191 del 1998), palesemente si prefiggeva unicamente di soddisfare le esigenze specifiche della pubblica amministrazione: senza farsi carico, dunque, anche delle esigenze personali – la “conciliazione” dei tempi di vita e dei tempi di lavoro, appunto – dei pubblici dipendenti. E, invece, è proprio l’innovativo obiettivo, relativo a tale esigenza del personale, che, nel caratterizzare l’impianto della vigente legge, giustifica la regola a termini della quale sia l’accesso al “lavoro agile” (profilo genetico), sia la concreta regolamentazione del rapporto di lavoro così configurato (profilo funzionale) presuppongono uno specifico accordo tra le parti, da formalizzare per iscritto. Ebbene, nulla di quanto si evince dalla disciplina ordinaria dettata dalla suddetta legge del 2017 è presente nella disciplina dettata per l’emergenza. Al lavoratore – salve comprovate esigenze inderogabili (come può avvenire, ad
Smart working
14 esempio, nel caso in cui al dipendente sia necessario svolgere l’attività dall’abitazione di famigliare disabile, al quale sia impegnato a dedicare assistenza) – è consentito svolgere le proprie mansioni esclusiva-
La legge del 2017 riserva al lavoro agile qualcosa di più ambizioso non una piatta riproduzione in luogo domestico
mente dalla propria abitazione. D’altra parte, mentre nella regolamentazione del settore privato l’adozione di detto modello di rapporto lavorativo è oggetto di una “raccomandazione” del legislatore (“può essere applicato”, specifica la norma), per il settore del pubblico impiego quella stessa regolamentazione è oggetto di una imposizione: “il lavoro agile è modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa”, specifica l’art. 87 del d.l. n. 18, o decreto “cura Italia”. Si deve dunque riconoscere, già alla luce di tali elementari rilievi, che, piuttosto che allo smart working, la normativa emergenziale fa riferimento a qualcosa che ha una valenza concettuale e pratica peculiare: una sorta di telelavoro a distanza o di home working, del tutto privo, comunque, delle caratteristiche e delle “ambizioni” dello smart working. D’altronde, anche l’intrinseco valore riconosciuto dalla normativa emergenziale a quello che essa non si perita di denominare “lavoro agile”, risulta piuttosto relativo. Quel modello lavorativo, in-
fatti, non solo è “imposto” alla stessa pubblica amministrazione per tutto il periodo di emergenza, ma viene comunque collocato in una posizione sostanzialmente residuale, addirittura postergata alle stesse situazioni “di non lavoro”. Infatti – salve le attività non procrastinabili (che, quindi, debbono continuare a essere obbligatoriamente rese nel luogo di lavoro istituzionale) –, il modello emergenziale di svolgimento dell’attività lavorativa in questione è praticabile soltanto per le attività che non possano essere sospese, e solo se i pubblici dipendenti non possano essere collocati (a scelta della pubblica amministrazione stessa) in ferie, in congedo, in godimento della banca ore, o di altri istituti previsti, per analoghe situazioni, dalla contrattazione collettiva. In sostanza, l’adozione di tale modalità lavorativa è iniziativa che, nella graduatoria delle iniziative praticabili, viene prima soltanto di quel rimedio di ultima istanza, che è la collocazione in disponibilità del pubblico dipendente, paragonabile ad una sorta di versione assistenzialistica della cassa integrazione guadagni. Anche la funzione che il legislatore dell’emergenza attribuisce a quello che denomina “lavoro agile”, conferma l’improprietà del riferimento. Non nolo la conciliazione tra tempo di lavoro e tempo di vita privata – che, come già osservato, vale per la disciplina generale, dettata dalla legge del 2017 – non ispira la normativa di emergenza. Ma, comunque, essendo questa espressione di una esigenza emergenziale non sarebbe neppure giustificato attendersi una caratterizzazione della misura in funzione di accrescimento della competitività-produttività del singolo ente pubblico. Il fatto è che la funzione che la legge del 2017 riserva al “lavoro agile”, propriamente detto, è qualcosa di più ambi-
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zioso, che rimanda a processi di innovazione (produttiva, tecnologica, organizzativa); e tali processo innovativi, a loro volta, presuppongono non soltanto modalità diverse di svolgimento dell’attività lavorativa, ma anche e soprattutto un modo diverso di essere del lavoratore stesso, una volta inserito in contesti e ambienti tecnologicamente avanzati: in altri termini, qualcosa di radicalmente diverso dalla piatta riproduzione, in ambiente domestico, del lavoro che, altrimenti, avrebbe dovuto essere svolto in ufficio. In sostanza e concludendo sul punto, il quadro normativo specifico, appare rappresentativo di una realtà riconducibile, piuttosto che a quella del “lavoro agile” in senso proprio, a un modello del tutto singolare (e, diciamolo pure, contingente): sostanzialmente, a una misura di ordine pubblico, destinata a operare tanto sul versante sanitario (distanziamento fisico anche nel lavoro, a fini prevenzionistici generali), quanto sul versante economico: cioè come contenimento – attenuazione degli effetti economicamente pregiudizievoli del lockdown. Una configurazione del rapporto di lavoro, quella testé tratteggiata, ampiamente giustificata dalla logica dell’emergenza. Può stupire, semmai, che, nonostante le inequivoche peculiarità che, proprio per questo, la caratterizzano e ne fanno nella sostanza un unicum, tale disciplina eserciti comunque una particolare attrazione, che induce molti ad assumere i relativi effetti come punto di riferimento esperienziale per futuri svolgimenti della disciplina ordinaria, una volta che saremo rientrati nella normalità. Quasi un sottaciuto, umanissimo desiderio che una situazione assolutamente negativa – e, anzi, particolarmente tragica, come la presente – sia necessariamente destinata a fruttificare positivamente (almeno nello speci-
15 fico), e, dunque, a risolversi in una opportunità. Vero è, però, che una considerazione disincantata della situazione conduce piuttosto a una valutazione quanto meno perplessa del quadro. Già un veloce accenno in merito a quanto, al proposito, è destinato a coinvolgere i singoli “protagonisti” del settore che offre maggiori spunti di interesse – cioè, il settore del pubblico impiego –, può contribuire a chiarire meglio i termini essenziali dello specifico complesso normativo. Iniziando, allora, dalla pubblica amministrazione come datrice di lavoro, e portando l’attenzione sulla gestione dei relativi rapporti di impiego (i profili organizzativi degli uffici, come è noto, sono strettamente riservati alla disciplina di legge), almeno tre appaiono essere gli snodi problematici principali: l’esercizio del potere direttivo nelle sue varie manifestazioni; il processo di normalizzazione relativo alla cosiddetta “fase 2” dell’emergenza (art. 263, d.l. n. 34 del 2020); le responsabilità configurabili in capo ai funzionari in caso di mancata osservanza dei relativi obblighi. Quanto alle prerogative del potere direttivo, sappiamo che, ai sensi della legge del 2017, la pubblica amministrazione è tenuta a garantire, in via generale, il controllo sugli strumenti utilizzati dal lavoratore nell’esecuzione del lavoro agile, così come a garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro. In tempi di emergenza Covid, invece, se si eccettuano, ovviamente, le attività essenziali e indifferibili (che continuano a svolgersi secondo schemi e regole ordinari), né il controllo sugli strumenti, né la garanzia di salubrità ambientale potranno avere le caratteristiche ordinarie. Nella specie, in effetti, sarebbe irrealistico pretendere dall’amministrazione compiti specifici di verifica preventiva sui requisiti di
Il “lavoro agile” non deve trasformarsi in “lavoro fragile” e con grande cautela può essere un’opportunità
Smart working
Chi opera da remoto ha diritto alla stessa retribuzione alla tutela della salute alla definizione dei tempi di lavoro e protezione privacy
16 idoneità dei locali domestici o sulle misure di prevenzione adottate dal prestatore, e così via; così come, d’altra parte, stanti la particolare “invadenza” di quegli ipotetici controlli, sarebbe parimenti irrealistico, a ben vedere, pretendere dal dipendente di subirli. Quanto alla norma (art. 263, d.l. n. 34 del 2020), che, nella prospettiva del (prossimo) ritorno alla normalità prevede che le pubbliche amministrazioni adeguino le misure alle esigenze della progressiva riapertura di tutti gli uffici pubblici, la disposizione che maggiormente può interessare il presente, veloce excursus è quella relativa all’adeguamento “alle vigenti prescrizioni in materia di tutela della salute adottate dalle competenti autorità”: prescrizioni che, di fatto, sono la risultante del concorso di una pluralità di fonti normative, primarie e subprimarie, nazionali e regionali (tra le quali i vari “protocolli” di fonte sindacale), in più casi reciprocamente condizionantisi. Tale articolato intreccio di fonti normative non agevola di certo la puntuale individuazione di tutte le sfaccettature dell’obbligo di prevenzione. Eppure, la rigorosa osservanza di quell’obbligo è essenziale, pena, per coloro ai quali compete di adempiervi, il rischio di responsabilità anche di ordine penale; non va dimenticato, in generale, che l’infezione da coronavirus, se contratta in occasione di lavoro, è infortunio sul lavoro a tutti gli effetti, con quanto ne consegue sul piano delle (aggiuntive) responsabilità datoriali. Quanto alla posizione dell’altro protagonista, il dipendente pubblico, è scontato che chi opera “da remoto” a termini della disciplina ordinaria ha diritto: a un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato ai lavoratori che operano all’interno della medesima struttura; alla tute-
la della propria salute e all’adozione delle misure di prevenzione e di ristoro in caso di contagio; all’espressa definizione e distinzione dei tempi di lavoro e dei tempi di riposo; alla “disconnessione” per un lasso di tempo predefinito nell’arco della giornata; al rispetto dei livelli minimali per la protezione della privacy. Per altro verso, per la ragioni già accennate, nell’ambito della disciplina emergenziale la garanzia di sicurezza del pubblico dipendente, tanto in riferimento all’ambiente di lavoro (il locale prescelto dal medesimo all’interno della propria struttura abitativa), quanto in riferimento alla strumentazione elettronica utilizzata (che, allo stato, non è fornita dalla pubblica amministrazione datrice di lavoro), non può che essere relativa. Per il dipendente si prospetta, inoltre, una situazione problematica di personale coinvolgimento anche (e soprattutto) dal punto di vista psichico. Si tratta, per dirla in breve, dei possibili, subdoli effetti della situazione di “costrizione” alla quale il dipendente è esposto sia per il fatto di risultare relegato all’interno di uno spazio ristretto (consapevolmente sottratto alla disponibilità dei famigliari conviventi), sia per la privazione, parziale o totale, delle possibilità di contatto diretto e continuativo con gli altri colleghi. Una menomazione di quel “diritto alla connessione”, quest'ultima, che è prerogativa speculare ed altrettanto importante del “diritto alla disconnessione”. Riassumendo: nelle circostanze determinate dall’attuale regolamentazione, le caratteristiche più dinamiche e creative del lavoro rischiano di essere messe in crisi dagli effetti delle stesse modalità di lavoro “da casa”. Modalità che il pubblico dipendente subisce e sperimenta in condizioni di sostanziale disagio, e che, comunque, lo costringono: a
Smart working
riprogrammare tempi di vita e tempi di lavoro; a subire la “distanza” dall’ufficio, e, per converso, la “vicinanza” stretta di nonni, genitori, figli; ad affrontare la sensazione di abbandono che (come l’esperienza insegna) non di rado accompagna processi di siffatto genere; a confrontarsi con l’esigenza di instaurare equilibri nuovi nell’ambito dell’ambiente domestico; a subire, perché no, oneri economici aggiuntivi (allo stato, senza uno specifico corrispettivo o ristoro): quelli impliciti nell’uso di locali, strumenti di lavoro ed utenze energetiche proprie, a fronte (la circostanza va sottolineata) di un corrispondente risparmio da parte dell’ente datore di lavoro. Un cenno, per finire, al “convitato di pietra”: quell’“utenza” che è la naturale destinataria dei servizi prodotti dalla pubblica amministrazione. Uno dei principali problemi che la normativa emergenziale comporta al proposito rischia di essere, paradossalmente, proprio quello della digitalizzazione dei servizi: cioè, proprio quell’innovazione, per agevolare la quale il decreto “cura Italia” – pur di snellire le procedure per l’acquisto da parte dei singoli enti dei servizi informatici, indispensabili per la diffusione del “lavoro agile” – è addirittura intervenuto sul codice degli appalti. E, in effetti, dati di esperienza evidenziano come i processi di digitalizzazione nei servizi pubblici – e qui il discorso si fa più generale – non sempre producano effetti positivi per gli utenti: spesso la stessa modulistica da utilizzare allo scopo è talmente complessa o comunque priva di criteri omogenei, da generare difficoltà di utilizzo. Senza contare che il processo di digitalizzazione – specie se riferito ad operazioni inerenti alla quotidianità – rischia di aggravare il già alto tasso di disuguaglianza, nei confronti di coloro che si trovino già in difficoltà, per ragioni
17 culturali o di censo, nel dotarsi o servirsi dei dispositivi elettronici, o, più banalmente, per risiedere in zone geografiche allo stato meno servite dalle reti di telecomunicazione, detto processo può risolversi, infatti, in un surplus di penalizzazione. Per altro verso, non si può disconoscere che il lavoro in presenza è spesso insostituibile. Emblematica, al proposito, può essere considerata quella particolare pubblica amministrazione che è l’università, la quale presenta, per così dire, un doppio volto: quello che la accomuna a tante altre pubbliche amministrazioni, e uno del tutto specifico che non coinvolge solo la comunità dei discenti, ma anche quella porzione importante di dipendenti, rappresentata dai docenti. Le università – così come, più in generale, il settore dell’istruzione scolastica – vivono di scambi e contatti umani: di scambi continui e in tutte le direzioni, quasi che si trattasse di una specie di cervello collettivo, dove le sinapsi sono rappresentate dallo scambio diretto tra le persone, ai vari livelli. Come ben sa chi ha esperienza, diretta o indiretta, di docenza, la forma della comunicazione, il modo di porgere, il modo di ricevere, lo scambio diretto di opinioni, la comunicazione fatta anche attraverso il linguaggio del corpo (sguardi, mimica, gestualità, tono della voce), sono tutti elementi essenziali che concorrono a creare il sistema e a renderlo produttivo, secondo quella che è la sua intima missione nei confronti della collettività dei discenti. Tutti sappiamo molto bene come non manchino le esperienze (vicine e lontane, nel tempo, ma anche nello spazio) di attività didattiche svolte fruttuosamente per via telematica. D’altronde, di fronte all’attuale stato di emergenza, quella è l’unica strada valida,
Lo smart working impone di riprogrammare e trovare nuovi equilibri tra tempi di vita e di lavoro
Illustrazione di Sergio Giantomassi
Smart working
Da tenere in considerazione anche il rischio di costi sociali e di nuove diseguaglianze ovvero digital divide
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al momento, per non doversi fermare del tutto. E, tuttavia, il sistema culturale e formativo richiede (non è certo storia di oggi, ma dato d’esperienza multisecolare, anzi ultramillenario), nella sua normale espressione, non già “distanziamento”, bensì proprio il contrario: un costante contatto umano e relazioni interpersonali dirette. Più di un elemento, dunque, induce a concludere la presente, schematica riflessione nel senso che l’esperienza emergenziale che stiamo drammaticamente attraversando solo con grande cautela e molte riserve può essere elevata al rango di occasione “sperimentale”, dalla quale trarre indicazioni utili per futuri sviluppi del lavoro con modalità “agile”. Piuttosto, occorre essere consapevoli che, quando si renderà possibile il ritorno alla normalità, sarà necessario farsi carico, nel dar corso all’applicazione della disciplina ordinaria (aggiornata, secondo opportunità), dei “costi” non indifferenti che, a contraltare dei vantaggi, la configurazione “agile” del modello lavorativo, tanto nel settore privato, quanto nel settore pubblico, è inevitabilmente destinata a produrre. Si tratta dei costi sul piano individuale, tanto in termini economici (stante la rimodulazione tra oneri e benefici per le parti del rapporto di lavoro), quanto in termini morali; così come dei costi anche sul piano sociale, sia per il rischio di nuove disuguaglianze indotte dalle non uniformi possibilità di accesso alla informatizzazione e alla comunicazione digitale (il digital divide), sia per fronteggiare la diffusione di nuovi
rischi per la salute dei lavoratori, sia, infine, per le inevitabili ricadute sulla realtà esterna. Si pensi, per quanto riguarda quest’ultimo, delicato aspetto, al tendenziale svuotamento dei centri delle grandi città che ospitano uffici e conseguenti intuibili ricadute economiche sull’indotto; alla ristrutturazione dei servizi pubblici, come, in particolare, quello dei servizi di trasporto; ma anche alla parziale ristrutturazione dell’habitat, stante l’esigenza, quanto meno, di ridisegnare parte degli spazi interni delle nuove unità abitative, e così via. Non è indifferente, dunque, in prospettiva, la serie di inconvenienti o punti critici da regolare, inevitabilmente destinati ad accompagnare e controbilanciare “comodità” e vantaggi, con la cui prospettazione la retorica del “lavoro agile” mira ad accreditare ed enfatizzare una sua fisionomia “mite”. Non per nulla, nella evidente consapevolezza che da “agile” il lavoro a distanza corre il rischio di trasformarsi in lavoro “fragile”, sono già state attivate alcune interessanti iniziative. Presso il Parlamento è in corso la discussione di specifico disegno di legge, nel quale un ruolo centrale occupano i diritti a tutela del lavoratore “agile” (con una attenzione particolare alla regolamentazione della “disconnessione”); e, presso le istituzioni europee, è già stato dato avvio alla predisposizione di direttiva di aggiornamento della specifica materia. È necesssario evitare, in sostanza, il rischio che il “lavoro agile”, da misura destinata a sostenere e garantire il benessere del lavoratore, abbia a convertirsi nel suo opposto. ¤
Festival del giornalismo culturale
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Fame d’informazione effetto della pandemia COVID, COME SONO STATE CERCATE E RICEVUTE LE NEWS
L di Lella Mazzoli
Come si sono informati gli italiani? Attraverso la Tv Ma la Rete si conferma il secondo medium più utilizzato
a scienza. Da tempo ci si chiede se la scienza nel nostro Paese sia un tema centrale. Di studio e di lavoro. In modo ricorrente la formazione, la politica, il mondo delle professioni si chiedono quanto importanti siano le discipline e di seguito le lauree Stem (acronimo che indica Science, Technology, Engineering and Mathematics). Sono le discipline che nel nostro paese sembrano avere poco successo di scelta da parte dei giovani e soprattutto sono discipline ancor meno scelte dalle ragazze. Si ritiene che determinino un divario di genere. Come se non ne avessimo già abbastanza. In verità non è solo per la scelta che più o meno fanno i giovani quando iniziano il percorso di studio in specie universitario, che la scienza non risulta centrale nel nostro Paese. Anche l’informazione, la divulgazione risente di questa carenza. Il Festival del giornalismo culturale in questa ottava edizione ha voluto proprio discutere di ciò. Di come la scienza sia o possa essere centrale per l’informazione culturale. Fuor di dubbio il momento che vede, purtroppo, protagonista la pandemia di Covid19 ha portato a riflettere su questo tema anche chi non fosse interessato alla scienza, insomma è stato costretto a farlo. Per questo come ogni anno, da ormai dieci, l’Osservatorio News-Italia dell’Istituto per la formazione al Giornalismo della Università di Urbino Carlo Bo, ha condotto una indagine su come si informano gli italiani con un focus su scienza e Covid. Con me hanno lavorato alla ricerca: Stefa-
nia Antonioni, Roberta Bartoletti, Giovanni Boccia Artieri, Gea Ducci e Fabio Giglietto. Come si sono informati su questi argomenti gli italiani? Lo abbiamo chiesto a circa 1000 cittadini, maggiorenni, corrispondenti a un campione rappresentativo della popolazione italiana. Abbiamo usato il metodo della intervista telefonica sia su rete fissa che mobile e abbiamo condotto le interviste fra il 3 e il 19 giugno 2020, identifichiamola come la fase 3 del lockdown della prima ondata della pandemia. Inizio da un dato introduttivo di scenario che riguarda l’andamento dell’utilizzo dei media negli ultimi 10 anni. Se la carta stampata perde sempre più lettori, la tv non solo mantiene il dato di medium più utilizzato ma le all news televisive hanno un incremento del 6% e addirittura le tv locali aumentano dell’8%. La radio perde consenso ma, secondo una nostra interpretazione, in realtà la radio mostra una buona performance perché perdendo solo il 7% in realtà ci pare un dato affatto negativo se si pensa che una parte consistente di ascoltatori segue i programmi radiofonici in auto. In quel periodo in cui abbiamo condotto le interviste non era ancora possibile per tutti muoversi e per gran parte degli occupati continuava lo smart working. Una sottolineatura la merita la rete internet che è ormai utilizzata più o meno quanto la tv e si conferma il secondo medium più usato per informarsi e vale la pena evidenziare come le fonti d’informazione in rete, cui si sono rivolti i cittadini
Festival del giornalismo culturale
Lo studio dell’Istituto di giornalismo di Urbino ha rivelato che gli italiani per informarsi hanno privilegiato le fonti istituzionali
Dall'alto, un momento del Festival del giornalismo culturale di Urbino nella location di Fonte Avellana e qui sopra il teologo Vito Mancuso A destra, i direttori artistici della rassegna Lella Mazzoli e Giorgio Zanchini durante una premiazione
durante il primo avvento di Covid, tutte, sono in ascesa se si esclude una piccola flessione di Facebook Friends. Insomma la pandemia ha reso gli italiani affamati di informazione. Non abbiamo bisogno di spiegare questo fenomeno, se vogliamo scontato, dato che tutti volevamo sapere e sapere in particolare quel che accadeva attorno a noi, ai nostri conoscenti, ai territori dove risiedono conoscenti, amici e parenti. Questo lo scenario della informazione, ora cerco di riportare una fotografia della informazione su Covid19 e di come l’hanno cercata e ricevuta gli italiani. Gli italiani (una parte significativa) dichiarano di aver cercato più di prima l’informazione online e questi sono soprattutto i giovani e le persone con un più alto grado di istruzione mentre hanno dichiarato un aumento di consumo off line gli anziani e coloro che hanno un livello di istruzione più basso. Circa la metà degli italiani (il 46%) sostiene che la pandemia non ha affatto modificato il loro modo di informarsi. Curioso che il 7% dichiara che si è informata meno che prima. A noi risulta che c’è una piccola parte di italiani che hanno preferito allontanare l’informazione sul Covid e crediamo che la motivazione sia non l’indifferenza al tema ma il fatto che dati e immagini potessero produrre stress o paura. Tanto è stato scritto su questo argomento da psicologi, filosofi ma anche da teologi come Vito Mancuso, come lo studioso ha riferito durante il Festival del giornalismo culturale il 10 ottobre a Fonte Avellana a partire dal suo Il Coraggio e la Paura (Garzanti,2020). Al di là di ciò gli italiani hanno avuto un atteggiamento buono, favorevole rispetto a come l’informazione ha seguito e restituito la narrazione sulla pandemia. Infatti il 66% ritiene che l’informazione l’abbia
20 raccontata bene o abbastanza bene. E se osserviamo il dato riguardante le classi d’età e il grado di istruzione non si rilevano atteggiamenti troppo discordi fra loro se si esclude una posizione maggiormente critica da parte dei giovani che dissentono dalla informazione ricevuta per un 6% in più rispetto a cittadini in età adulta e anziana. Altro dato da segnalare è che sono quelli appartenenti alla classe d’età 55-65 anni a leggere in modo più positivo l’informazione ricevuta. Crediamo che gli italiani si siano affidati all’informazione (che non dimentichiamolo è stata particolarmente ricca di esperti, cui a mio avviso il giornalismo ha fin troppo delegato il racconto) in un periodo di grandi incertezze. In tal modo, come già accadeva nel nostro Paese nei lontani anni ‘60 -in cui la tv e i grandi giornali si riteneva generalmente non potessero dare notizie sbagliate o false-, gli italiani sono tornati a riconoscere alla informazione un ruolo di mediazione che si era molto attutito. Questo quanto si rileva dalle risposte a un gruppo di domande specifiche sulla fiducia nei confronti della informazione; aspetto piuttosto interessante anche perché in questi ultimi 10 anni è un sentimento, per certi versi, nuovo. Quando abbiamo chiesto quali fonti informative (non quali media) abbiano utilizzato o abbiano preferito per avere notizie sulla pandemia appare netta la scelta: le fonti istituzionali. È probabile che questa scelta sia stata fatta perché le istituzioni (in primis è stata indicata la Protezione civile cui segue il Presidente del Consiglio dei Ministri e al terzo posto vengono indicate le Organizzazioni sanitarie pubbliche) hanno fatto un notevole sforzo comunicativo di disintermediazione, scegliendo di comunicare direttamente con i propri pubblici.
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Una comunicazione diretta mi verrebbe da dire con le caratteristiche simili al B to B anziché al B to C. Vado a prendere la notizia dalla fonte primaria e non da quella mediata. Poi saranno comunque gli organi di stampa a veicolare i contenuti prodotti dalle Istituzioni (istituzioni che così hanno operato come se fossero agenzie di stampa). In questa classifica al quarto posto troviamo le testate giornalistiche nazionali. Questi dati paiono dimostrare che in una situazione di crisi, di incertezza complessiva gli italiani privilegiano i soggetti istituzionali. Solo apparentemente questo scenario contraddice quanto riferito sopra quando riportavo di come gli italiani abbiano dimostrato fiducia nella informazione. Infatti fiducia sì nella informazione ma ancor di più nelle istituzioni. E soprattutto gli italiani hanno compreso la differenza fra fonti di informazione e media di diffusione. Chissà se questo sentimento di fiducia rilevato nella indagine da noi svolta, -come dicevo nella fase 3 del lockdown-, è ancora presente negli animi e nei comportamenti delle persone? A completamento credo sia utile riferire che Giuseppe Conte, il Presidente del consiglio dei Ministri, è stato particolarmente gettonato dalle classi d’età più giovani (18-29 e 30-44 anni) per le quali risulta essere la prima fonte di informazione, scelto maggiormente dai maschi e da coloro in possesso di un titolo di studio elementare; mentre le testate giornalistiche nazionali sono messe al primo posto dai laureati di entrambi i sessi. E dunque sembra che da una parte si dia fiducia alla mediazione operata da chi fa informazione, sia mainstream che no mainstream, e dall’altra si plauda al lavoro delle istituzioni. Come dicevo più sopra non appaia come
una contraddizione. I due fenomeni possono convivere in specie in questo momento. Lo metto in evidenza anche in un altro recente lavoro nel quale indagavo proprio i mutamenti o meno del giornalismo. Più precisamente della macchina informativa. Nel saggio Sarà tutto come prima? Il volto vecchio e nuovo del giornalismo apparso in: L. Mazzoli, E. Menduni, Sembrava solo un’influenza. Scenari e conseguenze di un disastro annunciato, (Angeli 2020) provo a raccontare ciò che è successo all’organizzazione dell’informazione a partire dalla prima fase del lockdown fino alla cosiddetta terza fase. Intervistando 14 fra direttori, vicedi-
rettori, conduttori, inviati ma anche social media manager e youtuber delle più significative testate italiane di carta, tv, radio e web ho potuto fare una fotografia di quanto è successo e di come ha proceduto l’informazione nel nostro Paese. Emergono, da questa analisi, alcuni aspetti interessanti che pongono basi e obiettivi per il futuro della professione del giorna-
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Circa la metà degli italiani sostiene che la pandemia non ha modificato il loro modo di informarsi
Festival del giornalismo culturale
Riconosciuto il ruolo importante dell’informazione e il 66 per cento ha ritenuto che abbia raccontato bene la pandemia
In alto, da sinistra Giorgio Zanchini Lella Mazzoli e Piero Dorfles gli organizzatori del Festival Culturale di Urbino
lismo: una tecnologia sempre più decisiva e una necessità di consolidamento di modelli di approfondimento dei contenuti. La pandemia ci ha portato a guardare e a usare tutto, come gli italiani ci hanno detto nelle loro risposte e i giornalisti mainstream hanno chiaramente riconosciuto alla rete un valore come mai prima. Quindi non la vecchia contrapposizione fra mainstream e no mainstream ma ho potuto cogliere dalle interviste condotte ai giornalisti, una sorta di nuova alleanza. Certo qualche sospetto da parte dei giornalisti, nei confronti della rete e dei social appare all’orizzonte ma sostanzialmente apertura maggiore verso quel mondo che in tanti hanno storicamente considerato di minore qualità. Una alleanza dunque necessaria e benvenuta. Che fa bene all’informazione e ai cittadini nella costruzione della loro coperta mediale, della loro agenda. Agenda che è sempre più orientata alla
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informazione scientifica, storicamente carente nel panorama del giornalismo italiano e, fino a prima di Covid19, delegata a inserti, a riviste di divulgazione, a brevi interventi in trasmissioni generaliste e lì relegata. Anche la formazione al giornalismo, le scuole di giornalismo, dovranno porre maggiore attenzione a questi temi e preparare i giornalisti di domani a maneggiare in modo professionale le tecnologie e a saper raccontare gli sviluppi della scienza. Questo la Scuola di Urbino lo ha parzialmente fatto in passato ma ha in agenda per il biennio prossimo interventi precisi e mirati in risposta anche a quelle preoccupazioni di cui dicevo all’inizio di questo scritto ovvero alle carenze delle discipline Stem. Se anche il giornalismo e l’informazione se ne occuperanno attentamente anche nel nostro Paese i giovani si interesseranno maggiormente a questi argomenti fin dalla scelta scolastica. ¤
Marchigiani nel mondo
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Spaghettifresser, la vita degli italiani in miniera LA STORIA DEI NICOLETTI: DA IMMIGRATI ALLA UE
È
di Paola Cimarelli
la storia di una famiglia che ha costruito l’Europa. Di un uomo che ha scelto la via del coraggio per cercare di creare il suo futuro, per fuggire dalla miseria, e di una donna che ha compiuto con lui questo cammino. È la vicenda di un emigrato, uno delle 700 mila persone che, a cavallo fra l’800 e il ‘900, hanno lasciato le Marche, le origini, la terra, il paese, gli affetti, gli amici, l’Italia per cercare un lavoro. Persone che si sono sempre dichiarate italiane e che, specie nel Dopoguerra, con le loro rimesse, indirizzate alle famiglie d’origine, hanno nettamente contribuito alla creazione del benessere nazionale. È Franco Nicoletti, pre-
sidente del Consiglio dei Marchigiani nel mondo, a raccontare un vissuto privato, che accomuna tanti nuclei famigliari della regione e che per lui è diventato, nel tempo, anche ispirazione per un impegno civile e sociale. Quell’uomo, partito nel 1951 da Pergola, era suo padre Leandro. "Aveva 24 anni - racconta -, la destinazione erano le miniere belghe. Un lungo viaggio in treno per raggiungere Charleroi, con un passaggio a Milano per ottenere il visto per lavorare. C’era un grande bisogno di manodopera. L’Italia e il Belgio avevano sottoscritto nel 1946 il protocollo minatori-carbone: un accordo di scambio che prevedeva che per ogni lavoratore impiegato
Marchigiani nel mondo
Tra l’800 e il ‘900 oltre settecentomila persone hanno lasciato la nostra regione per cercare lavoro e sfuggire alla miseria
In alto, Franco Nicoletti e sotto con la madre Maria e il fratello Marcello A destra, alcune immagini emblematiche del lavoro degli italiani nelle miniere e nelle industrie siderurgiche
in miniera lo Stato italiano riceveva una certa quantità di carbone". Una materia prima di cui la nazione aveva molto bisogno per lanciare la ricostruzione post bellica e per la quale l’Italia offrì in cambio almeno 50 mila lavoratori. "I minatori avevano contratti stagionali, chiamati di tipo A, da marzo a settembre. Poi dovevano rientrare in Italia per ripartire la primavera seguente. La miniera era molto faticosa e mio padre, al secondo anno, scelse di spostarsi in Lussemburgo dove c'era una grande richiesta nel settore delle costruzioni, dove andò a lavorare. Anche qui con contratti a termine fino al 1955 quando entrò in una officina siderurgica dove rimase fino alla pensione, nel ’90, un lavoro veramente pesante, che non sempre godeva delle protezioni necessarie. Nel frattempo, nel 1953 si era sposato e, grazie al nuovo lavoro con contratto B, fisso, mia madre Maria poté raggiungerlo ed essere, finalmente insieme, una famiglia". Anche per i Nicoletti il ruolo della donna è determinante per la costruzione del tessuto sociale e della comunità. "Mia mamma, anche lei di Pergola, era una delle prime donne marchigiane in Lussemburgo. Faceva la casalinga e aveva l'abitudine di preparare da mangiare per tutti. Operai, compaesani, colleghi di lavoro del mio babbo, la sera tornavano stanchi e lei preparava la pasta per tutti. Mi racconta, con orgoglio, che ha sfamato per mesi i corregionali. Credo che sia nata veramente nelle esperienze di questo tipo l’unità fra queste persone che si è poi trasformata nelle associazioni, per rimanere vicini e aiutarsi". Un’unione nata, in un certo senso, intorno anche alla capacità di rete delle donne e ai piatti di pasta. Un cibo che
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per anni è stato un simbolo della discriminazione. "Gli immigrati non avevano una vita facile e la coabitazione all’inizio non era semplice a Lussemburgo. Venivano trattati da ‘spaghettifresser’, mangiatori di spaghetti. In Francia utilizzavano invece il termine ‘maccaronì'; ma sempre di pasta si trattava. Un altro termine che veniva usato, più cattivo, era ‘Wëlle Bär’, orso selvaggio, perché l’italiano era scuro di pelle e di capelli e di solito con barba e baffi neri, molto differenti dai lussemburghesi, biondissimi e con carnagione chiara". La voce, nel racconto al telefono, si incrina appena, si ferma un attimo e poi riparte. "Li chiamavano sporchi orsi. Molti lavoravano in miniera e, per questo, quando uscivano dal lavoro erano sporchi. E stranieri. Emarginati come molti immigrati oggi". C'erano difficoltà a trovare gli alloggi e, nei primi anni di permanenza, un altro problema da affrontare, più
Marchigiani nel mondo
per le donne e i bambini, era quello della lingua. "Per farsi capire nei negozi, per fare la spesa si facevano gesti, segni. Non era per niente facile. Facevamo lo stesso anche noi piccoli per farci capire dai coetanei lussemburghesi. Gli uomini erano spesso fra di loro e, facendo lavori umili, non avevano bisogno di parlare in tedesco o in francese. C'era il sindacato che cominciava ad aiutarli. Anche in questo, lo stare insieme, uniti consentiva di affrontare le difficoltà di dover capire una lingua così diversa". Il luogo di ritrovo dopo il lavoro e per il fine settimana, per gli uomini, era il caffè dove si parlava, si giocava a carte. “Le famiglie erano più disperse – dice Nicoletti -, non abitavano tutte vicine. Ci si incontrava solo in poche occasioni. Da bambini, si giocava nei cortili, tutti insieme, molti della comunità italiana. Ho la fortuna di avere ancora degli amici fra coloro con cui passavo i pomeriggi in quegli
anni”. Furono molte le famiglie che scelsero di continuare a parlare in italiano con i figli facilitando anche il rientro nel luogo d’origine, dopo lunghi viaggi, per le vacanze estive. “Era d’obbligo tornare almeno ogni due anni a Pergola, per incontrare i nonni, i cugini, tutti i parenti e gli amici. Erano giornate molto belle. Era tradizione che portassimo sempre in regalo un pacchetto di caffè e uno di cioccolata. Da bambino mi sono sempre chiesto perché visto che c’erano anche in Italia ma credo fosse dovuto al prezzo di acquisto più alto. Qualcuno chiamava mio padre ‘l’americano’ come se arrivasse da un Paese super ricco. Credo che questo sia stato un vissuto in cui si ritrovano molte famiglie di emigrati”. Per rientrare in Italia, racconta, “l’unica soluzione era il treno, il famoso Bruxelles– Lecce, istituito apposta per gli italo-belgi-lussemburghesi che arrivava alla stazione
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Marchigiani nel mondo
Il ruolo della donna determinante per la costruzione del tessuto sociale e della comunità degli immigrati marchigiani
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di Lussemburgo alle 22 dove ad aspettarlo c’erano famiglie marchigiane, umbre e pugliesi. Il treno proseguiva verso il sud fermandosi a ogni frontiera per il controllo passaporti. Si arrivava alla prima stazione marchigiana verso le 13 del giorno seguente”. Il sogno dell’emigrante era quello di rientrare a vivere in Italia il prima possibile ma non per tutti si è avverato, con il crescere del radicamento sociale specie quando i figli frequentavano le scuole, l’università. “L’ideale era tornare. Queste persone hanno pensato di andare via provvisoriamente, di fare i soldi e rientrare una volta raggiunto il benessere. Tantissimi hanno costruito casa nelle Marche, abitazioni che ora sono chiuse, abbandonate o rivendute, con grossi problemi anche per gli eredi”. Per questo, “come componenti delle associazione dei Marchigiani nel mondo, crediamo sia importante lavorare per favorire il turismo di ritorno, per mantenere il legame fra chi vive all’estero, specie fra
le nuove generazioni, e la terra d’origine incrementando anche un settore economico importante per la regione”. La famiglia Nicoletti non è tornata. È rimasta in Lussemburgo. I due fratelli: Franco, 62 anni, dopo aver frequentato la scuola europea, ha lavorato nell’Unione europea nel settore edizioni e ora è in pensione e Marcello, 65 anni, si sono sposati e con i loro figli e nipoti hanno sempre parlato in italiano. Ma soprattutto hanno sempre mantenuto la cittadinanza italiana. “A differenza di Francia, Germania, Belgio, ogni Stato con diverse modalità, qui non è in vigore lo ius soli. Avremmo potuto scegliere di acquisire anche la cittadinanza lussemburghese ma per tutti noi delle seconde generazioni, che grazie allo studio abbiamo avuto possibilità di occupare posti di lavoro sempre più importanti, essere italiani è sempre stato un vantaggio, per la conoscenza della lingua, che si affianca alla francese e te-
Nel mondo un milione e mezzo di marchigiani
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ono 1,5 milioni circa i marchigiani che vivono nel mondo, un milione solo in Argentina. A rappresentarli, nella regione d’origine, ci sono il Consiglio e il Comitato esecutivo dei Marchigiani nel mondo, istituiti con legge regionale nel 1997, che riuniscono 60 associazioni e 5 federazioni che operano in 12 Stati e tre continenti, Europa, America e Oceania. Fra le attività degli ultimi cinque anni dei Marchigiani nel mondo, presieduti da Franco Nicoletti, ci sono state la promozione della cultura marchigiana, con l’organizzazione di mostre itineranti, e dei personaggi illustri come Gioacchino Rossini, Giacomo
Leopardi, Raffaello Sanzio, due educational tour per far tornare 40 giovani discendenti nelle Marche, per conoscerle, ritrovare le radici e imparare l’italiano, e l’accompagnamento della Regione in alcune missioni economiche specie in Argentina. Dopo il terremoto del 2016, le associazioni hanno effettuato una raccolta fondi di solidarietà per Umbria, Lazio e Marche, con donazioni alla Croce rossa, Protezione civile o direttamente ad alcuni Comuni. A Foce di Montemonaco è stato ricostruito il parco giochi mentre ad Arquata del Tronto è stato allestito il nuovo poliambulatorio. Il Consiglio e alcune associazioni hanno parteci-
pato ad una seduta aperta dell’Assemblea legislativa, collaborato con il Museo dell’emigrazione di Recanati e promosso, con il Censis, un sondaggio per conoscere le problematiche dei giovani marchigiani trasferiti all’estero. Un bilancio di fine mandato positivo per Nicoletti che crede sia necessario “continuare ad incrementare le attività del Consiglio, composto da 60 persone non solo delle associazioni dei marchigiani ma anche di Università, Camere di commercio, Enti locali, per promuovere fra questi soggetti collaborazioni e iniziative sociali ed economiche”. ¤
Marchigiani nel mondo
desca, per la cultura e il buon cibo che sono anche qui sono molto amati”. Gli italiani che vivono in Lussemburgo sono circa 30 mila, 1.500 quelli di origine marchigiana, un numero complessivo cresciuto negli ultimi cinque anni con l’emigrazione giovanile e delle persone che lavorano in tante grandi aziende che hanno trasferito la loro sede nel Granducato. Un cambiamento culturale notevole da quando, negli anni ’50, quella italiana era la più grande comunità, composta da friulani, marchigiani, umbri poi negli anni a seguire da pugliesi e calabresi. Con l’inizio del boom economico, molti sono rientrati in Italia e il bisogno di manodopera è stato affidato all’arrivo dei portoghesi. Così alla fine degli anni ’70, da questa esperienza vissuta sulla propria pelle, in alcuni giovani marchigiani nacque il desiderio di costituire un’associazione per aiutare gli altri emigrati. “C’era un sentimento fortissimo di condivisione, di attaccamento alla nostra
regione, all’Italia – spiega Nicoletti -, cercavamo di dare supporto alle persone che ancora non sapevano leggere, di organizzare viaggi per tornare e anche per venire a votare insieme ai corregionali del Belgio”. La legge per esercitare il diritto di voto per corrispondenza dall’estero, del 2001, era ancora lontana; oggi sono 150 mila i marchigiani che possono votare nei loro Paesi di residenza. In tanti, con orgoglio profondo, non rinunciavano al sacrificio di dieci-venti ore di auto, treno, pullman per venire ad esprimere un diritto costituzionale. “L'ultimo che arriva è lo straniero – sottolinea Nicoletti -, così dagli anni ’60 in poi la comunità italiana ha cominciato ad essere sempre più integrata. Dopo aver vissuto per anni con la sensazione di non essere completamente parte del luogo in cui vivevamo, la percezione nei confronti degli italiani è cambiata con l’arrivo dell’emigrazione di un’altra nazionalità. Non molto diverso da quello che succede oggi”. ¤
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Il presidente dei marchigiani nel mondo: “I nostri non avevano vita facile, emarginati come molti immigrati di oggi”
Nella pagina a sinistra Maria Nicoletti a 35 anni In alto, la famiglia Nicoletti nel 1961 e qui sopra Leandro Nicoletti
L’opera
Il Cristo di Vangi trionfante per la chiesa santuario di Seoul UN CROCIFISSO ALTO TRE METRI E MEZZO SU UNA CROCE DI CARBONIO CHE LASCIA PASSARE LA LUCE, AFFIANCATO DA DUE MAXIPANNELLI DI VETRO CON IMPRESSI L’ULTIMA CENA E L’ANNUNCIAZIONE
È di Federica Facchini
Nella foto piccola Vangi accanto al Cristo monumentale e nella foto grande un dettaglio del viso della scultura in legno alta quasi quattro metri
un Cristo di speranza, trionfante. Dal colore che sfuma tra i toni della vita e della morte lasciando sospesi. Che vive e sembra elevarsi, come in un respiro liberatorio dai chiodi in acciaio che lo fissano alla croce. È l’ultima opera di Giuliano Vangi, il Cristo crocifisso alto quasi quattro metri, scolpito in legno di ontano, per una chiesa-santuario da duemila posti nei pressi di Seoul in Corea del Sud. Per disegnarlo e realizzarlo, l’artista di Barberino del Mugello ma pesarese ormai nel cuore, 90 anni il prossi-
mo anno, ha dedicato tutto il tempo dell’isolamento obbligato dal Coronavirus. Ha disegnato ossessivamente, indagato attraverso il disegno la realtà delle cose, è entrato nell’anima delle sue intuizioni non solo idealmente ma con l’arte del fare che gli è propria. E Vangi da sempre conduce le sue ricerche portando avanti con quel piglio fiero e tenace, che appartiene alla gente toscana, una tradizione disegnativa di vasariana memoria come base di studio e origine di ogni progetto. Un periodo dunque molto
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proficuo, quello dell’isolamento, che gli ha permesso di concentrarsi totalmente sull’obiettivo, legato anche quest’ultimo, come nella sua specificità ormai, all’espressione visiva del sacro, a quell’unione di arte e spirito che dal Novecento ha iniziato a disgregarsi in nome di un’ansia di sperimentazione sempre più laica e tecnologica. In controtendenza Giuliano Vangi ha saputo con grande convinzione, serietà, perizia tecnica, profonda conoscenza dei materiali e amore per l’arte immortale dei grandi
maestri del passato, rinnovare il linguaggio artistico rivolto alla sfera spirituale, senza stravolgere i canoni di base ma piegandoli alla contemporaneità, attraverso delle licenze formali, l’uso delle tecnologie nella lavorazione dei materiali, l’indagine introspettiva nelle tensioni dell’uomo di oggi. Pur trattandosi di arte sacra si riconosce l’epoca in cui è stata pensata e realizzata e questo conferisce ai lavori la grandezza della mente che li ha pensati. E questa volta è un grande Cristo crocifisso, alto 3,60 me-
tri, scolpito tutto in verticale, su e giù da una impalcatura protesa fino al soffitto all’interno del suo laboratorio. Un’opera che verrà collocata al centro dell’altare, sospesa a 6 metri di altezza, sopra una croce nera in carbonio privata dell’estremità superiore, tanto da assomigliare ad un grande Tau, attraversato da due feritoie centrali (una verticale e una orizzontale) tali da lasciare passare come un fendente, quella luce zenitale che proviene dall’apertura longitudinale retrostante e dai lucernari delle due torri absidali.
L’opera
Una lama luminosa che accarezza, non recide. Che risplende, non ferisce. Il Cristo di Vangi ha le fattezze caratteristiche dei suoi personaggi, dai tratti espressionisti, ma questa volta ciò che traspare non è il dolore, la sofferenza o la solitudine bensì la serenità, la consapevolezza, la positività. È un Cristo giovane, fulvo nei capelli e nella barba e dallo sguardo severo ma rasserenante, con grandi occhi aperti sull’umanità, vigile sul mondo. Il corpo è esile, dall’anatomia scarna e chiara, ottenuta grazie ad una colorazione stesa a velature di colori; solo alcune vene in rilievo e ben visibili rendono il ricordo di quella tensione di un corpo che fu umano e che ora non lo è più. Anche nel costato infatti la ferita appena visibile, non sanguina più. E anche le grandi braccia aperte sembrano volere abbracciare l’umanità intera. Un’opera eloquente che veicola un messaggio potente di speranza. Ad accrescere questa idea di luminosità, fisica e spirituale, sono anche i chiodi, in acciaio cromato, che trafiggono mani e piedi e nel riflettere la luce diventano punti luminosi. Ad affiancare il Cristo in entrambi i lati dell’abside della cattedrale, saranno grandi pannelli in vetro, che fluttueranno nell’aria appesi a sottili cavi in acciaio e sui quali sono stati riportati, attraverso una tecnica di stampa serigrafica molto complessa, l’Ultima Cena da un lato e l’Annunciazione dall’altro. Un intervento che rappresenta forse la parte più originale del contributo di Vangi, senza precedenti nel suo per-
L’opera
Molte opere sono state commissionate a Vangi da enti pubblici e religiosi:
1996 la Lupa per la piazza Postierla di Siena e il San Giovanni Battista per il Lungarno di Firenze; 1997 il presbiterio, l’altare, l’ambone, la cattedra vescovile e il grande crocifisso per il Duomo di Padova; 1998 la gigantesca scultura “Donna con albero” p er la sede della Banca d’Italia a Vermicino; 1999 “Varcare la soglia” per l’ingresso dei Musei Vaticani; 2001 l’ambone e l’altare per il Duomo di Pisa; 2002 viene inaugurato in Giappone, nella città di Mishima, il Museo Vangi, un edificio di circa 2.000 mq che sorge in un parco di 30.000 mq: le opere, circa un centinaio di opere, fra sculture e disegni 2003 la scultura in legno policromo per la Sala Italia di Palazzo Madama a Roma, spostata poi in palazzo Giustiniani; 2004 l’abside nella chiesa di Giovanni XXIII a Seriate progettata da Mario Botta e l’ambone per la chiesa di Padre Pio a San Giovanni Rotondo progettata da Renzo Piano; 2012 L’altare, l’ambone, e la cattedra vescovile nel Duomo di Arezzo; 2018 “Scultura della Memoria”, la scultura monumentale collocata nel centro storico di Pesaro davanti l’ingresso di Musei Civici. 2019 “Concordia” la fontana in piazza Amiani, nel cuore della Città della Fortuna. 2020 il Cristo Crocifisso e le grandi vetrate per la chiesa santuario “Nostra Signora del Rosario di Namyang”, vicino Seoul, Corea del Sud.
È un Cristo dallo sguardo severo ma rassicurante che abbraccia l’umanità e lancia un messaggio potente di speranza
Numerosi e prestigiosi anche i premi che Vangi ha ricevuto come il famosissimo Praemium Imperiale a Tokyo (2002).
In alto a destra, le due vetrate che rappresentano l'Annunciazione e la Visitazione Qui sopra e a destra l'artista accanto alle sue maxi vetrate
32 corso, sia dal punto di vista artistico, sia da quello tecnico. Quaranta metri di disegni in lunghezza, per tre metri di altezza, trasferiti su vetro grazie alla professionalità del miglior artigianato marchigiano (Montanari Glass di e Arti Grafiche della Torre entrambi a Casinina di Auditore, in provincia di Pesaro e Urbino) attraverso tecniche quasi sperimentali data la difficoltà a fare coincidere il verso con il recto dei disegni. Sì perché queste rappresentazioni sono fruibili su entrambi i lati e quello che si ammira davanti la si può osservare nel dettaglio, anche da dietro. L’Ultima Cena, pensata per essere sospesa nell’abside destro, ci mostra una mensa di impianto leonardesco dove gli apostoli si dividono in due animati gruppi con la figura del Cristo al centro. Sono volti di persone reali, alcuni addirittura dai tratti coreani, altri protagonisti del progetto stesso, come il committente Padre Lee e il progettista dell’intera macchina, Mario Botta. Non sappiamo chi Vangi abbia preso come modello per Giuda, ma anche questi colpisce per le sembianze molto particolari. Per il volto di Cristo invece anche in questo caso, come già in quello del Crocifisso, il riferimento è stato uno dei suoi nipoti. A sinistra invece i cinque pannelli descrivono l’Annunciazione dell’Arcangelo Gabriele a Maria e la Visitazione, altro episodio del Vangelo che narra la visita di Maria alla cugina Elisabetta. Anche qui alcuni visi sono prelevati dalla cerchia di familiari, conoscenze e amicizie dell’artista che non ha fatto mistero a spiegare. Entrambe le realizzazioni hanno medesima colorazione nei toni del marroncino e dell’ocra, ma la peculiarità sta nelle lumeggiature bianche che conferiscono molta luminosità ai contorni, ai visi e ai
dettagli. La resa naturalistica degli oggetti sulla mensa del cenacolo piuttosto che l’albero nella scena dell’incontro tra Maria ed Elisabetta, conferiscono un’ulteriore attenzione disegnativa e di profonda indagine spaziale alle scene. Opere che si integrano nello spazio in una maniera mirabile, la trasparenza del vetro che in genere lo si immagina anche come materiale freddo, qui consente di penetrare con lo sguardo l’oggetto e ammirare lo spazio architettonico. Tutto è in armonia e in dialogo fecondo. E come in precedenti occasioni progettuali, anche in questa nuova “avventura” l’artista si ritrova a fianco dell’architetto Mario Botta, un connubio consolidato da tempo tra il professionista e lo sculture. Botta lo ha volu-
L’opera
to fortemente per quest’ultimo progetto che li vede protagonisti in Corea del Sud, non lontano da Seoul, per la nuova chiesa santuario “Nostra Signora del Rosario di Namyang”, un maestoso edificio architettonico con un apparato scultoreo e scenografico adatto a comunicare all’interno di uno spazio enorme. Una cattedrale che ha richiesto un vero e proprio studio urbanistico perché situandosi su una collina da cui si ammira la città sottostante, è stata realizzata in modo da rappresentare una sorta di “faro”. Un faro di fede innanzitutto ma anche localizzatore spaziale, presenza architettonica ed emblema di memoria culturale. Il committente infatti, tale
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Padre Lee SangGak, nell’arco del suo mandato spirituale non ha avuto altro obiettivo che quello di consolidare un vero e proprio parco, acquistando anche pezzature di terreno da altri proprietari pur di perseguire il suo sogno, quello di realizzare un grande “Parco della Pace”, per un’area totale di 83.500 mq. Un progetto questo, iniziato nel 2011 e che vede il suo coronamento dopo quasi 10 anni di lavori nella grande chiesa-santuario da quasi duemila posti (seduti), simbolo di fusione tra la città e la natura circostante. Il complesso, caratterizzato dall’uso del mattone rosso a vista (spesso le opere principali di Mario Botta prediligono l’utilizzo del mattone in cotto o della pietra) che distacca visivamente l’edificio
I pannelli di vetro accanto al Cristo fluttueranno nell’aria appesi a sottili cavi d'acciao Quaranta metri di disegni
L’opera
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In questa “avventura” Vangi si ritrova di nuovo a fianco dell’architetto Botta un connubio tra mostri sacri come nel Rinascimento
Nella foto in alto, la chiesa-santuario "Nostra Signora del Rosario di Namyang" da duemila posti situata nei pressi di Seoul progettata dall'architetto Mario Botta qui sopra insieme con Giuliano Vangi
dal contesto naturale, è caratterizzato da due alte torri absidali di oltre quaranta metri di altezza, che diventano una presenza plastica di richiamo verso la parte urbana, elemento terminale della chiesa ma di apertura alla città. In realtà questi due corpi derivano dalla ideale divisione di un’unica torre cilindrica che mantiene al centro un leggero distaccamento, come apertura longitudinale e filiforme, per far sì che la luce entri zenitalmente all’interno dello spazio sacro. All’interno la navata si sviluppa orizzontalmente nella parte più vicina all’altare per poi salire in lieve pendenza e garantire la massima visibilità anche ai fedeli più lontani. Per Mario Botta, confrontarsi con la dimensione religiosa è del tutto naturale, tra l’altro proprio quest’anno è uscito, edito da Electa, il libro
“Il Gesto Sacro” una conversazione con Sergio Massironi e Beatrice Basile in cui rivela come solo nella maturità e attraverso la progettazione di spazi sacri abbia definitivamente guadagnato i principi base della sua disciplina. Una fusione ineccepibile di due mostri sacri, uno artista, l’altro architetto, che con grande maestria ancora una volta hanno saputo confrontarsi con grande umiltà e apprendere l’uno dall’altro, in direzione di una visione univoca, originale e grandiosa. Esattamente come accadeva in quel Rinascimento tutto italiano che i due Maestri osservano con dedita ammirazione, dove l’architetto lavorava a fianco dell’artista, dove l’arte e l’architettura erano a servizio di una visione ampia e celebrativa con profondi connotati scientifici e filosofici. ¤
Il genetliaco
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Ricci, l’arte per amica ed esercizio spirituale NOVANTA ANNI, UOMO DI CULTURA, ARTISTA E DOCENTE
B di Lucio Del Gobbo
uon giorno professore! Ciao Nino! Tanti auguri Maestro! Voci allegre e in apparenza dissonanti perché distinte per grado di familiarità e confidenza, ma tutte spontanee, di pari cordialità ed affetto. Hanno echeggiato nella casa di Nino Ricci per l’intera giornata del suo novantesimo compleanno. A immortalare la circostanza un gustoso video realizzato con spontanea freschezza e abilità da suo fratello Luigi: voci e canti giunti da molti altri amici. Alcuni, i più intimi, sfidando le minacce del Covid hanno anche voluto rendere omaggio di persona, improvvisando una festicciola e brindando in suo onore nel salotto più riservato della sua bella casa - forse congegnato a dimensione di una più intima amicizia - lui, al centro della comitiva, sorrideva felice, ma senza scomporsi, com’è nel suo stile. Perché tanta ammirazione e una così calorosa premura da parte di tanta gente? La risposta è semplice: nei suoi novant’anni Nino Ricci ha profuso senza rispar-
mio le sue migliori qualità di uomo di cultura, di artista e di amico rendendosi testimone di una storia, la propria, solo in apparenza stabile e tranquilla, ma in realtà punteggiata da svolte e scoperte, all’interno di una avventura comunque ricca di equilibrio, umanità e intelligenza. Ed è appunto nel complesso di tale vissuto che egli ha guadagnato la sua fama di Maestro. Una storia, svoltasi con grande rigore e coerenza per ciò che riguarda l’arte, con inizio ufficiale alla “Scuola del Libro”, una straordinaria scuola, storica per fama, qualità e sede, ubicata al piano strada, tra i due torricini lauraneschi del Palazzo Ducale di Urbino. All’epoca l’avrebbero detta “a numero chiuso”, tanta era l’attenzione di Francesco Carnevali, che ne era direttore e sovrano, a fare in modo che non si affollasse oltre il dovuto. E il suo “dovuto” atteneva al livello delle lezioni e a un adeguato profitto dei suoi allievi. La qualità, garantita dalla perizia di “mitici” insegnanti, in quell’ambiente trovava già ragione per convertirsi in arte. L’unico potentato indipendente dalla sovranità del Carnevali, era costituito dalla sezione di Calcografia dove Leonardo Castellani, un artista scrittore di origine faentina e tradizione toscana, impartiva burbero e paziente, il proprio illuminato sapere. Ricci ha scritto in varie occasioni di questa Scuola, magnificandone la qualità sia in senso disciplinare – le materie erano tutte incentrate sulla formazione del libro - che di cultura:«Il fare e la sapienza artigianale ci erano dati con profusione mentre si discute-
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Borsista al Centro Sperimentale di Cinematografia con Verdone e Blasetti ma l’idea di girare film non lo convinse
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va dell’ultimo film di successo, o dell’ultima traduzione di Lorca o di Gide in un continuum esaltante. Questo il vero segreto di quella Scuola, alla quale debbo moltissimo». Con quel bel bagaglio di conoscenze Ricci decise in seguito di iscriversi all’Accademia di BB. AA. di Roma, sezione Scenografia, dove ebbe insegnamenti meno scrupolosi che a Urbino, ma non meno arricchenti dal punto di vista umano, incontrando personalità di forte e conclamato carattere; talenti corrosivi e geniali di una rara razza in estinzione, come Mino Maccari, titolare all’epoca della cattedra di Incisione, o Mario Rivosecchi le cui lezioni di Storia dell’Arte, tra sogno e magia, si prendevano la rivincita sulle piccole banalità del quotidiano. Rivosecchi teneva le sue lezioni in una saletta angusta dotata di un’attrezzatura alquanto misera, ma le sue parole schiudevano le pareti a ben altre visioni, ed appariva subito chiaro d’essere al cospetto di un poeta prestato alla scuola. Tale ricchezza si consolidava nella mente dell’allievo poco più che ventenne, aprendovi strade destinate a fungere da preziosa guida futura. Roma offriva di tutto, la possibilità di visitare mostre internazionali, che ebbero un culmine
memorabile nella esposizione dell’opera di Picasso alla galleria d’Arte Moderna a metà degli anni cinquanta, ma anche incontri con artisti che Ricci considerava i suoi referenti maggiori, come i corregionali Luigi Bartolini e Arnoldo Ciarrocchi, maestri in materia calcografica. E numerose erano le vie alternative, certamente più attraenti della stessa Accademia nel campo dello spettacolo. Nel ’53 pensò di partecipare ad un concorso pubblico guadagnando una borsa di studio biennale al Centro Sperimentale di Cinematografia. Si dimostrò un’esperienza ideale per una conoscenza dell’estetica del Cinema, della Fotografia del Teatro. Per quest’ultimo fu anche borsista nella Sezione Costume, che frequentò con l’insegnamento, tra gli altri, di Mario Verdone, storico del Futurismo nonché padre di Carlo, e persino di Alessandro Blasetti, in quel periodo docente di Regia. Ma la prospettiva di fare film in alternativa all’arte, a cui si sentiva vocato, non lo distolse più di tanto. Soddisfatto del già visto ed appreso, decise infine di tornare nella sua Macerata scegliendo la strada dell’insegnamento. Oltre alla famiglia, naturalmente, a riceverlo come figliol prodigo ci fu l’accogliente atmosfera della sua casa, luogo ideale per le sue passioni. Nell’esercizio dell’incisione e della pittura, lì poteva attrezzarsi con un suo metodo e con gli opportuni strumenti. Ma la vita lo portava anche ad altri traguardi: conobbe Stefania, che sarebbe stata la donna della sua vita, in sintonia per affinità umana e per condivisione d’interessi. Si sposarono nel 1957. Dopo aver insegnato per breve tempo a Visso, Ricci fu chiamato dal direttore Renzo Ghiozzi, per un incarico all’Istituto d’Arte di Macerata, ruolo che mantenne per quattordici anni, sino a quando si aggiu-
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dicò per concorso la cattedra per il Disegno e la Storia dell’Arte ai Licei Scientifici e alle Magistrali. Nella sua ricerca artistica egli andava immaginando “un’arte nuova”, adeguata ai tempi, facendo crescere in sé, all’unisono, l’esperienza tecnica e l’elemento intellettuale destinato a diventare poetica: il ricordo delle lezioni seguite alla Scuola del Libro, continuava a dare i suoi frutti! La sua ricerca cresceva su quella linea “bifronte” con l’attenzione che il metodo non lo rendesse prigioniero della propria storia di formazione. Anticipava così una riflessione su come l’arte avesse bisogno di ispirazione derivante anche da condizioni che ne favorissero il raccoglimento e la concentrazione. In concomitanza a ciò la sua ricerca seguiva direzioni più o meno conseguenti. Sempre concentrata sull’incisione per l’affascinante avventura di un risultato incerto sino al verdetto del torchio, e allo stesso tempo verificando in essa fino a qual punto la conoscenza tecnica in termini di artigianalità potesse offrirsi come valore gratificante anche per l’animo, secondo una “poetica del fare”, prese a dedicarsi con pari impegno e passione alla pittura, quella che dalla Scuola del Libro era stata assolutamente bandita. Ad una breve stagione nell’Informale ne fece seguito un'altra di impegnata progettualità, più razionale e severa, in cui la geometria portasse le sue incontrovertibili certezze. Ma alcune esperienze di viaggio, come la visita al cimitero ebraico di Praga, o a Corinto al cospetto dei resti archeologici della città antica, - una montagna di pietre affastellate, nell’uno e nell’altro caso, che rappresentavano ai suoi occhi, in modo scioccante e drammatico, la caducità della vita e della storia - lo portarono a riflessioni esistenzia-
37 li che man mano pervennero a una chiara configurazione poetica: la relatività di visione e il richiamo a una dimensione più umana in antitesi all’organizzazione geometrica e alle esatte assonometrie che avevano costituito sin lì materia delle sue opere. Le immagini incancellabili di quelle rovine Ricci tentò di renderle emblematiche e condivisibili, per così dire “universali” - perché tali gli apparivano - attraverso le forme e i colori della sua arte, operando con studio ed attenzione sul colore. Un passaggio dove la realtà si manifestava anziché nell’'esattezza astratta di teoremi, in una corporeità richiamata e manifesta in for-
me arcaiche, evocatrici di un tempo remoto e di una condizione amorfa, con il "soffio" vivificante, quanto mutevole, di una luce filtrante dall'interno stesso delle masse. L'aggiunta di pensiero e di emozione nella sua ricerca non produceva estroversione o clamore, ma un controllato riserbo ricco di riflessività, oltre a una volontà di sintesi sempre più chiara e stringente. Scopriva tra le
Ricci va immaginando “un’arte nuova” adeguata ai tempi dedicandosi alla pittura secondo una “poetica del fare”
Nella pagina di apertura del servizio un ritratto dell'artista novantenne Nino Ricci Qui sopra e nella pagina seguente alcune delle sue opere
Il genetliaco
La luce, anima della sua pittura costruisce, modella e scolpisce le forme e si concede alla sua sensibilità anche di scultore
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quinte del rigore e del silenzio un’ambiguità fertile, ricca di mistero e di rivelazione; un terreno umoroso, profondamente dissodato e reso fertile da un desiderio di autenticità. Era questa l’operazione estetica e di memoria sulla quale Ricci andava costruendo una sua classicità. Così l’arte dimostrava di essergli finalmente “amica”: un approdo! Le forme che Ricci crea attualmente concludono un iter in cui in sembianze di nature morte o di paesaggio si evidenziano stratificazioni geologiche o resti di civiltà dissepolte; sensazioni di un'aura antica intiepidite da una luce domestica, recante i toni della quotidianità. L'apparente sospensione, l'ambiguo silenzio che le avvolgono di¬pendono da questa procurata estensione di registri spazio-tempo¬rali entro cui convivono il distante e l'astante, l'antico più remoto ed il presente più vivo e palpitante. La luce, che è l’anima di questa sua pittura, costruisce, modella e scolpisce i volumi e le forme, mitiga l’asprezza dei cigli e ne
accentua quando serve, evoca persino la materia - carta, pietra, impasti - e si concede alla sensibilità di uno scultore, quale Ricci è “in pectore”. E si rende anche disponibile a un linguaggio più intimo e coinvolgente, volto a costituire uno scenario interiore che tocca le corde dell’animo. Il dipingere e l’incidere è il modo di cui Ricci si serve per vivere più intensamente i propri sentimenti e i pensieri; l’immaginario si esteriorizza in forme “segrete”, svolgendo anche un esercizio quasi inconscio di memoria. Suggestioni remote o presenti che si materializzano in virtù di una rifrazione sensibile, al tempo stesso crepuscolare e incipiente. Ricci si rende cultore e custode di tutto questo, ne vive l’interno e la sua pittura non mostra stanchezza né monotonia. Un alfabeto in apparenza stabile, che si fa strumento duttile, foriero d’una pluralità infinita di sensazioni, costantemente nuovo, che s’immagina concepito nel silenzio, ma che silenzio non è. Una ricerca metodica, essenzialmente calibrata sui ritmi a lui congeniali, e soprattutto su esigenze interiori distintamente avvertite. Così, le forme su cui indugia con attempatezza si convertono, all’incanto di un tenue luminoso cromatismo, da fisiche o corporee in trascendenti ed eteree. Si potrebbe concludere sostenendo che per Nino Ricci l’arte è un esercizio spirituale, ed ha in sé una cospicua componente anche etica, oltre che poetica. La disciplina, il rigore, la definitezza cercati nella forma, non riguardano solo l’opera in sé, ma anche e soprattutto l’uomo e l’artista. ¤
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Musei chiusi? L’arte affianca lo shopping CAPOLAVORI IN FORMATO DIGITALE AL FANOCENTER
C di Lucilla Niccolini
Augusto capite velato, simbolo della nuova sezione romana del Museo Archeologico Nazionale delle Marche. Il busto è venuto alla luce nel 1863 nei pressi di Palazzo Ferretti ad Ancona, vicino ai resti dell’antico anfiteatro romano
i colse di sorpresa, qualche mese fa, la luce ineffabile della Scuola di Atene, negli spazi del terminal Arrivi dell’aeroporto Raffaello Sanzio di Falconara. Lo sguardo accorto di Ipazia in toga bianca, al centro, e gli occhi dolci di Raffaello, al margine destro dell’affresco, seguivano i viaggiatori indaffarati, di ritorno a casa. Sentendoci osservati dai tanti augusti o ignoti personaggi, che si affacciavano dalle pareti del terminal, ci lasciammo strappare volentieri dalla fretta del rientro. Definita “mostra impossibile”, l’esposizione di trenta opere di Raffaello, riprodotte in foto su tela retroilluminata, in occasione del V centenario dalla morte, permetteva di ammirare tutti insieme quei dipinti, dispersi tra i musei più prestigiosi del mondo. E fermarsi incantati davanti ai capolavori del Divino Pittore fu, per viaggiatori e visitatori curiosi, un’esperienza irripetibile. Il prodigio si ripete. Un’altra “mostra impossibile”, chiusi di nuovo i luoghi della cultura, pinacoteche e collezioni, gallerie eterne, è stata allestita al Fanocenter. Un centro commerciale si è trasformato in un “museo possibile”. E i frequentatori dello shopping si sono soffermati ammaliati, con le borse della spesa in mano, davanti a trenta opere di maestri italiani, scelte tra le più famose di tutti i tempi, dal Medioevo al Rinascimento, riprodotte in dimensioni reali. «Il successo sembra enorme», riconosce il professor Paolo Clini, docen-
te di Disegno alla Politecnica Marche, dove dirige DheKalos, laboratorio di Digital Cultural Heritage. «Ma forse è venuto il momento di sistematizzare interventi come questi. Occorrerebbe creare format specifici, pensati per diversi tipi di pubblico, magari con linguaggi di narrazione, compatibili con luoghi insoliti, o inaspettati, per questo tipo di esposizioni. È un’opportunità straordinaria, ma va fatta molta attenzione. Non dobbiamo desacralizzare le opere, non possiamo permettere che Raffaello diventi un oggetto, come la frutta sui banchi del mercato. Si deve evitare che queste collezioni digitali restino soffocate dalla crudezza commerciale dell’inedito scenario». Gestita con le necessarie competenze, non si apre una sorprendente possibilità per formare nuovo pubblico? «Portare alla gente la bellezza e l’emozione del nostro patrimonio, in un luogo improbabile, significa anche aprire la strada perché poi si vada, appena possibile, a visitare di persona musei e collezioni pubbliche». Una delle opportunità di crescita, tra quelle indotte dalla pandemia? «Il Covid ci ha riproposto, in maniera drammatica, la condizione di fragilità della cultura e, in particolare, del nostro patrimonio artistico e storico, tangibile e intangibile. Una fragilità determinata sostanzialmente dall’assenza di relazioni: il patrimonio vive quando interagisce con le società che nel loro susseguirsi storico lo conservano e lo condividono. Questo è il suo autentico valore. Al momento,
Mostre impossibili
La pandemia ha scatenato la corsa a forme virtuali alternative È tempo di un nuovo umanesimo digitale
Il professor Paolo Clini, docente di disegno alla Politecnica delle Marche
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i musei italiani, i siti archeologici, tutti i luoghi della cultura sono chiusi. Non era mai accaduto neanche durante la guerra. È un silenzio inaccettabile, perché è il silenzio della nostra civiltà. Dobbiamo naturalmente preoccuparci della crisi economica, sociale, della perdita dei posti di lavoro, della nostra salute, di tutti i grandi e piccoli drammi che ha creato questa inattesa pandemia. Ma non dobbiamo avere scrupoli ad affermare che la madre di tutte le crisi è il silenzio della cultura. Perché così accetteremmo il silenzio e la disfatta della nostra civiltà, e tutto il resto sarebbe davvero irrisorio». La riproduzione delle opere d’arte e la loro diffusione in luoghi insoliti e popolati, suscita perplessità, però, anche dal punto di vista dell’originalità. Una copia non può sostituire l’originale. «L’opera d’arte è sempre stata riproducibile: la riproduzione, l’imitazione manuale di disegni, quadri o sculture è sempre stata
parte integrante della pratica artistica, dell’apprendimento e della messa in circolazione delle opere. Mi viene in mente una bellissima frase di Salvatore Settis: “Tra originali e copie c’è una strana tensione: la copia rende omaggio all’originale e con ciò ne riconosce la superiorità; ma insieme pretende di sostituirlo, e dunque ne contesta l’unicità”. È un’affermazione sul rilevante ruolo artistico, culturale e sociale della copia». Ma quale copia? «Le copie delle statue greche, cui Settis in quella frase si riferisce, erano anch’esse opere d’arte, frutto della più alta “techne”. La stessa cosa possiamo dire della capacità che abbiamo oggi di utilizzare le numerose tecnologie, che ci permettono di costruire le nuove copie della modernità. Assolutamente fedeli all’originale, come allora, ma con qualche possibilità in più nell’arricchire i contenuti artistici, estetici e narrativi». Una scoperta recente?
Mostre impossibili
«Circa un secolo fa lo aveva intuito benissimo Walter Benjamin, nel saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. Allora erano la fotografia e il cinema a rivoluzionare questo mondo, a volte chiuso e nascosto, che viveva in grigi musei, concepiti come magazzini, a cui in pochi avevano accesso. Fu il primo a capire che con le nuove tecnologie la cultura sarebbe diventata per eccellenza il luogo della relazione e della condivisione. Cinematografia e fotografia stavano diventando strumenti popolari di comunicazione, aprirono un varco profondo. Lo stesso che ci spalanca oggi l’evoluzione tecnologica: la possibilità di riprodurre in maniera assolutamente fedele un’opera d’arte. È questa, la risposta al silenzio, la base per generare una nuova forma di patrimonio che non può essere visto nei musei, che non può scomparire se un covid qualsiasi ci piomba addosso. Ma che diventa oggetto di una nuova
41 forma di relazione: nella rete, nel web, nei propri smartphone, in nuovi e moderni apparati di visione. In relazione al diverso obiettivo e alla scala di approccio, possono essere usate tecnologie complesse e sofisticate, come sistemi laser, ma anche mezzi e strumenti alla portata di tutti, che sfruttano le tecniche fotografiche. Ma in questi mesi di pandemia, abbiamo assistito a una realtà che ci lascia perplessi». Di fronte alla nuova emergenza, si è scatenata la corsa a cercare forme digitali e virtuali alternative o sostitutive di quella cultura fisica cancellata, nell’arte come nel teatro, nella danza e nella musica. «E ci siamo resi conto di quanto valga un dipinto digitalizzato o un museo capace di mettere online la sua collezione, o uno spettacolo che non si esaurisce nel breve spazio della sua espressione. Ma abbiamo anche capito di non essere pronti. Addirittura i più grandi musei del mondo non avevano rappresentazioni virtuali degne di essere chiamate tali». In che direzione muoversi, professore? «Va costruita una nuova cultura della digitalizzazione, che affondi le sue professionalità nella cultura umanistica, l’autentica forza del nostro paese. Servono competenze certe e consolidate, per avviare la costruzione di un serio patrimonio digitale. Vanno riviste le competenze all’interno dei nostri musei e dei poli museali, assolutamente impreparati, come stiamo vedendo in rete, a declinare digitalmente il proprio patrimonio. Ma anche a stabilire dialoghi credibili con linguaggi comuni e condivisi, in un processo serio, scientifico e globale di digitalizzazione del patrimonio. Da sempre, fin dall’antica Grecia, l’umanesimo significa incontro tra scienza e filosofia, letteratura e arte, con l’uomo al centro. È tempo, ora, di un nuovo umanesimo digitale». ¤
Clini: Il patrimonio artistico vive quando interagisce con le società La madre di tutte le crisi è il silenzio della cultura
In queste pagine, scorci della "mostra impossibile" allestita al Fanocenter Qui sopra, al centro, un particolare della Madonna col Bambino di Carlo Crivelli (Pinacoteca Podesti, Ancona)
L’arte in lutto | 1
L di Giordano Pierlorenzi
e cento città e Valeriano Trubbiani, un legame inscindibile. E’ l’artista che all’origine, 25 anni or sono ha dato un volto alla nascente Associazione per le Marche. Ne ha ritratto la sua identità, ne ha confezionato il suo habitus artistico-culturale riassumendo in pochi accenni grafici il simbolo di una lungimirante visione, di una missione pragmatica di disseminazione dei veri valori della gente marchigiana, robusta stirpe di piceni e galli - come dichiarava nel 1991 Pietro Zampetti nel suo libro “Il picchio e il gallo”.
Gente storicamente laboriosa e riservata, sollecitata da allora ad aprirsi a nuovi e più ampi orizzonti, dischiusi all’internazionalità recettiva ed amante l’arte, l’artigianato, l’archeologia, il paesaggio, l’ospitalità sincera e la genuinità enogastronomica delle nostre contrade. Un territorio compiuto digradante in un continuum prossimale di monti, colline e mare che abbracciano gentilmente il viandante, il viaggiatore, il turista. “Il volto più vero delle Marche, anche se il meno appariscente, è quello di una regione di laboriosa e virile
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Trubbiani, l’Esopo dell’acciaio che incantava Federico Fellini CON L’ASSOCIAZIONE LE CENTO CITTÀ UN LEGAME INSCINDIBILE SUO IL MARCHIO DEL SOLE AREOLATO CON I RAGGI VIRGOLATI UN’OPERA NON SOLO DI GRAFICA MA POLIVALENTE E DI FORTE IMPATTO
solitudine, abitata da gente avvezza a fare i conti con se stessa…”; questa è la descrizione icastica delle Marche di Carlo Antognini (1971) che fa pendant con i sentimenti custoditi nel marchio di Trubbiani ricco di segni architettonici urbani, perché entrambi ne rilevano la cifra distintiva: l’essenzialità dell’esistenza umana nella vanità delle cose. Il marchio grafico di Trubbiani raccoglie appunto, come in un metaforico mazzo di fiori, i segni monumentali di città emblematiche delle Marche: probabilmente
Loreto, Urbino, Fano ed altre ancora rintracciabili per simpatia o immaginazione, ammucchiate dentro le mura dello sferisterio di Macerata come a sostenere le Marche, unica regione con il nome al plurale, nell’ardua, instancabile prova di corrispondere alla sua vocazione all’unità: “e pluribus unum”. Un sole areolato poi, con raggi virgolati dal vago sapore dell’arte incas, sormonta l’impianto sceno-grafico come ad ammonire, esortare, incoraggiare la missione altamente culturale della nostra associazione: a non cambiare rotta. Quel sole
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Quel sole caldo luminoso lo si ritrova anche nel sipario tagliafuoco del teatro delle Muse di Ancona
44 caldo, luminoso elemento ricorrente nella poetica dell’artista, lo ritroviamo anche nel sipario tagliafuoco del teatro delle Muse di Ancona dove, oserei dire, svolge la medesima funzione di suggerire prudenza all’azione recitativa. Il marchio, lo stemma grafico si completa infine, con il logo, la scritta Le Cento città in carattere Century (font creato alla fine del 1800) con un pleonastico pay off di orientamento: Associazione per le Marche, a ribadire la sua irrinunciabile missione culturale. Un’opera dunque, non solo di arte grafica quella dello scudo gentilizio della nostra associazione, ma un impianto multidisciplinare – di storia, arte, architettura e grafica - e polivalente, di forte impatto comunicativo, che ne esalta i meriti e ne indica categoricamente la strada parlando in molte lingue al cuore di ciascuno e a molti pubblici di estimatori. Un dono grande di Trubbiani a chi lo sa apprezzare e goderne; un ge-
sto di vera simpatia e di reale condivisione. Ora, il nome Le cento città, un titolo ambizioso, come si è detto, ma anche pregnante, ché pur ammiccando a luoghi comuni ricorrenti come I mille campanili, I borghi d’Italia, conserva comunque l’originalità etimologica laddove la parola cento sta ad indicare la potenzialità moltiplicativa del numero, degli associati certo, ma anche di simpatizzanti, di followers, mentre la parola città evoca l’evoluzione storico-sociale della civiltà occidentale ed in particolare quella latina della aggregazione in comunità organizzate, consapevoli del valore umano di cives, cittadino, attraverso la sequenza storico-politica di insediamenti diversi - castrum, oppidum, urbs e civitas - a sottolineare l’incedere progressivo del sentimento politico da quella polis (poleis – le città) importata dalla cultura greca ma presto affrancata e metabolizzata dalla vis creativa latina, propria dei nostri progenitori. Questi gli antefatti. Ma Trubbiani è di più; è un artista poliedrico che sa spendersi per diletto certo come graphic designer per l’Associazione
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Le cento città, ma soprattutto intercettare e corrispondere ai gusti, le mode, i desideri di pubblici i più vasti e diversi, finendo tuttavia per innamorarsi di Ancona, in cui pianta la sua officina. Ancona e Valeriano Trubbiani. Il binomio città-artista sorregge e sostanzia la storia della cultura, ovvero di come l’uomo ha imparato a marcare il territorio lasciando traccia della sua presenza in una gara competitiva di art sopraffaction che ha spinto all’emulazione e alla costruzione del più grande giacimento delle arti che è l’Italia di cui le Marche costituiscono una parte significativa. Tante grandi città per motivi di origine o di elezione possono riconoscersi pertanto, con l’opera diffusa di grandi artisti che ne hanno lasciato segni e valori indelebili finendo coll’identificarsene. Basti pensare ad accostamenti indissolubili che consacrano le città all’arte come Firenze e il Botticelli, Venezia e il Canaletto, Barcellona e Joan Mirò, Oslo e Edvar Munch, Città del Messico e Frida Kahlo, Vienna e Gustav Klimt, Mosca e Vasilij Vasil’evic Kandiskij, Malaga e Pablo Picasso, Medellin e Fernado Botero, New York e Jean Michel Basquiat, Aix En Provance e Paul Cezanne, Varsavia e Tamara de Lempicka, Norimberga ed Albrect Durer, Tokio e Katsushika Hokasai, Londra e William Blake,
45 Zundert e Vincent Van Gogh, Delft e Johannes Vermeer. E queste non sono cento città, ma solo una sparuta cernita a conferma dell’arte sopraffattrice di cui sono animatori Giuseppe Salerno di Roma e la mia allieva Anna Massinissa di Fabriano. E’ l’incalzare dei giovani artisti sull’opera dei predecessori: eterna gara tra epigoni e precursori. E più vicino a noi, è il caso di Arnaldo Pomodoro e la città di Pietrarubbia dove l’artista ha costruito alla maniera di Vulcano la sua officina, il famoso Centro Tam - Trattamento artistico dei metalli, scuola internazionale d’arte. Ma più prossima ancora e determinante il genius loci, è dunque l’officina dorica dell’artigiano artista Valeriano Trubbiani, lo scultore che piaceva a Josè Saramago e a Federico Fellini – sue le scenografie del film E la nave va - , e definito anche l’Esopo dell’acciaio, perché come lo scrittore favolista greco fa degli animali i protagonisti della sua narrazione, la rappresentazione immaginifica della realtà da cui sa estrarre ed esaltare in un originalissimo ed inquietante lirismo iconico, il mistero della sofferenza umana. Il suo immenso bestiario di oche, buoi, rinoceronti, rospi e di uccelli viene ipostatizzato. Rappresentati cioè nella condizione alienante della schiavitù per enuclearne pedagogicamente il simbolo, la metafora in cui l’uomo può specchiarsi per cogliere e riflettere sugli aspetti rievocativi del suo singolare modo di vivere. Il suo insistito rovello speculativo fa dell’artista Trubbiani una sorta di ‘psicologo materico’, per quella sua delicata, autentica, speciale capacità demiurgica di trasformare il metallo secondo il risultato della sua analisi introspettiva. Sarà forse per la mia deformazione professionale che mi porta a scavare nell’inconscio
Trubbiani “psicologo materico” con il suo immenso bestiario di oche buoi, rinoceronti protagonisti della sua narrazione
Nelle pagine precedenti, in senso orario un'installazione di Trubbiani all'interno della mostra "The rerum fabula", la scultura "Covare" del 1976 "Domestica tagliola" opera in rame e bronzo del 1981 e "A spasso in un clima di favola a Fano" A sinistra, un dettaglio di "Mater Amabilis"; sopra dall'alto "Nodo promemoria, l'artista di fronte ad una sua opera, "Volo notturno di un pastore", incisione del 1987
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Mater Amabilis forte legame con Ancona
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Trubbiani è poliedrico e finisce per innnamorarsi di Ancona in cui pianta la sua officina saldando il binomio artista-città
In alto, un progetto dedicato a Mater Amabilis realizzato dagli studenti dell'Accademia Poliarte di Ancona Qui sopra, "Vanità", opera dedicata da Trubbiani a Moda Marche
dell’artista e di leggere come in un caleidoscopio il fluttuare e il comporsi delle proprie idee-immagini-progetti. D’altronde però, ho avuto modo di valutare direttamente l'opera del maestro su richiesta della Confartigianato per l’assegnazione di due premi dedicati all’artigianato artistico e quindi di toccare con mano la sua manifattura. In quelle occasioni feci la lettura e l’interpretazione critica di due sue opere esclusive - omaggio alle dee della Vanità (1985) e della Fecondità (1987) di cui portano il nome a sottolineare il mistero dell’uomo e le sue recondite e contraddittorie potenzialità. In esse infatti, sono magistralmente riepilogate dall’artista le qualità peculiari del vero umanesimo artigiano: quello provato dalla sofferenza creativa ed agitato dalla ansia della ricerca, nell’infinita dialettica tra poiesis e teknè qui rappresentata dalla cifra della “cattività” - ora nella metafora della scarpa, ora della bottiglia - da cui il simbolo bestiario – rispettivamente l’oca e l’uccello -, protagonisti mai domi, anzi irriducibilmente fieri ed arditi da cui vogliono con tenacia affrancarsi. ¤
a sua appartenenza alla città di Ancona, il demiurgo e insegnante Valeriano Trubbiani l’ha dimostrata marcando il sedimento urbano dorico con opere inestimabili per originalità, fattura e fecondità creativa. Primo fra tutto I rinoceronti di piazza Pertini di cui in occasione del suo ottantesimo genetliaco, gli studenti dell’Accademia di Belle Arti e Design Poliarte di Ancona su invito dei promotori degli eventi celebrativi, hanno voluto dedicare al maestro alcune performance artistiche di loro propria fattura in visione presso Il Contemporaneo Show room di Piazza del Papa, interpretative della sua vasta e poliedrica produzione. Si trattava di una cospicua riproduzione “frattale” in 3D dell’icona major Mater Amabilis (I rinoceronti appunto) e poi di due cortometraggi in digital design evocanti suggestivi racconti onirici della poetica felliniana e dell’arte coreutica di Pina Bausch che segnalano le eccellenze storico-artistiche della nostra bella e distratta città. Credo dunque, che oltre la città, il mondo dell’arte, anche dell’artigianato come arte applicata debba essergli grata per la sua lezione interpretativa dell’autentica dignità umana che sempre traspare dal lavoro creativo. Certo Trubbiani, un esempio da segnalare ai giovani che si affacciano all’affascinante mondo delle arti e del design. g.p.
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Grande affabulatore naturalista e visionario UN VERO NARRATORE DI STORIE TRA FANTASIA E REALTÀ
di Armando Ginesi
Sopra, il critico e storico dell'arte Armando Ginesi con l'artista Valeriano Trubbiani
Q
uando ero un giovanissimo cronista d’arte (frequentavo il Liceo Classico di Jesi e praticavo il giornalismo) mi capitò di dover recensire la tradizionale mostra d’arte che veniva ospitata all’interno della Fiera della Vallesina. Lo feci per il quotidiano Voce Adriatica di Ancona. Tra le tante opere pittoriche, una delle più belle era firmata Valeriano Trubbiani, anch’egli, come me, alle prime armi. Ne scrissi dicendo che si intravedeva, nel segno e nella forma del giovane artista i cui lavori vedevo per la prima volta, la tempra dello scultore. E’ stato proprio Valeriano a ricordarmi questa circostanza. Quando Pierre Restany, il grande critico francese teorico del Nouveau Realisme, lo
ha definito “il più grande affabulatore del nostro tempo”, ha detto una cosa sacrosanta. Valeriano è, infatti, un narratore eccezionale di storie che vivono tra fantasia e realtà: fantastico è il mondo che esse evocano e materializzano sotto i nostri occhi; realistico, in modo acribico, è l’aspetto assunto dall’immaginario che si fa forma. L’universo delle idee dello scultore è popolato di fantasmi, gli stessi che si incontrano lungo i percorsi della vita e che, nell’interpretazione manipolatrice dell’artista, diventano metafore dell’esistenza. La nostra frequentazione risale al tempo dell’Accademia di Belle Arti di Macerata dove insieme insegnavamo, io Storia dell’Arte e lui Scultu-
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Valeriano Trubbiani a metà degli anni Settanta insegnava scultura all’Accademia di Belle Arti di Macerata
In alto, l'opera "Volo frenato" Qui sopra, "Rinoceronte con gomitolo" del 1976 e "Anatra Maus" del 1973
ra, dunque a metà circa degli anni Settanta. Si è trattato, all’inizio di un rapporto di conoscenza e di colleganza piuttosto formale, senza una particolare dimensione amicale. Del resto Trubbiani era piuttosto cauto nel regalare segni di familiarità: temeva i trabocchetti del mondo, forse perché ne aveva fatto spesso amara esperienza. Ma poi, dopo anni, dopo esserci reciprocamente conosciuti in modo più approfondito, dopo esserci studiati e forse un po’ pesati, la relazione si è fatta solida. Oggi credo di poter dire che tra noi sia esistita un’amicizia vera, fatta di frequentazioni magari non assidue, ma capace di riaccendersi ad ogni incontro. La ragione di tutto ciò penso risieda nel fatto che, dopo esserci meglio conosciuti, abbiamo cominciato a stimarci. E forse più è passato il tempo e più la stima è cresciuta. Ci sono due episodi, nella storia del nostro legame, che mi hanno particolarmente toccato: due prove, da parte di Valeriano, di grande considerazione e amicizia nei miei confronti. Risalgono rispettivamente al maggio e all’ottobre del 1999. Il primo ha riguardato la visita ad Ancona
di Papa Giovanni Paolo II. Nella Cattedrale di San Ciriaco fu previsto che, prima della celebrazione dell’Eucarestia, il Pontefice benedicesse una croce astile realizzata dallo scultore. Naturalmente la cerimonia fu molto solenne e gli inviti erano stati contingentati, in quanto sotto le volte della splendida chiesa romanica non potevano entrarci i tanti che lo avrebbero desiderato. Ma Trubbiani volle che io sedessi accanto a lui, assieme a mia moglie e al suo fedele amico e finissimo scrittore Paolo Biagetti, nella prima fila degli invitati laici, subito dietro quella degli alti prelati. Il secondo episodio si è svolto a Loreto in una situazione pressoché analoga. Inaugurazione della cripta ripristinata della Basilica. Anche in questo caso si doveva benedire una croce professionale di Trubbiani donata alla Santa Casa dai Cavalieri del Santo Sepolcro. Ed anche in questo caso accanto al Maestro, su suo esplicito invito, sedevamo Biagetti, mia moglie ed io. Queste cose non credo che abbiano bisogno di commento. Accadono perché, esistono motivazioni forti che le determinano. ¤
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Il segno di Farabollini sul destino dell’uomo MEZZO SECOLO FA LA SCOMPARSA DELL'ARTISTA
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di Paola Ballesi
lla soglia del cinquantenario della scomparsa, avvenuta improvvisamente a soli quarant’anni, il Cesma, Centro Studi Marche, rende omaggio a Elvidio Farabollini (Treia, 1921 – 1971) con una retrospettiva a Roma, presso il Pio Sodalizio dei Piceni, piazza San Salvatore in Lauro che raccoglie le tappe salienti del suo lavoro. Omaggiare questo artista ‘appartato’ ma di grande riconosciuto talento vuol dire aggiungere un altro importante tassello a chi ha costruito attraverso l’arte la storia dell’umanità in cammino sull’impervio crinale dell’esistenza. Un transito terreno, sempre precario e a rischio anche nell’orizzonte della modernità, che Elvidio Farabollini squaderna in visioni di pathos composte da corpi frantumati in schegge e brandelli esistenziali grondanti di passioni, desideri, angosce ed enigmatici profetici sogni. La sua avventura artistica, preceduta da inequi-
vocabili segnali di urgenza espressiva fin dall’infanzia e rafforzatisi nella prima adolescenza, è cominciata nell’immediato dopoguerra ad Urbino, dove, dal 1946 al 1951, frequenta l’Istituto Statale di Belle Arti delle Marche per la decorazione e l’illustrazione del libro. L’iniziazione all’acquaforte e ai segreti della tecnica incisoria avviene dunque con l’apprendistato presso due grandi Maestri, Francesco Carnevali e Leonardo Castellani, dai quali mutua la passione per la ricerca e il rigore della disciplina. Quelli di Urbino sono anni segnati da fame, sacrifici e ristrettezze, ma anche ricchi di opportunità, frequentazioni e nuove conoscenze utili alla sua formazione e maturazione. Alla Scuola del libro incontra infatti Nino Ricci ed Eraldo Tomassetti con i quali stringe una solida e duratura amicizia fatta di complicità ed entusiasmo all’insegna dell’arte, di progetti e sogni di gioventù. “Il ricordo di Farabollini – scrive Nino negli Atti del XXXII Convegno di Studi Maceratesi - mi è sempre presente, in particolare quando lavoro attorno a qualche lastra. Sento sempre i suoi suggerimenti per bene eseguire o per aggirare gli ostacoli. Debbo a lui se oggi sono in grado di cavarmela passabilmente nell’arte dell’incisione e della stampa Calcografica. Farabollini univa alle innate qualità del grande disegnatore un alto senso dell’ironia, la strepitosa padronanza del segno e una capacità sperimentale che lo portò a rag-
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La sua avventura artistica nasce a Urbino nel dopoguerra in anni segnati da fame, sacrifici e nuove conoscenze
Nella pagina precdente, la mostra in allestimento nelle Sale Mastroianni del Pio Sodalizio dei Piceni a Roma In alto La saetta, 1965 trittico con pannelli Qui sopra Elvidio Farabollini nel suo studio a Treia nel 1963
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giungere traguardi notevoli nella realizzazione di stampe a più colori con una sola battuta. Questo stesso tipo di sperimentazione si stava diffondendo in quegli anni nel resto d’Europa per merito di Hayter e del suo ‘Atelier 17 ‘ a Parigi. Nel chiuso del laboratorio di Elvidio ricavato a piano terra della sua casa a Treia, assistevo curioso a tutte le evoluzioni tecnico-artistiche che compiva, all’inseguimento del sogno che ci accomunava. Volevamo spingerci un po' più avanti, insofferenti alle regole e ai precetti canonici”. Conseguito il diploma di Maestro d’arte con la qualifica di “Ornatore del libro”, nel 1951 insieme all’amico Ricci si iscrive all’Accademia di Belle arti di Roma, Elvidio alla sezione di Pittura mentre Nino a quella di Scenografia . Determinante per il giovane Farabollini fu l’insegnamento di Mino Maccari, suo professore di tecniche dell’incisione, che anche nell’attività didattica manifestava avversione alla retorica accademica e le mode esterofile tenendo fermo il valore del disegno come la via italiana alla classicità, mitigata tuttavia dalla particolare attrazione per l’espressioni-
smo mitteleuropeo con cui il maestro continuamente si confrontava nelle sue opere calcografiche, che gli valsero il premio internazionale per l’incisione alla XXXIV Biennale di Venezia. Di fatto, la robusta formazione sulle possibilità espressive del linguaggio grafico diventa prodromica per gli sviluppi futuri del lavoro dell’artista treiese che prende le mosse proprio dalla pratica incisoria che insieme al disegno sarà sempre dominante nella sua produzione e banco di prova delle sue sperimentazioni. Tuttavia il ‘clima’ romano non si addiceva al suo sincero schietto carattere, tant’è che, a seguito di una brutta avventura occorsagli per il tradimento del compagno con cui condivideva la stanza in affitto nella capitale, che gli rubò i primi soldi faticosamente guadagnati come disegnatore del cartellone pubblicitario del film “Robinson Crusoe”, con decisione amara, ma immediata e perentoria, Elvidio abbandonò sia l’Accademia di Belle Arti che la Capitale. Il ritorno al paese, una volta assolti gli obblighi militari, lo vede abbastanza disorientato intraprendere diversi mestieri, da ceramista a disegnatore progettista, prima in una ditta di pellami, poi di marmi. Nel ’57 trova finalmente una serenità interiore convolando a nozze con Anna Bartoloni, maestra elementare, che gli darà due figli: Franca Laura e Piero. Un periodo affettivamente felice e soddisfacente dal punto di vista lavorativo avendo anche Elvidio intrapreso l’attività d’insegnamento, all’inizio come supplente, e, una volta vinto il concorso, come titolare della cattedra di Disegno e Storia dell’arte per le Scuole Secondarie Superiori. E proprio il vivere appar-
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tato nella quiete paesana lo preserva dalle mode e dalle tendenze che si accavallano tumultuose tra la fine degli anni anni Cinquanta e per tutto il decennio successivo. Anzi, lo splendido ‘isolamento’ lo stimola sempre di più a scavare nella ricerca artistica per trovare le forme espressive più idonee a rappresentare le angosce che affliggono l’umanità, incombenti anche in quei mitici anni del boom economico, delle rivoluzioni sociali e delle proteste libertarie. Un tarlo esistenziale che i cangianti messaggi delle réclame pubblicitarie, specchio di una società ormai lanciata sulla via del consumo e dell’omologazione, non sempre riuscivano a nascondere o a mascherare. Un quadro completo dell’arte incisoria di Elvidio Farabollini è testimoniata con rara penetrazione e puntualità da Peppino Appella, suo amico e sodale, nel Numero 19 dei “Quaderni d’arte del pesce d’oro” edito nel 1976 da Vanni Scheiwiller. Solo un rabdomante dell’incisione come Appella poteva stabilire nel costante impegno grafico di Farabollini una genealogia di quel segno, fatto derivare dallo stesso Michelangelo, “per leggere l’esatta assimilazione di una lezione che, nella tenacia della ricerca sempre presente ha la sua forza maggiore per non scadere nella maniera e nell’accademico”. E nello stesso tempo esaltare la grande padronanza tecnica, che mentre scioglie il dato reale in virtuosismi ed empiti di effervescenza espressiva, modulata tra segni minimali quasi perduti nel bianco e altri più decisi ed incisivi, raccoglie l’immagine nascente sulla superficie. Una sorta di incantesimo che fissa l’improvviso baluginare tra luci ed ombre di spazi e forme che danno a
51 vedere, ora il particolare di una mano, ora di un volto, ora di un gesto, ovvero “l’immagine di una realtà in trasparenza che in Siqueiros e Giacometti ha avuto efficaci espressioni grafiche. Perché
il dato reale a Farabollini non interessa più”. Un segno vigoroso e spoglio di ogni ornamento, talvolta rude e grezzo, rende infatti l’intensità emotiva della partecipazione intima dell’artista che si fa espressione viva e palpitante della trasfigurazione del reale in immagini grondanti di umori, di urgenze, di desideri e di passioni. Una gamma di tonalità affettive ed emozionali che Farabollini trasferisce anche nei dipinti dove compare con nitore il superamento o meglio l’assimilazione della grande stagione astratta e informale in una nuova figurazione. Superata la polemica tra ‘astratto’ e ‘figurativo’, proprio sulla scorta delle ricerche informali tese ad una prensione diretta del reale, l’artista porta alla ribalta il recupero di una immagine della realtà, colta nelle sue forme discrete e finite, per far posto all’umano, all’uomo e alla sua esistenza. Dunque una realtà molto più vasta e più profonda di ogni vecchio e nuovo ‘realismo’ è al centro
Farabollini univa a innate qualità di disegnatore una strepitosa padronanza del segno e una grande capacità sperimentale
In alto, Monte San Vicino acquarello non datato Qui sopra, Ricordo Rosa olio su tela del 1971
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L’isolamento a Treia lo stimola a trovare le forme espressive più idonee a rappresentare le angosce dell’umanità
In alto, Il Chiodatore, xilografia del 1958 e qui sopra altra xilografia Mani di spia del 1969
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della sua poetica. Una cruda realtà, senza filtri, con il focus sulla figura umana, praticata negli stessi anni, in netta controtendenza all’imperversare delle novità della neoavanguardia, da altri ‘cani sciolti’ dell’arte figurativa d’oltre Manica, da Bacon a Freud, da Auerbach a Kossoff, ma con motivazioni diverse perché al nostro non interessa l’individuo, il singolo, ma il tipo. E sul mistero dell’uomo nelle varianti delle sue afflizioni porta avanti una febbrile ricerca che dai grandi maestri, con graduali filtri e aggiornamenti, approda sulla tela in composizioni dense, pastose, dove la rappresentazione della figura umana annulla lo sfondo incombendo con torsioni di corpi e intrecciarsi di membra che parlano di “una lotta violenta e disperata contro la prevaricazione, la sopraffazione, la distruzione, la morte”, e traducono la rabbia, il furore, la protesta, la tensione morale, l’infinita tristezza di Farabollini che,
scrive Appella, “fa di queste opere un’autentica testimonianza religiosa”. Se nella incisione, dalla serie dei ‘ribelli’ a quella delle ‘aringhe’, alla serie delle ‘mani’, è il segno che registra la temperatura emotiva nel contrasto di luce ed ombra attraverso il tratto disteso e ampio o ritmico e a siepe oppure dinamico e nervoso o infine calmo e delicato, quella stessa temperatura Elvidio la affida nella pittura alla pennellata densa e strutturata, spesso stralunata e teatrale, talvolta sincopata talaltra atonale e trasgressiva, per restituire la materialità carnale e umorale dell’esistenza . Come con il bianco e nero lavora sui contrasti, così in pittura attraverso la linea di contorno e il colore che dissemina informe con ductus caotico e ribelle forzando la linea, l’artista raggiunge l’evidenza plastica del ‘punctum’ fissato in un corpo, un volto, una mano, insomma in un motivo dominante ma sempre parte di un tutto, vertigine di una sineddoche che rimanda costantemente all’intera umanità. Queste icone esistenziali turgide di sentimento sono atti di amore per l’uomo in cammino, con il suo bagaglio di gioie e dolori di attese e di speranze, di desideri. Atti d’amore che ci calano in una dimensione esistenziale sofferta e senza rete, ma capaci di metter a nudo il sensibile nascosto dietro l’apparenza, una fragilità da conservare e custodire come misura del raggio etico che ci rende veramente e fraternamente più umani. ¤
Fotografia
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Scuriatti, maestro del glamour femminile PERSONALITÀ ECCENTRICA, PRINCIPE DEI RITRATTI
N di Alberto Pellegrino
ella seconda metà dell’Ottocento la fotografia si afferma come il primo mezzo di comunicazione di massa e il ritratto s’impone come il genere fotografico di maggiore popolarità, assumendo le dimensioni e i caratteri di una vera “moda” per le élite intellettuali e aristocratiche, per la ricca borghesia, i cui componenti sono da sempre abituati a “posare” dinanzi ai pittori. Nel primo Novecento, quando la rivoluzione industriale ha innalzato il livello di vita, anche la media borghesia, la classe operaia e persino il mondo contadino si avvicinano al ritratto fotografico, mostrandosi sensibili ai nuovi modelli
culturali e ai costumi diffusi dal cinema, dai rotocalchi e dalle riviste di moda. Si registra una “democratizzazione” della fotografia, che diventa lo specchio in cui tutti amano riflettersi, perché riesce a soddisfare il desiderio dei diversi ceti sociali di vedersi “rappresentati” e in qualche modo “immortalati”. Il fotografo-artista diventa così il demiurgo capace di creare delle “icone d’autore” che mettono il soggetto al centro della composizione, facendo un uso creativo della luce e avendo una cura quasi maniacale per la “messa in posa”, un’operazione lunga e complessa che serve a studiare l’espressione dei volti, la posizione del busto e delle
Fotografia
Ha la capacità di fissare gli atteggiamenti più segreti trasmettendo emozioni e sentimenti
54 spalle, la funzione compositiva delle mani per evitare una rappresentazione stereotipata del volto umano, ma per cercare di riflettere i risvolti umani, psicologici e sociali della persona raffigurata. Remo Scuriatti (San Severino Marche, 1900-1972), dopo avere conseguito il diploma magistrale, agli inizi degli anni Venti si dedica alla fotografia professionale e afferma rapidamente il suo valore, meritando di trovare posto nella storia fotografica marchigiana al fianco di importanti autori come i Vidau di Ancona, Alfonso Balelli e Ermanno Ghergo di Macerata, Maria Spes Bartoli di Tolentino. Nella principale piazza di San Severino Marche, al primo piano del palazzo che ospita il Teatro Feronia, egli apre uno studio all’altezza dei tempi, arredato con tappeti e cuscini ricamati in stile floreale, con lampade a stelo, tavolinetti, divani, poltroncine e sgabelli di sapore liberty. L’atelier fotografico
è considerato, infatti, l’ambiente adatto alla “regia” del fotografo, dove può trovare un giusto equilibrio tra lo spazio circostante e l’ispirazione fotografica; esso è pertanto concepito in modo scenografico, tanto da ricordare una scena teatrale o un set cinematografico. Scuriatti dimostra di avere una precisa vocazione artistica e una personalità al di fuori del costume e della tradizione borghese, perché ama apparire come un personaggio eccentrico che mette insieme l’eleganza e la spensieratezza del bohémien, avendo come modello quello stile di vita alternativo e anticonformista ancora in voga nella Parigi artistica del primo Novecento. Diviene il ritrattista “principe” della sua città grazie a immagini che hanno la capacità di portare alla luce gli aspetti più particolari di una fisionomia, di fissare gli atteggiamenti più segreti, di trasmettere emozioni e sentimenti, di registrare in un solo istante
E nel dopoguerra varca la soglia della pittura
G
ià a partire dagli anni Venti Remo Scuriatti (San Severino Marche, 1900-1972), nella sua duplice attività artistica, quella giovanile di fotografo e quella più matura di pittore, ha manifestato una personalità eclettica, riflesso di una provincia vivace e aperta ai più moderni fermenti artistici. Una breve sintesi sul suo operato è racchiusa nelle parole del poeta e scrittore Achille Alba il quale lo ha definito un “pittore istintivo, dotato di grande senso coloristico” e in quelle di Lucio Del Gobbo che lo presenta pienamente inserito nel panorama artistico locale e nazionale. Per celebrare i 120
anni dalla sua nascita la città di San Severino gli dedica una mostra che ne ripercorre l’attività. Le sue fotografie sono documenti, in forma illustrativa, che indagano sui meccanismi naturali e sulla vita del suo tempo ripresa con un meticoloso studio della luce e impressa con tecniche di stampa curate manualmente. Nel tempo il suo occhio iridato ricerca una diversa e personale modalità di espressione. Varcata la soglia della pittura, Scuriatti passa dallo macchina alla tavolozza, dalla carta alla tela, dalla figura umana al contesto, dal parallelo al trasversale esternando i contenuti interiori e le quotidiane suggestioni.
Nel Secondo dopoguerra inizia a sviluppare la sua vocazione per la pittura con opere legate ai canoni estetici dell’epoca e dedicate a varie soggetti: giovani atleti, antiche battaglie, figurazioni sacre, sinuose immagini femminili, animali e paesaggi. È l’autocelebrazione della quotidianità tradotta in forma di esistenzialismo secondo il realismo degli anni Cinquanta o di declinazione naturalistica in chiave cubista o fauves. Dotato di un forte senso del colore, mette in atto una personale linea espressiva dal duplice risultato, quello figurativo e quello emotivo.
Fotografia
gl’infiniti attimi che compongono l’intera vita di un essere umano. Attraverso un attento lavoro di regia, donne, uomini e bambini diventano i personaggi che animano un immaginario “palcoscenico”, dove l’osservatore può sospendere il tempo lineare scandito dagli orologi per entrare in un mondo segnato da una “poetica del silenzio”, che consente di uscire dai limiti del reale, del virtuale e del mediatico per abbandonarsi al libero gioco della fantasia. Remo Scuriatti si rifà al Pittorialismo e diventa un maestro del glamour femminile, capace di rappresentare il fascino di giovani donne che mostrano un’eleganza di forme e un delicato erotismo: avvolte in una trasparenza di veli o in un trionfo di piume di struzzo, esse hanno profondi occhi bistrati che lanciano languidi sguardi; sono circondate da una luce opalescente che conferisce loro un alone di mistero; curano le acconciature e gli ornamenti;
La sua ricerca trova stilemi funzionali ai nuovi concetti di creatività che perfeziona utilizzando più il pennello che la matita. Si avvicina ad una pittura densa, fatta di netti contrasti su cui, al predominio dei valori volumetrici, impone la supremazia della potenza coloristica nella resa della forma. E ci lascia il suo messaggio più
55 assumono pose e costumi suggeriti dal cinema allora in voga. Queste giovani “provinciali” dimostrano di saper indossare abiti da passeggio o da sera con la stessa disinvolta eleganza di quelle signore che camminano per le vie di Roma, Milano o Parigi. A viso scoperto o sotto l’ampia falda di un cappello che lascia intravedere la malizia di uno sguardo, mettendo in mostra la bella curva di una spalla nuda o il freddo “lampo” di una collana di perle, sfilano dinanzi ai nostri occhi queste affascinanti viaggiatrici del tempo imprigionate nel labile incanto di un’inquadratura per formare un album di ricordi, dal quale si sprigiona un “profumo di passato”. Negli anni Trenta/Quaranta il ritratto fotografico vive la sua ultima stagione prima di avviarsi verso un lento ma definitivo tramonto. La società è ormai influenzata dai modelli diffusi dai “nuovi” media e il fotografo-artista è impegnato a
A sinistra, il giovane Remo Scuriatti in una foto d'epoca Qui sotto, Era spaziale, Alan Sheppard e i compagni verso la luna scorgono ancora un lembo di terra (1971)
genuino nelle Campagne marchigiane e nelle Marine dove prevale una sorta di espressionismo mediterraneo dai toni familiari e rassicuranti. L’artista non va alla ricerca del particolare, sceglie i soggetti impressi nella sua mente, ma impara a vedere ciò che, nel silenzio del suo laboratorio, vuole scrutare: l’idillio è il senso per pene-
trare la realtà, per cogliere i segreti celati nella natura. Le composizioni sono caratterizzate da una stesura non omogenea di colori dai toni bruciati, che vanno dal giallo, al beige al rosso. Tutto concorre a rendere il nero il segno più rilevante: è il risultato del processo delle transizioni cromatiche, poiché appare più deciso rispetto a tutte le altre, è anche l’esito di un processo assiologico della narrazione dove facilita l’attività differenziatrice dell’osservatore, favorendo l’attribuzione di senso. Più tardi, affidandosi sempre ad un elegante cromatismo, conclude la sua stagione artistica con una serie di opere “cosmiche”, intitolate Galattici, dove
Fotografia
Scuriatti è capace di rappresentare il fascino di giovani donne che mostrano eleganza e delicato erotismo
prende il sopravvento la sperimentazione informale. Quando Scuriatti si dedica all’espressione astratta la sua mano non è lontana dal passato ma con il colore e l’intensità della linea dà un profondo senso alle sue emozioni, tutte racchiuse in quel desiderio di esprimersi sulla scia delle più moderne vibrazioni pittoriche. La ricerca artistica di quegli anni infatti risponde alla poetica informale influenzata dalle mirabili scoperte scientifiche connesse al lancio delle prime sonde e alle imprese spaziali. Il sodalizio degli artisti locali è proiettato verso l’idea di un’arte interplanetaria e più moderna. La sperimentazione di queste nuove formule espressive affascina anche Scuriatti, sulla scia dell’arte cosmica
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Fotografia
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interpretare questa evoluzione antropologica e sociologica, a cogliere caratteri e sentimenti di una nuova “commedia umana”, i cui protagonisti si vanno trasformando sotto l’influenza dei riti collettivi della cultura di massa. Sotto la spinta di queste innovazioni, anche Scuriatti modifica il suo stile: i profili e i volumi diventano più netti; gli sfondi perdono di consistenza e sono più neutri per dare maggiore risalto ai soggetti; la luce si riflette sui volti per sottolineare l’intensità di un sguardo, per dare risalto al vezzo di una collana, per creare un intrigante gioco di luci e di ombre; le pose tendono a valorizzare atteggiamenti maliziosi e sbarazzini, dando più spazio ai primi e ai primissimi piani. Gli uomini abbandonano il modello “Rodolfo Valentino” con i capelli lucidi di brillantina e sono attratti dal fascino più maschio e “misterioso” del nuovo divo Massimo Girotti.
Si avverte l’influsso dei modelli di eleganza borghese imposti dal cinema dei “telefoni bianchi”: gli abiti hanno un taglio più sportivo; gli “spensierati” papillon sono preferiti alle severe cravatte; si scorgono i primi segnali del cinema neorealista. Dopo avere attraversato il trentennio 1920/1950, Scuriatti rimane un ritrattista d’intensa umanità, capace di creare una galleria di volti segnati da un’eterna giovinezza; volti appena scalfiti dal tempo nonostante le stagioni siano passate su di loro come un fiume intriso di memorie; volti che riflettono speranze e illusioni forse mai realizzate. Eppure queste immagini, spesso relegate nell’anonimato, stanno a testimoniare che si tratta di vite realmente esistite, perché la fotografia, più di qualsiasi mass medium, ha il potere di evocare una presenza che emerge dal passato per diventare una pagina sulla quale è scritta la nostra storia. ¤
Nella pagina a sinistra l'opera L'urlo anni 50, in alto, Preludio di temporale e sotto, Disintegrazione di forme cosmiche (1965-66) Qui sopra un altro ritratto del fotografo-artista
veicolata da Sante Monachesi, colui che nel 1959 fondò insieme ad Ungar, Del Sole, Trotti e David il Movimento Astralista, nel 1961 quello Istantaneista e nel 1964 quello Agravitazionale detto poi Agrà. L’operato pittorico è così rivolto a dar corpo alla nuova energia rivendicando il rinnovarsi della forma nell’invenzione di un’immagine nuova. Ecco allora che l’artista trasforma e trasduce le sue stagioni terresti in stagioni galattiche dove predomina sempre la componente materica e cromatica. La pittura si polverizza come a seguito di un’esplosione astrale; la foga, l’irruenza e la furia concentrica, non più del segno nero ma di quello bianco, dissemina lo spazio “interstellare” di micro particelle luminose.
Per lui arriva il momento di esplorare un mondo fisicamente più lontano, preferisce volare lassù, dove il movimento si ferma solo sulla superficie pittorica, per incontrare ciò che appare dalla galassia. Si veste da cocchiere, da nocchiero, da esploratore e dedica al primo astronauta americano in orbita nello spazio, Alan Shepard, una delle sue Ere Spaziali, opera firmata e datata 1971, in cui riproduce frammenti di terra multicolori resi dalla combinazione di tonalità fulve, nivee e rosate dominate dall’emergere delle modulazioni del nero, mentre di lato, trasversalmente, torna il blu solcato dal bianco. Nella sua pittura predominano il sentimento e l’impeto di transizione. In lui, vi è quella
“quiete accesa” che rende gli uomini capaci di esaltare il quotidiano e la semplicità delle piccole cose. Lo spazio resta l’entità infinita che lo affascina e lo rende incline a nuovi linguaggi pittorici. Libero da qualsiasi contingenza storica ed estetica, si avventura nel sentiero dell’espressione istintiva, insubordinata ai canoni convenzionali. Di certo la sua più intensa vena creativa si confina nel periodo di transizione verso l’astratto esistenziale, quando si muove tra la realtà e la fantasia, quando la natura si conforma in un repertorio di segni o immagini sublimate e suggestionate dall’inconscio. Giuliana Pascucci
L’artista
W di Armando Ginesi
alter Valentini, pergolese di nascita, urbinate di prima formazione e milanese di adozione. Un artista che, a mio giudizio, può essere definito un esponente qualificatissimo dell’astrazione lirica di natura geometrica, della quale è stata, a livello mondiale, espressione alta, nella prima metà del XX secolo, il russo Wassilij Kandinskij. Con una impostazione matematica dello spazio dalla quale scaturisce una sottile seduzione poetica che sembra rifarsi al pensiero del greco Pitagora,
vissuto tra il VI e il VII secolo a.C., il quale, dei numeri, individuò l’anima, costruendo su di essi addirittura una mistica religiosa. Ma anche alla visione pittorico-matematica del quattrocentesco Piero della Francesca – genio della qualità poetica della geometria resa pittura – che ad Urbino, dove Valentini ha vissuto anni fondamentali della sua formazione soprattutto grafica, lasciò opere di grande rilevanza come la celebre Pala di San Bernardino (oggi a Milano, ribattezzata Pala di Brera) o La Flagellazio-
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Walter Valentini il cielo infinito si fa poesia e si tinge di bellezza L’ARTISTA, PERGOLESE DI NASCITA E MILANESE DI ADOZIONE ARISTOCRATICO NELLA FIGURA E NEI MODI FONDE IL RIGORE E LA FANTASIA IN SEGNI ELEGANTI E IRRIPETIBILI
ne. Ma accanto a queste e ad altre opere del maestro di Sansepolcro, l’artista pergolese ha conosciuto, in quel prezioso deposito di memorie storico-artistiche che è il Palazzo Ducale della città dei Montefeltro, anche la poesia visionaria di Paolo Uccello, anch’egli autore del XV secolo. Sicché le due polarità di cui s’è detto – il rigore matematico e la fantasia – si sono fuse dando vita ad un linguaggio originale qual è quello che connota il suo universo segnico e semantico. Nel salotto della casa
milanese di Valentini, in via Jommelli, è appeso un quadro di una bellezza stupenda, essenziale, asciutta, severa epperò liricamente attraente, intitolato Il muro del tempo, di cm. 121x100. L’avrei detto, durante una mia visita di una decina di anni fa, un quadro recente, se non l’ultimo, tanta era la sua qualità sintetica, di compendio. Invece è un’opera datata 1981 e – mi spiegò l’artista – rappresenta il primo esempio da cui ha poi derivato l’intera celebre serie dei “muri”. Ciò vuol dire che il processo creativo che
si è snodato nel tempo, non è stato, per Valentini, un viaggio in direzione della sintesi ma, al contrario, una grande operazione di analisi che ha preso il via da un archetipo, una specie di idea platonica nucleare nella quale era già contenuto il principio della geometria che si fa bellezza. Da Max Huber, Albe Steiner e Luigi Veronesi, l’artista marchigiano ha derivato la visione ordinata dello spazio, la sua scansione ritmica, il gusto per il segno autosignificante, pulito e netto, privo di sbavature e di compiacimenti. Ma da Le-
Walter Valentini, "Il cielo di bisanzio" cm 100x50, tecnica mista su carta
L’artista
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La modernità è solo una metà dell'arte. L'altra è la sua eternità. (Baudelaire)
Celebre la serie di “muri” che trasforma in cielo luogo magico da cui attingere pensieri, ricordi e suggestioni
onardo da Vinci ha desunto il suggerimento ad osservare le macchie di umidità nei muri (così come le nuvole in movimento nel cielo) per trarne sollecitazioni fantastiche capaci di spalancare le porte di un universo immaginativo che si perde nell’infinito. Infatti, al di là di ogni frontiera logica e fisica, egli trasforma il muro in cielo e si immerge nella dimensione incommensurabile di un infinito di sapore leopardiano. Infatti, come Giacomo Leopardi, anche Valentini ha fatto del cielo il luogo magico da cui attingere pensieri, ricordi, suggestioni, per elevare canti a ciò che senza confini. Leopardi lo faceva con la parole ed i versi; Valentini lo fa con i segni, le forme ed i colori, talvolta con i volumi. È possibile che siano Le Marche (patria di entrambi), questa regione centrale della penisola, questo giardino nel giardino del mondo (Guido Pio-
vene scriveva che se l’Italia è il giardino del mondo, Le Marche lo sono dell’Italia), a favorire un rapporto privilegiato tra le anime belle e nobili (quali sono quelle degli artisti) e l’infinitezza del cielo che seduce e sgomenta ? Perché anche un altro grande marchigiano, Osvaldo Licini, con la sue Amalasunte, ovvero le sue lune, ma anche con gli Angeli ribelli e con gli Olandesi volanti, ha toccato vertici altissimi e inebrianti di poesia visiva. Ma quello suo era un tratto segnico svincolato da ogni ipotesi di rigore geometrico, più mironiano se si vuole, ed anche quando egli si è avventurato nell’ipotesi dell’astrazione geometrica (con l’esperienza della Galleria Il Milione di Milano negli anni Trenta), lo ha fatto usando una declinazione della geometria al di fuori da ogni severità formale, al contrario pregna di umori e trepidante di vibrazioni. Accanto a Licini figura de-
L’artista
gnamente Walter Valentini il quale, con la magia dei segni, delle linee, dei graffi, dei colori, se ne va, con la fantasia, nelle dimensioni celesti ad accarezzare pianeti, a lambire costellazioni, a cavalcare stelle, sotto braccio con Galileo Galilei e Leopardi lungo i sentieri delle galassie. A volte lo fa utilizzando, come materia di supporto delle sue invenzioni fantastiche, la carta per la quale nutre una grande predilezione. La carta ricca di fibre, fabbricata a mano, che già di per sé presenta superfici dense di qualità segnica. Su di essa Valentini interviene con strumenti capaci di inciderla ed i graffi che egli le procura diventano segni, le macchie suoni e i colori veri e propri versi lirici. Nella sua sinfonia grafica c’è un segno che si compone e si fa simbolo: il simbolo della porta che sta lì a ricordarci come la nostra esistenza sia un transito.
63 Perché la porta segna il passaggio tra l’al di qua e l’al di là, tra il profano e il sacro, tra il finito e l’infinito, tra la realtà e il sogno, senza il quale l’uomo diventa piccola e povera cosa fra le cose. E’ dal XVI secolo che si discute sulla distinzione tra le attività manuali e quelle dell’intelletto. Valentini sottolinea l’inutilità di proseguire per questa via, perché rende la diatriba palesemente assurda proprio con il suo esempio di sapiente operaio dell’arte che nobilita i gesti della manualità, al pari di un qualsiasi artigiano che però, nella fattispecie, si misura con il sublime. Bisogna vederlo quando lavora nel suo atelier, per capire: assorto nei pensieri e nelle idee stimolanti che gli affollano la mente e gli guidano le azioni, egli dipinge le superfici, tira i fili, li incolla, li imbolletta; graffia, brucia, taglia, leviga, macina, impolvera e spolvera. Diventa, via via che procede, un mirabile poeta, un’intelligenza vivace che traduce in atti pratici i più nobili pensieri. Il nostro artista è aristocratico nel modo di fare (lo è anche nella figura, alta e diritta, con un viso che quando sorride gli illumina gli occhi chiari dietro le lenti e spande intorno serenità) che rende fine tutto quello che manipola. E la sua natura poetica lo spinge ad alzare frequentemente il capo dal livello terreno per dirigere lo sguardo al cielo. Dove conduce anche i fruitori delle sue opere attraverso i segni eleganti ed irripetibili (anche se sembrano uguali a se stessi: ma è così che si rivela il grande artista allorché, usando il proprio alfabeto di elementi che si replicano, riesce a non ripetersi e a suscitare ogni volta emozioni nuove), con la sua magica manipolazio-
In alto a sinistra, "Tabula XV", realizzata da Valentini nel 2016 A sinistra in basso, "Muro del tempo" creata 1981; qui sopra Walter Valentini insieme agli amici: da sinistra Oscar Piattella, Armando Ginesi e Giorgio Facchini
L’artista
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Signorile come i suoi volteggi nell’universo
E
Nella sua sinfonia grafica emerge il simbolo della porta passaggio tra profano e sacro tra finito e infinito tra realtà e sogno
In alto e qui sopra altre due opere polimateriche di Walter Valentini
ne delle materie, con l’uso lirico del pigmento cromatico (neri, bianchi, grigi, ori, azzurri), riproponendo loro, demiurgicamente, in una superficie definita, lo spazio infinito delle dimensioni celesti. Così le anime di coloro che guardano le sue opere sussultano e danzano, avviandosi, rapite, dentro una tradizione che non è più terrestre perché accarezza il trascendente, per leopardianamente naufragare e annegare nel mare di tutto ciò che non conosce limiti. Vivere queste magiche sensazioni vuol dire raccordarsi alla più pura sensibilità dell’artista, penetrare, insieme a lui, nello spazio sconfinato della poesia. Significa cogliere il senso pieno della Poesia del Cielo che è la poesia di Walter Valentini, composta attraverso l’elaborazione di magici e puri segni autosignificanti, belli di per sé senza bisogno di riferirsi ad altro che alla propria natura arcana: la stessa del loro autore, sciamano celeste. ¤
legante, raffinato, aristocratico come le sue opere. Una signorilità misurata, mai invadente. D’altri tempi. E ormai rara. Artista in punta di piedi in piena sintonia con l’armonia delle sue tavole, in totale equilibrio di forme e di forma. Nel tratto e nei modi. Sfumature che svelano la sostanza, lo spessore umano prima ancora di quello artistico. Sempre legato ai territori di origine, a Pergola, a Pesaro, dove si è mostrato attento e critico verso alcune scelte artistiche e a Urbino dove invece si è formato, assimilando tradizione e innovazione. Mai tagliando quel fil rouge d'amicizia con altri artisti dei luoghii natii. Dalle sue opere traspaiono perfezione e tensione, cerchi, semicerchi, cuspidi e linee dirette che si incontrano e si perdono in iperbole dinamiche, proiettate verso l’infinito, nell’intento forse di misurare il cielo, di indagare su nuove prospettive. Come dentro un pendolo dal moto eterno, che scandisce il tempo e si scompone in lancette, anelli, meccanismi complessi e sottili. Elementi che giocano tra materico e giometrico esaltandosi a vicenda. Un volteggio poetico in un cosmo dal cromatismo a volte dorato e quasi sempre impreziosito da fogli di carta dal sapore antico e prezioso. Franco Elisei
Scultura
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Kovalenko a Piticchio una scelta dell’anima L'ARTISTA DI SAN PIETROBURGO AFFASCINATO DAL LUOGO
D di Grazia Calegari
Sopra, La Mattina in cui a posare come modella è la moglie Ljubov Sotto, Battaglia, eseguita in bronzo
evo ad Assunta Tinelli, imprenditrice pesarese che nel 2015 ha avuto prolungati contatti con San Pietroburgo, dove ha sostato inizialmente per sei mesi e avviato un fortunato Caffè pizzeria denominato “La celletta”, la conoscenza di Vlacheslav Kovalenko, scultore russo di origine caucasica, e di sua moglie Ljubov. Mi sono interessata a questa bella famiglia che molti anni
fa si è trasferita dalla Russia nelle Marche, attratta dalle bellezze e dalla cultura italiane, e ora abita a Piticchio, uno dei piccoli affascinanti castelli di Arcevia. Una scelta nata dall’amore per questi luoghi, dove apri le finestre su colli infiniti e cieli mutevoli che spaziano verso il mare, dove condividi i giorni con pochissime persone, dove un’alta torre sovrasta la porta d’ingresso ogivale accanto all’antica loro casa, torre dotata di un grande orologio che segna e reca ‘il suon dell’ora’. Una scelta dell’anima, che mi ha incuriosito per la sua
singolarità, per la sua passione, e soprattutto per la bravura dell’artista. Vlacheslav ha cinquant’ anni, sua moglie biondissima quattordici di meno, i due figli sono adolescenti e la loro vita a Piticchio scorre serena, in continuo movimento per le scuole dei ragazzi e per le loro attività varie. Gli studi da scultore in Russia sono avvenuti, tra l’altro, presso la studio di Viktor Novikov e sono proseguiti dal 1993 al 1996 presso il Repin Institut of Russian academy of Fine Arts e dal 2001 al 2003 con una specializzazione presso la stessa Accademia. Ha avuto varie onorificenze dal 2003 al 2019, in particolare nel 2003 in Cina nel China International City Sculture Exhibition and Symposium in Fuzhou. Poi, la scelta di lasciare la bellissima San Pietroburgo, i palazzi maestosi, la conoscenza dell’Ermitage come esperienza della cultura figurativa europea, il Conservatorio dove Ljubov era curatrice della Galleria del teatro e organizzava mostre degli artisti, degli studenti, e concorsi su temi diversi. Nel 2014 la giovane ha svolto lezioni sulla scultura russa contemporanea nell’Università di Changsha in Cina, e in precedenza ha lavorato all’Ermitage come controllo, conservazione delle opere, preparazione di allestimenti e mostre. Insomma, una ricca attività divisa tra arti visive e musica, accanto al marito che l’ha più volte ritratta: nel 2002, ad esempio ne ‘La mattina’, dove appare la sapiente bravura di Vlakeslav, cioè un realismo e un classicismo non soltanto accademico ma vibrante di vitalità, nel
Scultura
Le sue opere esprimono realismo e classicismo vibrante Ha scolpito anche il profilo di Rossini nella medaglia celebrativa
In alto, il monumento ai soldati caduti delle guerre in Cecenia e Afghanistan A fianco, il busto del maestro Alberto Zedda; qui sopra, fontana decorativa del palazzo Oranienbaum
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gesto della ragazza e nel contrasto tra il corpo levigato, i capelli spettinati e il panneggio casuale ma scenografico della stoffa sottostante. C’è un virtuosismo importante nel modellare qualsiasi materia, dal legno all’argilla al bronzo, e nell’alternare con sapienza superfici levigate e accartocciate, scattanti, aeree, che imprimono movimenti rapidi, come nell’’Aurora’ del 2009, un piccolo capolavoro che richiede di essere visto a
360 gradi , girandoci intorno come capita di fare con Bernini o Canova, per scomodare nomi illustri che potrebbero essere stati dei modelli di riferimento. Un virtuosismo che diventa ancora più originale e frenetico nella ‘Battaglia’ del 2010, eseguita in bronzo su basamento in granito, una lotta orgiastica tra corpi umani e una terribile aquila –mostro, che sfiora il surrealismo per intensità di fantasia. E c’era già stata, nel 2003, una dimostrazione di virtuosismo alla stato puro, addirittura un portiere di calcio che si lancia per afferrare il pallone, ed è un nudo che vola e si esibisce, vecchia memoria che risale dalla scultura ellenistica greca e diventa
un modernissimo flash, azione al fotofinish. Poi, ricordo la vastissima produzione di ritratti: il coreografo Nikita Dolgushin del 2005, il sassofonista Federico Mondelci (2009) conosciuto a San Pietroburgo, con il quale sono iniziati i contatti con l’Italia prima del trasferimento nelle Marche, il maestro Alberto Zedda (2011), il grande amico pesarese, allora presidente dell’Ente Concerti, avvocato Guidumberto Chiocci, purtroppo scomparso prematuramente. I ritratti sono eseguiti anche da fotografie, come nel caso di Valentino Rossi, e trovo impressionante la capacità iperrealistica dello scultore nell’incidere i tratti somatici, nel cogliere la posa-ritratto dello sportivo un poco spavaldo, un corpo solo con il suo formidabile casco. Tra le tante opere, voglio ricordare i monumenti celebrativi come quello ai caduti nelle guerre in Afghanistan e in Cecenia, eseguito nel 2008 a Gatchina, San Pietroburgo, quello a Carl von Siemens nel 2017, e numerosi altri di alta qualità sempre improntata ad un iperrealismo artigianale senza tempo. Tra gli scultori italiani del 900 si può ricordare Francesco Messina, ma Kovalenko è assolutamente originale, sia che scolpisca il profilo di Gioachino Rossini nella medaglia celebrativa del 2018 , sia che si diverta a scolpire la splendida fontana nella residenza di Oranienbaum come ha fatto nel 2011. Una serie di decorazioni con temi umani e vegetali, inventate con felice libertà compositiva, volante e sognante come un certo Chagall ha potuto fare riaffiorare a suo tempo dalla tradizione figurativa russa. ¤
Il codice, il segno, il significato
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Alfabeta, un evento di simboli e non solo PROGETTO DI COMUNICAZIONE NELL'ACCADEMIA DI ANCONA
S di Sergio Giantomassi
In alto, un momento dell'esposizione degli alfabeti realizzati dagli studenti
egni, alfabeti, sperimentazioni e nuovi modi di comunicare basati sulla gestualità e sulla personalità dei nuovi designer che, prestandosi al gioco della creazione di nuove lettere senza significato apparente, hanno realizzato il materiale per un'esposizione all'interno dell'Accademia Poliarte da mostrare alla collettività. In altre parole un tema su cui discutere e dialogare: la forma del linguaggio, del suo significato e del suo contenuto artistico. Ma partiamo dall'inizio. Eravamo con degli amici alla Biennale d'arte contemporanea di Venezia, l'estate del 2019, affaticati e nomadi inconsapevoli di ciò che sarebbe successo a fine anno e nell'anno venturo:
la pandemia da Covid-19. Vagando tra padiglioni internazionali e respirando arte alternativa, dopo aver visitato il padiglione russo, giapponese, canadese e svedese entriamo nella costruzione dedicata alla Francia da un ingresso laterale, accompagnati dal suono insistente delle cicale che avevano creato uno strano ritmo. All'interno il tema principale era l'acqua, i liquidi, ma anche gli oggetti di scarto, dimenticati, vissuti e recuperati. In quel periodo stavo progettando un'installazione dedicata al mare ed ai rifiuti... ...ma questa è un'altra storia. Dopo aver visitato il padiglione mi sono messo seduto vicino l'uscita, il caldo era molto impegnativo, e a tempi alternati c'era uno spruzzo d'acqua che
Il codice, il segno, il significato
Un esercizio di libertà e sperimentazione affidato agli studenti del primo anno Segni diversi, arcaici gestuali, geometrici comunque innovativi
In alto da sinistra, una cartolina con all'interno uno dei codici A fianco, le immagini realizzate dallo studente Petrica Felicetti che rappresentano i dodici autori degli alfabeti Qui sopra, uno dei manifesti pubblicitari realizzati per la promozione dell'evento
rinfrescava l'aria. Momento ideale per tracciare alcuni schizzi nel mio inseparabile sketchbook, segni di un nuovo alfabeto, soltanto per gioco o forse per soddisfare il mio senso estetico, immerso totalmente in quella molteplicità di linguaggi e stimoli visivi rappresentata dalla Biennale d'arte contemporanea, luogo dove la creatività sicuramente è di casa. Tracciando quei segni ho immaginato come sarebbe stato divertente far elaborare agli studenti del primo anno all'Accademia di Belle Arti e Design Poliarte di Ancona, dei nuovi alfabeti senza alcun collegamento con le lettere ed i caratteri classificati da Aldo Novarese o inventati da Adrian Frutiger e Claude Garamond. Solamente un esercizio di libertà e di sperimentazione ponendo l'attezione al segno, al gesto ed alla forma. A marzo del 2020, dopo una pausa dettata dallo sconcerto e dall'attesa degli eventi, iniziano le lezioni in Fad, ed è così che dopo aver parlato approfonditamente delle regole riguardanti la costruzione dei font, della composizione, degli allineamenti e molto altro, decido di assegnare ai nuovi studenti del primo anno di Graphic e Web Design, l'esercizio ideato alla Biennale, una
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sorta di compensazione rispetto ai vincoli di composizione precedentemente enunciati. I primi lavori arrivati per la verifica sono stati illuminanti: caratteri diversi, segni gestuali, geometrici, arcaici, nuovi o dal sapore antico. Sembravano messaggi di altre culture, linguaggi universali, ognuno con una struttura, con tratti di personalità corrispondenti all'autore che non mi aspettavo. Un progetto ad esempio, era stato pensato ispirandosi all'alfabeto Morse, con l'alternanza di tre o quattro elementi gestiti solamente cambiando posizione agli stessi o ruotandoli rispetto a quelli precedenti. Insomma, era necessario mostrare i lavori svolti, nonostante il periodo triste e faticoso. Ed ecco che nasce l'idea di "Alfabeta, il codice, il segno, il significato" un'esposizione di tutti i lavori realizzati dagli studenti. Non solo, ma la mostra è stata corredata da incontri, workshop, seminari riguardanti la grafologia, il graphic design, la crittografia, i codici della notizia, i codici dell'immagine, la fotografia e tutte quelle discipline riguardanti il segno e la comunicazione, con la convinzione che tale evento possa essere solamente la prima edizione all'interno dell'Accademia Poliarte di Ancona. ¤
Le donne nella storia
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Laura Dux, dolce e dura da Fano all’Europa LA DUCHESSA MARTINOZZI, FIGURA CONTRADDITTORIA
C di Marco Belogi
he i rapporti diplomatici ,commerciali e di alleanze abbiano da sempre costituito la base per lo sviluppo degli Stati d’Europa è cosa ampiamente dimostrata dalla storia; meno noto , come sempre, il ruolo delle donne utilizzate in questi difficili e altalenanti rapporti, spesso raggiunti e subìti dalle interessate con grande determinazione e sofferenza umana. E’ la vicenda di Laura Martinozzi (1635-1687), di gran lunga la donna più importante dell’intera parabola estense nel ducato di Modena e Reggio. Il suo nome non è così famoso come quello di Isabella d’Este,
governò il ducato con mano ferma caricandosi il pesante fardello dei destini pericolanti del piccolo stato traghettandoli dalla morte prematura del marito, il duca Alfonso IV, alla maggiore età di suo figlio Francesco II. Era nata a Fano nel 1635 dal conte Girolamo Martinozzi e da Margherita Mazzarino, sorella del cardinale Mazzarino, fedele ministro del re di Francia, successore di Richelieu. Visse fin da piccola lontano dalla sua città; prima a Roma con suo padre maggiordomo nella curia vaticana poi, a quattordici anni, a Parigi alla corte del Re Sole. In compagnia delle cugine, chiamate Mazarinettes, fu educata alla saggezza politico- diplomatica e al linguaggio del cerimoniale. Con le eccentriche cugine, oltre alla sorella Anna, restò in attesa di essere inviata come sposa- pedina per importanti alleanze nello scacchiere europeo. Per la sua intelligenza e bellezza, Laura fu destinata dallo zio per il piccolo ducato di Modena , centro strategico per l’alleanza francese, dove giovanissima giunse il 16 luglio 1655. Non esitò a servirsi di sicari
definita la prima donna del Rinascimento Italiano per i suoi contatti con le corti e i personaggi più influenti del tempo. Basti pensare a Leonardo, Tiziano, Michelangelo e all’Ariosto. Laura, seppure straniera e poco amata,
Nell’arco di pochi anni subì una serie di lutti: suocero, marito, figlio primogenito e il potente zio a cui era legatissima. Nonostante che lo zio cardinale avesse pensato alla restituzione della copiosa dote in caso di vedovanza, Laura restò al suo posto mantenendo la reggenza del ducato. Sacrificando la sua
Le donne nella storia
Visse da piccola a Roma e alla corte del Re Sole Poi fu destinata da suo zio, il cardinal Mazzarino, a governare il ducato di Modena
70 dote, affiancata da fidati consiglieri e dal cognato, cardinale Rinaldo d’Este, prese le redini con risoluta fermezza. C’erano le cure dello Stato, la difesa e la formazione del sovrano Francesco II di soli due anni e la educazione di Maria Beatrice, bambina di quattro. Tenace, austera, vivace, sanò l’amministrazione trascurata nei quattro anni di governo del defunto marito. Un governo a volte spietato con i delinquenti, autoritario ma anche implacabile nella tassazione e parsimonioso nella spesa. Personaggio contradditorio, alternava alterigia a carità e dolcezza. Insegnava lei stessa catechismo e educazione ai bambini. Si dice che non esitò a servirsi di sicari per eliminare uomini di corte a lei avversi . Da qui il nome di Laura Dux o Laura Ducissima come viene raffigurata nelle sale di corte a Sassuolo. Con lei l’Aquila estense vide rifiorire Modena. Sua figlia divenne regina di Inghilterra
Nella pagina precedente uno stucco dorato raffigurante la duchessa Laura Martinozzi di cui un ritratto qui sopra Al centro pagina, uno scritto autografo della nobildonna A destra, la facciata di Palazzo Martinozzi a Fano e in basso la sala convegni interna
Con politiche riformiste e con una solidità economica fino allora sconosciuta ampliò i confini diplomatici. Cresciuta a Roma e Parigi, conosciuto il potere a Modena, giunse a Londra per accompagnare la figlia Maria Beatrice scelta quale sposa dal duca di York ,Giacomo Stuart intenzionato a consolidare il trono cattolico d’Inghilterra, matrimonio celebrato nel 1673. Solo dopo dodici anni tra interminabili contrasti con la chiesa protestante la figlia Maria Beatrice divenne regina d’Inghilterra. Al rientro a Modena le fu sufficiente vedere il suo seggio ducale più basso di quello del figlio per comprendere di aver perso quel ducato. Ferita, addolorata, tradita, “ non
potendosi persuadere di un tal mancamento se non d’affetto almeno di creanza”, decise di rimettersi in viaggio per Roma per tornare a vivere nel palazzo Mazzarino. Carattere schietto e immediato dalla capitale scriveva al figlio: “se ho da parlare chiaro possiamo più essere amici da lontano che da vicino”. Da allora fin che la salute lo permise si recò più volte a Londra per sostenere la figlia passando per Bruxelles, viaggio “disastroso “ a causa delle strade praticate per renderlo più breve. I suoi ultimi anni li visse a Roma nel palazzo di famiglia, poi Barberini, ritirandosi per lunghi periodi in un vicino monastero, gestendo da lontano il difficile rapporto con il figlio e trepidando per la sorte della lontana figlia travolta dalle vicende Stuart. Si spense nella capitale ancora giovane, confortata dalla vicinanza di Lucrezia Barberini, terza moglie del suocero Francesco I e nipote di Urba-
Le donne nella storia
no VIII e di Cristina di Svezia che abitava nel vicino palazzo Corsini, senza aver visto regina d’Inghilterra la figlia Maria Beatrice, unica donna italiana salita a quel superbo trono . Non dimenticò mai Fano, luogo di origine della sua famiglia e sua città natale. Al gonfaloniere fanese, che le inviava voti augurali, la duchessa rispondeva sottolineando il legame con la città che aveva visto” il suo nascimento”. Titoli ed eredità trasferiti ai Montevecchio La famiglia Martinozzi, tra le più blasonate della città, dopo essere salita ai più alti incarichi nello Stato Pontificio per merito e per virtù di donne, si è estinta nel XVIII secolo trasferendo titoli e eredità alla famiglia Montevecchio. Sulla facciata dell’austero palazzo risalente al 1564 da alcuni decenni è stata collocata una lapide a ricordo di questa figura
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femminile che svolse una missione delicatissima sulle strade europee toccando un tragico capitolo della storia d’Inghilterra. Dovuto risarcimento per la dimenticanza di troppi secoli. Un alone di mistero ha sempre avvolto la sua famiglia. Si racconta che nelle notti senza luna, dalle viscere della terra, lungo la via che fiancheggia il palazzo Martinozzi , detta strada dell’Inferno, sorgesse un signore avvolto da un grande mantello nero alla guida di un cocchio con scalpitanti cavalli e servitori con fiaccole accese. Si dice che fosse l’anima dannata di un Martinozzi. Il nero cavaliere correndo all’impazzata per un centinaio di metri, sprofondava nuovamente nel vuoto davanti all’Arco di Augusto. Una tragedia romantica, a lungo raccontata nella popolazione fanese, originata da amori proibiti e affascinanti di quella famiglia. ¤
Sua figlia Maria Beatrice divenne regina di Inghilterra l’unica donna italiana sul trono inglese
Alla scoperta del territorio
I piccoli borghi delle Marche vera bellezza infinita SPLENDIDE REALTÀ RICCHE DI STORIA E DI MEMORIA
2 di Dino Zacchilli
Sulla costa i ritmi sono da grande città nell’interno il tempo si dilata scandito dall’orologio solare
020, un anno che resterà nei libri di storia ma anche nella nostra mente e nella nostra carne. Dopo i mesi di chiusura totale a marzo e aprile, per difenderci dal coronato barbaro invasore e invisibile serial killer che ancora ci insegue minaccioso, ci siamo regalati un’estate rilassata, forse fin troppo, per l’assoluta necessità di esorcizzare, vivendo, le nostre ansie e le nostre paure. Personalmente ho preferito, comunque, andare “via dalla pazza folla” costiera e rifugiarmi, durante i weekend, nello straordinario e pacificante paesaggio marchigiano fatto di dolci colline e di splendidi borghi, anche minimi, in un territorio ricco di storie autentiche, sapori genuini e aria pulita. Ho visitato o rivisitato davvero tanti borghi della nostra regione, uno più bello dell’altro, ciascuno con sue peculiarità urbanistico-monumentali, ciascuno ricco
di memoria, di vita, anche laddove la presenza umana è ormai ridotta a pochissime persone a seguito della “mareggiata dello spopolamento”, come la definisce lo scrittore e paesologo Franco Arminio, quel processo di inurbamento, iniziato negli anni cinquanta del secolo scorso e continuato praticamente fino a qualche anno fa, che ha molto spesso svuotato queste città minime della loro ricchezza sociale e antropologica, rimasta immutata per secoli. Per scoprirli devi però abbandonare le solite vie di fondovalle, veloci, che magari conosci a memoria, tu e la tua auto che va quasi da sola. No, devi essere curioso, aver voglia di scoprire il territorio e darti il piacere di percorrere strade minori, magari ancora bianche, che salgono tortuose per le serene colline marchigiane seguendone l’armoniosa orografia, dove ogni curva ti offre orizzonti sempre diversi
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e lo sguardo si apre ora verso il mare azzurro e la costa, ora verso i nostri molteplici e verdi appennini. Devi procedere lento e lasciarti sorprendere dal piacere della scoperta. A volte, salendo, ti sorge perfino il sospetto d’avere sbagliato strada finché, all’improvviso, ecco che un gioiello incastonato sulla cima del colle risplende ai tuoi occhi: una vera epifania. E ti risuonano all’orecchio le parole più volte ascoltate. Marche. Bellezza infinita! Sì, è proprio così e convieni che mai slogan fu più azzeccato. La sola vista del borgo, da lontano, ti mette l’animo in pace e già, solo questo, giustifica viaggio e tempo spesi ma poi arrivi, lasci l’auto fuori le mura, varchi la porta (anche laddove è stata abbattuta) e ti perdi per le viuzze fatte di pietra, di selci o anche di semplici ciottoli di fiume. E le sorprese sono una dietro l’altra. Ho avuto la fortuna di co-
noscere e visitare, per lavoro e per anni, il territorio, i paesi e i borghi della provincia di Pesaro e Urbino. La prima cosa che ti sorprende è la diversa percezione del tempo. Sulla costa i ritmi sono quasi da grande città, nei paesi, man mano che si risale all’interno, il tempo si dilata, scandito dal caldo orologio solare, i gesti ricchi di tranquilla umanità. I profumi autentici salgono dalla terra o da qualche focolare dove brucia legna del bosco e lenta cuoce la pietanza del giorno. Sì, qui il tempo è diverso. E vale davvero la pena visitarli col ritmo giusto e con rispetto perché in ogni borgo, anche nel più anonimo o negletto, trovi qualcosa che parla al cuore, alla mente e perché no, anche al palato. Sarà un ingresso fortificato, ancora integro, con la porta con i beccatelli da cui, se necessario, scendeva olio bollente sui nemici, sarà un campanile dalle forme inu-
Nella foto a tutta pagina, Ospedale dei Pellegrini a San Ginesio Nelle immagini partendo da sinistra in alto, la porta S. Stefano a Montelupone e Castello della Pieve in provincia di Pesaro-Urbino Qui sopra, una veduta di Montefabbri e la meridiana a Falerone
Alla scoperta del territorio
Mai come ora i borghi sono al centro di una riflessione culturale per ripensare il nostro vivere
Qui sopra, dall'alto una veduta di Force e di Castignano Al centro della pagina i Tre Archi all'ingresso di Petritoli Alla sua destra, Montalfoglio la porta di S. Antonio a Massa Fermana e sotto, la Torre civica a Frontino
suali o una bella meridiana sulla facciata del palazzo comunale o della torre civica, saranno case di pietra dai davanzali fioriti, sarà un portale, una facciata, un lavatoio pubblico o un rintocco di campana dal suono speciale e, magari, anche una inguardabile torre dell’acquedotto posta di fianco al campanile. Sarà una locanda che non t’aspetti gestita da ragazzi che ti portano a tavola paste, olio e vini di produzione borghigiana insieme a tagliate sopraffine, sarà un museo di antichi mestieri o una impensabile raccolta d’arte moderna che mai ti aspetteresti di trovare lontano dalla città, sarà una chiesa con uno speciale crocifisso ligneo unico sopravvissuto all’incendio del castello, sarà la storia d’un emigrante partito dal borgo e diventato protagonista della finanza internazionale, sarà il ricordo d’una storica decisione presa ai danni del sommo poeta, sarà un vecchio mulino ristrutturato e ancora funzionante, dove impari cos’è il ritrecine e il bottaccio. Sarà quel borgo fiorito e affollato, vista mare, sarà quel borgo terremotato, ferito e vuoto, tutto impacchettato da travi in legno e tiranti d’acciaio, quel borgo (e sono ancora tanti, ahimé) che fa male al cuore, lì solo, in attesa di un Godot che non arriva mai... Sarà un prezioso affresco o un dipinto celebre in una chiesa sconosciuta, sarà una bottega d’artigiano che custodisce un saper fare millenario, saranno testimonianze archeologiche che raccontano antichi splendori, sarà una primaverile infiorata che veste a festa l’intero borgo, sarà un vino tipico dato da un antico vitigno, sarà un prodotto agricolo, un piatto, un dolce, introvabili in città. Sarà…
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Potrei continuare a lungo ma credo che basti per accennare appena alla sorprendente ricchezza della nostra regione e alla sua straordinaria forza, derivante dalla plurisecolare civiltà contadina. Solo col secondo dopoguerra abbiamo avuto una mutazione statutaria della società, con l’affermarsi dell’homo urbanus e il conseguente spezzarsi del rapporto tra uomo e natura dove il ciclo delle stagioni dettava il tempo della vita e l’andamento dell’economia. Ma questo straordinario patrimonio che abbiamo è destinato ormai ad una pura fruizione estetica, peggio ancora nostalgica, o può invece tornare al centro della vita sociale ed economica del nostro tempo? Cosa ci insegna il difficile momento che attraversiamo ormai da un anno e di cui non vediamo ancora la fine? E quando sarà finito davvero potrà tornare tutto come prima? Credo proprio di no.
Alla scoperta del territorio
Mai come in questo tempo complicato i borghi sono stati così fortemente al centro del dibattito e della riflessione culturale, oggetto dell’attenzione e dell’interesse di architetti, filosofi, economisti; i borghi oggi sono un’opportunità per ripensare anche il nostro modo di vivere e lavorare, una imperdibile occasione per riflettere sull’inscindibile rapporto tra forma urbis e felicità e per ritrovare la vitruviana armonia tra uomo e natura di cui la pandemia ci racconta la tragica frattura. Già nello scorso aprile, con una intervista a La Repubblica, dal titolo emblematico, “Via dalle città, nei borghi c’è il nostro futuro”, il celebre architetto Stefano Boeri, ragionando sul dopo pandemia, lanciava il suo appello e le sue proposte per una rigenerazione del territorio, urbanistica, edilizia, sociale ed economica, un piano nazionale incentrato proprio sui tantissimi borghi che
rappresentano l’ingrediente speciale della bellezza unica del nostro Paese, pronti ad accogliere un’auspicata “dispersione residenziale” e a sostenere la “ritrazione dall’urbano”, attori di un nuovo modello ambientale e socioeconomico, indispensabile per consentire una migliore qualità della vita. Ne è seguito un vivace dibattito animato da molti interventi, anche di rappresentanti istituzionali. Qualcuno (Impakter Italia) ha invocato, a proposito di borghi, perfino un piano Marshall ”per il recupero su vasta scala della bellezza sprecata”, sollecitando l’interesse e l’azione politica “per ripristinare bellezza e abitabilità, fascino e storia, vitalità e progresso”, considerandoli nulla di più meritevole di grandi investimenti e chiedendo di essere all’altezza della nostra storia. E Rosanna Mazzia, presidente dell'Associazione borghi autentici d'Italia,
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Ma per far rivivere i borghi servono piani regionali servizi, regole urbanistiche e imprenditori illuminati
Alla scoperta del territorio
Dall'alto, una vista da porta a porta di Servigliano, le guglie a Ostra Vetere, un'immagine di Caldarola e la porta scenografica a Piticchio con lo stemma di Bruno D'Arcevia Le foto sono di Dino Zacchilli
aggiungeva: "I borghi italiani sono la spina dorsale del nostro Paese, sono luoghi in cui si vive meglio e diversamente dalle grandi città, a misura d'uomo; sono luoghi del pensiero e della lentezza, quella lentezza che rappresenta la cifra dell'Italia artigianale, dell'agricoltura di qualità, della tutela della biodiversità, del paesaggio sospeso tra città e campagna, tra mare ed entroterra”. “Che il futuro sia nei borghi come dice Stefano Boeri - interveniva Marco Bussone, presidente di Uncem - è essenziale nella logica del risparmio del consumo di suolo, dell'efficienza energetica, di una rifunzionalizzazione degli spazi, di economie circolari che sappiano dare risposte alla crisi climatica e non soltanto alla crisi della pandemia che stiamo affrontando”. Ma fare dei borghi luoghi dove abitare, fare impresa e vivere tutto l’anno è una bella sfida. Richiede pensiero lungo, lucida visione, azione determinata. Serve un piano almeno regionale che metta in campo e ricerchi gli investimenti necessari. Servono regole urbanistiche che consentano di recuperare gli edifici senza rinunciare alla sicurezza da una parte e, dall’altra, a modelli di confort residenziale ormai irrinunciabili. Servono servizi, a cominciare dalla connettività indispensabile, nell’era del digitale, per il telelavoro, la telemedicina, ecc., incentivando inoltre la rigenerazione del tessuto commerciale e artigianale di prossimità. Servono anche impren-
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ditori illuminati: Ci sono esempi nel campo dell’accoglienza, con interi borghi recuperati a residenze di charme ma si può fare di più e seguire magari l’esempio di Brunello Cucinelli che ha recuperato e trasformato l’intero borgo di Solomeo, facendone l’ambiente e il centro della sua straordinaria impresa. Serve fare dei borghi un vero e proprio prodotto turistico esperienziale, tanto ricco e tanto plurale quanto plurale è la nostra regione, Le Marche, la città diffusa, la regione, appunto, de “le cento città”. Magari con progetti di veri e propri “gemellaggi” tra città costiere e borghi dell’entroterra, per una nuova comune rinascita. Serve un piano per “riabitare l’Italia”, un progetto ambizioso, capace di generare lavoro per i decenni a venire solo nel campo edilizio (quanti miliardi di metri cubi di costruito da recuperare?) ma, soprattutto, sicuramente utile per offrire a figli e nipoti, nell’età della tecnologia avanzata, opportunità e modelli di vita più ricchi, autentici e salutari, in un contesto ambientale e paesaggistico di pregio, dove economia sostenibile e innovazione digitale ricreino comunità e benessere di un nuovo umanesimo. Qualcuno saprà raccogliere la sfida? Carlo Bo diceva che "ci sono paesi di cui non si può mai dire di aver finito di conoscerne l'anima". Ecco, forse è arrivato davvero il momento di scoprire fino in fondo quell’anima e di farla rivivere. ¤
Architettura
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Ascoli vs Rio de la Plata con il vento alle vele TAMBURINI, PROTAGONISTA DELL’800 IN ARGENTINA
A
di Fabio Mariano
l di là della facile e calzante suggestione deamicisiana del coevo libro Cuore, Francesco Tamburini (Ascoli Piceno 1848 - Buenos Aires 1890), un artista marchigiano ancora poco conosciuto, va annoverato tra le figure emblematiche dell’emigrazione italiana in Argentina, che – fra i 1.009.399 compatrioti trasferitisi in quel continente tra il 1857 ed il 1896 – contava anche molti professionisti, ingegneri ed architetti, senza contare le migliaia di validissimi artigiani edili di ogni settore che contribuirono ad edificare le città di quel paese fratello. A differenza dei numerosi architetti italiani che lasceranno il loro segno sporadico in America Latina ed in Argentina in particolare (ricordo Gaetano
Moretti, Luigi Broggi, Mario Palanti, per citare solo i più famosi in Italia) Tamburini fu un vero “emigrato”, partito dal suo paese dove non trovava adeguato riscontro e committenze professionali, per insediarsi in un paese straniero e divenirne il maggiore architetto del secolo. Trasferitosi undicenne con la famiglia in Ancona, dalla natia Ascoli, vi frequenta il Liceo e poi l’Istituto Tecnico, dove nel 1865-66 viene assunto come assistente dell’esimio naturalista prof. Francesco De Bosis al Gabinetto di Fisica e Chimica. Trasferita di nuovo la famiglia a Pisa, nel 1866 si iscrive al triennio della Facoltà di Matematiche Pure, appassionandosi al disegno; quindi si iscrive al Corso di Ingegne-
Architettura
Dovette emigrare per esprimere tutto il suo talento e diventare uno dei maggiori progettisti del secolo
Nella pagina precedente il progetto del Palazzo di Giustizia di Buenos Aires Qui sopra in alto, Il Villino Marulli a Chiaravalle, oggi biblioteca comunale Di seguito, la facciata della Casa Rosada in una foto d'epoca A destra dall'alto, un ritratto di Tamburini, la Casa Rosada in una foto più recente e il cortile interno della stessa
78 ria dell’Università di Bologna (1869), dove si laurea nel 1872. Nel frattempo, con la famiglia, in continuo movimento per le ristrettezze economiche, ritorna a risiedere nelle Marche, a Chiaravalle. L’anno dopo ottiene l’incarico di professore di Architettura presso l’Istituto di BB.AA. di Urbino. Ma nel 1876 vince la cattedra di Architettura all’Accademia di Pisa. Qui insegna Disegno d’Architettura e si dedica allo studio dei monumenti pisani (Duomo, 1878-79) ed anche anconitani (S. Agostino, Cattedrale, S. Francesco alle Scale, 1880-81), dei quali pubblica dettagliati e nitidi rilievi. Nel 1881 la cattedra pisana viene coperta da Guglielmo Calderini, notissimo professionista vincitore tra l’altro del concorso per il Palazzo di Giustizia a Roma; Francesco trasferisce allora il suo insegnamento a Roma presso la Scuola d’Applicazione per gli Ingegneri, che terrà sino all’estate 1883. In Italia, prima di partire per i suoi successi in Argentina nel 1883, Tamburini non ebbe una significativa attività professionale. Progetterà infatti il modesto, ma elegantemente decorato in cotto, Villino Marulli a Chiaravalle (1881-83), ora biblioteca municipale ed un non meglio precisato “palazzo nella città di Ancona”, palazzo che noi abbiamo a suo tempo individuato nel grande palazzo ad appartamenti commissionatogli (1872-82 ca.) dal costruttore A. Reinhold – probabilmente sua prima importante opera effettivamente edificata, sull’inizio del Corso V. Emanuele (oggi Garibaldi), a testata d’angolo con la Piazza del Teatro delle Muse. Si tratta di uno dei primi e maggiori edifici costruiti sul nuovo Corso appena aperto nel 1867, da ovest ad est, dalla Piazza del Teatro a Piazza Cavour, diradando l’antico e fatiscente tessuto urbanistico della zona del Ghetto ebraico
e sbloccando l’impraticabile viabilità del capoluogo dorico, come previsto dal Piano Regolatore dell’ottobre 1861. Nel disteso ed alto prospetto del Palazzo Reinhold, solo mosso dai risalti bugnati piatti angolari, Tamburini sembra sperimentare il pacato rinascimentalismo toscano diffuso nella Firenze temporanea capitale del Poggi, caratterizzandolo con lo stilobate bugnato e le finestre a centina del piano nobile, mentre una certa sensibilità a scala urbana si rileva nella sua soluzione d’invito sull’angolo della Piazza del Teatro, arricchita da balconcini balaustrati. Una vena stilistica che manterrà, e si arricchirà di molto, nelle sue eccezionali imprese argentine. Una fortunata coincidenza fece entrare in contatto, agli inizi del 1883, il giovane squattrinato ma talentuoso ingegnere ascolano, oramai dedito al solo insegnamento, con l’ambasciatore argentino a Roma. Questi era stato incaricato dal suo Capo del Governo, il generale Roca, di trovare in Italia un valido architetto per condurre le maggiori opere pubbliche della capitale argentina, in grado di fornire un’immagine adeguata di aggiornamento e progresso della giovane nazione, ed anche attirare interesse e capitali freschi per lo sviluppo delle immense risorse del paese. Questo imprevisto contatto (forse facilitato da sue pregresse frequentazioni della fratellanza massonica) fornì al Tamburini l’occasione della sua vita, che non si lasciò sfuggire. Il primo luglio stesso firmò un vero e proprio contratto biennale con l’ambasciatore Antonio del Viso in rappresentanza del Governo, con tanto di mansionario delle sue future attività: sarebbe entrato come “impiegato speciale” nel Departamento de Ingenieros Civiles de la Naciòn, per fornire i progetti degli edifici nazionali e dirigerne la realizzazione. Il suo compenso sarebbe stato di
Architettura
£. 2.000 mensili (esattamente quanto il fratello Domenico guadagnava in un anno, mantenendo tutta la famiglia, nel 1870!); infine, le spese di trasferimento in Argentina, via porto di Genova, sarebbero state a carico del Governo. Giunto a Buenos Aires senza bagaglio (era andato perso in mare a Genova) il 22 novembre egli verrà assunto come consigliere nella Commissione dei Concorsi per gli Edifici Pubblici de la Plata, il 29 febbraio 1884 venne nominato Ispettore delle Opere Architettoniche del Dipartimento di Ingegneria Civile della Nazione. Nei brevi ma prolifici sei anni della sua attività nel paese, sotto il governo del generale Julio Argentino Roca e poi dal 1886 di Juárez Celman, ebbe la forza e la capacità di progettare e realizzare un numero impressionante di edifici pubblici e privati - circa 51 progetti dei quali almeno 25 realizzati - che elencare qui prenderebbe uno spazio esagerato; citeremo quindi solo i più prestigiosi in ordine di importanza. Dopo aver proposto un progetto per il Palazzo del Parlamento che non ebbe esito, certamente la prima opera cui Tamburini mise mano fu il Palazzo del Governo, la famosa Casa Rosada, condotta allora dall’architetto svedese Henrik Åberg, del quale prese il posto. Per unificare il vasto complesso di edifici antichi e contemporanei che raggruppavano allora gli uffici governativi senza una precisa unità architettonica, Tamburini inventò (1886) un edificio- ponte, con un grande fornice a serliana: una sorta di arco trionfale che rimanda stilisticamente (ma non tipologicamente, per l’evidente differenza di funzione) all’ingresso della Galleria V. Emanuele a Milano di Giuseppe Mengoni (1863-77). In particolare, v’è similitudine con la Galleria nelle coppie di colonne estradossate a sorreggere i poggioli, che nel palazzo bonaerense
79 appaiono però di proporzioni evidentemente più eleganti. La serie alternata di trifore e pentafora centrale del terzo ordine appare qui molto ben riuscita e denota, alleggerendo il centro dell’edificio, un’attenzione còlta per il tipo dei palazzi veneziani. Oltre che per la generale raffinatezza delle proporzioni e per l’accurata esecuzione delle equilibratissime decorazioni quattrocentesche, il prospetto della Casa Rosada su Plaza Victoria mostra anche l’evidente tentativo operato dal Tamburini di instaurare un dialogo sincretico con le preesistenti architetture bonaerensi - improntate nei decenni precedenti sui canoni dell’architettura Beaux-Arts ad opera dei numerosi architetti nord europei operanti in Argentina; dialogo che appare evidente nella velata citazione dell’Operà del Garnier nei due timpani centinati che emergono dal cornicione. La Casa Rosada si configura come un’opera centrale – per prestigio e per importanza linguistica – nell’affermazione del Tamburini in Argentina, il quale sembra così voler segnalare subito (e con sapienza) la novità della sua presenza e del linguaggio monumentale “all’italiana” del quale si propone orgogliosamente come portatore. I precedenti italiani cui Tamburini può aver guardato, soprattutto attraverso le riviste specializzate, nel suo tentativo di definire un proprio linguaggio argentino - e deve essersi posto il problema con tempestiva rapidità, data la mole delle sue opere realizzate in così poco tempo – vanno individuati in una ristretta cerchia di architetture, tutte di alta qualità, la cui abile “fusione” stilistica diede lui la possibilità di stabilire un abaco certo e sperimentato col quale fece fronte ai prestigiosi impegni dei quali era stato incaricato. Indicherei pertanto, oltre alla citata Galleria milanese del Mengoni, piuttosto: il nuovo prospetto del Pa-
In Argentina doveva progettare edifici nazionali per 2000 lire al mese quanto il fratello prendeva in un anno ma morirà povero
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La sua opera più emblematica è la Casa Rosada ma la creatura cui teneva di più era il nuovo teatro Colón da tremila posti
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lazzo Carignano a Torino (di G. Ferri, 1863-71), il Politeama Garibaldi di Palermo (di G. Damiani Almeyda,1867-75), il Palazzo della Cassa di Risparmio di Bologna (di G. Mengoni, 1867-77), il Teatro Bellini di Catania (di C. Sada e A. Scala, 1870-90), il Palazzo delle Esposizioni di Roma (di P. Piacentini, 1878-82), e non ultimo il Vittoriano di Giuseppe Sacconi, allora senza dubbio il monumento più rappresentativo dell’Italia Unita. Se questi riferimenti caratterizzano la consuetudine degli architetti eclettici di guardare con attenzione alle sperimentazioni dei loro contemporanei, isolato ed anomalo appare invece il caso del cortile della Casa Rosada. Qui il Tamburini, non trovando soverchi riferimenti nella contemporaneità – anche perché il tipo del “patio” appariva oramai obsoleto nelle affollate città europee, al contrario che nelle diradate città di fondazione sudamericane dove lo spazio non mancava - si appella all’architettura antica,
e guarda in modo palmare al Seicento lombardo, ed in particolare (per le basse proporzioni) a quello di Francesco Maria Richini nel Collegio di Brera (suo capolavoro del 1651), riproponendone il peculiare doppio ordine di logge ad arcate, su binati di colonne architravate che si innestano tra i balaustri dei parapetti. Va notata anche la sapienza specialistica con la quale il Tamburini seppe affrontare varie volte i temi distributivi ospedalieri, all’epoca ancora ai primordi. In particolare, si segnala la complessa e funzionale planimetria dell’Ospedale di Cordoba (Clinica Ospedaliera) del 1884. Tra i grandi progetti pubblici non realizzati si ricordano il Palazzo del Congresso, la Biblioteca Nazionale ed il Palazzo di Giustizia. Il tema del grande fornice centrale, che svuota ed accoglie il volume dell’edificio, ritorna nel progetto per il Palazzo del Congresso (1885), dove l’aulicità dell’edificio parlamentare suggerisce
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al Tamburini un riferimento altrettanto “alto”, come quello suggerito dal nicchione del Cortile della Pigna in Vaticano. Il disegno per la Biblioteca Nazionale sembra invece guardare ai grandi edifici pubblici germanici, ai secchi impaginati di Gottfried Semper per il Politecnico di Zurigo, ed in generale per l’uso del grande timpano classico centrale con la sottostante trifora architravata “alla Leo von Klenze”, per le lineari modanature taglienti dello stilobate; tutto ciò se ai lati del tetto non comparissero ancora una volta le concessioni al gusto francese, coi due “pabellones” trapezoidali a confonderci le idee ed a convincerci che Tamburini è un sapiente architetto eclettico, figlio dei suoi tempi. Cosi è anche nel prospetto del Palazzo di Giustizia, dove - ad una teoria alternata di finestre neoromaniche, a bifora retta od ad arco senese con sesto spezzato nelle ghiere in cotto – si sovrappone un classico alto tetto “alla Mansart”, con tanto di abbaini ellittici baroccheggiante e copertura a scandole posate a rombo. Concessioni di cortesia alla preesistente immagine urbana “locale” si possono ritrovare anche nella nitida volumetria dell’edificio dell’Ospedale Militare di Buenos Aires, che superficialmente suggerisce riferimenti parigini, ma a ben vedere mostra una sobrietà tutta italiana, direi palladiana, se si coprono con la mano i due coronamenti centinati laterali. E’ sicuramente da lamentare la demolizione della bella palazzina realizzata per il Presidente Miguel Juárez Celman dove, nel fronte su Via 25 de Mayo, si poteva apprezzare la notevole grazia compositiva del Tamburini che impaginava qui, con equilibrata sapienza, elementi rinascimentali tratti dal repertorio palladiano e quattrocentesco padano, non trascurando la
81 garbata invenzione della serliana dell’ingresso, dove le tre specchiature superiori arretrano risaltando i fusti delle colonne composite, in un originale effetto chiaroscurale. Il progetto del nuovo Teatro Colón fu, come noto, il maggior cruccio di Tamburini. Progettato nel 1887, era la creatura cui teneva di più, cui aveva dedicato i suoi maggiori sforzi creativi disegnandone diverse soluzioni alternative, che seguiva passo passo nel cantiere, al punto da rinunciare per ciò (nel novembre 1890) alla sua carica di Ispettore Generale delle Opere Nazionali. Ma purtroppo non ebbe il tempo di vedere finita quell’immensa mole, che veniva a configurare uno dei più grandi teatri del mondo coi suoi 3000 posti. Il suo capolavoro verrà portato a termine dai suoi collaboratori: Vittorio Meano (che eseguirà anche l’edificazione del Palazzo del Congresso) e da Jules Dormal, sino alla sua inaugurazione nel 1908. Una lettera autografa del 13 agosto 1884, diretta all’ing. Guillermo White (Direttore del Dipartimento di Ingegneria Civile della Nazione), in relazione alle soluzioni proposte per la Casa Rosada, è uno dei rari documenti che ci consentono di comprendere la mentalità progettuale di Tamburini: “Sono dell’opinione che la disposizione di un edificio pubblico deve rispondere alla funzione degli uffici con ingressi e gallerie di comunicazione, per facilitare il servizio e renderlo anche gradevole. È necessario che tutte le parti abbiano una funzione precisa, con un aspetto appropriato che indichi la natura dell’oggetto; ogni ufficio deve godere di libertà di uso e ho dato grande rilievo alle scale, ai cortili e a tutte quelle parti che sono percorse da molto pubblico”. Un calzante esempio, questo, di mentalità progettuale diffusa tra gli architetti eclettici della seconda metà dell’Ot-
Ebbe la forza di progettare e realizzare un numero impressionante di edifici pubblici e privati: circa 51
A sinistra in alto, il progetto della biblioteca nazionale di Buenos Aires Sotto, la planimetria dell'ospedale di Cordoba del 1884 A destra, un busto di Francesco Tamburini realizzato da Romolo del Gobbo collocato nella pinacoteca comunale di Ascoli Piceno Sotto, Palazzo Reinhold ad Ancona
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Un vero peccato che le Marche non abbiano concesso al suo talento di adornare piazze urbane
In alto, progetto del Palazzo del Congresso di Buenos Aires Qui sopra, il teatro Colon realizzato tra il 1889 e il 1908 a Buenos Aires
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tocento: una base culturale positivistica, quindi, che conduce alla razionalità distributiva degli edifici che devono essere comodi e funzionali: è la vera ossatura iniziale del progetto, cui fornire una coerente rappresentatività attraverso un elevato gradiente di qualità architettonica e decorativa in relazione alla funzione tipologica che l’edificio è chiamato ad esprimere. Nonostante le apparenze, Tamburini morirà povero. Le
ingenti ricchezze accumulate col suo intenso lavoro vennero bruciate in disastrosi investimenti finanziari in obbligazioni, resi carta straccia a causa della rivoluzione scoppiata a Buenos Aires nel luglio 1890 e la conseguente altissima inflazione (la storia sembra ripetersi!).
Ma il nostro, che aveva una tempra non indifferente, in una lettera di poche settimane precedente alla sua morte, quando era già allettato dalla malattia, così scriveva all’amico marchese Adriano Colocci a Jesi: “E fede ci vuole! Torneranno tempi migliori, si rifarà qualche cosa, e allora ‘vento alle vele’ ”. Nelle celebrazioni tenute in suo onore, nella patria che non aveva più rivisto, il 18 gennaio 1892 ad Ascoli Piceno - mentre un busto bronzeo del Tamburini scolpito dall’ascolano Romolo del Gobbo, che era stato suo collaboratore in Argentina, veniva donato alla città assieme ad un bell’album di foto delle sue opere - così il noto critico d’arte Giulio Cantalamessa (in una lettera inviata per l’occasione) commemorava il suo lavoro: “È meravigliosa l’immaginazione esuberante nel Tamburini, che lo faceva passare di scatto da un progetto all’altro, diversi di fisionomia e di destinazione. Meraviglioso è l’equilibrio dell’intelletto, che in ogni edificio gli fece sempre trovar la via ragionevole, acciocché l’opera rispondesse obbediente al fine, per cui la si faceva, e apparisse sempre bella e salda nell’ossatura adornandosi di quelle decorazioni, che il Tamburini aveva tanto amate nel Rinascimento italiano, e ch’egli, per la flessibilità del suo ingegno, cospargeva con senso squisito dell’opportunità”. È, infine, un vero peccato che le Marche non abbiano concesso al talento di Francesco Tamburini - nemo propheta in patria - l’opportunità d’adornare con qualche importante opera pubblica una delle proprie belle piazze urbane. ¤
I 90 anni dell’attore
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Mauri: “Ho portato la mia vita nel teatro” “AMO PESARO, MI HA DATO UNA FANCIULLEZZA FELICE”
U di Elisabetta Marsigli
“Ho debuttato in teatro a 15 anni Si incastrò il sipario da lì capii che per me sarebbe rimasto alzato per tanto tempo”
n amore incondizionato e totale per il teatro: “… amo l’arte per la vita e non mi interessa molto l’arte per l’arte, la cosa bella è stata che il teatro e la vita si sono incontrati, son diventati una cosa sola, io non ho portato il teatro nella mia vita, ho portato la mia vita nel teatro, in modo normale...”. Glauco Mauri è uno dei grandi maestri del teatro italiano, un grande attore che è partito da una città di provincia, Pesaro, per realizzare una straordinaria carriera che lo ha portato a calcare le scene dei più prestigiosi teatri del nostro paese. Coraggio, determinazione e bravura, sono alla base del suo successo e anche quella tenacia, quel cipiglio che i pesaresi chiamano “tigna” che è stato fondamentale per le sue scelte. Mauri è nato a Pesaro, il 1 ottobre 1930 e la città gli ha da poco consegnato un omaggio, in occasione dei suoi 90 anni, una ceramica con la rosa di Pesaro, alla presenza anche di uno dei suoi più cari e sinceri amici, Carlo Pagnini. Nel 2009, gli fu anche assegnata la cittadinanza onoraria dall’allora sindaco Luca Ceriscioli. Nelle Marche, Mauri ha ricevuto anche il premio del Pio Sodalizio dei Piceni, una tra le più antiche associazioni marchigiane. «Amo Pesaro - racconta Mauri - mi ha dato una fanciullezza luminosa e felice. Sono nato in un quartiere molto povero, al Porto, abitato, in prevalenza da falegnami. Gli amici che mi sono fatto da giovane, sono una delle ricchezze della mia vita. Ero il terzo figlio di una donna rimasta vedova a 35 anni: mia madre aveva fatto solo le elementari, ma era di
una intelligenza straordinaria, quella che hanno le donne del popolo. Faceva l’infermiera ed era molto conosciuta e amata in città. È lei che mi ha dato la forza di lottare sempre con onestà, la forza di superare sempre le difficoltà della vita e non ha mai ostacolato la mia passione per il teatro». Quando parla di Pesaro, a Mauri si illuminano gli occhi: «A 13 anni, ricordo ancora benissimo, era il 25 luglio del 1943 ed ero andato a vedere una Butterfly con una cantante giapponese. Era caldissimo ed eravamo in una arena all’aperto: quel giorno si interruppe lo spettacolo per la caduta di Mussolini». Il giovane Mauri era noto per essere uno spettatore affezionato del Teatro Rossini, quel teatro che lo ha visto, poi, protagonista di grandi spettacoli: «Ero sempre tra i primi in fila per salire al Loggione: avevo l’incarico di tenere il posto per Enrichetta, una signora molto anziana che faceva tanta fatica a salire le scale. Io correvo e le tenevo il posto accanto me, tutti sapevano che quel posto era per lei». A 15 anni cominciò a frequentare la parrocchia, perché, nell’immediato dopoguerra, era la casa dove si poteva giocare, anche a fare il teatro. «Amavo il teatro, ma non pensavo di fare l’attore. In quel periodo, una compagnia teatrale, stava risistemando una chiesetta, ormai sconsacrata, in via Castelfidardo, nel cuore di Pesaro. Mi chiesero se ero disposto a fargli da suggeritore, allora c’era ancora la buca del suggeritore. Ma poco dopo, Mario Lazzari, mi affidò una parte. Debuttai il 1 gennaio del 1946, avevo 15 anni e 3 mesi». Ma in quella recita accadde
I 90 anni dell’attore
Un rammarico: le Marche ad eccezione di Pesaro sono la regione che lo ha invitato di meno Ad Ascoli mai stato
In alto, Glauco Mauri festeggiato dal Comune di Pesaro per i suoi 90 anni Qui sopra, un ritratto dell'attore
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qualcosa, un segno del destino: «Facevo la parte di un figlio scapestrato che fuggiva di casa e solo alla fine, tornava da suo padre, morente. Scena finale molto tragica, ma il sipario, che avrebbe dovuto scendere dall’alto, si incastrò a metà. Fu lì che pensai che quel sipario sarebbe rimasto alzato per parecchio tempo per me». Fu tra i fondatori della compagnia amatoriale La Piccola Ribalta, ma a 19 anni scelse di andare a studiare all’Accademia Silvio D’Amico di Roma: «A quell’epoca era considerata davvero una follia pensare ad una carriera di attore, ma anche lì, mia madre fu felice della mia scelta che appoggiò in toto. Rimasi poi stupito dell’accoglienza che mi riservò la capitale: dormivo nel salotto di una signora che veniva a Pesaro d’estate al mare. Fu un periodo bellissimo, trovai tanti amici e un’accoglienza davvero calorosa». Pesaro ha ospitato spesso la compagnia di Glauco Mauri che, per ringraziare, propose di portare in scena un testo di Pasqualon: «L’unico proble-
ma è che io parlo malissimo il dialetto e così mi sono dovuto far dare lezioni. È stata un’esperienza bellissima. Il nostro dialetto poi, è molto simile al romagnolo, già a Fano, altra città che amo moltissimo, è diverso». A Pesaro è molto affezionato, ma Mauri si sente poco marchigiano: «Mi sento poco marchigiano anche perché le Marche, a parte a Pesaro, sono la regione che meno ha invitato la mia compagnia teatrale: sono andato una volta ad Ancona ed una a Macerata, mai ad Ascoli per esempio! Mi invitano più spesso a Chieti e Pescara e questo mi dispiace molto». «A Pesaro ho anche conosciuto cosa vuol dire l’amore: mi innamorai di una ragazza con cui sono tutt’ora in contatto. Una delle emozioni più vive che ancora ricordo è legata al mare: tutti ce lo immaginiamo d’estate, ma durante una grande nevicata fu incredibile vedere la spiaggia coperta di neve. Un’immagine bellissima, la più strana e poetica che ricordi di questa città: l’immensità della spiaggia coperta di neve, accanto al mare». Ma sente anche quella “tigna”, quella tenacia che attribuiscono ai pesaresi più che ai marchigiani? «Più che la tigna, la voglia di realizzare, magari anche sbagliando, qualcosa che credo mi appartenga». A Pesaro Mauri tornerà in gennaio, per il ri-allestimento del suo Re Lear: «Prima tornavo più spesso, quando era ancora viva mia mamma. Ora anche molti miei amici non ci sono più. Ma io affronto il tramonto con serenità poetica e malinconica ironia. Bisogna fare così: a 90 anni penso al futuro!». ¤
La storia
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Difese Pio IX ad Ancona ucciso insieme a Custer L'IRLANDESE KEOGH MORÌ IN BATTAGLIA A LITTLE BIG HORN
U
di Lucio Martino
La medaglia al valore concessagli dal Papa per lo scontro con i Savoia fu poi ritrovata sul petto del capo sioux Toro Seduto
na parte di storia che non smette di meravigliare riguarda la Legione straniera composta da migliaia di volontari cattolici giunti da tutta Europa a difendere, quasi fosse una sorta di crociata, i confini dello Stato della Chiesa invasi dalle truppe sabaude. Quella storia è stata approfondita offrendo spazi per nuove interpretazioni e soprattutto per arricchimenti del patrimonio storico con nuove documentazioni. Nella guerra lampo che ebbe luogo nelle verdi campagne umbro-marchigiane nel 1860, ebbe un ruolo di gran rilievo il battaglione di San Patrizio, formato da otto compagnie di giovani volontari cattolici irlandesi. Delle loro gesta e degli uomini che si distinsero nei combattimenti mi sono occupato nel libro “Gli Irlandesi contro i Savoia”, edizioni Eidon, reperibile nella libreria Gulliver di Ancona. Rispetto al precedente titolo da me pubblicato, nella stessa collana, sullo stesso argomento, “L’11 Settembre della Chiesa”, questo testo è bilingue (italiano e inglese) e si attiene ai fatti e ai personaggi in modo asciutto e rigoroso. Interessantissima è la storia del sottotenente Myles Walter Keogh che divenne, dopo i fatti marchigiani, aiutante, in America, del generale Custer e perse la vita al suo fianco, proprio nella battaglia di Little Big Horn contro gli indiani. La medaglia al valore “Pro Petri sede”, concessagli da Pio IX per aver difeso Ancona contro i Savoia, fu poi ritrovata sul petto del celebre capo Sioux Toro Seduto che aveva guidato i suoi uomini a Little Big Horn. Myles Keogh, quando era in servizio ad Ancona in una delle
quattro Compagnie irlandesi di San Patrizio, era accorso la sera del 17 settembre 1860, sulle alture di Camerano con i suoi uomini per andare incontro al generale Lamoricière diretto nella piazzaforte di Ancona per difenderla dall’arrivo dei piemontesi, guidati da Cialdini e Fanti. Si sa come andò a finire. Il 18 settembre 1860 Lamoricière fu sconfitto alle Crocette di Castelfidardo. Scortato da soli 40 cavalleggeri, riuscì a stento a lasciare il campo di battaglia dove morì il generale De Pimodan. Passando dal Conero e quindi da Pietralacroce riuscì a rifugiarsi nella dorica. Il sottotenentino Keogh, nella tragica notte della vigilia della battaglia di Castelfidardo, non potè intervenire in soccorso del generale, accerchiato dai piemontesi dislocati sulle alture comprese tra Castefidardo, Osimo e Recanati. In una lettera, inviata quella sera alla madre, Myles Keogh scrive testualmente. “Ho preso la comunione questa mattina e sono pronto alla battaglia. Ci siamo addestrati per questo evento….”. Il giorno dopo la disfatta di Castelfidardo Keogh rientrò immediatamente ad Ancona che venne assediata per dieci giorni da terra e dal mare e costretta a capitolare. Catturato, venne condotto con gli altri irlandesi nella prigione di Genova. Qualche mese dopo venne liberato grazie alla intercessione di Pio IX e di un editore irlandese. Molti di quei reduci tornarono a Roma, mentre altri si arruolarono nei ranghi dell’esercito dell’Unione durante la guerra civile americana. Keogh nel 1862, decorato da Pio IX con la medaglia papale, si imbarca a Liverpool con altri ex ufficiali del Batta-
La storia
Fu proprio Keogh a suggerire a Custer il celebre inno del 7° cavalleggeri tuttora eseguito dall’elitrasportato americano
Nella pagina precedente, la medaglia che Pio IX concesse per aver difeso lo Stato della Chiesa, ritrovata su Toro Seduto. Dall'alto, Keogh a fianco di Custer (giacca bianca) entrambi in piedi e l'ufficiale con la medaglia
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glione di San Patrizio (Coppinger, Keily, O’Keeffe) per recarsi a New York. Diventa capitano di cavalleria per i meriti riscossi durante la guerra con i sudisti. In seguito viene assegnato alla Compagnia I del celebre 7° Cavalleria. Fu proprio Keogh a suggerire al generale Custer, del quale era divenuto vice, il celebre inno del Settimo Cavalleggeri ancora oggi eseguito nello stesso reparto elitrasportato dell’esercito Usa. Si tratta di “Garry Owen” (Il giardino fiorito), brano gaelico del Settecento già inno di battaglia dell’87° Royal Irish Fusiliers. Keogh muore assieme all’amico Custer e ad altri 240 soldati nello scontro di Little Big Horn con i Sioux e i Cheyenne il 25 giugno 1876. Unico superstite del massacro il cavallo dell’ex ufficiale di Ancona, Comanche che venne curato e custodito a Fort Riley. Keogh e Custer vennero risparmiati per il loro eroismo dalla mutilazione dello scalpo e del cuore. Toro Seduto poi fece prelevare la medaglia papale (una croce capovolta a forma di gladio) che l’irlandese portava orgogliosa-
mente sul petto e la tenne per sè. Dopo la morte, quando il corpo del guerriero Sioux venne riesumato si venne a sapere della storia della medaglia conquistata da Keogh ad Ancona e inspiegabilmente finita sul petto di un capo indiano. Pochi sanno però che Toro Seduto indossava sempre un crocifisso al collo. Tutto nasce dal grande lavoro svolto da parte dei missionari gesuiti in difesa degli indiani dai colonialisti. Il più famoso tra questi sacerdoti fu il gesuita Pierre-Jean De Smet, grande amico di Toro Seduto e uno dei pochi bianchi che potevano liberamente recarsi nei territori Sioux. Le popolazioni native ammiravano molto le “vesti nere”, come chiamavano i missionari cattolici. De Smet incontrò per la prima volta Toro Seduto nel 1848. Sitting Bull aveva più di una moglie e questo fu un ostacolo alla sua accettazione della fede cattolica. Tuttavia intrattenne una profonda amicizia con padre De Smet. Fu quest’ultimo a fare da mediatore e convincere i Sioux, per la loro salvaguardia, a firmare il famoso trattato di pace di Fort Laramie con gli Stati Uniti. Tanto che il generale Stanley osservò: «solo padre De Smet, nell’intera razza bianca, poteva penetrare tra crudeli selvaggi e ritornare sano e salvo». Come segno di stima reciproca, padre De Smet regalò il suo crocifisso a Toro Seduto nel 1868 e il capo indiano non se lo tolse più. Con esso volle farsi raffigurare nel suo ritratto più famoso, quello del 1885. Sullo sfondo si intravede un teschio, a conferma che era il tipico crocifisso dei missionari gesuiti. ¤
Le donne protagoniste
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A piccoli grandi passi danzando nel mondo GIGLIOLA GORI BALLERINA E DOCENTE DALLE CENTO VITE
G di Maurizio Marinucci
igliola Gori sembra avere avuto cento vite. La quantità e qualità di esperienze che ha vissuto le racconta con la stessa leggerezza di quando ballava. E il dolore, e ogni genere di sentimento negativo, sono solo un sospiro, una leggera inflessione nella voce che ti possono lasciar credere che niente possa averla scalfita. Eppure, in quegli anni adolescenziali, vissuti a Roma lontano dalla famiglia, la mancanza di genitori e fratelli è stata più di una passeggera sospensione del racconto. La nascita di un’avversione per ogni forma di separazione. La necessità di sentire il
Gigliola Gori giovanissima durante un'esibizione di danza
calore di quegli affetti, e di quelli che avrebbe incontrato in futuro, è stata la causa che l’ha attratta, spinta da una volontà senza limiti, verso nuovi campi di indagine in cui non dovesse fare a meno delle persone che amava e che potevano coccolarla, come lei stessa dice. A cominciare dalla figura di una madre con la «mentalità del 2050», artista e regista, che rappresenta la stella polare che illumina il cammino di un esploratore in terre selvagge, e del padre che a malincuore la lascia andare all’Accademia di danza di Roma, comprendendo l’importanza di quella scelta per il futuro della figlia, consapevole di doverne accettare anche l’assenza dolorosa. Siamo alla fine degli anni ’50 e solo nel 1964 Letizia De Martino divenne il primo giudice donna in Italia, sfatando il pregiudizio che ricadeva, ancora a quei tempi, sul sesso debole per una presunta incapacità a ricoprire quello come altri ruoli fondanti la società civile. Gigliola vive a Roma, da sola, in quella Roma diventata famosa per la “dolce vita”. Ha solo 15 anni quando viene ammessa al terzo di otto anni del corso di danza diretto da Jia Ruskaia nell’Accademia più prestigiosa del paese, dove si diplomerà ripagando la fiducia dei suoi cari, ma sentendone anche tutta la responsabilità, che non le impedirà comunque di spiccare il volo. Viene da Pesaro e vive al
Le donne protagoniste
Adolescente a Roma vede sfilare dalla sua finestra Lollobrigida Loren, Magnani Rita Hayworth e la principessa Soraya
88 quarto piano di una pensione, dalla cui finestra vede sfilare le più grandi attrici dell’epoca, dalla Loren alla Lollobrigida, dalla Magnani a Rita Hayworth, fino alla principessa Soraya. Tutte attirate al piano terra di quello stabile in via XX settembre, dove teneva il suo atelier Emilio Schuberth, il sarto amato dalle donne famose dell’epoca, che per primo ha fatto diventare spettacolare la moda, mettendo in moto quella fiorente industria che oggi conosciamo. Una piccola parentesi nel 1959, in cui Gigliola partecipa alla finale di “Miss Italia” che si tiene ad Ischia, dove si piazza tra le prime undici, mentre gli onori della cronaca vanno a Marisa Jossa, famosa anche per essere madre di un’altra miss Italia, poi conduttrice televisiva, Roberta Capua. «Eravamo ingenue – racconta Gigliola – ci arrangiavamo
da sole con il trucco e le acconciature e ci divertivamo senza dare troppa importanza a quel genere di cose». Con il «Passo d’addio», come viene chiamata l’uscita dall’Accademia di danza con il diploma, il ritorno a Pesaro, con la consapevolezza che quel diploma costituisce un vero tesoretto perché è
l’unico ad abilitare all’insegnamento. Ma non basta: nel 1963 dalla mente di Carlo Bo e di Paolo Crepax nasce ad Urbino l’Isef, l’Istituto superiore di educazione fisica, cui Gigliola si iscriverà insieme a molti altri in quel primo anno di corso, così particolare perché la maggior parte dei corsisti insegnava già da anni e aveva bisogno di regolarizzare la propria posizione nonostante avessero qualche anno in più di un normale studente del primo anno di università. Anche se sono passati diciotto anni dalla fine dal conflitto mondiale, questa è ancora l’Italia del dopoguerra, non ancora entrata nel boom economico. E per Gigliola arriva il matrimonio, il figlio e nel ‘67 il diploma Isef, l’insegnamento a Pesaro e le supplenze di storia dello sport a Urbino per sostituire il professore Ettore Carneroli, che ne vede le capacità e la recluta immediatamente. Ma già una nuova sfida si focalizza nel suo orizzonte visivo: con la nascita della prime radio libere, su “Stereo 103” diventa la prima voce nell’etere pesarese. È zia Gil per i bambini del pomeriggio e la voce ufficiale del contenitore domenicale che tiene compagnia ai pesaresi negli anni ’70. Poi si scopre pubblicitaria e produce spot per gli imprenditori che incominciano a sperimentare questa nuova forma di promozione. «Non mi sono mai divertita così tanto come in quegli anni», rivela quasi con un po’ di imbarazzo. Lascia l’insegnamento a Pesaro, ma diventa stabile l’impegno ad Urbino con la cattedra di Storia dello Sport, anche se solo nel 1999, con la trasformazione in Scienze motorie dell’Isef, potrà accedere al concorso per diventare professore associato. Ma nel frattempo si iscrive a sociologia e si laurea con un dotto-
Le donne protagoniste
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Nel 1959 partecipa a Miss Italia piazzandosi tra le prime Diventa accademica con pubblicazione di saggi rato di ricerca in Germania, sempre con lo standard della lode a completare il livello della sua preparazione. Quando finisce il “gioco” delle radio passa alla carriera accademica di Storia dello sport, impegnandosi nella infinita pubblicazione di saggi storici in tedesco e in inglese per una carriera che poteva essere solo internazionale, dato che in Italia non veniva riconosciuta in ambito accademico e solo da poco ha assunto la dignità che spetta a questa disciplina. Si è occupata di sport nel fascismo e nell’antichità, dell’emancipazione femminile nello sport del primo Novecento, delle gloriose ostacoliste italiane delle olimpiadi del 1936 di Berlino con l’oro di Ondina Valle. Ma sarebbe impossibile riprodurre qui tutta la sua vasta produzione che ne hanno legittimato lo straordinario prestigio che ha ricevuto nel corso della sua ricerca. Dimenticavo, se c’è un progetto Erasmus a Urbino, lo si deve anche a lei che lo ha fatto nascere, facendo tesoro di quel raro internazionalismo che la contraddistingue. Impossibile enumerare e citare le associazioni italiane e internazionali di cui è stata fondatrice e in cui ha ricoperto
ruoli importanti come, per un piccolo assaggio, la vicepresidenza dell’International Society for the history of physical education and sport (ISHPES) e fellow member dell’European commettee of sport history (CESH). Oggi è nei consigli di amministrazione di associazioni culturali, tra i quali il Gad, è vicepresidente dell’Ente concerti di Pesaro, membro del Circolo di lettura, sta scrivendo una biografia sulla ballerina pesarese dell’Ottocento Antonietta Pallerini. Di recente ha collaborato con il prof. Riccardo Rossini, dirigente del Liceo Scientifico Marconi, per l’istituzione del Liceo Coreutico, nuova conquista per la città. A volte, quando ci incontriamo al Liceo per le lezioni di cultura dello sport, mi confida che con questi ragazzi così giovani non ha più l’energia di un tempo. E per fortuna, penso io, altrimenti starebbe su un fumetto della Marvel insieme a Spiderman e Batman a donare grazia all’umanità danzando sul mondo con la stessa leggerezza con cui spiccava il volo dal palcoscenico dell’Accademia romana e con cui oggi si racconta sottovoce, con quella vergogna divina di chi non ama parlare di sé. ¤
Gigliola Gori in alcuni passi di danza che l'hanno resa famosa Ora sta scrivendo una biografia su una ballerina pesarese dell'Ottocento
Il fascino del dialetto
I di DanteTrebbi
Prima in bottega poi in convento Finì in carcere e ricoverato ormai cieco tra i pazzi dove si scoprì poeta
l 18 settembre di quest’anno ricorreva l’88° anno della morte del poeta dialettale pesarese Odoardo Giansanti, detto Pasqualon, classificato dai critici del tempo, “ il primo poeta dialettale delle Marche”. Scrive di lui Edgardo Cinotti nella sua prefazione dell’ “Opera Omnia” del poeta, edita nel 1934 : “… se il Giansanti avesse avuto la possibilità di coltivare il suo forte ingegno come gli altri poeti dialettali suoi contemporanei; se la natura gli fosse stata meno matrigna e gli avesse conservato il senso visivo, egli non avrebbe nulla da invidiare ai suoi colleghi in arte e il suo nome sarebbe festeggiato e ricordato con entusiasmo, non solo dalla nostra, ma da tutte le regioni d’Italia”. Odoardo Giansanti nasceva a Pesaro il 18 settembre 1852 in una casetta a schiera situata in Via del Moro e, abbattuta negli anni ’20, per fare posto all’attuale palazzo della Provincia. Suo padre
Francesco, nativo del comune di Zagarolo (antico castello romano della potente famiglia dei Colonna), era una guardia carceraria militare di stanza nella Rocca Costanza. La madre, Anna Maria Berardi, era nata a Cartoceto di Fano; venuta a Pesaro dopo il matrimonio, esercitava a casa il commercio di conchiglierie e di stoffe “con giusto braccio”. Inoltre, “In modo anche molto riservato”, sotto la guida del dottor Guarino Morosini, curava alcune semplici malattie con erbe e con unguenti. I proventi della famiglia avevano permesso a Odoardo di apprendere le prime nozioni grammaticali da una “certa” signora Teodora e poi, di frequentare la scuola privata del Maestro Terenzio Pompei, un uomo estremamente severo che non esitava ad alzare le mani sul piccolo alunno se sorpreso a non aver studiato la lezione del giorno. A sette anni Odoardo già sapeva leggere e scrivere e la
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Nasce in un manicomio la poesia di Pasqualon ODOARDO GIANSANTI, CANTASTORIE CIABATTINO ARGUTO E FOLLE
sua predisposizione alla lingua latina gli garantiva una futura e luminosa carriera ecclesiastica. La morte della madre, però, spezzò questo sogno e , appena decenne, fu costretto ad abbandonare gli studi. Dopo pochi mesi di vedovanza, il padre si risposò con Anna Pergolini, ma il giovane non entrò nelle simpatie della matrigna. “ Una brutta sera trovò l’alloggio vuoto, la chiave sotto l’uscio” e un biglietto nel quale era scritto che padre e matrigna avevano deciso di trasferirsi a Roma senza di lui. Come d’uso in quei tempi, gli orfani, compiuti i dieci anni, venivano impiegati come garzoni nelle botteghe artigiane allo scopo di imparare un lavoro. Odoardo si trovò nella bottega di un calzolaio; esercitò questo mestiere fino all’età di venti anni allorché decise di trasferirsi a Roma. Voleva riabbracciare la famiglia ma, ancora una volta, ne fu respinto. Nella città eterna riprese
il mestiere di calzolaio, ma lo scarso guadagno che ne ricavava, lo costrinse ad abbandonarlo per intraprendere quello di muratore. Dopo sole due settimane, il sole cocente, la polvere della calce e i vapori che essa emanava quando era bagnata, intaccarono il suo fisico già provato largamente dagli stenti, costringendolo ad un immediato ricovero presso l’Ospedale di Santo Spirito. Dimesso dalla struttura, debole e senza alcun sostegno finanziario pensò di trovare pace e serenità rifugiandosi in un convento. Ben presto, però, si accorse che la vita monastica non gli si addiceva: le rigide regole conventuali erano difficili a seguire e da qualche tempo la sua vista si era molto affievolita. Dopo una accurata visita, il “ celebre” professor Businelli lo sottopose ad una operazione agli occhi presso la clinica romana di San Giacomo, ma il risultato non ebbe l’esito sperato. Lasciato l’abito monacale, Odoardo si
ridusse a vivere di piccoli espedienti. Finito in carcere per vagabondaggio, nel marzo 1878, venne rispedito a Pesaro con un foglio di via dalla Questura romana. Tornato in città, riprese il mestiere di ciabattino nella bottega della casa in cui era nato Gioachino Rossini ma, la sua vista sempre più debole e dopo alcuni errori di cucitura sulla tomaia delle scarpe da riparare, fu costretto a chiudere. Si trasferì a Santa Marina, una piccola frazione del Monte S. Bartolo dove, per sbarcare il lunario, prestò lavori saltuari presso i contadini della zona. Venuto a conoscenza della presenza a Bologna di un valente professore di oculistica, decise di interpellarlo. “Il viaggio - scrive Cinotti nella prefazione citata- nei rigori dell’inverno tra le nevi e i disagi più crudi, fu terribilmente angoscioso. Nessuno voleva ricoverarlo ritenendolo un malvivente. Stremato di forze, sostò
Il fascino del dialetto
Giansanti generalmente era vestito di nero con tuba e stiffelius in atteggiamenti parodistici e caricaturali
92 in un casolare, non potendo più proseguire ma, neppure qui, lo vollero accogliere. Finché sfinito si adagiò contro il muricciolo di un pozzo dichiarando che sarebbe morto piuttosto che riprendere il cammino”. I proprietari del pozzo, “riconosciutolo per un onest’uomo”, lo accolsero in casa dove poté intrattenersi per una settimana, pagando la pigione rammentando loro le scarpe. Ripreso il cammino, giunse a Bologna e fu ricoverato nell’ospedale di Sant ‘Orsola e subito visitato dal prof. Gotti . Le terapie a cui fu sottoposto, non portarono a nessun risultato per cui, dopo un mese di ricovero, fu costretto a ritornare a Pesaro. La sua vista, ormai era quasi spenta e la impossibilità di continuare il lavoro di ciabattino, gli produsse una forte depressione che lo portò, a soli 26 anni, alla soglia della pazzia e al ricovero in manicomio. In questa struttura incontrò un poeta romagnolo e, frequentandolo, si accorse di avere anche lui la vena poetica. Scrive egli stesso nella prefazione del volume delle sue “Pasquelonejdi“, edito nel 1912 “…. non sapevo dove stesse neppure di casa la poesia, ma godevo moltissimo nel sentire un poeta romagnolo, certo Giustiniano Villa, che tutt’ora, come me, va dicendo in pubblico le sue canzoni. Ed anzi, ne avevo imparato diverse che, a memoria, andavo ripetendo per le osterie. Ma quando fui per la prima volta al manicomio, un demente narrava un giorno una graziosa favola di un tal contadino, detto Pasqualone. Io me ne innamorai, e mi sentii fortemente tentato di porre in versi qualche cosa di simile. Vi riuscii col “Dialogo di Pasqualone e il suo padrone”, che dettai ad un certo Leonelli di Sangiorgio sopra Fano, demente tranquillo. Da quel momento anch’io fui po-
eta: e il popolino volle ribattezzarmi col soprannome di “Pasqualon” . Durante una passeggiata al porto in compagnia di altri dementi condotti da un infermiere, Odoardo cadde inavvertitamente nel canale e si fratturò una gamba rimanendo zoppo. La “follia alternante” di cui soffriva, cioè un susseguirsi di malinconie ad allegrezze, gli permetteva la libera uscita dalla struttura psichiatrica e di declamare, al suono della sua fisarmonica, le poesie nelle piazze e nelle osterie cittadine. Per esibirsi in pubblico, il 18 gennaio 1886 aveva ottenuto una licenza di suonatore ambulante di organetto ma, molto spesso, le sue suonate erano accompagnate da canzonette alcune delle quali “contenevano allusione di scherno contro determinate persone cittadine” per cui le guardie di Pubblica Sicurezza gli imposero di suonare soltanto lo strumento e di non cantare in pubblico. Non rispettando l’imposizione, venne chiamato in Pretura il 28 giugno 1886, con l’accusa di “aver, nonostante la reiterata inibizione, il Giansanti, il giorno 7 giugno corrente sulla pubblica Piazza Maggiore di Pesaro declamasse o cantasse alcune canzoni attirando attorno a sé una considerevole moltitudine e perciò gli venisse contestata la contravvenzione e, altrettante ben tre volte avvenisse il giorno 16 giugno andante in tre diverse piazze pubbliche di questa città”. Nonostante la testimonianza di Mario Paterni, un valente e stimato politico cittadino che giurò di averlo sentito declamare solo versi e non canzoni, Il Giansanti veniva condannato “alla pena di quattro giorni di arresto e alle spese del procedimento”. Nella causa di appello, discussa il 27 luglio, il suo avvocato difensore, Alessandro Cardinali, riuscì a
Il fascino del dialetto
dimostrare che nella licenza di mestiere di suonatore era compreso anche quello di cantastorie perché, in caso contrario, quest’ ultimo sarebbe stato indicato specificatamente come avveniva per quelle di saltimbanco, di ciarlatano o di altro. Assolto con formula piena, il Giansanti continuò a recitare e cantare le sue poesie Non potendo scriverle personalmente in quanto cieco, si affidò ai tipografi pesaresi Benedetto e Alfredo Mauri che si offrirono di impaginarle e di correggerle e la tipografia Terenzi di stamparle periodicamente in cambio di poche lire “che venivano ulteriormente ridotte per l’infedeltà del suo accompagnatore”. Quando quest’ultimo venne sostituito con un altro, monco di una mano, Pasqualon ridendo disse che “ mancandogli una mano non può graffiare che a metà”. Si racconta che, ogni anno, in occasione della festa della Epifania, seguendo gli usi degli antichi cantori erranti, il poeta si soffermava, attorniato da un “codazzo di sfaccendati e di ragazzi” davanti ai principali negozi della città e, preceduto da alcune note della sua fisarmonica “improvvisava facilonerie alternate a motti arguti, ironie e gentilezze rimate con i nomi dei singoli esercenti” che lo ricompensavano con doni generosi. Generalmente era vestito di nero con tuba e stiffelius (lunga giacca), “in atteggiamenti parodistici e caricaturali. seguito dall’ accompagnatore anch’esso travestito”. Nell’immagine impressa nella copertina dell’ “Opera Omnia” del 1934, si nota, accovacciato ai piedi del poeta, un piccolo cane che molti, ancora oggi, credono a lui appartenuto ma che era, invece, soltanto un bastardino che stazionava randagio sulla piazza. A volte, in particolari occasioni, quando
93 il significato delle sue poesie rivestiva un carattere più aggressivo aveva “ in capo un cilindro istoriato dalla leggenda indicante il titolo della canzone” e sulle spalle un trombone; non l’arma micidiale prediletta dai vecchi briganti ma un emblema innocuo tutto di legno argentato nelle parti che dovevano figurare metalliche”. Non vi era apertura di osteria che Pasqualon non venisse invitato a recitare qualche verso ma, se il vino non lo appagava, non disdegnava di rimproverare l’oste pubblicamente di fronte ai numerosi avventori. Nel 1905 la sua composizione “ L’acqua e il Vino” venne premiata con una medaglia d’oro al concorso di poesia a Macerata e nell’occasione ottenne anche il diploma di benemerenza per aver “suscitato la più schietta ilarità dei presenti che lo applaudirono calorosamente”. Con il passare del tempo i suoi mali si aggravarono ma, ad affievolire i suoi dolori, fu una donna che decise di divenire la sua sposa. Si chiamava Michelina Capanna, una filandaia che aveva trascorso molti anni nelle filande pesaresi. A dimostrare quanta popolarità godesse il poeta presso i suoi concittadini fu la solennità delle sue nozze religiose celebrate in chiesa dallo stesso Vescovo di Pesaro, Mons. Paolo Tei, il 26 luglio 1909 e quelle civili in Comune alla presenza del commissario regio Giovanni Muffoni. I novelli sposi affittarono una piccola casa che, ben presto, furono costretti ad abbandonare, non avendo la possibilità di pagare la pigione. Decisero così di rivolgersi all’Ospizio dei vecchi dove trovava posto la maggior parte di coloro che non poteva contare sulla propria famiglia. “Qui la singolare coppia, relegata in opposte corsie divenne un numero!”.
La sua vena artistica inesauribile lo rese popolare in tutte le Marche Lo lodò anche D’Annunzio
In alto a sinistra, un'immagine storica di Edoardo Giansanti Qui sopra un particolare della statua collocata a Pesaro e sotto il poeta vernacolare Carlo Pagnini insieme a Elio Giuliani che conserva il bastone originale del Pasqualon
Il fascino del dialetto
La follia alternante di cui soffriva gli permetteva di declamare nelle piazze e nelle osterie con la sua fisarmonica
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Non molto tempo dopo, però, la donna fu ricoverata in Manicomio lasciando il poeta nuovamente solo. Molte sono le poesie che il poeta ha declamato negli anni della sua vita. Molte sono raccolte e stampate in quattro edizioni, altre nel periodico “Diario” del Manicomio Provinciale, altre sono in mano di privati ed alcune anche presso la Biblioteca Diocesana di Pesaro. La sua vena artistica lo rese popolare in tutte le Marche. Lo stesso Gabriele D’Annunzio, dopo avere lette alcune poesie, scrisse di lui “ … Pasqualon, il poeta che con tanta grazia sparge con la sua saggezza il sale della sua malizia”. La vena artistica del poeta era inesauribile e, ben presto, alle prime due raccolte di poesie stampate nel 1887 e nel 1912 (con aggiornamenti), si rese necessario stamparne una terza. Per reperire i fondi necessari alla pubblicazione, fu costituito a Pesaro un apposito comitato che, il 25 maggio 1924 organizzò presso il teatro Rossini un convegno sulla poesia dialettale marchigiana. Alla manifestazione furono chiamati i più illustri poeti dialettali delle Marche. In questa occasione Odoardo Giansanti ottenne “plauso e affetto”: lui stesso ne fu profondamente commosso e “asciugando le lacrime che scendevano per la commozione dai suoi occhi spenti, si presentò acclamatissimo a ringraziare, con versi improvvisati” il pubblico presente e i promotori della iniziativa. Il 22 ottobre 1928, “al suo 76° anno, Odoardo Giansanti dettò e firmò, alla presenza
di due sacerdoti, il suo testamento e compose una poesia, “Le ultime volontà del Poeta”, con la quale chiede, a coloro che l’hanno conosciuto, una preghiera di ricordo cristiano , che fu pubblicata il giorno della sua morte. Quattro anni dopo, il 23 settembre 1932 lasciava questo mondo terreno. Nel darne notizia, il settimanale fascista pesarese “L’Ora” scrisse fra l’altro: “il Giansanti aveva una visione della vita di natura spiccatamente popolare, ma schietta, originale ed acuta, ricca di osservazioni colte sul vero. C’è insomma quella filosofia per cui spesso il popolo vede più lontano e profondo dei libri e dei professori”. A ricordo, sopra il letto del camerone dell’Ospizio, divenuto da tempo il suo giaciglio abituale, venne murata sulla parete una piccola targa di marmo con il suo nome. Targa andata perduta negli anni ’80 a causa dell’abbattimento dell’intera edificio. A ricordare perennemente la memoria, il 25 dicembre 1933, la tipografia pesarese Nobili si propose di pubblicare una raccolta completa delle sue poesie edite ed inedite che venne proposta al pubblico l’anno successivo con il titolo “ Pasqualon, Opera Omnia”. Dopo la morte del poeta i suoi oggetti personalipassarono per più mani finché nel 1951 furono ceduti al Comune di Pesaro ed oggi si possono ammirare all’interno del Teatro Odoardo Giansanti di Via Rossini. Di questi oggetti manca solo il bastone che è conservato dal collezionista d'arte pesarese Elio Giuliani. ¤
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L’inchiesta, temi caldi a confronto a Osimo NONO ANNO DEL FESTIVAL, ORA DEDICATO A ROSSETTI
S di Claudio Sargenti
econdo la definizione che ne dà la Treccani il Festival “…è una manifestazione artistica che si tiene periodicamente per lo più sempre nella stessa località.“ E il Festival del Giornalismo d’Inchiesta che si tiene nelle Marche certamente non fa eccezione. Si svolge ormai da nove anni ed è probabilmente il momento d’incontro più alto delle inchieste giornalistiche che hanno caratterizzato la vita politica, sociale, la cronaca del nostro Paese. Quando si parla di inchieste giornalistiche di solito si fa riferimento a quella forse più famosa, ovvero al Watergate, a quella serie di articoli che portarono poi alle dimissioni il Presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon. Pochi forse
sanno che sono decine i giornalisti in Italia costretti a vivere sotto scorta, dopo essere stati insultati e minacciati, per aver avuto il coraggio di scrivere sul malaffare o magari sull’intreccio perverso tra politica e criminalità organizzata e numerosi sono stati coloro che ci hanno rimesso la vita proprio perché “…non hanno voluto girare la testa dall’altra parte”, come si dice in questi casi, da Mauro De Mauro, a Giancarlo Siani a Ilaria Alpi, solo per citarne alcuni. Ad Osimo, ma non solo, grazie ad una felice intuizione di Gianni Rossetti, storico giornalista marchigiano, grande appassionato della professione, maestro di vita e insegnante per tanti giovani colleghi, grazie appunto ad una sua
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Ospiti della rassegna giornalisti sotto scorta che hanno avuto il coraggio scrivere sul malaffare e sull’intreccio politica-criminalità
Nella pagina precedente un momento del Festival del giornalismo di inchiesta dedicato a Gianni Rossetti Qui sopra, i due giornalisti minacciati Paolo Borrometi e Fabiana Pacella
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felice intuizione, nasceva nove anni fa il Festival del Giornalismo d’Inchiesta delle Marche. Osimo come base di partenza per poi per finire per coinvolgere Ancona, Castelfidardo, Filottrano e in un prossimo futuro Jesi, Loreto e altri centri della regione. In questi anni le Marche, grazie proprio agli incontri organizzati nell’ambito dell’iniziativa, hanno ospitato personaggi che certamente hanno fatto la cronaca, ma forse anche la storia del nostro Paese. Durante le varie serate si sono alternati giornalisti del calibro di Ferruccio De Bortoli, Eleonora Daniele, Gian Luigi Nuzi, Paolo Brosio, Federica Angeli, Emiliano Fittipaldi e Mario Giordano; gli inviati dai fronti di guerra Lucia Goracci e Domenico Quirico, rapito e poi rilasciato dopo una lunga prigionia, durante i suoi reportage sulla guerra in Siria, Marco Lillo e Lirio Abbate. E poi personaggi come Antonio Ricci, gli inviati de Le Jene e Vittorio Brunotti, magistrati del calibro di Giancarlo Caselli, il Capitano Ultimo, che riuscì ad arrestare il capo dei capi della mafia, Totò Riina. Nelle conversazioni, nelle interviste con il pubblico, si sono affrontati temi scottanti come il rapimento di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, gli scandali in Vaticano; gli episodi di criminalità a Roma, meglio conosciuti come “mafia Capitale”. Ma si è parlato anche del mistero di Mediugorje e si sono rivissuti i fasti della popolare trasmissione radiofonica “Tutto il Calcio minuto per minuto” con alcuni dei protagonisti di quelle fortunate stagioni. Un Festival dunque come luogo per incontrarsi, conoscere
e approfondire fatti e persone che in qualche modo hanno segnato la vita recente del Paese. Un palcoscenico privilegiato anche per formare molti giovani colleghi che provano ad avvicinarsi a quella che resta forse tra le professioni più belle, certamente tra le più rischiose e le più pericolose. Neanche la scomparsa, improvvisa, del suo ideatore, Gianni Rossetti appunto, né l’esplosione della pandemia da coronavirus hanno bloccato l’edizione di quest’anno del Festival. Chi scrive queste note è stato scelto come nuovo Direttore Artistico. E si è quindi deciso comunque di andare avanti, intanto per ricordare degnamente il suo fondatore e poi per non spegnare un momento di formazione e confronto importante non solo per i giornalisti, ma per lo stesso tessuto economico della regione fatto, come è noto, di piccole e piccolissime aziende le più esposte, specie nei momenti di crisi, alle mire della grande criminalità. E così si è dato vita, in maniera emergenziale ma con uguale impegno e passione, a due serate evento che hanno ottenuto non solo il gradimento del grande pubblico, purtroppo contingentato per il perdurare dell’emergenza sanitaria, ma delle massime autorità civili, militari, religiose e della professione. Due serate evento senza dimenticare l’emergenza covid alla quale dedicheremo se non tutto gran parte dell’edizione del prossimo anno. Come è pure intenzione del nuovo Direttore allargare l’orizzonte del Festival coinvolgendo Scuole, Istituti Superiori e anche Università. ¤
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La libertà di pensiero finisce sotto scorta MINACCE, INTIMIDAZIONI A GIORNALISTI SCOMODI
di Claudio Sargenti
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iovanni Falcone diceva “…l’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare. Ecco il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza”: E il Festival del Giornalismo d’Inchiesta ha ospitato nella prima delle due serate evento dell’edizione di quest’anno, un uomo, un giornalista coraggioso. In una intercettazione telefonica di un boss della mafia ragusana gli inquirenti hanno potuto ascoltare queste parole: “…ti scippu a testa. Ci vediamo anche negli Uffici di Polizia, tanto la testa te la scippu u stessu; d’ora in avanti sarò il tuo peggiore incubo”. Un capo bastone contro Paolo Borrometi, giornalista sici-
liano di 37 anni, vice direttore dell’Agi, l’Agenzia giornalistica Italia, condannato a morte dalla criminalità organizzata. Per questo motivo trasferitosi a Roma, vive sotto scorta. Dopo una lunga serie di minacce, intimidazioni il 16 aprile di sei anni fa viene aggredito da un gruppo di incappucciati, una aggressione che gli provoca una grave menomazione alla spalla. E poi la scoperta di un piano per eliminarlo definitivamente. E’ il giornalista più scortato d’Italia, cinque carabinieri vigilano su di lui, più una “gazzella” dell’Arma Territoriale che non perde mai di vista il convoglio. Vivere sotto scorta è perdere la propria libertà di movimento per proteggere la libertà di pensiero; una vita
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Come agisce un infiltrato nelle bande
Emblematiche le storie raccontate da Pacella e da Borrometi su cui vigilano ogni giorno cinque carabinieri
sotto scorta per svolgere semplicemente il proprio mestiere con senso del dovere. Un giornalista scomodo Paolo, un giornalista che non si è accontentato, appunto, della verità di facciata, ma che ha voluto capire, raccontare, scrivere anche cose scomode. E così ha parlato degli intrecci tra politica e malaffare che hanno portato, ad esempio, al commissariamento del Comune di Scicli, lo splendido scenario dove si svolgono gli episodi del ”Commissario Montalbano”; ma anche i lucrosi affari che si celavano dietro i pomodori Pachino, raccogliendo una disperata richiesta di aiuto di una bambina conosciuta in uno dei suoi tanti incontri avuti nelle scuole con gli studenti; gli affari del clan dei Casalesi o dei traffici di droga che hanno per cuore il porto di Gioia Tauro. Con lui, nella stessa serata, Fabiana Pacella, anche lei giovane giornalista, free lance, pugliese. Fabiana è coraggiosa e tenace; ha subito minacce, intimidazioni, querele, richieste di risarcimento danni. Ma niente le ha impedito di portare avanti indagini e reportage sul panorama politico, imprenditoriale e criminale pugliese. In particolare, reca la sua firma un’inchiesta giornalistica sui perversi intrecci tra finanza, politica e criminalità che vedono al centro un piccolo istituto di credito salentino. “Far capire il difficile mestiere del giornalista d’inchiesta – dirà Fabiana – non è mai semplice, soprattutto quando ci si imbatte contro la mafia e la criminalità organizzata.” E, aggiungiamo noi, se non si ha la solidarietà delle Istituzioni e dell’opinione pubblica. ¤
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Osimo abbiamo assistito in anteprima nazionale ad un’intervista in esclusiva ad un “vero” agente della Polizia di Stato che agisce sottocopertura all’interno di bande di narcotrafficanti. Grazie all’iniziativa, alla bravura e all’intraprendenza di Giovanni Pasimeni e Alessandro D’Alessandro, giornalista il primo e regista il secondo della RAI, sono stati trasmessi ampi stralci di un’intervista esclusiva di “Watchdog- l’infiltrato”, con un agente (reso evidentemente non riconoscibile) impegnato in questa difficile e rischiosissima esperienza di indagine. All’incontro ha preso parte anche il dirigente dello SCO, il Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, Fausto Lamparelli (da lui dipendono gli uomini occupati in simili operazioni) che ha poi raccontato come si prepara un infiltrato, i rapporti con la magistratura inquirente, quali sono le nuove sfide rappresentate, ad esempio, dalle mafie nigeriane e cinesi e l’impegno della Polizia di Stato, a tutti i i livelli, nell’educazione alla legalità. E l’educazione alla legalità è proprio uno degli impegni e degli obiettivi del Festival del Giornalismo d’Inchiesta delle Marche. Assieme a quello di preparare i giovani colleghi. Solo se si è preparati si è in grado di tenere testa all’arroganza, alle minacce, alle intimidazioni di chi vorrebbe che in certe circostanze “.. girassimo la testa dall’altra parte”. Appunto. c.s.
Il personaggio
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Le carte di Fuà, maestro della “scuola di Ancona” UN IMPORTANTE ARCHIVIO, CARTEGGI DI OLTRE UN SECOLO
D di Rosangela Guerra
i Giorgio Fuà è stato uno degli anconetani più illustri del secolo scorso, un economista che ha raggiunto i più alti livelli della comunità scientifica e che ha dato un contributo fondamentale alla comprensione del contesto economico e sociale marchigiano. Lo sviluppo studiato dalla “scuola di Ancona”, di cui Fuà è considerato “maestro”, ha caratterizzato una stagione ancora positiva per l’economia italiana, di grande crescita di imprenditorialità, che, per Fuà, resta un modello anche per il futuro e che non a caso ha ca-ratterizzato l’impegno prioritario di tutta la sua vita di docente: aiutare
“formazione” di futuri imprenditori resta ancor oggi il modello giusto per il necessario successo del meglio dell’industria italiana. Una della qualità irrinunciabili di un imprenditore, secondo Giorgio Fuà, è quella di avere il compito di dare un senso al lavoro degli uomini e non la semplice “scommessa del profitto”. Fondamentale è stato basare l’impresa sulla tradizione rurale e i suoi valori: il risparmio, l’attenzione agli sprechi, la fiducia, il rispetto verso le altre persone. Questi valori applicati all’impresa hanno prodotto grandi risultati, dando vita a un clima di lavoro in cui le persone non si sentono obbligate a lavorare, ma sono spinte a realizzare progetti. Dal 1941 inizia a lavorare per Olivetti
Elena Segre Fuà con Corrado e Giorgio nel maggio del 1921
a formare e a far crescere un capitale umano in grado di prevedere e impegnarsi per realizzare al meglio la propria futura attività lavorativa. Da questo punto di vista, l’ideale sintesi di sapere e di fa-re che Fuà attribuiva alla
Giorgio Fuà nasce ad Ancona il 19 maggio 1919, in una famiglia ebraica di Ancona, di estrazione borghese, frequenta le scuole nel capoluogo per proseguire alla Scuola Normale di Pisa. Il nonno Geremia Fuà, svolge la professione di medico, che viene seguita anche dal padre, Riccardo Fuà, che studia a Bologna per proseguire poi a Vienna e a Berlino, dove esercita. Riesce a conseguire la laurea all’Università di Pisa in scienze politiche, ma non a concludere gli studi, costretto a lasciare a causa delle leggi razziali, perché ebreo. Fugge in svizzera dove, nel 1940, consegue il Doctorat en Droit - Mention en eco-nomie e politiche all’Università di Losanna. Dal 1941 inizia a lavorare per Adriano Olivetti
Il personaggio
Per l’economista un imprenditore deve dare un senso al lavoro degli uomini e non limitarsi alla semplice scommessa del profitto
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e nel 1943 si sposa con Erika Rosenthal. La coppia attraversa le fasi cruciali del Novecento, dalle leggi razziali, al campo di concentramento, fino agli anni della collaborazione con Adriano Olivetti a Ivrea. Qui Erika assunta nella segreteria della Editrice Nuove Edizioni, conosce il futuro marito, teorico del ‘modello marchigiano di sviluppo’ e collaboratore anche di Enrico Mattei all’Eni. Una vita “piena e felice”, scriverà Fuà, che Erika Rosenthal ha ripercorso in un libro di memoria, “Fuga a due”, pubblicato dal Mulino. Nel 1955 entra all’Eni da consigliere di Mattei Erika nasce a Vienna nel 1919 da genitori ebrei, vive a Teheran e a Milano, dove si laurea in lingue straniere. Alla Olivetti l’incontro con Fuà, con il quale si sposerà nel 1945, matrimonio celebrato dal rabbino Elio Toaff. L’armistizio sorprende la coppia ad Ancona. Per un breve periodo, dal 1947 al 1950, Fuà ritorna all’università di Pisa come professore, poi viene chiamato a Ginevra come consulente della Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite. Dal 1955
entra all’Eni come consigliere economico di Enrico Mattei. Da Adriano Olivetti Fuà apprende che ciò che conta è costruire una comunità; con Mattei sperimenta l’importanza dell’avere una squadra. Decisivo il suo impegno per la costituzione di una facoltà di economia nella sua città natale. Anche grazie ai suoi contatti con Carlo Bo, allora rettore dell’Università di Urbino, e con il giurista Franco Pastori, che, nel medesimo ateneo sarà il primo preside, nel 1959 riesce ad aprire la facoltà come sede di-staccata di Urbino. Dopo alcuni anni, nel 1969 viene unita alla facoltà di ingegneria cre-ando la “Libera Università di Ancona”. Dalla sua istituzione fino al 1997 insegna in questa facoltà, coinvolgendo molti altri esperti italiani. Il 26 gennaio 2002 l’università dedica la facoltà di economia e commercio a Giorgio Fuà. Nel 1967 fonda, sempre ad Ancona, l’Istao (Istituto Adriano Olivetti di studi per la gestione dell’economia e delle aziende) con l’obiettivo di creare una scuola di alta specializzazione post-laurea, che ora ha sede a Villa Favorita, sempre ad Ancona. Dal 1983 al 1986 è presidente della Società italiana degli economisti, e dal 1986 è socio dell’Accademia dei Lincei. Nel 1988 fonda l’Associazione italiana per la collaborazione tra gli economisti di lingua neolatina, di cui è presidente fino al 1994. Riceve la laurea honoris causa dall’Università di Camerino nel 1993, e dall’Università autonoma di Madrid nel 2000. Fuà si spegne ad Ancona il 13 settembre 2000 all’età di 81 anni. La fondazione Giorgio Fuà, che conserva l’archivio/ biblioteca privato omonimo, si costituisce il 23 ottobre 2010, ed è situata presso l’o-
Il personaggio
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monima facoltà di economia dell’Università Politecnica delle Marche in piazza Martelli ad Ancona. L’archivio comprende documentazione che va dal 1890 circa al 2000, per un totale di 60 metri lineari circa. E’ stato consegnato all’allora Soprintendenza archivistica e bibliografica dell’Umbria e delle Marche, una sorta di elenco di consistenza dell’archivio, redatto dal prof. Roberto Giulianelli, autore dell’opera “L’economista utile: vita di Giorgio Fuà”, presentata lo scorso 20 novembre 2020 presso la facoltà di Economia “Giorgio Fuà” dell’Università Politecnica delle Marche
L’archivio sarà oggetto di un intervento di digitalizzazione per realizzare una mostra sulla figura di Fuà
Conservato un vasto carteggio dell’economista Da questo si evince che una parte consistente della documentazione riguarda la corrispondenza intrattenuta da Giorgio Fuà, Erika Rosenthal, e i genitori di Giorgio Elena Segre, la madre e Riccardo Fuà, fra il 1940 circa e gli anni settanta, oltre a documenti dell’Associazione Donne Ebree Italia (Adei), della cui sezione di Ancona Elena Segre fu per molti anni presidente a partire dalla fine della seconda guerra mondiale; è presente, inoltre, un carteggio relativo alla carriera universitaria di Giorgio Fuà e al suo impegno nell’ambito della Comunità Economica Europea, alla contabilità e al patrimonio personale e di famiglia, alle pubblicazioni di Giorgio Fuà, al materiale autobiografico di Riccardo Fuà, alla corrispondenza tra Elena Segre e Riccardo Fuà, a quella con Daniele e Corrado Fuà, oltre a numerose fotografie e ritratti individuali e di famiglia, anche della fine dell’Ottocento, con parte dei quali la fondazione ha allestito, presso la propria sede, una mostra fotografica permanente su
Giorgio Fuà, appunto, esposta all’Accademia dei Lincei, fra il 2012 e il 2013. L’archivio sarà oggetto di un intervento di riordino, inventariazione, digitalizzazione e promozione finanziato dall’Università Politecnica delle Marche, che ha l’obiettivo di realizzare una mostra digitale che racconti la figura dell’economista anconetano Giorgio Fuà nel suo percorso che l’ha condotto nel 1959 alla fondazione della Facoltà di Economia dell’Università Politecnica delle Marche. ¤
Nella pagina a sinistra in alto Fuà a Ginevra nel 1951 alla Economic Commission for Europe Sotto, l'economista in un momento botanico e in basso Giorgio Fuà a Ginevra nel 1944 con la moglie Erika e il primo figlio Silvano In questa pagina dall'alto Fuà in bici in riva al mare a Marzocca di Senigallia nel novembre del 1974 e nella casa di via Nibby a Roma con la moglie e i figli Silvano, Daniele e Lorenzo
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S di Alessandro Rappelli
L’Università dorica può vantare un corpo docente di 537 unità e ben 52 corsi di laurea per 15 mila studenti
i è svolta ad Ancona, nell’Aula del Consiglio della Facoltà di Economia “Giorgio Fuà” dell’Università Politecnica delle Marche, prima del lockdown legato al Covid, la quinta edizione di “Freschi d’Accademia”. Una iniziativa come ha ricordato la nostra presidente Donatella Menchetti, nata cinque anni fa da un’idea del nostro Past-President Luciano Capodaglio nell’intento di valorizzare e far meglio conoscere le eccellenze scientifico-culturali espresse negli ultimi anni dalle università marchigiane. Spesso, infatti, capita che, anche fra gli addetti ai lavori, non si sia a conoscenza dei risultati, talora di altissimo livello, conseguiti nelle nostre università anche per quella sorta di ritrosia che impedisce ai ricercatori di farsi pubblicità tramite i mass media. Al contrario la nostra Associazione, che ha come scopo quello di rafforzare e potenziare l’identità cultura-
le delle Marche attraverso la conoscenza e la valorizzazione delle realtà esistenti, può offrire, anche tramite la sua bella rivista, una valida opportunità per far meglio conoscere quanto di eccellente si produce nei nostri Atenei. Da qui è nata l’idea di dar vita a “Freschi d’Accademia” che seguendo una sequenza alfabetica, dopo Ancona, Camerino e Macerata e Urbino riprende quest’anno il ciclo ripartendo dall’Università Politecnica delle Marche. In un mio breve intervento ho ricordato che “Freschi d’Accademia” prevede che sia compito dei Rettori scegliere fra i loro docenti e ricercatori quelli che, a loro giudizio, abbiano ottenuto negli ultimi anni risultati di eccellenza nell’ambito di tre macroaree scientifico-culturali: quella agro-bio-medica che ricomprende le Facoltà di Agraria, Veterinaria, Biologia, Scienze, Medicina e Farmacia, quella giuridico-economica che ricomprende
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Politecnica Marche obiettivo sostenibilità LE ECCELLENZE DELL'ATENEO ANCONETANO IN CAMPO ECOINNOVATIVO
Giurisprudenza, Scienze Politiche ed Economia, e quella Tecnologica che raggruppa tutte le altre facoltà scientifiche come Matematica, Fisica, Chimica, Ingegneria e Architettura. I prescelti dai Rettori presentano quindi i loro risultati con una relazione in occasione dell’incontro con la nostra Associazione e quindi un caloroso ringraziamento va al Rettore Gian Luca Gregori per aver scelto tre professionisti di altissimo livello: il Prof. Natale Giuseppe Frega, Ordinario di Chimica degli Alimenti e Tecnologie Alimentari, per l’Area Agro-Bio-Medica, il Prof. Francesco Maria Chelli, Ordinario di Statistica Economica, per l’Area Giuridico-Economica ed il Prof. Francesco Fatone, Ordinario di Ingegneria Chimica Ambientale, per l’Area Tecnologica. Il Magnifico Rettore prof. Gian Luca Gregori, dopo aver dato il benvenuto
all’Associazione “Le Cento Città” della quale, tra l’altro è socio, ha evidenziato quella che può definirsi una “strategia universitaria in un sistema complesso”. L’Università Politecnica delle Marche si trova in ottime posizioni in tutti i ranking internazionali ed al quinto posto fra gli atenei italiani di medie dimensioni secondo il Censis. Nei suoi cinquantanni di vita la popolazione studentesca è cresciuta dagli iniziali 200 agli attuali 15.000 iscritti suddivisi fra le cinque facoltà che offrono ben 52 corsi di laurea (29 lauree brevi, 20 lauree magistrali e 3 lauree magistrali a ciclo unico). I titoli acquisiti sono in grado di offrire un’elevatissima occupabilità mentre l’Ateneo è conosciuto per possedere numerosi centri di eccellenza per la ricerca in diverse aree che sono inoltre in grado di attrarre risorse ben al di sopra della media nazionale. L’Ateneo ha un corpo do-
cente di 537 fra professori ordinari, associati e ricercatori ed un personale tecnico-amministrativo di 526 unità nonostante i recenti vincoli legislativi. Esistono tuttavia alcune criticità che meritano attenzione: la popolazione studentesca appare largamente regionale (oltre il 70% risiede nelle Marche e circa la metà in Provincia di Ancona) ed inoltre nel passaggio dalla laurea triennale a quella magistrale molti sono gli studenti attratti dai grandi atenei del nord. Questa eccessiva territorialità e la limitata capacità di attrazione internazionale impone quindi di proiettarsi sempre di più in un ambito nazionale ed internazionale. La strategia che l’Ateneo intende perseguire vede al centro le tre missioni specifiche dell’università: didattica, ricerca e trasferimento tecnologico unitamente alla valorizzazione delle persone. E’ necessario accrescere
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A livello internazionale sono in essere accordi Erasmus con 24 Paesi e collaborazioni con altre 82 realtà
In alto, un momento dell'incontro e qui sopra il rettore dell'Università Politecnica delle Marche Gian Luca Gregori
la visibilità come polo di attrazione riconoscibile per la qualità della didattica e della ricerca a livello nazionale ed internazionale al fine di posizionarsi stabilmente nel gruppo dei grandi atenei assumendo un ruolo di rilievo nel Centro-Nord Italia. Va rafforzato il ruolo di Research University dell’ateneo con la creazione di strutture di supporto alla progettazione, promozione e conduzione della ricerca a livello internazionale mediante un adeguato sostegno economico per personale ed attrezzature. In ambito didattico va sostenuta ed ulteriormente migliorata la capacità dell’ateneo di erogare formazione di alto livello utile a consolidare la posizione riconosciuta a livello nazionale ed internazionale. In quest’ambito sono già stati avviati nuovi Corsi per rispondere alle esigenze innovative del mercato del lavoro: a) Scienze delle Professioni Sanitarie Tecniche Diagnostiche; b) Data Science per l’Economia e le Imprese; c) Management della Sostenibilità ed Economia Circolare; d) Sistemi Industriali e dell’Informazione. A livello internazionale sono in essere 344 accordi Erasmus con 24 Paesi e 359 collaborazioni di ricerca e didattica con Atenei di 82 Paesi. La Terza Missione è il potenziamento del ruolo di incubatore per il territorio proseguendo nel percorso di trasferimento tecnologico e processi innovativi caratterizzanti il sistema socio-economico di riferimento e promuovendo iniziative di comunicazione del sapere
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che avvicinino l’Università e le sue competenze alla realtà sociale di cui è parte. Inoltre far evolvere l’esperienza positiva del Contamination Lab, migliorare la creazione e conduzione di spin off universitari: ad oggi l’Università Politecnica delle Marche ha 115 depositi di brevetti e di nuove varietà vegetali (75 in portafoglio nel 2018), 50 spin off universitari già costituiti e 198 progetti conto terzi. Infine valorizzare maggiormente l’ambito sanitario essendo l’unico Ateneo nel territorio regionale ad avere la Facoltà di Medicina e Chirurgia. Ciò comporta la necessità di gestire relazioni articolate e complesse con molteplici interlocutori. Basti pensare che, nel 2018, sono state 204 le unità di personale universitario (docenti, personale tecnico-amministrativo ed assegnisti) che hanno svolto attività presso le strutture del SSR, oltre ai 591 medici iscritti alle Scuole di Specializzazione impegnati nell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Ospedali Riuniti di Ancona. Il Rettore ha poi concluso il suo intervento riferendo che nello scegliere i tre nominativi per questa giornata di “Freschi d’Accademia” ha tenuto conto non solo dell’eccellenza della produzione scientifica dei prescelti ma anche delle tematiche oggetto dei loro studi così che le loro presentazioni siano idealmente legate da un fil rouge della “sostenibilità” che passa dall’olio extravergine d’oliva al benessere equo e sostenibile ed infine alle eco-innovazioni per il riciclo dell’acqua. ¤
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Il valore dell’acqua nell’economia circolare AMBIENTE, RUOLO CRUCIALE DELLA RICERCA SCIENTIFICA
O di Francesco Fatone
biettivi di sviluppo sostenibile ed economia circolare come guida della ricerca in campo ingegneristico ambientale Il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile pone sfide globali complesse, multidisciplinari e intersettoriali, che devono orientare la ricerca scientifica, sui cui risultati, quando validati e condivisi, è necessario fondare politiche economiche e sociali. La presa di coscienza dei limiti del nostro pianeta, inoltre, ha recentemente portato a disegnare ed applicare nuovi modelli di economia circolare fondati sui principi di: (a) eco-progettazione, per minimizzare flussi di rifiuto ed inquinanti lungo tutto il ciclo di vita; (b) uso efficiente di risorse e riciclo di materia ed energia; (c) rigenerazione dei sistemi naturali. In questo contesto, la ricerca scientifica nel settore dell’ingegneria ambientale ha assunto un ruolo cruciale, di supporto tecnico applicato alle strategie di sviluppo
sostenibile, con approccio olistico e trasversale a vari settori delle ingegnerie “tradizionali”. Tale attuale mission dell’ingegneria ambientale è anche derivante da un’evoluzione della consapevolezze e dei bisogni della società civile. Da un vecchio approccio di ego-centrismo, dove gli obiettivi delle innovazioni erano principalmente igienico-sanitari, atti a preservare la salute dell’essere umano, si è evoluti all’ eco-centrismo, dove gli obiettivi erano di salvaguardia dell’ambiente e degli ecosistemi, di cui gli umani sono parte. Negli ultimi decenni, infine, abbiamo compreso come sia necessario un approccio sistemico e complesso, in ottica di sviluppo sostenibile. Da modello lineare a modello circolare I principi di economia circolare possono e devono essere applicati anche alla gestione di risorse e servizi idrici , specialmente nel
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Politecnica tra le prime in Italia per progetti di ricerca nella gestione circolare dei servizi idrici
contesto attuale dove, continuando con le attuali pratiche, entro il 2030 la domanda globale di acqua dolce potrebbe superare la disponibilità di risorsa rinnovabile del 40%. Solo passando da modello lineare e modello circolare, si potrà invertire la tendenza e vivere, tutti, nei limiti del pianeta. La sfida è superare la “Valle della morte” Nel contesto di economia circolare, l’acqua è considerata anche per il valore ad essa associato, cioè come un vettore di risorse, energia e materia, che possono essere recuperate e riutilizzate, chiudendo sostenibilmente il ciclo. L’Università Politecnica delle Marche è tra i primi Atenei in Italia per progetti di ricerca, sviluppo ed innovazione nel settore della gestione circolare dei servizi
idrici, co-finanziati con milioni di euro dalla Commissione Europea nell’ambito del prestigioso programma Horizon2020. Riassumendo, i progetti in corso spaziano dal recupero di risorse dalle acque reflue urbane fino al loro riutilizzo (progetto H2020 Smart-Plant www. smart-plant.eu), all’utilizzo di sistemi naturali per chiudere il ciclo idrico nelle isole e nelle aree rurali (progetto H2020 Hydrousa www.hydrousa.org), alla digitalizzazione del servizio idrico integrato per la sua migliore sostenibilità tecnica, economica ed ambientale (progetto Horizon2020 Digital-Water.City www.digital-water. city), fino all’efficienza energetica ed al riutilizzo delle acque reflue, agricolo o industriale (progetti: Horizon2020 Enerwater www. enerwater.eu; Horizon2020/ Prima Fit4reuse www.fit4reuse.org ed Horizon2020
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dall’Università Politecnica delle Marche, è SmartPlant, premiato nel 2018 a Barcellona, come migliore in Europa, con l’iWater award. Smart-Plant punta a diminuire l’impronta ambientale, digitalizzare e trasformare i nostri depuratori delle acque reflue in bioraffinerie intelligenti, integrati nelle città circolari e motori di bioeconomia urbana. Un risparmio di energia fino al 30 per cento
Ultimate). In tutti i progetti in corso, la sfida che affrontiamo è sempre superare la cosiddetta “valle della morte” dell’innovazione, ovvero quel segmento che separa la ricerca e sviluppo sperimentale dal mercato, cioè dalla creazione di reale economia circolare. Per questo i progetti dell’Università Politecnica delle Marche partono dalle idee, dai laboratori, e si sviluppano fino ad essere validate nelle infrastrutture reali, insieme con aziende e stakeholders. Smart-Plant premiato come migliore in Europa Un esempio, il più prestigioso: Horizon2020 SmartPlant, coordinato da Univpm. Tra i diversi progetti Horizon2020 del settore economia circolare dell’acqua, il più prestigioso, coordinato
I fanghi di depurazione diventano dunque fonte di risorse e materiali di valore. Smart-Plant, a cui partecipano 20 aziende e 7 università o enti di ricerca dell’area Europea e Mediterranea ha integrato le infrastrutture urbane comunemente utilizzate, ovvero i depuratori reali, in Italia, Spagna, Regno Unito, Paesi Bassi, Grecia e Israele per recuperare, per ogni persona per anno, da 5-7 kg di cellulosa, 1-2 kg di biopolimeri, 0.5-1.5 kg di fosforo, 7-10 kg di biofertilizzanti, oltre a biogas ed, ovviamente, acqua, da riutilizzare per produrre biocompositi per arredo urbano e sistemazioni naturali, additivi per asfalti, bioplastiche, fertilizzanti utilizzabili anche in agricoltura biologica. I sistemi dunque depurano le acque reflue, almeno quanto i depuratori esistenti, ma in contemporanea risparmiano energia fino al 20-30% e riducono le emissioni di gas climalteranti. Nell’impianto di Carbonera in provincia di Treviso, ad esempio, da oltre due anni opera una tecnologia che permette oltre il 20% di risparmio energetico, si producono al giorno 300g di fosforo in forma di struvite, utilizzabile come fertilizzante, and 1 kg di Pha – ingrediente della plastica
Il progetto “Smart-Plant” trasforma i depuratori delle acque reflue in bioraffinerie intelligenti
Nelle pagine alcune applicazioni della cellulosa recuperata nel progetto Smart-Plant e trasformata in prodotti per il mercato edilizio agricolo e chimico Al centro, schema di un depuratore ubano trasformato in bioraffineria
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È ancora elevato lo scetticismo sociale verso il recupero da scarto o da rifiuto
biodegradabile. La Smartech in uso in Olanda invece recupera ogni giorno 400 chili di cellulosa dalla carta igienica usata, utilizzabili nel settore delle costruzioni, nella produzione di biocompositi e in altre applicazioni nell’industria chimica, mentre in Israele e nel Regno Unito si estraggono rispettivamente metano, fosforo e azoto, oltre a produrre acqua per il riutilizzo agricolo. Le bioraffinerie digitalizzate
In alto, delegati di un convegno che pranzano su un tavolo realizzato in biocompositi con materiali recuperati
Le bioraffinerie urbane sono poi state digitalizzate non solo per supportare tele-monitoraggio o tele-gestione, ma anche per misurare, con rigore scientifico e metodi certificati, l’impronta di carbonio. Grazie ad algoritmi di analisi dati on-line, inoltre, Smart-Plant ha costruito una piattaforma digitale per supportare gli stakeholder per replicare i risultati di Smart-Plant, cioè per progettare ed applicare sistemi di recupero di risorse nelle migliaia di
depuratori in Europa e nel mondo. Mancano ancora innovazioni legislative I sistemi e le tecnologie sono dunque validate, gli operatori sono capaci di applicare e gestire le innovazioni. Cosa manca? Mancano le innovazioni legislative e regolatorie, è ancora elevato lo scetticismo sociale verso il recupero da scarto o rifiuto, le gare pubbliche sono ancora poco premianti per approcci di sostenibilità di lungo termine, forse perché mancano standard di calcolo, ancora molta strada per la reale transizione verso l’economia circolare dell’acqua, con innovatori chiamati a lavorare in tutti i settori della società. Ad oggi la Commissione Europea ed il Ministero dell’Ambiente stanno lavorando per superare queste barriere, per facilitare investimenti che potrebbero risultare in miliardi di euro di nuova economia circolare. ¤
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Olio extravergine proprietà terapeutiche EFFETTI BENEFICI VERSO LE MALATTIE CARDIOVASCOLARI
L di Natale Giuseppe Frega
Promuovere oggi la ricerca consente domani di ridurre la povertà l'emarginazione e il disagio sociale
e recenti ricerche scientifiche svolte nel campo della nutrizione sottolineano ed esaltano il concetto secondo il quale la dieta gioca un ruolo fondamentale nella modulazione di varie funzioni metaboliche. Forse non è secondario ricordare che la ricerca scientifica è l’attività intellettuale che mira ad aumentare il grado di conoscenza e si pone alla base dello sviluppo di una società avanzata. É infatti impossibile elevare il livello culturale di una collettività senza ricerca, così come diventa impossibile l’innovazione e la competizione senza ricerca. Promuovere la ricerca oggi, in questi momenti congiunturali difficili, consente di ridurre domani la povertà, l’emarginazione e il disagio sociale. La crescente consapevolezza del ruolo primario che la nutrizione svolge sullo stato di benessere dell’uomo, aggiunta ad una più approfondita conoscenza delle
cause scatenanti patologie legate all’alimentazione ha contribuito notevolmente alla diffusione di un nuovo concetto di alimentazione: l’alimentazione funzionale. Attualmente, gli alimenti non vengono considerati esclusivamente fonte di energia per lo svolgimento dei normali processi metabolici dell’organismo, ma anche fonte unica di composti bioattivi (Es: polifenoli, vitamine, acidi grassi polinsaturi) che contribuiscono a “massimizzare” lo stato generale di salute e benessere dell’organismo e a “minimizzare” i rischi di insorgenza di patologie, modulando le funzioni cellulari, ovvero svolgendo effetti funzionali sull’organismo. Recenti ricerche hanno individuato negli alimenti componenti bioattivi capaci di influenzare positivamente l’andamento di malattie cardiovascolari, prima causa di morte nel mondo occidentale, dell’obesità, del diabete, delle malattie epatiche, dell’apparato dige-
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L’alimentazione funzionale è legata alla consapevolezza del ruolo primario della nutrizione sul benessere dell’uomo
rente e delle patologie scheletriche. Sempre maggior rilievo stanno assumendo le ricerche riguardanti le proprietà preventive e benefiche della “dieta mediterranea”, iscritta da qualche anno nella lista dei Patrimoni Immateriali dell’Umanità dall’Unesco, verso le malattie cardiovascolari (Mcv). Tali effetti sono stati principalmente attribuiti agli effetti funzionali l’olio extravergine di oliva (Evo). Tradizionalmente l’Evo è considerato una buona fonte di grassi alimentari perché è costituito principalmente da acidi grassi monoinsaturi, dei quali il 72-79% è rappresentato da acido oleico. I vantaggi dell’assunzione degli acidi grassi monoinsaturi, attraverso il consumo di Evo, sono emersi in numerosi studi e sono stati validati dalle principali autorità di controllo, quali la Food and Drug Administration (Fda) e la European Food Safety Authority (Efsa). La Fda sostiene che l’assunzione di due cucchiaini al giorno di Evo come sostituto di un corrispondente quantitativo di grasso, contenente principalmente acidi grassi saturi, è in grado di ridurre l’incidenza di malattie coronariche, mantenendo i livelli di Hdl e una riducendo quelli delle Ldl. Similarmente, l’Efsa ha approvato il seguente health claim (Commission Regulation (EU) 432/2012) “Replacing saturated fats in the diet with unsaturated fats contributes to the maintenance of normal blood cholesterol levels”, facendo riferimento alla lista di grassi insaturi riportata nel Annex to Regulation (EC) No 1924/2006, nella quale è annoverato l’Evo. Oltre all’elevato contenuto di Mufa, nel valutare gli effetti dell’Evo sulle Mcv è
110 necessario considerare le attività funzionali dei componenti minori dell’Evo, come lo squalene e i polifenoli. Studi in vivo hanno mostrato che l’integrazione della dieta di ratti con squalene comporta un aumento dello stesso nel siero, provoca l’inibizione dell’enzima epatico HMG-CoA reduttasi, che regola la biosintesi del colesterolo, e ha come conseguenza principale la riduzione della produzione di colesterolo nel fegato. I polifenoli dell’Evo risultano attivi nei confronti dell’ossidazione dei lipidi plasmatici, data la loro spiccata capacità antiossidante. Numerosi risultati evidenziano l’azione sinergica dell’idrossitirosolo e dell’oleuropeina dell’Evo nella prevenzione dell’ossidazione del colesterolo-Ldl, considerato il primo step per lo sviluppo di lesioni aterosclerotiche. Recentemente, è stato evidenziato che l’integrazione dietetica con Evo conduce ad un aumento dell’HDL-C (colesterolo legato ad Hdl) e una marcata diminuzione del contenuto di trigliceridi nel plasma. Basandosi proprio sulle numerose evidenze scientifiche che testimoniano gli effetti funzionali dei polifenoli dell’Evo, l’Efsa ha recentemente approvato e validato il seguente health claim (Commission Regulation (EU) 432/2012): “Olive oil polyphenols contribute to the protection of blood lipids from oxidative stress. The claim may be used only for olive oil, containing at least 5 mg of hydroxytyrosol and its derivatives (e.g. oleuropein complex and tyrosol) per 20 g of olive oil. In order to bear the claim information shall be given to the consumer that the beneficial effect is obtained with a daily intake of 20 g of olive oil.”
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Comunque, la composizione chimica dell’Evo, e quindi la presenza di componenti bioattivi, è strettamente dipendente da fattori quali la varietà delle olive, le condizioni pedoclimatiche, lo stadio di maturazione del frutto, il processo tecnologico impiegato nella fase di estrazione dell’olio e le modalità di conservazione, non solo commerciale, ma anche domestica. I composti fenolici nell’olio di oliva possono essere utilizzati come marcatori di qualità e di tracciabilità, dato il loro stretto legame con la matrice genetica. In relazione allo stadio di maturazione del frutto è stato dimostrato che, ad indici di maturazione più elevati, corrispondono valori minori di polifenoli. Dal punto di vista qualitativo, il profilo compositivo della frazione polifenolica dell’olio ottenuto da olive denocciolate risulta simile a quello dell’olio ottenuto da drupe intere. Dal punto
di vista quantitativo, tuttavia, l’olio ottenuto dalla sola polpa è caratterizzato da un contenuto complessivo di polifenoli maggiore rispetto all’olio ottenuto dall’intera drupa. In tutti e due i casi i componenti principali sono le forme dialdeidiche della decarbossimetil-oleuropeina aglicone e del decarbossimetil-ligstroside aglicone, più noto come oleocantale. A quest’ultimo viene attribuita, da molti studi sperimentali, una spiccata attività antinfiammatoria, oltre a quella antiossidante, quindi protettiva nei riguardi della steatosi epatica, dell’invecchiamento della cute e della formazione di lipoproteine aterogene. Considerata la notevole influenza che il sistema tecnologico ha sui componenti bioattivi dell’olio di oliva, in questi ultimi anni si è assistito ad una notevole evoluzione dei sistemi tecnologici utilizzati per l’estrazione dell’olio dalle olive. I siste-
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Sempre maggior rilievo assumono le ricerche sulle proprietà preventive della dieta mediterranea
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Due cucchiaini al giorno di olio extravergine di oliva sono in grado di ridurre l’incidenza di malattie coronariche
mi classici o discontinui, in alcune aree di produzione sono ormai solo un’attrazione turistica; essi infatti non vengono più utilizzati, poiché presentano molti punti critici di processo e richiedono un impiego di manodopera piuttosto consistente. Questi sistemi hanno lasciato quasi del tutto il posto a quelli continui, più razionali e pratici ed economicamente vantaggiosi. Tutto ciò naturalmente ha portato anche a cambiamenti nelle caratteristiche dell’olio prodotto. Spesso, infatti, gli oli extravergini, ottenuti con sistemi diversi, posseggono, a parità di cultivar e di altre condizioni, caratteristiche chimico-fisiche e organolettiche differenti, e mostrano anche un diverso comportamento verso la stabilità ossidativa e quindi una differente “shelf-life”. Una fase molto importante del processo estrattivo è rappresentata dalla gramolatura, le cui variabili di processo, tempo e temperatura, sono strettamente correlate, sia con il contenuto in antiossidanti e pigmenti, sia con i compo-
sti volatili, responsabili di importanti caratteristiche sensoriali. In un recente lavoro è stato dimostrato che il tempo di gramolatura, oltre ad incidere sulle caratteristiche organolettiche del prodotto, influisce anche sul tempo di resistenza all’ossidazione forzata dell’olio (Rancimat Test). In generale minore è il tempo di gramolatura, minore sarà l’impatto del processo tecnologico sui composti responsabili della qualità sensoriale dell’olio di oliva e minore sarà l’ossidaizone dell’olio. Sulla base di ciò, è stato recentemente sviluppato un innovativo sistema tecnologico di gramolatura chiamato Protoreattore (Gruppo Pieralisi) che riduce al minimo i tempi di gramolatura. Un’altra fase tecnologica importante è quella di estrazione che può avvenire per pressione oppure per centrifugazione con decanter. Nell’olio estratto per pressione si rivela un minor contenuto di polifenoli rispetto a quello con decanter a due fasi. ¤
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Il Pil non basta più molto meglio il Bes FELICITÀ E BENESSERE SLEGATI DAL REDDITO PROCAPITE
T di Francesco Maria Chelli
Il sistema non è la somma dei suoi componenti Non si può misurare il benessere limitandosi ai singoli elementi
utte le scienze della vita sono passate da un approccio riduzionista a uno olistico, cioè dallo studio di singoli componenti isolati allo studio dei sistemi nel loro insieme. In quest’ultimo approccio, nel quale tutti gli elementi interagiscono tra loro, ogni componente, se modificato, ha effetti sia sui componenti che hanno un livello di organizzazione più elevato sia su quelli di livelli inferiori. Ogni singolo componente, che varia anche in modo casuale o indipendente, può influenzare il sistema nel suo complesso. Allo stesso modo lo studio del benessere degli individui deve considerare la multidimensionalità come una caratteristica intrinseca di un sistema complesso e non un ostacolo da rimuovere. L’approccio multidimensionale deve quindi rimanere anche nelle funzioni di sintesi utilizzate per la sua misurazione, proprio perché un sistema non si può ridurre alla somma dei suoi componenti. In definitiva, non si può misurare il benessere limitandosi a studiare i suoi singoli elementi, poiché questi nella loro totalità creano funzioni che hanno proprietà diverse dalla loro somma. Il fatto che la teoria economica dominante non abbia ancora abbandonato l’approccio riduzionista deriva, almeno in parte, da un retaggio storico. Con la seconda rivoluzione industriale, la prospettiva economica del pianeta ha avuto infatti la precedenza sulla natura e sulla società, tanto che il Pil è diventato sinonimo di qualità della vita. Tuttavia, il fatto che una Nazione abbia un Pil pro capite maggiore di un’altra, non implica automa-
ticamente che le persone che vivono nella prima delle due, godano mediamente di un grado di benessere maggiore, rispetto a quelle che vivono nella seconda. Inoltre, è stato dimostrato che l'aumento del reddito pro-capite non è associato alla crescita della felicità o del benessere. Misurare lo sviluppo dei Paesi usando il Pil ignora gli effetti della crescita economica sull'ambiente e, in particolare, non tiene conto dei costi che incontriamo nel tentativo di ripristinare gli ecosistemi distrutti dalla produzione economica. Questi costi sono correlati a servizi quali la regolazione del clima e dei gas atmosferici, la decomposizione e l'assorbimento dei rifiuti, il controllo delle inondazioni, la formazione del suolo, l'impollinazione, che hanno un valore inestimabile. Il Pil ignora inoltre le questioni distributive e il contributo di beni e servizi non commerciali come la salute, l'istruzione, la sicurezza e la governance. Già nel 1993 l’economista Giorgio Fuà scriveva che: “Dobbiamo sollecitare ogni popolazione a cercare la forma di progresso che soddisfa meglio la sua storia, le sue caratteristiche, la sua situazione, e non sentirsi inferiori solo perché un altro paese produce di più. Oggi, anche se questo può sembrare pura utopia, ci si deve però pensare”. Questa “utopia”, a partire degli anni Trenta del XX secolo, ha permeato gradualmente il pensiero economico e la misura del benessere, grazie a contributi di studiosi di ogni parte del mondo, ha compiuto un lungo cammino che può essere schematicamente rappresentato da tre fasi distinte. La fase ini-
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Il Pil ignora servizi non commerciali come salute istruzione sicurezza e governance
ziale, nella quale il benessere si limita misurare i soli aspetti economici; la fase intermedia che considera, oltre alle dimensioni economiche anche quelle sociali; la fase attuale che tiene conto della sostenibilità del benessere e include quindi, tra le variabili da considerare, anche quelle di natura ambientale. In molti Paesi del mondo sono stati proposti indicatori di benessere sostenibile. In Italia la misura della sostenibilità ha dato vita al progetto del Benessere Equo e sostenibile (Bes), coordinato dal Consiglio Nazionale per l'Economia e il Lavoro (Cnel) e dall'Istituto Nazionale di Statistica (Istat). Scopo di questo progetto è integrare il Pil con indicatori sociali e ambientali che possano aiutare i responsabili politici ad identificare i principali punti deboli del Paese e ad affrontare politiche efficienti e incisive per migliorare il benessere dei cittadini. Il Bes, pubblicato per la prima volta nel 2013, è costituito da un insieme di 134 indicatori suddivisi in 12 dimensioni del benessere: salute, istruzione e formazione, equilibrio tra lavoro e vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, soggettivo benessere, patrimonio paesaggistico e culturale, ambiente, ricerca e innovazione e qualità dei servizi. Seguendo questa linea di ricerca, il nostro gruppo si è occupato di estendere la misura del Bes nel tempo e nello spazio. Nell’articolo “Have Your Cake and Eat it Too: The WellBeing of the Italians (1861– 2011)”, vengono considerati 41 indicatori raggruppati in otto dimensioni che caratterizzano gli aspetti più importanti della vita quotidiana: salute, istru-
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zione, lavoro, benessere economico, partecipazione politica, sicurezza, ambiente, ricerca e sviluppo. Viene analizzato un periodo storico molto lungo che va dall’Unità di Italia al 2011, e questa lettura di ampio respiro è sicuramente il principale contributo della ricerca. Un primo risultato interessante riguarda l’andamento temporale del benessere nelle otto dimensioni considerate che mostrano andamenti diversi, nel tempo, da quello del benessere economico. In particolare, salute, istruzione, lavoro e partecipazione politica seguono un trend che aumenta nel tempo (analogamente al benessere economico), sebbene a tassi di crescita diversi, mentre, per i settori della sicurezza, dell'ambiente e della ricerca e sviluppo l’andamento è complessivamente in declino. Quello che emerge con chiarezza dallo studio è che il Pil pro capite è una misura controversa del benessere. Molti indicatori, tra cui sanità e istruzione, sono notevolmente migliorati rispetto al moderato aumento del reddito nazionale. Basandosi solo sul Pil pro capite, l'Italia non sembra convergere verso i vecchi paesi industrializzati. Ma guardando ad altri indicatori di benessere (aspettativa di vita alla nascita, mortalità nei primi 5 anni di vita, alfabetizzazione), questa convergenza è stata pienamente attuata negli anni. La crescita materiale ha senza dubbio rivoluzionato la nostra vita e l'uso del nostro tempo, ma spesso a scapito della sostenibilità: in primo luogo ambientale e sociale, ma anche in relazione alla qualità della vita (in particolare, sicurezza e condizioni di lavoro). ¤
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Saggi, romanzi e poesie nel segno delle Marche L’EVENTO DE LE CENTO CITTÀ “INFLUENZATO” DAL COVID
di Maurizio Cinelli
Illustrazione di Sergio Giantomassi
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ollenza è una cittadina del maceratese che – ne sono sicuro – non molti, tra noi delle Centocittà, conoscono. Situata tra Macerata (della quale è quasi il sobborgo sul lato di ponente) e le propaggini dei monti Sibillini, arroccata su un colle che insiste sullo spartiacque tra le valli del fiume Potenza, a nord, e del fiume Chienti, a sud, Pollenza dona al visitatore visuali e scorci dell’entroterra marchigiano forse tra i più struggenti e suggestivi della Provincia. Nel centro urbano, che si stringe lungo la linea sommitale del colle, tra pochi palazzi gentilizi e un maggior numero di chiese, in parte di eredità medievale,
spicca il Teatro comunale “Giuseppe Verdi”, progettato dell’architetto che all’epoca era di moda, Ireneo Aleandri (1795-1885), molto attivo nelle Marche – suoi, ad esempio, lo Sferisterio di Macerata e il Teatro Feronia di Sanseverino Marche –, ma anche in altre regioni dello Stato pontificio, come, in particolare, in Umbria e nel Lazio. I libri, espressione del patrimonio culturale Ecco, nel giorno prefissato del mese di marzo, grazie alla disponibilità e ai buoni uffici del Sindaco di quella Città, Mauro Romoli, anche il Teatro di Pollenza era a disposizione dell’Associazione
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Rinviata la presentazione pubblica ma ugualmente selezionati i testi che valorizzano la nostra regione
116 e della cittadinanza, affinché dalle lussuose poltrone della sua fascinosa platea i partecipanti alla manifestazione potessero godere, nelle condizioni migliori, all’edizione 2020 di “Freschi di stampa”: l’evento, divenuto ormai “tradizione” per le “Centocittà”, destinato alla presentazione dei libri (di letteratura, scienza, arte, storia, paesaggio e altro ancora) di più recente pubblicazione, espressione diretta o indiretta del patrimonio culturale delle Marche, o funzionale al suo arricchimento. E pronte a svolgere il loro ruolo, naturalmente, erano anche le personalità (in parte dell’Associazione, in parte ad essa estranee), che avevano accettato di buon grado di presentare le singole opere selezionate. Ed è proprio quando il programma, ormai definito in ogni dettaglio, attendeva soltanto di essere attuato che si è manifestata in tutta la sua virulenza e tragicità la pandemia, cui necessitatamente hanno fatto seguito le rigorose disposizioni governative di distanziamento sociale, che ben conosciamo. Un'alternativa per opere protagoniste Se rinunciare all’evento a quel punto era inevitabile, non sarebbe stato giusto, però, accettare supinamente che la situazione emergenziale altrettanto radicalmente coinvolgesse opere di recentissima pubblicazione, selezionate proprio per il fatto di esprimere o valorizzare aspetti significativi della nostra Regione, e privarle, così, di quel meritato “riconoscimento” e, insieme, di quella porzione di visibilità che un evento culturale ormai accreditato, come “Freschi di stampa”, avrebbe comunque contribuito ad assicurare loro. Pur
nella consapevolezza della impossibilità di surrogare, anche solo in parte, valenza e contenuti delle singole relazioni illustrative, si è allora prescelta la seguente, unica alternativa a portata di mano: di quelle opere che, attraverso la “lettura” dei presentatori, avrebbero dovuto essere “protagoniste” dell’evento, riassuntivamente indicare i tratti salienti attraverso le pagine di questa nostra Rivista. C’è anche da dire, prima di chiudere questa pur necessaria “premessa”, che, se l’originario programma avesse avuto regolarmente corso, l’evento “ufficiale” – la presentazione delle opere selezionate, appunto – sarebbe stato preceduto da una originalissima introduzione musicale, anch’essa espressione culturale di spicco della nostra Regione. Canti e testi della Marca centrale Si sarebbe trattato, infatti, dell’esecuzione di alcuni brani di musica e canti popolari della Marca centrale (in pratica, delle province di Ancona e di Macerata), tratti da una importante, recente opera di antropologia musicale, riferita alla cultura popolare marchigiana: i due volumi (corredati da compact disc) intitolati “Cultura popolare marchigiana. Canti e testi raccolti nella Vallesina”, che Gastone Petrucci, valente musicista, musicologo e antropologo culturale, ha curato in occasione del 50º anniversario della fondazione del “Gruppo di ricerca di Canto popolare marchigiano La macina”, pubblicati nel 2018 nella collana “Quaderni del Consiglio regionale delle Marche”. Un’ opera preziosa, dunque, meritevole anch’essa (seppur “fuori sacco“, per
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così dire) di essere segnalata, proprio perché raccoglie – suddiviso e classificato sulla base di rigorosi criteri metodologici – un materiale storicamente segnato, unico e irripetibile: il patrimonio vocale e sonoro di una cultura già dominante nella nostra Regione, ma da tempo ormai in progressivo declino, quale è la cultura contadina. Un patrimonio fatto di stornelli d’amore e licenziosi, componimenti di cantastorie, ballate arcaiche, serenate, dispetti, canti a batocco, canti a ballo e musiche popolari come il saltarello, poesia religiosa e poesia satirica, canti di lavoro di protesta e non, indovinelli, proverbi, filastrocche e ninnenanne, canti rituali di questua per la Pasqua o altre feste rituali, e così via. Non è più "futuribile" ma realtà presente E dopo tale particolarissima, significativa introduzione, l’“ufficialità” avrebbe preso avvio con la presentazione di un’opera di una scienziata marchigiana: il libro di Francesca Rossi “Il confine del futuro”, edito da Feltrinelli, che tratta dell’“intelligenza artificiale”: cioè, di quella disciplina che mira a definire o sviluppare, come precisa l’Autrice, programmi o macchine che mostrano un comportamento che verrebbe definito intelligente, se fosse esibito da un essere umano. E non si tratta di “futuribile”, ma di realtà che è già presente (anche se non ce ne rendiamo pienamente conto) nella nostra vita quotidiana attraverso una pluralità di tecnologie: basti pensare al navigatore installato nelle nostre autovetture, ai robot domestici, alla domotica, alle macchine a guida autonoma, alla stampa a tre dimensioni,
117 agli strumenti di generazione di immagini, e tanto altro ancora. Per la chiarezza espositiva che lo caratterizza, il libro può ben assolvere ad una finalità divulgativa, atta ad agevolare la comprensione dell’attuale, coinvolgente argomento; senza però, con questo, mai decampare dal rigore scientifico che qualifica la trattazione complessiva dell’argomento. Dopo aver discusso delle manifestazioni di tale importante, innovativa realtà, già ampiamente diffuse intorno a noi, l’opera, pur mantenendo il suo tono piano, attento alle esigenze del lettore non specialista, passa ad argomenti più complessi: l’illustrazione della distinzione tra i due tipi – “debole” e “forte” –, nei quali l’intelligenza artificiale concretamente si articola; la trattazione dei rapporti tra intelligenza artificiale e algoritmi; il discorso sui “limiti”, infine, dell’intelligenza artificiale. Ed è nel trattare di quest’ultimo aspetto che l’Autrice ci conduce, di fatto, nel campo della filosofia e dell’etica, là dove, effettivamente, si agitano le questioni più profonde e affascinanti – ma anche le più complesse –, che pone lo sviluppo e la diffusione di tale nuovo, coinvolgente e, per più versi inquietante, prodotto dell’intelligenza e della tecnologia umane. Presa di Costantinopoli tra amicizia e sentimento La categoria della narrativa è rappresentata dal libro di Alessandro Badaloni “Con fortuna di mare e forza di vento spesso ti attende un porto di tormento”, edito da Affinità elettive. Il genere è il “romanzo storico”, e la narrazione è imbastita intorno al nucleo di un fatto realmente accaduto, ma, nel contempo, è anche l’occasio-
Tra i volumi spicca “Il confine del futuro”: l’intelligenza artificiale e i rapporti con gli algoritmi
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Nel settore narrativa avvincente il romanzo storico di Badaloni che trae spunto da un fatto accaduto nel Quattrocento
118 ne per introdurre temi di storia e di politica, di economia e di geografia, di tecnica marinara e di lessico linguistico. Il racconto ruota e si sviluppa intorno a tale Giovanni de Tegoli, anconitano, della cui lunga, avvincente, picaresca e travagliata avventura è la storia. Una storia che conduce il personaggio ad assumere le vesti e i ruoli più disparati, di mercante, di soldato valoroso, di amico dei potenti, in un ampio contesto geografico del Mediterraneo e del vicino Oriente, come anche dell’Italia e dell’Europa, e in un’epoca storica cruciale per le sorti dell’Occidente: quella metà del Quattrocento che vede la conquista di Costantinopoli (1453), capitale dell’Impero Romano d’Oriente, ad opera dei Turchi Ottomani guidati dal sultano Maometto II. Ma c’è una dimensione particolare che traluce tra i fatti convulsi, tra i contraccolpi lieti e tristi dell’esistenza del nostro eroe: quella dell’amicizia e del sentimento, verso personaggi di spicco, quali sovrani e condottieri, e verso figure femminili che incrociano la sua vita e la segnano nel profondo. E nel lettore suscita una dolente empatia È quanto avviene, in particolare, con l’amata sposa, che resta uccisa nel corso di un assalto feroce, lasciandogli un figlio, che lui disperatamente rincorre, fino a ritenerlo morto. Ma non è così: attraverso un ambasciatore del nuovo sultano Mohamed, suo grande amico e sodale (“fratello di vita”), Giovanni, ormai duramente provato nell’animo e nelle ferite del corpo, apprende che suo figlio è vivo e che lo aspetta presso la corte del sovrano a lui tanto
legato. Non riuscirà però a rivederlo, come si narra nel capitolo conclusivo di questo libro di fascinosa, coinvolgente lettura: la sera stessa della progettata partenza, cade vittima, nella sua Ancona, di una brutale aggressione. E nel lettore, già coinvolto nel vivo dalla intensa vicenda, la drammatica conclusione lascia un sentimento di dolente empatia nei confronti del protagonista che la sorte ha voluto così segnare. Un "poeta al margine" in vita e dopo la morte Il genere “poesia” è presente nella rassegna con il libro di Massimo Ferretti, “Allergia”, edito da una giovane ma già prestigiosa Casa editrice di Macerata, “Giometti e Antonello”: casa editrice che avrebbe dovuto essere anch’essa “presentata” – è giusto ricordarlo – nello specifico ambito della “Finestra sull’editoria”, che, da qualche anno, è felicemente abbinata alla manifestazione, della quale, anzi, costituisce ormai una vera e propria “seconda parte”. Massimo Ferretti può definirsi un “poeta al margine”, sia in vita che dopo la morte; una personalità inquieta, controcorrente, orgogliosa, ostinatamente solitaria e, nel contempo, come spesso succede, disperatamente (e vanamente) alla ricerca di un rapporto umano “genuino”. Apprezzato da Pasolini, il poeta nel 1963 ottiene, proprio con la raccolta di versi in riferimento, il “premio Viareggio Opera prima”, ma poi la “violenza” della sua carica poetica lo porta a bruciarsi rapidamente. Il termine “allergia”, prescelto come titolo della raccolta di versi, si presta bene a tradurre il senso della
Freschi di stampa
marginalità che il poeta ha coltivato come un privilegio, ma, nel contempo, vissuto come una condanna, dalla quale ha finito per essere travolto e consumato; e la morte, prematuramente sopravvenuta a 39 anni, ha sicuramente contribuito a rendere la sua breve parabola letteraria incompiuta, incompresa dai più e, appunto, “al margine”. Le Marche terra de "I fioretti" Alla spiritualità – e al suo rapporto dialettico con il paesaggio – si richiama l’opera di Ferdinando Campana, “Itinerari francescani nelle Marche”, Nonsolovideo editore. Le Marche sono la terra de “I fioretti”, espressione lirica del francescanesimo delle origini, sbocciato dal cuore spirituale della nostra Regione, per molti versi effettivamente plasmata e “spiritualizzata” proprio da quella presenza. Come non ricordare la moltitudine dei sentieri francescani (in chiusura del libro c’è addirittura l’indicazione di una app che consente di accedere alla loro integrale visione), e soprattutto dei luoghi che, nell’ambito regionale, sono stati toccati da San Francesco nella sua vita di peregrinazioni? E come ignorare che non c’è città grande o piccola che non abbia avuto qualche chiesa o convento o monastero o confraternita collegabile alla penetrazione, materiale e spirituale, del francescanesimo? Il libro, che ha visto significativamente la luce nell’anno centenario di un evento particolare della vita del Santo – il viaggio in Terrasanta, che ha preso avvio proprio dal porto di Ancona –, programmaticamente si prefigge la ricerca siste-
119 matica dello stigma di tale risalente e caratterizzante presenza nei paesi, città e strade della Regione: la ricerca, in definitiva, dell’eco di quella spiritualità, di quell’eco che i manufatti religiosi, ma, sopratutto, la dolcezza del paesaggio marchigiano, in qualche modo, rimandano e amplificano. Un "dizionario" ricco di sorprese Tra le opere di natura scientifica – con specifico riferimento, in questo caso, all’astronomia e alle discipline collaterali – si colloca anche il volume di Massimo Moroni, “L’astronomia nelle Marche”, Andrea Livi editore: un testo di carattere enciclopedico illustrato, ricco di sorprese per la quantità e la qualità di astronomi, cosmografi, matematici, astrofili, astrologi e affini, che, nel tempo, le Marche hanno espresso. Il “dizionario” – come lo definisce l’Autore – ripercorre in ordine cronologico interessi, opere, scoperte che hanno lasciato la loro traccia nel vasto campo dell’osservazione degli astri: da personaggi sconosciuti, almeno a chi non è del mestiere, come è quel tal Lucio Tarunzio, operante a Fermo nel primo secolo avanti Cristo, amico di Cicerone, fino ad alcuni astrofili dei nostri giorni – l’Autore cita Mario Veltri, Paolo Senigalliesi, Alberto Cintio –, passando da personaggi famosi delle epoche intermedie, come il celebre, contestato e, infine, perseguitato Cecco d’Ascoli, arso vivo nel 1327, o, tra cinque e seicento, Altobelli da Treia e, più tardi, Eustachio Divini da Sanseverino o, nell’ottocento, Francesco de Vito da Macerata, tanto per citare alcuni nomi più significativi, tra i tanti che il “dizionario” considera.
Dedicati alla spiritualità “Gli itinerari francescani nelle Marche” con i luoghi visitati dal santo
Freschi di stampa
120 Il paesaggio unisce due fotografi
Alla scoperta della scienza con “Astronomia nelle Marche” testo pregiato di carattere enciclopedico
All’arte della fotografia del paesaggio e, nello stesso tempo, alla poesia che il paesaggio in sé esprime è dedicato il volume curato da Giorgio Semmoloni e Alberto Pellegrino, “La vita e il sogno. Il paesaggio secondo Carlo Balelli e Renato Gatta”, edito dalla Assm-Azienda speciale settori multiservizi di Tolentino. Sebbene i due fotografi ai quali l’opera è dedicata non appartengano esattamente alla stessa epoca e abbiano vissuto esperienze personali profondamente diverse, il loro accostamento è giustificato – come osserva nella prefazione il critico Lucio Del Gobbo – dalla intensa partecipazione sentimentale che in essi suscita il paesaggio e li spinge ad elaborarne l’essenza attraverso la mediazione della fotografia. Il libro intende appunto evidenziare – visivamente e criticamente – le affinità tra i due proprio in questo: nella consapevolezza, cioè, che la fotografia è capace di tradurre il sentire e la “visione” di chi la scatta in una immagine che resta “fedele”, anche se va al di là di quanto la piatta materialità dell’oggetto fotografato, in sé considerato, appaia consentire. Nella specie, tale poetica resta comune, anche se Balelli è prevalentemente interessato al valore documentale dell’immagine (seppur filtrata dall’interazione tra il “sentire” del fotografo e le modalità del “registrare” proprie dello strumento), mentre Gatta, all’esito di attese, anche prolungate, del maturare di determinate condizioni atmosferiche e di luce, e di una ricerca esigente, talvolta esasperata, di angolazioni particolari, preme il pulsante solo
quando avverte che l’oggetto prescelto si presenta finalmente nelle condizioni prospettiche e luminose, che ne facciano combaciare l’immagine filtrata dalla lente dell’apparecchio fotografico con quella che cuore e mente gli hanno permesso di antivedere e pregustare. Seguendo il “corso” della fotografia, i due Autori dell’apparato critico, analizzano, in particolare, l’uno, il passaggio dalla “pittura di parole” al paesaggio di figure; l’altro, in riferimento al più anziano dei due maestri, il suo rapporto con il paesaggio, quale mediato dalla maestria nell’uso della macchina fotografica, e alla valenza documentaria dei suoi scatti. Il risultato editoriale è un libro sul paesaggio marchigiano di grande suggestione e impatto artistico per la qualità degli scatti dei due grandi fotografi. Quanto a Carlo Balelli, dopo la serie di fotografie di valore documentario, relative all’inaugurazione nel 1938 dello stabilimento termale Santa Lucia di Tolentino – stabilimento che avrebbe assunto negli anni (insieme allo stabilimento termale di Sarnano), e fino a tempi recenti, una particolare importanza nell’ambito dell’industria termale del maceratese –, le suggestive e ispirate immagini del paesaggio marchigiano che occupano la parte successiva del libro è come se ci offrissero la documentazione di un ideale viaggio dai monti Sibillini fino al mare Adriatico. Gli scatti di Renato Gatta, invece, rendono partecipi della sua particolare visione del paesaggio, dove sogno e realtà, squarci di luce e nebbie avvolgenti si fondono e determinano effetti di straordinaria poesia visiva. E con la presentazione di
Freschi di stampa
quest’ultimo libro si sarebbe conclusa la rassegna delle opere destinate, secondo programma, ad essere singolarmente presentate ad opera del relatore assegnatario. Non sarebbe giusto, tuttavia, troncare qui il resoconto. Poiché la presentazione pubblica dei volumi meritevoli, che annualmente “Freschi di stampa” promuove e realizza, non può estendersi, per intuitive ragioni di contenimento della durata dell’evento, oltre un certo numero di titoli, capita di frequente (anzi, è praticamente la regola) che, all’esito della selezione, restino escluse opere che spesso avrebbero potuto essere giudicate altrettanto meritevoli. Villa Bonaparte, ideata per la moglie Caterina Ebbene, in quest’ultima edizione di “Freschi di stampa”, tra le opere selezionate, ma non incluse, per il suindicato motivo, tra quelle da destinare alla presentazione ufficiale, merita forse ricordarne qui – prima di chiudere – almeno un paio. La prima si colloca nel campo dell’architettura, ed è quella di Fabio Mariano, “La Villa Bonaparte a Porto San Giorgio”, Andrea Livi editore, che tratta della villa che Girolamo Bonaparte fece costruire per sua moglie Caterina (e per questo denominata anche Villa Caterina), innamorata di Porto San Giorgio; nel testo sono riprodotti e illustrati i disegni, oggetto di un recente, attento restauro, che il famoso architetto dello Stato pontificio, esponente di spicco della corrente del “purismo”– quello stesso al quale si deve il teatro comunale di Pollenza, e del quale l’Autore è un profondo conoscitore
121 –, Ireneo Aleandri, ha predisposto per l’edificazione della Villa. L'analisi storica dell'aforisma L’altra è quella di Gabriele Moneta, “M.M.S. A proposito dell’aforisma”, Affinità elettive editore, opera di genere non facilmente classificabile, sfuggendo a classificazioni sicure l’oggetto stesso alla cui analisi critico-storica l’opera è dedicata: quella forma immaginifica e folgorante di espressione dell’intelletto e del “sentire”, ma di ardua collocazione nell’ambito delle espressioni letterarie, che è l’aforisma; e l’Autore, pur cercando, anche attraverso l’analisi storica (viene ricordata, in particolare, l’ascendenza dell’aforisma addirittura alla scienza medica delle origini), di penetrarne in qualche modo la sfuggente essenza, al suo fascino seduttivo alla fine consapevolmente si abbandona. Giunti a questo punto, definitivamente accantonato quel po' di amarezza che si lega alle cose alle quali malvolentieri si è dovuto rinunciare, non resta che testimoniare, in chiusura di queste poche pagine e interpretando di certo il sentire di tutti noi delle Centocittà, la nostra gratitudine nei confronti di chi – Angelo Angeletti, Marco Belogi, Fabio Brisighelli, Flavio Corradini, Gino Giometti, Alberto Pellegrino, Claudio Sargenti, Anna Maria Tamburri – dopo aver accettato con slancio di partecipare attivamente all’evento, si era fattivamente preparato al compito di “presentatore-relatore” dell’opera rispettivamente assegnata; inevitabile, invece, il rammarico che sia andata perduta l’occasione per poterli ascoltare. ¤
L’arte della fotografia del paesaggio nella “Vita e il sogno” due affinità artistiche a confronto
Il riconoscimento
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FANO
2016
MONTEFIORE DELL'ASO
2017
PESARO JESI
2018 2019
GROTTAMMARE
Tra le varie iniziative de “Le cento città” spicca anche il riconoscimento di “ Città della cultura” che l’Associazione dal 2015 ha voluto attribuire ad un centro marchigiano che si è distinto nella sfera culturale, valorizzandone la realtà territoriale a livello nazionale. Un riflettore acceso prevalentemente su aspetti e progetti di piccoli e medi insediamenti che non intendono essere in concorrenza con iniziative nazionali ma espressione del valore espresso dalla nostra regione, valutata da una commissione di volta in volta presieduta dal presidente in carica dell’Associazione e composta da esperti di vari settori culturali.
2015
Le città della cultura Patrimonio delle Marche
Uno sguardo alla natura
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Quel dattero cinese importato dai veneziani PER I ROMANI IL GIUGGIOLO ERA SIMBOLO DEL SILENZIO
A
di Ettore Franca
ccanto alle case di campagna o di periferia, il giuggiolo cresceva come portafortuna mentre nel nord-est d’Italia c’era negli orti e nei giardini, ancora coccolato per i frutti da mangiare, preparare confetture o aromatizzare la grappa. Nelle Marche, oltre a quelli supersiti, all’onor di cronaca c’è un giuggiolo anche nell’orto di casa Leopardi. La pianta, originaria dell’Africa, da qui raggiunse la Cina dov’è coltivata da oltre 4.000 anni. Portata in Italia, i Romani la chiamarono ziziphum e, scelta quale simbolo del silenzio, adornavano i templi della dea Prudenza mentre, secondo Erodoto, Egizi e Fenici - più pragmatici - con le giuggiole producevano un loro “vino”. La diffusione “recente” della pianta in Italia si deve ai veneziani che, dall’oriente, la propagarono in Dalmazia, nella laguna, nei Colli Euganei e nella Romagna dove il giuggiolo piacque alla gente e Castore Durante, nel suo Herbario novo del 1585, ri-
cordava che le giuggiole “… sono molto desiderate dalle donne e dalli sfrenati fanciulli”. Oltre che mangiarli, coi frutti si ricavava uno sciroppo contro la tosse mentre, col decotto, s’impastavano pasticche con proprietà medicinali emollienti, diuretiche, sedative, ecc. Il giuggiolo (Ziziphus jujuba, fam. Rhamnaceae) è chiamato anche dattero cinese per i suoi frutti: le giuggiole. Cresce lentamente ed è tanto longevo da rintracciare sporadici esemplari plurisecolari di grande mole che, con fortuna, sono sopravvissuti presso vecchie case o cascinali abbandonati. È una pianta mellifera molto visitata dalle api che producono un miele raro per l’insolita presenza del giuggiolo, un tempo usato anche per certe siepi difensive che, con le spine del fitto intreccio sui rami, creavano una barriera pressoché impenetrabile. Capace di arrivare anche a 6-8 m, ha le foglie verde-chiaro, arrotondate, mentre le profonde radici consentono di resistere alla siccità. I rami spinosi, ramificati e contorti, producono piccoli fiori bianco-verdastri che tra settembre e ottobre maturano le giuggiole, frutti grossi come un’oliva. Sono drupe con la buccia marrone lucida e sottile, la polpa compatta e farinosa, dolce ma appena acidula e con 8-9% di zuccheri e 2-3% di proteine create da ben 18 dei 24 aminoacidi. Ricche di vitamine, su tutte la C, fra i minerali si annotano potassio, manga-
Uno sguardo alla natura
I frutti ricchi di vitamine e minerali L’uso improprio dell’espressione “un brodo di giuggiole
nese, ferro, fosforo, ecc. Nelle giuggiole acerbe è curioso verificare l’effetto di un composto, la zizifina, che in bocca annulla la percezione del sapore dolce. Come frutti, le giuggiole sono consumate fresche, mature e appena colte dall’albero, o quando al procedere della maturazione, scure e rugose, sono raggrinzite ed il loro sapore, più dolce, ricorda quello dei datteri. Il consumo delle giuggiole è considerato innocuo ma lo era secondo le nonne (di una volta) le quali ritenevano che, ai bambini, le bucce avrebbero procurato l’appendicite mentre, recentemente, il Ministero della Salute riconoscendo i caratteri emollienti, lenitivi, promotori di sonno e di benessere, ha consentito l’aggiunta di estratti del giuggiolo negli integratori alimentari. Con le giuggiole la medicina popolare preparava decotti ma, in cucina, quei frutti divennero materia prima per certe rare confetture. Ma, su tutto, quei frutti sono legati all’espressione “brodo di giuggiole” usata per indicare qualcosa di buono che, nel modo di dire “andare in brodo di giuggiole”, denota esprimere sia uno stato d’animo positivo che il gongolare di gioia abbinati al gradimento del preparato. Pare, però, che il significato sia stato trasferito alle giuggiole dalle sùcciole - le castagne cotte nell’acqua gradite ai Toscani e ricordate nel Vocabolario della Crusca del 1612 per via “ … del succiarle che si fa mangiandole”. L’assonanza ha
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trasformato “sùcciola” in “giùggiola” usurpando il significato. In realtà, il brodo di giuggiole non è un gran che e, nelle preparazioni attuali, viene arricchito con le varianti applicate alla ricetta più antica, quella che era in voga presso la corte dei Gonzaga i quali deliziavano i loro ospiti con questo liquore. Chi si volesse cimentare dovrà provvedersi di giuggiole un po’ appassite, altrettanto zucchero, uva zibibbo, un po’ di vino, mele cotogne, un limone. In una pentola metta uva, zucchero, le giuggiole e ricopra con l’acqua poi, una volta a bollore, immetta pezzi delle mele cotogne e il vino. Aggiunga la buccia grattugiata del limone e torni a far bollire ottenendo uno sciroppo cremoso che, filtrato su un canovaccio, sarà riposto nelle bottiglie. Risulterà dolciastro e gustoso. Permettetemi, però, un amarcord della mia infanzia, dimenticato, ma tornato in mente nella scena e nel sapore. Con le giuggiole raccolte dall’albero vicino a casa, la mia nonna preparava certi biscotti che sarebbero stati la mia colazione prima di andare all’asilo. La nonna, con le giuggiole snocciolate e frantumate, con la farina gialla della polenta e quella di frumento, un po’ di zucchero e un uovo impastava tutto col latte. Una volta formati i panetti, cuoceva i biscotti nel forno della cucina. La mattina dopo li avrei tuffati nella tazza col latte caldo. ¤
L’associazione
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LE CENTO CITTA’ Associazione per le Marche Fondata nel 1995 “L’Associazione si pone lo scopo di promuovere e coordinare studi ed azioni finalizzati a rafforzare l’identità culturale della Regione Marche e a favorirne lo sviluppo economico e sociale attraverso la conoscenza e la valorizzazione delle realtà esistenti, il recupero e la tutela del passato, la collaborazione tra soggetti pubblici e privati, la partecipazione al dialogo culturale interregionale ed europeo, nonché con le comunità marchigiane all’estero.” (Art.3 dello Statuto)
Presidenti
Giovanni Danieli
(marzo 1995 – dicembre 1996)
Catervo Cangiotti
(gennaio 1996 – dicembre 1997)
Folco Di Santo
(gennaio 1998 – dicembre 1999)
Alberto Berardi
(gennaio 2000 – dicembre 2001)
Evio Hermas Ercoli
(gennaio 2002 – dicembre 2003)
Mario Canti
(gennaio 2004 – luglio 2005)
Enrico Paciaroni
(agosto 2005 – dicembre 2006)
Tullio Tonnini
(gennaio 2007 – dicembre 2007)
Bruno Brandoni
(gennaio 2008 – luglio 2008)
Alberto Pellegrino
(agosto 2008 – luglio 2009)
Walter Scotucci
(agosto 2009 – luglio 2010)
Maria Luisa Polichetti (agosto 2010 – luglio 2011)
Ettore Franca
(agosto 2011 – luglio 2012)
Natale Frega
(agosto 2012 – luglio 2013)
Maurizio Cinelli
(agosto 2013 – luglio 2014)
Giovanni Danieli
(agosto 2014 – luglio 2015)
Luciano Capodaglio
(agosto 2015 – luglio 2016)
Marco Belogi
(agosto 2016 – luglio 2017)
Giorgio Rossi
(agosto 2017 – luglio 2018)
Mara Silvestrini
(agosto 2018 – luglio 2019)
Donatella Menchetti
(agosto 2019 – luglio 2020)
Le Cento Città Direttore responsabile Franco Elisei Direttore editoriale Maurizio Cinelli Comitato editoriale Marco Belogi Fabio Brisighelli Claudio Desideri Giordano Pierlorenzi Claudio Sargenti Mara Silvestrini
Anno XXV
Direzione, redazione amministrazione Associazione Le Cento Città redazionecentocitta@ gmail.com
Progetto grafico Poliarte Accademia di design Ancona Coordinamento progetto grafico e impaginazione Prof. Sergio Giantomassi Stampa Errebi Grafiche Ripesi Falconara M.ma Presidente Le Cento Città Filiberto Bracalente
Sede Via Asiago 12 60124, Ancona Poste Italiane Spa spedizione in abbonamento postale 70% CN AN Reg. del Tribunale di Ancona n.20 del 10/7/1995 Rivista riconosciuta come bene culturale di interesse storico dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali
72/73|2020
25° dal 1995