Sped. in a.p. - 70% - Filiale di Ancona
Rivista di divulgazione culturale e artistica del territorio marchigiano
ARTE | STORIA | ARCHEOLOGIA | LETTERATURA | SOCIETÀ | MUSICA | SCIENZE
I miracoli di Francesco nella Marca
Progetto Unesco Storia del Conero in un’antica mappa
Il recupero L’archivio di pietra nel Campo degli Ebrei
A PAGINA 9
A PAGINA 49
NUMERO
65|2018 DICEMBRE
L’editoriale
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Natale all’insegna di Francesco e Unesco
I di Mara Silvestrini Presidente de Le Cento Città
l primo desiderio nel presentare il numero 65 della nostra rivista è quello di augurarvi un felice Natale e un anno nuovo fruttuoso e sereno. Un 2019 che veda la nostra associazione sempre più impegnata nella promozione della cultura e del suo ruolo strategico nella comunità e nell’organizzazione di iniziative di conoscenza per tutti i soci. Come ricorda il nostro manifesto d’intenti, siamo un’associazione di persone “con un forte impegno civile” che si sono incontrate per creare un “ponte ideale in una regione al plurale come
le Marche”, per “far conoscere al nord della regione le qualità del suo centro e del suo sud, all’area montana quella della costa e della collina e viceversa”, valorizzando “gli ingegni e la creatività che la arricchiscono”. Un desiderio di valorizzazione che ci accompagna sempre più come associazione, e ancor più nelle pagine della rivista de
‘LeCentoCittà’ attraverso la quale superare “un pensiero unico dilagante” e aprirci “all’innovazione e alla ricerca”, alla conoscenza di una regione concepita come un laboratorio culturale “per un nuovo sviluppo capace di dialogare con la memoria storica e con la nostra identità”. Auguro un anno che spero possa avere il marchio di un sorriso che desidero condividere con tutti voi, soci, lettori e simpatizzanti, soprattutto per ringraziarvi del successo delle prime iniziative previste dal mio programma, che si sono svolte in un clima bello e amichevole, con la partecipazione ogni volta di tantissime persone. Accanto a questo numero de ‘LeCentoCittà’ per questo Natale abbiamo deciso di regalarci una pubblicazione. Un prodotto di poesia per rappresentarci come associazione che potremo donare a chi incontreremo nelle nostre iniziative, alle istituzioni e che spero saprà farci ricordare grazie alle parole dei testi raccolti e curati da Nando Cecini. “Marche. Una poesia di confine” è un omaggio alla nostra regione, terra di confine, e ai suoi poeti che si sono spesso allontanati, ma anche a quelli che l’hanno conosciuta “quasi sempre innamorandosi”, come scrive Cecini. Un racconto delle Marche attraverso le poesie che l’hanno raccontata, descritta, interpretata, con la presenza di autori fondamentali della storia della letteratura italiana, come Dante Alighieri, Torquato Tasso e Giacomo Leopardi che descrive questo territorio nell’Infinito “aperto oltre la siepe che è un confine
L’editoriale
Omaggio alle Marche con 20 poeti che hanno conosciuto e si sono ben presto innamorati della nostra regione
Nella pagina precedente, una nota immagine di San Francesco che nel 1208 iniziò la sua avventura itinerante In alto, la Riviera del Conero la cui candidatura a patrimonio dell'Unesco è stata lanciata dall'associazione Le Cento Città Qui sopra, un autoritratto di Raffaello Sanzio
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ma talmente aperto da raggiungere la bellezza eterna della poesia”, accanto a poeti più contemporanei come Gabriele D’Annunzio, Luigi Bartolini, Fabio Tombari. Questo allegato sarà un biglietto da visita per l’associazione insieme alla nostra rivista che in questo numero mette in primo piano la figura di San Francesco, del quale il prossimo anno si celebrano gli 800 anni dalla partenza dal porto di Ancona per raggiungere la Terra Santa, e il suo rapporto con il Natale, che lo portò nel 1223 alla creazione del presepio di Greggio, e con le Marche, terra amata e conosciuta in numerosi passaggi, “figlia primogenita” del santo di Assisi. In questo numero de ‘LeCentoCittà’ conosceremo attraverso un’intervista chi è monsignor Stefano Russo, vescovo di Fabriano e Matelica e nuovo segretario della Conferenza episcopale italiana, scopriremo il Campo degli ebrei ad Ancona e con esso la storia della cultura ebraica nella città, ripercorreremo le motivazioni che spinsero alla nascita della legge Basaglia, avvenuta quarant’anni fa,
racconteremo la storia delle vittime della Grande guerra e presenteremo la grande mostra e tutte le altre iniziative previste ad Urbino per i 500 anni dalla morte di Raffaello. Continua inoltre l’approfondimento dedicato ai luoghi della Riviera del Conero, per la quale abbiamo proposto il riconoscimento Unesco, scoprendo dove e quali fossero gli eremi del monte Conero, una realtà ancora non del tutto conosciuta. L’associazione ‘LeCentoCittà’ prosegue dunque nel sostegno a questa idea, appoggiata anche dall’assessore al Turismo e alla Cultura della Regione Marche Moreno Pieroni e dal consigliere regionale Gianluca Busilacchi, con la creazione di un coordinamento guidato dal past president Giorgio Rossi, che ha lanciato l’iniziativa, e composto dai soci Marco Bellardi, Claudio Desideri, Rita Materazzi, dal direttore de Lecentocittà Franco Elisei con la partecipazione dell'attuale presidente Mara Silvestrini. Noi continueremo ad arricchire di contenuti questo viaggio con la rivista e a lavorarci perché le sfide, e questa lo è, non ci fanno paura. ¤
Argomenti
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Sommario 7
L’intervista
“Una chiesa trasparente e al passo con i tempi” DI VINCENZO VARAGONA
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Progetto Unesco
Un’antica mappa svela la storia del Conero DI GAIA PIGNOCCHI
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La memoria
Dieci “penne” vittime della Grande Guerra DI ALESSANDRO FELIZIANI
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L’artista
Bucci, pittore-soldato disegnava in trincea DI ALBERTO PELLEGRINO
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L’anniversario
Urbino, in ogni angolo un legame con Raffaello DI LUIGI BENELLI
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La collezione
Mito & devozione, l’arte entra in Confindustria DI MICHELE ROMANO
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Il recupero
Cimitero degli ebrei “archivio di pietra” DI PAOLA CIMARELLI
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Il pellegrino di Assisi
I miracoli di Francesco nella Provincia stellata DI MARCO BELOGI
Argomenti
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Sommario 39
Storia
1860, truppe piemontesi passarono il Tavollo DI DANTE TREBBI
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Scienza
Premio Nobel sfiorato dall’Adone italiano DI FRANCESCO GRIANTI
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Quaranta anni fa
Riforma Basaglia una rivoluzione tradita DI SALVATORE PASSANISI
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La sede Istao | 1
Nella villa dei misteri Ancona si unì all'Italia DI CLAUDIO SARGENTI
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La sede Istao | 2
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Archeologia
Da casa di villeggiatura a centro internazionale
Collettore romano riemerso dopo il sisma DI GIANFRANCO PACI
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Previdenza
“Tagli” alle pensioni e principi costituzionali DI MAURIZIO CINELLI
In copertina un'illustrazione di Sergio Giantomassi ispirata ad un'icona bizantina
L’intervista
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“Una chiesa trasparente e al passo con i tempi” MONS. RUSSO, NUOVO SEGRETARIO GENERALE DELLA CEI
P di Vincenzo Varagona
er la prima volta la Chiesa marchigiana esprime il Segretario generale della CEI: è monsignor Stefano Russo, ascolano, 57 anni, Vescovo di Fabriano-Matelica. Ordinato sacerdote nel 1991 dall’allora Vescovo di Ascoli Piceno, Marcello Morgante, forte di una laurea in architettura, si occupa da sempre della tutela e conservazione del patrimonio sacro, artistico, culturale dei beni diocesani e marchigiani, in particolare dopo gli eventi sismici del 1997 e più recentemente, del 2016. Nel novembre del 2015 diviene Parroco ai Santi Pietro e Paolo, in Ascoli Piceno. Il 18 marzo 2016 Papa Francesco lo ha nominato Vescovo di Fabriano-Matelica. Il 28 maggio l’ordinazione. Oggi è Vice Presidente della Conferenza Episcopale Marchigiana. Dal 28 settembre è stato nominato Segretario generale della CEI. Eccellenza, sembra un buon momento per la Chiesa marchigiana. In poco tempo vede esprimere due cardinali (Edoardo Menichelli e Giuseppe Petrocchi) e il segretario generale della Cei. Nella storia recente non era mai successo. Come interpreta questo segnale? Forse c’è anche un’attenzione alla precarietà determinata dal terremoto? Senza forzare le cose, possiamo certamente leggervi un segnale di fiducia nella Chiesa marchigiana. Posso dire che per quanto riguarda sia la mia esperienza
di sacerdote, sia quella più recente di vescovo, nella nostra terra c’è un dato di attenzione ai valori del confronto e del dialogo, direi a una sinodalità che riesce a svilupparsi in modo efficace. Questa, almeno, è la strada che cerchiamo di percorrere, con tutte le difficoltà della stagione che stiamo vivendo, caratterizzata da precarietà come quelle determinate dalla crisi economica e dal terremoto. A proposito di terremoto, Fabriano ha lamentato fin dal 1997 una scarsa attenzione, come fosse periferia anche nel trattamento degli ‘effetti sisma’. Qual è il momento che la comunità fabrianese sta vivendo? Parto dall’oggi: viviamo un tempo particolare. Abbiamo appena avviato l’anno pastorale, puntando sull’invito di papa Francesco a lavorare sul cammino verso la santità. Vede, arrivando a Fabriano ho scoperto una terra ricca, per natura, paesaggio, patrimonio artistico e storia. A colpirmi, tuttavia, sono state le storie di straordinaria santità vissute nei secoli. Si tratta di un patrimonio importante da valorizzare, uno stimolo per risollevarci da questo tempo difficile che ha già provocato tante ferite, soprattutto psicologiche, legate al sisma e alla crisi di aziende che un tempo sono state il punto di forza di questo territorio e di queste comunità. Torniamo alle difficoltà: la crisi, il terremoto, hanno decimato le comunità
L’intervista
Il vescovo di Fabriano e Matelica laureato in architettura “Abbiamo un patrimonio straordinario”
Nella pagina precedente e qui sopra Monsignor Stefano Russo vescovo di Fabriano, nominato segretario generale della Cei In alto, una seduta della Conferenza episcopale
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soprattutto per quello che riguarda la presenza giovanile. Oggi la politica si sta rendendo conto che i giovani non sono il futuro, ma il presente... Viviamo un tempo di forte disagio. La comunità ecclesiale ha sempre considerato i giovani una risorsa del presente. Credo che possiamo accrescere questo percorso, rendendoli consapevoli del loro essere protagonisti, come persone che costruiscono la Chiesa e la società: di qui l’impegno a coinvolgerli maggiormente. Vede, è una scoperta continua, quotidiana: il cristiano che incontra Gesù scopre una libertà che altrimenti non conoscerebbe. Paolo VI diceva che la politica è la più alta forma della carità. Papa Francesco rafforza questa immagine sostenendo che la politica è preziosa se intesa come esercizio del bene comune. La gente fa una grande difficoltà a vivere questo servizio in modo positivo... E’ una sfida importante. La nostra Chiesa può giocare un ruolo consistente nel riavvicinare la nostra gente a un rapporto fiducioso con la politica. Il Papa ci invita a esercitare questa missione, imparando a gestire le risorse orientandole al bene comune. Aggiungo che, a nostra volta, vogliamo una Chiesa trasparente, al passo con i tempi, capace di interpretare uno stile di dialogo con la contemporaneità. Accetti una battuta sulla ‘Chiesa appenninica’: c’è stata sempre una grande
attenzione ‘geoecclesiale’ che ha visto la Cei essere rappresentata con attenzioni particolari, rispetto alla romanocentricità. Oggi i vertici episcopali sono per così dire concentrati in pochi chilometri, Perugia e Fabriano... La nostra è una storia di persone di fede, in virtù della grazia che ci è stata donata. Siamo chiamati ad affidarci, a riconoscerci in un progetto che Dio ha disegnato per noi e a realizzarlo con umiltà, forti di una grazia che si manifesta nell’incontro con le persone, che ci rende comunità. Lei è laureato in architettura, formazione mai determinante in momenti come gli attuali, in cui il nostro patrimonio è stato decimato dagli ultimi eventi. Come ne usciremo? E’ necessario avviare la fase della ricostruzione nel rispetto della legalità e della trasparenza. Spero davvero che sia possibile rendere rapido e efficace il processo di ricostruzione, sia delle abitazioni, sia dei luoghi di culto, i più danneggiati. Abbiamo un patrimonio straordinario che caratterizza fortemente i nostri centri storici, e finora abbiamo vissuto grandi difficoltà a avviare la fase di recupero. Il nostro invito è quello di mantenere alti i valori della legalità e trasparenza, anche attraverso la circolazione degli incarichi. Sappiamo bene che la ricostruzione può essere una straordinaria occasione di rinascita per le persone e per la società. ¤
Progetto Unesco
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Un’antica mappa svela la storia del Conero NEL MANOSCRITTO, TRACCE DI INSEDIAMENTI MEDIOEVALI
I di Gaia Pignocchi
Una magnifica veduta della Riviera del Conero dal sentiero che collegava San Pietro a Santa Maria
l Monte Cònero è un rilievo calcareo di 572 metri s.l.m. che interrompe, tra la città di Ancona a nord e Sirolo a sud, la lunga fascia costiera adriatica bassa e sabbiosa pressoché continua da Trieste al Gargano. Nonostante l’altitudine inferiore ai 600 m, merita comunque l’appellativo di monte in quanto si erge isolato e massiccio, con coste rocciose alte e scoscese sul versante orientale a picco sul mare e percorsi ripidi e impervi tra forre, pareti calcaree e folta vegetazione. Costituisce il cuore dell’omonimo Parco regionale, un’area protetta che si estende su 6000 ettari tra i comuni di Ancona, Camerano, Sirolo e Numana, istituita nel 1987 e divenuta operativa nel 1991, prima come Consorzio e poi dal 2006 come Ente.
Il Monte Conero è uno scrigno straordinario di emergenze geologiche, ambientali, naturalistiche, oltre che archeologiche e storiche, ancora poco note. La prima rappresentazione di queste testimonianze notevoli proviene da un’antica mappa
del versante nord orientale del monte, corredata di pertinenti didascalie. Una sorprendente veduta prospettica da mare del rilievo e del tratto di costa che si estende dallo scoglio del Trave a nord (n. 42 – “Scogli lunghi in mare a pelo d’acqua detto il Trave”) fino alla Spiaggia dei Gabbiani a sud (n. 43 – “Scogli in mare appiè di detta ripa”) per uno sviluppo di quasi 7 km, compresso longitudinalmente da nord-ovest a sud-est. Una straordinaria istantanea non solo della frequentazione umana del Conero a partire dall’epoca medievale fino al XVII secolo, ma anche una precisissima rappresentazione delle caratteristiche geomorfologiche del versante a mare, confermate dai più recenti studi geologici (Montanari A., Mainiero M., Coccioni R., Pignocchi G. 2016, Catastrophic landslide of medieval Portonovo, Ancona, Italy), Geological Society of America Bulletin, vol. 128, issue 11-12, pp. 1660-1678) e dalle meticolose esplorazioni dell’area, illustrate dettagliatamente nella nuova guida di Francesco Burattini, Conero. I sentieri del lavoro, Ancona 2017. Attualmente la sottoscritta sta completando lo studio e la pubblicazione degli eremi benedettini e camaldolesi del Monte Conero (Gaia Pignocchi, Eremi e monasteri sul Monte Conero. San Pietro e San Benedetto), mentre con il CAI si sta procedendo al monitoraggio dell’area di riserva integrale in accordo con il Parco del Conero. L’antica mappa è riportata in un manoscritto stilato nel 1640 dallo storico canonico anconitano Giuliano Saracini,
Progetto Unesco
Il monte è uno scrigno straordinario di informazioni ambientali archeologiche e religiose
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Raccolta delle cose memorabili di Ancona città a capo di una delle Marche d’Italia posta al monte Conero e mare Adriatico a fronte della Dalmazia conservato presso l’Archivio Diocesano di Ancona e attualmente non reperibile. La stessa mappa, corredata delle didascalie originarie, ricompare in un manoscritto senza data di Camillo Albertini come appendice alla sua Storia di Ancona, consultabile nella Biblioteca comunale Benincasa (Albertini, C. 1824, Appendice alla Storia di Ancona I, manoscritto). La mappa del Saracini fu vista da Vincenzo Pirani che ne pubblicò una copia, sicuramente ricalcata dall’originale dato il tratto elementare e semplificato, nel numero del 19 luglio 1981 del periodico dell’Arcidiocesi Ancona-Osimo “Presenza”. Numerose, invece, le moderne riproduzioni della mappa trascritta dall’Albertini, facilmente reperibile, più volte pubblicata, ma sempre in ma-
niera generica e anzi talvolta con errori di interpretazione, in particolare di quel numero in alto a sinistra, da molti letto come un 1249 per la presenza di quel tratto lineare apparentemente staccato dal numero 2, scritto in forma rotonda e chiusa, di cui invece rappresenta una caratteristica calligrafica dell’autore. Nel manoscritto dell’Albertini la mappa del Conero figura infatti nella carta 249 recto, come indicato dal numero in alto a sinistra, da molti interpretato erroneamente come indicazione cronologica anziché come numero progressivo della paginazione del manoscritto. Arrivando alla descrizione delle emergenze rappresentate, elencate in maniera sintetica ma distintiva nelle didascalie riportate nelle carte successive del manoscritto, occorre notare che sia sulla mappa sia nelle didascalie mancano i nn. 1-2. Si parte dal n. 3, la “Torre in cima del monte per la guardia
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dei vascelli in mare”, posizionata proprio sulla vetta del Monte Conero dove nel 1895 fu installato il Semaforo dalla Regia Marina Militare. Anche la costruzione disegnata sulla mappa, di forma parallelepipeda, poteva essere una postazione non solo di avvistamento, ma anche di segnalazione luminosa non solo per le navi che transitavano in quel tratto di costa ma anche in caso di pericolo. La vetta del Monte Conero ha da sempre rivestito un importante ruolo come punto strategico di controllo e di trasmissione dati, infatti sulla sommità è attualmente presente una stazione di ripetitori, civile (centro RAI) e militare (centro operativo della marina militare italiana). Ben diversa la torre merlata rappresentata in prossimità del mare (n. 31), la “Torre per la guardia dello sbarco sopra un colle”, con funzione esclusiva di avvistamento già dal Medioevo, i cui resti sono stati recentemente segnalati appena sotto il nuovo campeggio nell’area oggi detta “del contadino”. Questa torre rimase sicuramente in uso fino alla costruzione della Torre di Guardia fatta innalzare nel 1716 da Papa Clemente XI (conosciuta come Torre De Bosis), oppure fino all’edificazione del Fortino Napoleonico nel 1808, entrambi non indicati nella mappa. La torre numero 31 era di controllo all’accesso al “Lago detto Stagno di miglia due di giro d’acqua dolce al mare” (n. 28) (ora Lago Grande o del Calcagno) che in età medievale era molto più ampio e comunicava direttamente con il mare attraverso un’imboccatura (Bocca del lago con palificate – n. 40). Un lago salmastro alimentato dalla sorgente d’acqua n. 27 (Fontana con grosso capo d’acqua che casca da alto), dunque un punto privilegiato di ricovero e di approvvigionamento di acqua potabile per le navi che transitavano in quel trat-
11 to di costa, da cui il toponimo Novo Porto, attestato fin dal Medioevo e che presumibilmente deriva dall’età romana. La mappa del Saracini, ripresa poi dall’Albertini, presenta alcune incongruenze legate in particolar modo all’evento catastrofico della frana che staccatasi dal fianco nord-orientale del Monte Conero da un’altezza di 400 metri e precipitata sul litorale di Portonovo, ha determinato la caratteristica lingua di detriti conosciuta con il termine “Calcagno”, tra la Torre Clementina e il ristorante Emilia. Uno studio recente interdisciplinare condotto da un team di ricercatori (il geologo Alessandro Montanari, il geotecnico Maurizio Mainiero, il paleontologo Rodolfo Coccioni) ha rivelato che la gigantesca frana è avvenuta in epoca relativamente recente. Dettagliate analisi geologiche e geo-cronologiche correlate alle testimonianze storiche hanno potuto stabilire che l’evento non è avvenuto in epoca preistorica, come in precedenza si credeva, ma in epoca storica e più probabilmente nel 1319, quando “…terrae motus quasi quotidie et ultra solitum…” causò la morte dell’abate e di alcuni confratelli dell’abbazia di Santa Maria di Portonovo, costringendo i monaci sopravvissuti a chiedere disperatamente al vescovo d’Ancona Nicolò degli Ungari di abbandonare il loro monastero. Analizzando la mappa del Saracini è evidente che, nonostante il dettaglio delle informazioni, manca proprio la lingua protesa verso il mare causata dalla frana, nel 1600 già avvenuta, quel “Calcagno” ben documentato in una mappa della stessa epoca conservata nella Biblioteca comunale di Civitanova Marche. E’ evidente nella mappa del Saracini, come in quella dell’Albertini, la diversa conformazione della linea di costa della baia di Portonovo, pres-
LEGENDA
3) Torre in cima del monte per la guardia dei vascelli in mare 4-5) Dirupo inaccessibile avanti la torre, 6) Chiesa di S. Pietro dei frati Camaldolesi, 7) Eremitorio loro nella selva con molte celle, 8) Chiesetta di S. Giovanni Battista nella selva 9) Chiesa di S. Benedetto con casa sopra una balza, 10) Strada erta per andarvi, 11) Strada precipitosa che va per l'altra parte, 12) Cappelletta con albergo di un eremita di San Giuseppe, 13) Canale detto sassetto, 14) Canale Rosso precipitoso, 15) Canale di S. Giovanni 16) Canal Bianco, 17) Cappelletta di S. Giovanni, 18) Cappelletta di S. Paolo sotto una balza di un eremita, 19) Balza sassosa terribile 20) Valle di Ciriesia sopra il dorso del monte basso, 21) Ripa di Chiarone, 22) Lago grande detto il profondo, 23) Fornaci da far pietre cotte, 24) S. Maria di Portonovo col monastero grande, 25) Ruvine di fabbriche cadute in mare di detto monastero, 26) Colli con boscaglia per tutto sassosi e malagevoli 27) Fontana con grosso capo d’acqua che casca dall’alto, 28) Lago detto Stagno di miglia due di giro d'acqua dolce al mare, 29) Valle detta di Sanguineto, 30) Valle detta Sambucheto, 31) Torre per la guardia dello sbarco sopra un colle 32) Stradellino tristo ed erto 33) Vallone di sopra, che viene al basso, 34) Tana delle Volpe 35) Cappelletta detta la figuretta 36) Il Castello del Poggio 37) Osteria, 38) Fossato publico 39) Via publica, che si va a cavallo 40) Bocca del lago con palificate 41) Ripe contro il Levante, 42) Scogli lunghi in mare a pelo d’acqua detto il Trave, 43) Scogli in mare appiè di detta ripa, 44) Scogli alti puntati in mare, 45) Strada difficilissima che viene da San Pietro alla Madonna di Portonovo, 46) Sacca, che fa il mare detta Calcagno, 47) Valle Ombrosa di sassi e sterpi
A sinistra in alto, l'antica mappa (qui in alto la legenda) Sopra, la chiesa di San Pietro sul Monte Conero
Progetto Unesco
La prima mappa dello storico canonico anconetano Saracini ricompare nel 1824 in un manoscritto di Albertini
Sopra, capitello con animali mostruosi nella chiesa di San Pietro al Conero
12 soché continua dalla chiesa di Santa Maria fino al Trave, con lo specchio d’acqua del Lago Grande di Portonovo molto più piccolo rispetto a quanto descritto nella didascalia (miglia due di giro). Ambigua è anche la didascalia 46 (Sacca che fa il mare detta Calcagno). Se per sacca si intende una baia o golfo dalla linea concava, come è rappresentata nella mappa, anziché convessa, come invece risultava dopo la frana del 1319, significa che l’evento franoso non è qui rappresentato, anche se d’altro canto nella medesima didascalia viene usato il termine “Calcagno” che indica inequivocabilmente il promontorio a forma di tallone generato dai detriti precipitati a mare. Nella mappa, inoltre, la conformazione del monte risulta antecedente all’evento catastrofico causato dal distacco di quel rilevo soprastante le valli dette Sanguineto e Sambucheto (nn. 29-30), qui ancora rappresentato. Dunque ci chiediamo: forse Saracini nel XVII secolo ha copiato una mappa più antica redatta prima del 1319, a noi non pervenuta e poi ripresa anche dall’Albertini due secoli più tardi? Quello di cui siamo certi è che la potente frana ha segnato la storia di “Santa Maria di Portonovo col Monastero grande” (n. 24), precipitosamente abbandonato dai suoi monaci nel 1320. La chiesa di Santa Maria, gioiello romanico di puro calcare bianco che si staglia sull'azzurro del mare ai piedi del versante nord orientale del Monte Conero, fu edificata nelle forme attuali nell’XI secolo (forse tra 1070 e 1080) probabilmente sui resti di un modesto edificio sacro più antico eretto su una porzione di un fondo “Cumano” “in novo Portu, subtus montem qui vocatur Conero”, che, come scritto in un documento del 1034 ora disperso, fu concesso ad
un certo abate Paolo. Del monastero, sul lato nord della chiesa, non rimane traccia, essendo stato progressivamente eroso dal mare che ora arriva a pochi metri. Fanno eccezione i resti della cisterna, visibili dalla spiaggia, e delle fondamenta del campanile, costruito distaccato dall’edificio sacro. Sul lato meridionale si estendeva una piccola area cimiteriale che raccoglieva le spoglie dei monaci. Volgendo lo sguardo in alto sulla mappa si incontra la “Chiesa di San Pietro dei frati Camaldolesi” (n. 6), il secondo importante monastero del Monte Conero, dalla storia lunga e affascinante. Poco al di sotto della vetta, a 464 m slm, su un pianoro che guarda a sud-est, in direzione di Sirolo e Loreto, circondata dal bosco, sorge infatti la Badia di San Pietro che, dietro la facciata settecentesca scandita da lesene, svela una chiesa romanica con cripta decorata da splendidi capitelli con raffigurazioni vegetali e animali, tra i più belli delle Marche. Intorno all’edificio religioso, sorto come monastero benedettino, sorgeva il convento, ampliato nel XVI secolo dagli eremiti camaldolesi di Montecorona, i cui locali hanno subito profondi restauri e cambi d’uso e attualmente sono adibiti a struttura alberghiera. Del complesso si hanno notizie a partire dal documento del 1038, che riporta la donazione della chiesa del beato Pietro apostolo (ecclesia beati Petri apostoli) all'abate benedettino Guimezone da parte dei conti Cortesi di Sirolo. Nell’anno 1203 la chiesa è stata ulteriormente ampliata e abbellita, come si legge in un’epigrafe ora mutila, murata sulla parete esterna di un’abitazione privata di Sirolo, e come si evince anche dal diverso stile dei capitelli della cripta rispetto a quelli delle navate superiori. Fino al XIV secolo il monaste-
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ro benedettino di San Pietro al Conero godette di prosperità, governato da vari abati liberamente scelti, ma poi iniziò la decadenza, continuata inarrestabile fino al completo abbandono interrotto nel 1483 dall’arrivo del Beato Girolamo Ginelli, che vi rimase fino al 1506. Prima di morire il Beato Ginelli aveva aderito alla Congregazione degli Eremiti di Santa Maria in Gonzaga, i quali dopo la sua morte presero possesso dell’eremo di San Pietro sul Conero dietro concessione del cardinale Pietro Accolti, allora vescovo di Ancona. Con l’arrivo dei Gonzaghiani la pace del Conero cessò. Iniziarono una serie di angherie a danno degli eremiti camaldolesi di Paolo Giustiniani che dal dicembre 1521 si erano insediati nel sottostante eremo di San Benedetto (n. 9 - Chiesa di San Benedetto con casa sopra una balza), un luogo solitario e affascinante, coperto dalla fitta boscaglia e confinante con la vastità infinita del mare, che sarebbe dovuto essere sede ideale di pace e meditazione. L’aspra contesa tra le due famiglie eremitiche terminò nel 1558, quando un incendio bruciò completamente il tetto della chiesa di San Pietro e dei locali attigui costringendo i Gonzaghiani, loro malgrado, ad abbandonare San Pietro, che assieme all’eremo di San Benedetto fu affidato ai camaldolesi romualdini. Il romitorio di San Benedetto costituisce il terzo importante edificio monastico sul Monte Conero, un luogo affascinante per ubicazione e storia, ma sconosciuto a molti in quanto celato in un’area del Parco inaccessibile. Proprio nell’eremo di San Benedetto dal 15 al 25 gennaio 1524 si tenne il primo capitolo della nuova compagnia degli Eremiti di San Romualdo, ora Congregazione degli eremiti
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camaldolesi di Montecorona, fondata da Paolo Giustiniani, già maggiore dell’eremo di Camaldoli. L’eremo di San Benedetto, composto inizialmente da una chiesetta rupestre scavata nella roccia, esisteva già dal 1038, essendo citato nel documento di donazione della chiesa di San Pietro come gruttam cum ecclesia Sancti Benedicti, ubicata nel luogo detto Pietra dell’Abbate (Petra Abbatis), la balza citata in didascalia, un balcone naturale panoramico rivolto a nord-est sovrastante la ripida costa rocciosa in corrispondenza dell’ex molo Davanzali, poco più a nord della spiaggia delle Due Sorelle. Particolarmente dettagliati nella mappa i riferimenti ad altri romitori e chiesette sul versante a mare del Monte Conero, che come l’eremo di San Benedetto sono ora compresi nell’Area di riserva integrale del Parco del Conero dove è vietata l’accessibilità se non espressamente autorizzata dall’Ente del Parco del
Nella mappa manca a sorpresa la frana del 1319 che costrinse i monaci ad abbandonare l’abbazia di S.Maria
Sopra, la chiesetta di Santa Maria a Portonovo vista dalle pendici del Conero
Progetto Unesco
Numerose le testimonianze di monasteri edicole sacre e di stradelli percorsi dagli eremiti in ginocchio
Sopra, vasca per la raccolta dell'acqua nell'area della Cappelletta di San Giuseppe Sotto,la chiesetta rupestre di San Benedetto (gruttam cum ecclesia Sancti Benedicti)
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Conero. La “chiesetta di San Giovanni Battista nella selva” (n. 8), ora scomparsa, probabilmente sorgeva nell’area del cosiddetto piazzale dell’Osservatorio, una spianata pianeggiante che si raggiunge in brevissimo tempo partendo dal lato orientale della chiesa di San Pietro oltrepassando il romitorio (n. 7 - Eremitorio loro nella selva con molte celle). Era posta lungo il percorso che scendeva a Sirolo (l’attuale sentiero 301 del Parco che costeggia il Belvedere sud). Questa “strada” in direzione est, che collegava il monastero di San Pietro alla chiesetta di San Giovanni Battista nella selva, nella mappa non ha didascalia ed è disegnata fino a poco oltre la chiesetta, quindi non sappiamo come proseguiva, ma sicuramente proseguiva fino a Sirolo. Scendendo da San Pietro verso San Benedetto, lungo il sentiero indicato con il n. 10 (Strada erta per andarvi), si staccava una strada (n. 11 Strada precipitosa che va per l'altra parte), usata per raggiungere Santa Maria di Portonovo coprendo un dislivello di oltre 400 m fino al mare, che sappiamo percorsa dagli eremiti anche in ginocchio, come era solito fare il Beato Ginelli. Lungo il sentiero, nella parte alta del monte, si incontra la “Cappelletta con albergo di un eremita di San Giuseppe” (n. 12). Di questa “cappelletta”, forse un piccolo edificio di culto o un tabernacolo accanto al quale era un ricovero per un eremita, rimangono una vasca per la raccolta dell’acqua e resti di una costruzione in pietre calcaree squadrate rifatte in epoca moderna.
A breve distanza la “Cappelletta di San Giovanni” (n. 17), tra il “canale rosso precipitoso” (n. 14) e il “canale di San Giovanni” (n. 15), della quale non rimangono resti visibili. La “Cappelletta di San Paolo sotto una balza per un eremita” (n. 18) (sotto la “balza sassosa terribile” n. 19 e tra il “fosso di San Giovanni” n. 15 e il “canal bianco” n. 16) è indicata solamente nella mappa che pubblica Pirani tratta da Saracini. Nella mappa dell’Albertini non figura il numero 18 né la rappresentazione grafica. Non è indicata nessuna strada o sentiero per arrivarci. Lungo la prima curva dello “stradellino tristo ed erto” (n. 32) che dal “Castello del Poggio” (n. 36) scendeva al Lago detto Stagno (Lago grande) è disegnata una “cappelletta detta la figuretta” (n. 35), forse una delle tante edicole sacre (indicate anche con il nome di tabernacoli o figurine o figurette o madonnine) frequenti agli incroci delle strade vicinali, nelle frazioni o borgate oppure lungo le vie, espressione di devozione popolare. In genere si tratta di piccoli tempietti in muratura con tetto a due falde e nicchia contenente l’immagine devozionale dipinta direttamente sull’intonaco delle pareti interne oppure come statuina a tutto tondo. Questa antica mappa rappresenta dunque una fonte straordinaria di informazioni di carattere storico, architettonico, geologico, ambientale e paesaggistico confermando la straordinarietà del Monte Conero, un luogo sempre più da conoscere e preservare. ¤
La memoria
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Dieci “penne” vittime della Grande Guerra I GIORNALISTI MARCHIGIANI MORTI NEL PRIMO CONFLITTO
L di Alessandro Feliziani
L’ingresso in guerra dell’Italia trovò una spinta decisiva grazie all’azione che molti giornali esercitarono sull’opinione pubblica
a storia del giornalismo italiano è fatta di grandi giornali e di famosi giornalisti, ma anche di tante “gazzette” di provincia e di coloro che le hanno fondate, dirette o che vi hanno collaborato con passione. Uno dei periodi più fecondi, per grandi e piccoli giornali, è stato sicuramente quello compreso tra l’epoca post unitaria e i primi anni del ‘900, fino alla prima guerra mondiale. In quegli anni nascono i grandi giornali nazionali (Corriere della Sera, La Stampa, Il Messaggero, Il Resto del Carlino) e sorgono ovunque fogli locali che vedono in prima linea tanti giovani intellettuali. Circoli ed associazioni della stampa si
costituiscono un po’ ovunque e in quegli anni – 1908 per l’esattezza – nasce la Federazione nazionale della stampa italiana. Quello locale è un giornalismo soprattutto di opinione, impegnato su questioni politiche e sociali. Nonostante il paese presentasse profonde fette di analfabetismo, i giornali furono un insostituibile mezzo di circolazione delle idee e il movimento a favore dell’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale tro-
vò una spinta decisiva anche nell’azione che molti giornali esercitarono sull’opinione pubblica. La Grande Guerra, così chiamata sin dai primi momenti per le inedite dimensioni del conflitto e per le modalità strategiche delle operazioni militari, fu in un certo senso anche la prima guerra “mediatica”. Non tanto nel significato che il termine ha assunto oggi, quanto per il fatto che i nuovi mezzi di comunicazione dell’epoca ebbero un loro ruolo (si pensi alla fotografia) durante, ma ancor prima che la guerra scoppiasse. Molti giornalisti, sostenitore del movimento interventista, furono tra i primi ad arruolarsi volontari e tra loro anche alcuni marchigiani che caddero in combattimento o a seguito delle ferite riportate. Il nome più conosciuto è quello di Filippo Corridoni, noto a tutti come sindacalista nella Milano del primo ‘900, il quale fu anche giornalista. Nato a Pausola (oggi Corridonia) il 19 agosto 1887, all’età di vent’anni fondò un giornale antimilitarista, “Rompete le righe” e successivamente “Bandiera Rossa”, che ebbe vita breve. Collaborò attivamente con altre testate: La Conquista, Bandiera Proletaria e Bandiera del Popolo. Per le sue battaglie sindacali ottenne l’appoggio di Mussolini che all’epoca era direttore de’ L’Avanti e nel 1914, allo scoppio della guerra, Corridoni ebbe una “conversione” a favore del movimento interventista, ritenendo che da una sconfitta della Germania e dell’Austria-Ungheria si potessero “aprire grandi opportunità per costruire su nuove basi economiche e sociali, ma soprattutto morali, una rivo-
La memoria
Da una lapide ritrovata per caso in uno scantinato Pierluigi Franz è riuscito a ricostruire la storia e le gesta dei giornalisti
16 luzione sociale”. Nel maggio 1915 Corridoni si presentò volontario, ma a causa del suo cagionevole stato di salute venne assegnato alle retrovie. Dopo molte insistenze riuscì ad essere inviato al fronte, partecipando ai combattimenti sul Carso. Il 23 ottobre 1915, in un’offensiva per la conquista di un avamposto nemico, fu colpito a morte e il suo corpo risulterà disperso. Tra i marchigiani caduti nella “Grande guerra” figurano anche due giornalisti che con i parametri di oggi potremmo definire “professionisti”, in quanto dediti in modo esclusivo all’attività giornalistica: Amilcare Mazzini, nato a Mondolfo il 22 maggio 1894 e Gaetano Serrani, nato a Tolentino il 6 novembre 1882. Amilcare Mazzini, figlio d’arte (suo padre Pietro era stato direttore de “Il Caffaro” di Genova), lavorò per La Stampa di Torino, che lo assunse come corrispondente da Parigi. Scrisse di sport per la Stampa sportiva ed anche per La Gazzetta dello Sport. Partì volontario per la Grande Guerra e combatté come ufficiale del 1° Reggimento Granatieri. Morì a Treschè Conca (Asiago) il 30 maggio 1916, colpito alla testa da una pallottola di fucile austriaco. Dettero notizia della sua morte La Stampa, L’Illustrazione della Guerra e la Stampa Sportiva. Il suo nome comparve sulla copertina de La Guerra Italiana del 15 ottobre 1916. Gaetano Serrani lasciò le Marche all’età di 21 anni per iniziare l’attività giornalistica. Nel 1914 era inviato de’ Il Resto del Carlino ed in tale veste intervistò Benito Mussolini, all’epoca direttore de’ L’Avanti. Tra i due nacque un’amicizia anche politica, tant’è che quando Mussolini, per dare voce all’area interventista del Partito socialista, fondò a Milano Il Popolo d’Italia, Serrani fu a suo fianco come principale redattore. Arruola-
tosi come sottotenente del 29° Reggimento fanteria, “Brigata Pisa”, morì il 17 marzo 1917 a seguito delle ferite riportate in un’azione bellica, lasciando orfani cinque figli, tutti in tenera età. Le sue spoglie sono sepolte nel Sacrario militare di Redipuglia. I nomi di Mazzini e Serrani figuravano tra quelli scolpiti – 83 in tutto – nella lapide “In memoria dei giornalisti morti per la Patria, 1915-1918” ritrovata casualmente nel 2011, dopo oltre mezzo secolo da quando se ne erano perse le tracce, negli scantinati di un palazzo romano. Quella lapide era stata posta nel 1934 nell’atrio del Circolo della Stampa di Roma ed il suo casuale ritrovamento ha destato la curiosità storica di Pierluigi Roesler Franz, a lungo firma del Corriere della Sera e de’ La Stampa, il quale approfondendo le ricerche ha individuato ben 264 giornalisti italiani caduti durante la prima guerra mondiale. Tutti i loro nomi sono ora ricordati in un libro, “Martiri di carta”, di cui sono autori lo stesso Franz e lo storico Enrico Serventi Longhi, pubblicato dall’editore Gaspari di Udine per conto della Fondazione sul giornalismo “Paolo Murialdi”. L’appassionato lavoro di Pierluigi Franz ha portato alla luce i nomi di altri giornalisti marchigiani e permesso di riscoprirne alcuni già conosciuti agli storici locali, come ad esempio il maceratese Arturo Mugnoz, al quale Marco Severini, Alessandra Fermani e Laura Montesi hanno dedicato un libro edito da Affinità elettive. Per Arturo Mugnoz (nato a Macerata il 3 agosto 1889) il giornalismo fu lo strumento per il proprio impegno intellettuale e politico, tanto che la parte più interessante della sua biografia si racchiude proprio nell’attività giornalistica condotta nell’arco di poco più di un quinquennio, fino al suo arruolamento. Le due “creature” di Mugnoz fu-
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rono L’Energia, quindicinale fondato nel 1910 e La Preparazione, settimanale edito a partire dal 1913. Collaborò anche al Fieramosca di Firenze, distaccandosi progressivamente dalle posizioni prezzoliniane, e seguì un gruppo di dissidenti che, guidati da Gaetano Salvemini, confluirono nel primo comitato redazionale dell’Unità. Sempre a Firenze contribuì alla nascita del foglio Risorgimento. Chiamato alle armi, raggiunse il fronte nell’ottobre 1916 e con il grado di sottotenente partecipò ai combattimenti tra l’Isonzo e il Carso. Il 28 maggio 1917 rimase gravemente ferito e morì a Villa Vicentina il 22 giugno 1917. Dopo la seconda guerra mondiale le sue spoglie sono state traslate nel cimitero di Treia, nella tomba della famiglia Mugnoz-Speranza. Il contributo di sangue offerto dalle Marche nella Grande Guerra annovera anche un giornalista caduto prima ancora dell’ingresso dell’Italia nel conflitto. È l’anconetano Lamberto Duranti, il quale nel 1914 si arruolò volontario nella Legione Garibaldina che operava nella regione francese delle Argonne. Il 5 gennaio 1915, nei pressi di La Harazee, fu colpito al cuore e morì nella trincea di Four de Paris. I suoi resti riposano nel cimitero di Tavernelle del capoluogo dorico. Come giornalista Duranti, che era nato il 21 gennaio 1890, collaborò assiduamente al Lucifero, noto giornale di Ancona e in seguito entrò nella redazione romana de’ La Ragione. Successivamente fu redattore de’ La Luce repubblicana, La Libertà di Ravenna, La Provincia Romana e Il Popolo di Perugia. Inviava resoconti anche dal fronte, tant’è che il giorno stesso della sua morte il giornale Il Secolo uscì con un suo servizio sulla battaglia di Bois de Bolante. Altri giornalisti, che si annoverano tra i circa ventimila militari marchigiani caduti nelle
17 Grande Guerra, sono: Augusto Agabiti, Alberico Bacciarello, Ennio Mancini, Manlio Marinelli, Eugenio Niccolai. Augusto Agabiti, scrittore e critico letterario, interventista e repubblicano, fu direttore dal 1914 della rivista teosofica “Ultra” di cui era stato collaboratore sin dal 1907. Nato a Pesaro il 7 gennaio 1879, morì a Roma (dove si era trasferito con la famiglia) il 5 ottobre 1918 a seguito della "spagnola", malattia contratta dopo aver combattuto al fronte come tenente del 1° reggimento genio. Alberico Bacciarello, nato ad Ancona il 16 settembre 1888, fu studioso del rapporto tra arte e cattolicesimo, nonché redattore – oltre che cofondatore – de’ L'Italia Nostra, settimanale “neutralista” edito a Roma, le cui pubblicazioni furono sospese con l’entrata in guerra dell'Italia. Chiamato alle armi ed arruolato come sottotenente nel 34° reggimento Fanteria (Brigata Livorno), morì per le ferite riportate in combattimento a Monte Sabotino il 24 ottobre 1915 e fu sepolto nel cimitero di quella stessa località. Ennio Mancini, nato a Iesi il 21 febbraio 1889, era figlio di un garibaldino e collaboratore della testata “Apostolato Mazziniano”, organo del Partito Mazziniano Italiano Intransigente, per un certo tempo stampato a Jesi. Scrisse l’opera “Storia del Partito Mazziniano Italiano Intransigente dal congresso di Roma del 1908 a tutto il 1912”, dove rivelò non solo la vicenda storica del Partito, ma anche i contrasti e le scissioni che ne caratterizzarono l’esistenza. Soldato del 77° Reggimento Fanteria Brigata Toscana, morì travolto dalla furia delle acque del Brenta, mentre si trovava al fronte con le truppe italiane che si stavano riorganizzando per arrestare l’avanzata del nemico. Il suo corpo venne recuperato dopo tre giorni di ri-
Due medaglie d’oro al valor militare due d’argento e una croce al merito di guerra per i reporter marchigiani
A pagina 15, Arturo Mugnoz e la sua tessera da giornalista Nella pagina a fianco, dall'alto Amilcare Mazzini, Gaetano Serrani ed Eugenio Niccolai In alto, Filippo Corridoni in divisa e qui sopra in abiti civili
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Corridoni, Mazzini Serrani, Mugnoz Duranti, Agabiti Bacciarello, Mancini Marinelli e Niccolai tra i 264 giornalisti italiani morti
Dall'alto in senso orario Augusto Agabiti, Alberto Bacciarello Manlio Marinelli e Lamberto Duranti
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cerche. Sepolto a Bassano del Grappa, le sue spoglie furono in seguito tumulate a Iesi. Manlio Marinelli, nato ad Ancona il 20 novembre 1886, era fratello di Oddo, noto repubblicano, direttore de La Giovine Italia. Fu professore di italiano e a soli 26 anni già Direttore di una scuola a Forlimpopoli. Scrisse apprezzati saggi sulle opere di Pascoli, Carducci e Leopardi. Come giornalista diede sostegno a tutte le iniziative editoriali del fratello
firmandosi con lo pseudonimo Stelio De Luca. Prese parte alla Grande Guerra come capitano del 121° Reggimento Fanteria, Brigata Macerata. Morì in combattimento a Castelnuovo sul Carso, tra il 27 e il 28 novembre 1915 e il suo corpo andò disperso. Eugenio Niccolai nacque a Pausola (Corridonia) il 13
luglio 1895. Studente di giurisprudenza, si impegnò nel movimento nazionalista e si dedicò al giornalismo. Fece il corrispondente per L'Ordine, nonché de’ Il Resto del Carlino. A Macerata fu tra i fondatori dell'Associazione della Stampa (alla quale era iscritto anche Mugnoz), diventandone segretario. Allo scoppio della guerra si arruolò e, dopo aver frequentato la Regia Scuola di Fanteria, venne nominato sottotenente e assegnato al 151° Reggimento della Brigata “Sassari”. Promosso tenente e poi capitano di complemento, il 31 gennaio 1918, mentre già ferito guidava i suoi soldati, fu colpito a morte. Il suo corpo fu recuperato solamente il giorno successivo e tumulato in un cimitero da campo. Nel 1924 l’Università di Macerata gli conferì la laurea ad honorem post mortem e in quello stesso anno la sua salma fu traslata nella monumentale tomba di famiglia a Macerata. Dopo la fine del conflitto, Niccolai e il suo concittadino Filippo Corridoni sono stati insigniti della medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Medaglie d’argento alla memoria sono state conferite ad Alberico Bacciarello e ad Amilcare Mazzini. Nel 1921 è stata assegnata la Croce al merito di guerra ad Arturo Mugnoz. Il sacrificio di Corridoni e di Gaetano Serrani fu pubblicamente ricordato da Mussolini in un famoso discorso nel marzo 1919 a San Sepolcro. A Serrani, inoltre, fu dedicata una commemorazione ufficiale nel 1935 nella sua Tolentino, mentre Milano gli ha dedicato una via nel quartiere Greco, nel cosiddetto Villaggio dei giornalisti. ¤
L’artista
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Bucci, pittore-soldato disegnava in trincea AL FRONTE ANCHE PER DOCUMENTARE LA GUERRA
A
di Alberto Pellegrino
Fossombrone è stata inaugurata il 6 ottobre 2018, presso la Quadreria Cesarini, la mostra Soldati come Uomini.Incisioni di Anselmo Bucci – La prima guerra mondiale nella raccolta Cesarini. Si è trattato di un evento culturale con il quale si è voluto commemorare il centenario della Grande Guerra e nello stesso tempo proporre all’attenzione del pubblico e della critica una serie di opere che nessuno ha mai potuto vedere. Si tratta di una selezione di stampe e incisioni che fanno parte della raccolta d’arte del notaio Giuseppe Cesarini, che nel 1977 ha lasciato la sua collezione alla città di Fossombrone. Dopo due anni di certosino lavoro per il riordino e la catalogazione delle stampe di
Bucci, svolto dall’Associazione Volontari dei Beni Culturali Augusto Vernarecci, le 615 incisioni che compongono la raccolta Cesarini sono state fotografate, numerate e divise in 77 cartelle ordinate per anno e per argomento. La mostra è stata articolata in due momenti: dal 6 ottobre al 4 novembre sono state esposte circa sessanta incisioni che appartengono alla raccolta Croquis du front italien; dal 10 novembre al 9 dicembre sono state esposte dodici litografie a colori che compongono la raccolta Finis Austriae. La Grande guerra è stata il primo conflitto a dimensione mondiale che ha visto direttamente impegnati tutti i mezzi di comunicazione di massa, a cominciare dalle migliaia di
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fotografie e dai documentari realizzati dagli operatori dell’esercito. Per la prima volta ha avuto un peso enorme la propaganda con la realizzazione di centinaia di manifesti, di migliaia di cartoline illustrate, di disegni satirici e con l’impegno dei settimanali illustrati, basti pensare alle copertine della Domenica del Corriere o alle storie del Corriere dei Piccoli. Bisogna anche ricordare l’importanza che hanno avuto i Giornali di Trincea come L’Alpino, La Ghirba, La Marmitta, la Giberna, Il Razzo, La Trincea e La Tradotta, certamente la più bella tra queste pubblicazioni. Lo stesso Anselmo Bucci ha collaborato al settimanale Il Mondo con suoi disegni e alcuni articoli intitolati Prigionieri. Per quanto riguarda le immagini, esiste una schiera di pittori-soldato francesi, inglesi, tedeschi, austriaci e italiani che sono andati al fronte non solo per combattere, ma anche per documentare con i loro disegni e dipinti le varie fasi del conflitto. Fra gli artisti italiani che, indossando la divisa, hanno lasciato una vasta
mole di lavori, troviamo Carlo Carrà, Cipriano Efisio Oppo, Aldo Carpi, Gaetano Previati, Gino Severini, Ottone Rosai, Giulio Aristide Sartorio, Aroldo Borzaghi, Emilio Notte. Le loro opere sono diventate un particolare reportage della guerra, perché questi artisti hanno annotato giorno per giorno, sui fogli o sulle tele, i luoghi visitati, i ritratti dei commilitoni e le vicende belliche legate alla loro esperienza diretta. Nel panorama bellico spiccava la presenza del Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti e Automobilisti, un’unità para-militare nata il 15 aprile 1915 con il proposito di preparare alla guerra i suoi componenti, addestrandoli al tiro col fucile e vestendoli in grigioverde a norma di regolamento. Il primo ad aderire a questa formazione fu il “Gruppo Futurista” formato da Filippo Tommaso Marinetti, il giovane architetto Antonio Sant’Elia, i pittori Umberto Boccioni, Anselmo Bucci, Mario Sironi, Achille Funi, Carlo Erba, Ugo Piatti e Luigi Russolo. Questo particolare reparto, dopo una
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breve permanenza in prima linea, il 1° dicembre 1915 venne sciolto e i volontari furono temporaneamente congedati per essere poi chiamati alle armi a seconda della classe d’età e della relativa categoria d’appartenenza. Sparsi nei principali fronti di guerra, alcuni artisti pagarono con la vita il loro slancio patriottico e tra i futuristi si ebbero diversi caduti, tra cui due veri e propri geni come Umberto Boccioni e Antonio Sant'Elia. Lo stesso Anselmo Bucci finì per essere arruolato nel 68° Reggimento Fanteria della Brigata Palermo. Anselmo Bucci (Fossombrone 1887–Monza 1955), arruolato nel 68° Reggimento Fanteria della Brigata Palermo, è un artista di rilevo che ha tratto ispirazione dalla tragica esperienza della Grande Guerra, mettendo al centro dei suoi ritratti, disegni e dipinti la vita quotidiana del soldato osservata in prima persona. In questo modo ha potuto realizzare un imponente corpus di opere costituito dai quattro volumi delle incisioni Croquis du front italien (Parigi, 1917), alla quale si aggiungono le 50 tavole litografiche a colori Marina a terra (1918) e le 12 litografie a colori Finis Austriae (1919) che descrivono lo stato di prostrazione dell’esercito austriaco dopo la sconfitta. Nella sua opera non trova spazio l’epica della battaglia ma l’umanità dei soldati, protagonisti sconosciuti di un evento sicuramente più grande di loro. I visi sono appositamente sfumati, a volte le figure sono dinamiche, in altri casi rappresentano particolari situazioni di vita non grandiose o celebrative come la paga, il rancio, la partenza. Bucci, con la sua opera appassionata, richiama alla memoria la presenza di tanti uomini che non hanno un nome né un volto, ma che hanno fatto la nostra Storia. Nelle sue incisioni Bucci usa uno linguaggio ori-
21 ginale e personale che riesce a rendere “visibile l’invisibile”, perché raffigura i momenti più intimi della vita militare vissuta al fianco di personaggi noti (come i Futuristi) o del tutto sconosciuti, chiamati a svolgere un oscuro compito bellico come emerge dall’ autobiografia Pane e luna, dove l’artista rievoca gli eventi bellici in un racconto denso e incalzante, capace di trasmettere sensazioni ed emozioni di coloro che le hanno vissute. La sua continua ispirazione si concretizza nelle incisioni a puntasecca, una tecnica che gli consentiva di lavorare direttamente sulla lastra, senza passaggi intermedi, senza l’impiego di acidi, con la sola forza della mano. In queste opere egli riesce a fissare le situazioni più diverse: i momenti terribili e insidiosi della trincea, le attese sfibranti prima di un attacco, le pause tranquille nelle retrovie, le lunghe marce forzate. Renzo Biason dice che il suo è “un segno descrittivo quando racconta ed evocativo quando intende fermare un’emozione,
per cui allora si fa concitato, rapido, rabbioso”. Nelle sue incisioni passano i fucilieri ciclisti del Battaglione Volontari animati da un flusso dinamico interiore, i momenti di riposo con i soldati sdraiati sulla nuda terra, le occasioni conviviali del rancio
Bucci metteva al centro dei suoi dipinti non la battaglia ma la vita quotidiana del soldato cogliendone l’umanità
Nelle pagine alcuni ritratti e disegni di Bucci legati alla vita del soldato osservata in prima persona come la paga, il rancio, la partenza i fucilieri in bici, il cambio Tanti uomini che non hanno né un nome né un volto ma hanno fatto la nostra storia
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Usa raramente il colore per raccontare il conflitto Ogni incisione diventa uno spaccato significativo della guerra (la sbobba), dove il cuoco e le sue pentole sono i protagonisti della composizione. A volte l’artista riesce a esprimere lo stato esistenziale (lo Spleen) di questi giovani soldati che descrive così: “Nel barlume verdastro, tra gli sciami in-
In alto, Tradotta 1918 Litografia a colori Sotto, un momento di riposo dei soldati che testimonia ancora una volta la volontà di Bucci di concentrarsi sull'uomo e non sull'evento bellico
stancabili, giorni e settimane passarono di spleen frenetico e di attesa”. I soggetti principali di queste incisioni sono gli esseri umani, ma sono presenti anche gli accessori dell’equipaggiamento militare: un fucile, un tascapane, una gavetta, una borraccia. Uomini e oggetti sembrano essere sospesi nel vuoto, collocati in un indefinito spazio bianco che costituisce un preciso still life carico di significati, perché riesce a trasmettere il senso dell’attesa, quel segmento temporale che separa l’inazione dall’azione. È evi-
dente che Bucci si avvale dello spazio bianco e del “non finito” per evocare sensazioni temporali e stati d’animo emozionali e inafferrabili, riuscendo a rappresentare anche quello che non si vede e questa particolare “invisibilità” è il modo più originale per raccontare una guerra, trascurando la grandiosità degli eventi bellici per privilegiare attimi di vita poco rilevanti ma carichi di densi contenuti emotivi. Attraverso queste incisioni Bucci ci parla di una guerra faticosa, sudata, banale e quasi monocroma, poiché non gli serve il colore per raccontarla, mentre diventa fondamentale quel suo segno vivace, quel suo tratto svelto e fluido, sempre attento a penetrare in ogni dettaglio, impegnato ad esprimere una solidarietà tra soldati e quindi concentrato sull’elemento umano. Bucci è affascinato dalla quotidianità in grigioverde, dalla vita nelle trincee e nelle retrovie per cui, senza slanci enfatici o cadute retoriche, ogni “schizzo” diventa un sincero spaccato dell’evento bellico, un racconto fatto d’immagini poetiche in grado di rappresentare con sorprendente freschezza, originalità e bellezza la vita dell’umile soldato, capaci di fermare momenti fugaci e apparentemente insignificanti, rendendoli profondamente umani e intensamente poetici. ¤
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Urbino, in ogni angolo un legame con Raffaello GRANDE MOSTRA DEL DIVIN PITTORE A 500 ANNI DALLA MORTE
N di Luigi Benelli
Sopra,Raffaello Sanzio Ritratto di Agnolo Doni
on sarà un punto di arrivo, ma di partenza. Perché Raffaello deve essere un volano per l’economia e il turismo urbinate e marchigiano. Nel 2020 ricorrono i 500 anni della morte del divin pittore, Galleria Nazionale delle Marche e Regione Marche stanno mettendo in fila una serie di iniziative. A partire da una mostra nell’autunno 2019 che sarà la prima a lanciare l’anno raffaellesco. E vedrà prestiti importanti anche dall’Hermitage di San Pietroburgo con la Madonna Contestabile. Il direttore di Palazzo Ducale di Urbino, Peter Aufreiter anticipa gli eventi, ma mette in chiaro: “L’anno di Raffaello non finirà in tre mesi di mostra. Sarà solo un lancio per comunicare e pubblicizzare che qui a Urbino si può ancora
vivere e respirare lo spirito del Rinascimento che ha formato Raffaello. I turisti devono sapere che ogni angolo della città avrà un legame col pittore, dalla casa natale a un luogo che può aver ispirato i suoi dipinti, al punto dove mangiava, lavava i panni. E’ questo il nostro obiettivo”.
Si parte subito con la mostra di Giovanni Santi, padre di Raffaello già visibile fino al 17 marzo 2019 a Palazzo Ducale. “Aiuterà il pubblico a capire come si è formato il divin pittore, in quale contesto e con quale perizia tecnica”. Ma contestualmente anche palazzo Ducale è pronto a cambiare. “Iniziamo i lavori in inverno e tutto l’appartamento della duchessa sarà allestito per presentare Raffaello”. A Urbino è conservata la Muta ma l’obiettivo è ricreare un contesto artistico per far conoscere lo sviluppo della sua pittura attraverso un allestimento permanete. Poi il grande evento tra l’ottobre 2019 e il gennaio 2020. “Porteremo sicuramente cinque opere da altri musei – anticipa Aufreiter – e stiamo trattando con altre tre. Si intitolerà “Raffaello e gli amici di Urbino”. Andremo a raccontare il mondo delle relazioni di Raffaello con un gruppo di artisti operosi a Urbino come Girolamo Genga e Timoteo Viti in particolare, ma anche i rapporti con Signorelli e Perugino. Investiremo 1,2 milioni di euro, che saliranno a 2 milioni contando la promozione. L’obiettivo è far conoscere Urbino e fare in modo che da qui in avanti i turisti possano venire qua sempre, indipendentemente dalle mostre, per conoscere il rinascimento e identificare sempre di più la città con Raffaello”. Motivo per cui è nato anche Raffaello in Minecraft, un concorso pensato per unire cultura e videogiochi, con l'intento di avvicinare i giovani all'arte nella città natale del grande pittore. Gli alunni delle scuole elementari e medie
L’anniversario
Da San Pietroburgo arriverà la “Madonna contestabile” Il direttore Aufreiter: “Cinque opere sicure da altri musei tre in trattativa”
In alto, Raffaello Sanzio, La muta Sotto, Raffaello Sanzio Madonna Conestabile
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di tutta Italia saranno chiamati a creare un contenuto del famosissimo videogioco Minecraft, prodotto da Microsoft. Dovranno raccontare una parte di storia di Raffaello da bambino tra bottega, amici e vita rinascimentale. Un altro modo per accendere un riflettore destinato a durare. Un obiettivo in cui crede anche la Regione Marche che è pronta a supportare le iniziative a livello economico e di promozione turistica come spiega l’assessore regionale alla Cultura Moreno Pieroni: “Nessun altro dei grandi personaggi marchigiani come Raffaello Sanzio ha reso un’enorme visibilità e fama alla sua terra, da sempre. E questo perché voleva firmare le sue opere con Raphael Urbinas. Un marchio di identità geografica e di fierezza che ha impresso nei suoi capolavori. E’ Urbino col suo Ducato illuminato e fiorente, simbolo del Rinascimento che ci ha regalato il genio di Raffaello e ci ha reso una patria dell’Arte e della Bellezza. Una legge apposita la n. 153 del 12/10/2017 ha disposto l’istituzione dei Comitati Nazionali per le celebrazioni di Leonardo da Vinci, di Raffaello Sanzio e di Dante Alighieri che sotto il coordinamento del Mibact, avranno il compito di promuovere e sovrintendere la definizione di programmi di valorizzazione del patrimonio e della tradizione culturale del nostro Paese. Quindi la Regione Marche, di concerto con i soggetti pubblici e privati del territorio urbinate, ha approvato nel febbraio di quest’anno una deliberazione per l’applicazio-
ne di un Protocollo di intesa ai fini dell’istituzione di un Comitato Organizzatore Regionale che avrà il compito di definire un programma di attività nell’ambito delle celebrazioni dedicate a Raffaello Sanzio. Il Comitato dovrà anche collaborare con il Comitato nazionale per le celebrazioni. Io mi auguro che sarà un modello di collaborazione istituzionale e tra soggetti pubblici e privati per dar vita ad un programma complessivo di eventi, regionali e nazionali, che restituisca attraverso l’ambiente culturale in cui ha vissuto, le influenze subite, le esperienze umane, la magnificenza della personalità e dell’opera di questo genio marchigiano. Mi piace ricordare a conclusione l’epitaffio scritto dal Bembo sulla tomba al Pantheon: “Qui giace Raffaello: da lui, quando visse, la natura temette d'essere vinta, ora che egli è morto, teme di morire.” Gli eventi non mancheranno. In primavera 2019 la mostra Da Raffaello a Raffaellin del Colle, promossa dal Comune di Urbino, con la curatela scientifica di Vittorio Sgarbi, insieme alla Arcidiocesi di Urbino, Urbania e Sant’Angelo in Vado e al Polo museale delle Marche. La mostra intende ricostruire l’opera di Raffaellino del Colle, uno degli ultimi allievi diretti di Raffaello. Ma anche un’esposizione legata all’incisore Marcantonio Raimondi che aveva il compito di divulgare i lavori di Raffaello tramite bulini. L’evento è nelle sale espositive della Casa natale di Raffaello. Un 500enario tutto da vivere,ma che dovrà avviare una nuova stagione urbinate. ¤
La collezione
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Mito & devozione, l’arte entra in Confindustria PESARO, 60 OPERE IN MOSTRA A PALAZZO CIACCHI
S di Michele Romano
i chiama ‘Mito & devozione’ il nuovo allestimento museale a Palazzo Ciacchi, sede degli industriali pesaresi, perfettamente complementare alla sezione permanente di Palazzo Mosca e completamente rinnovato rispetto all’esposizione che ha caratterizzato l’avvio della collaborazione tra l’amministrazione comunale e la Confindustria territoriale. In totale, 60 opere dal XVII al XIX secolo, in gran parte provenienti dalle raccolte della marchesa Vittoria Mosca. Tra queste, le tele seicentesche di Luca Giordano, “Sansone e Dalila” in cui l’autore sperimenta l’ennesima variazione del tradimento di Dalila nelle pose di profilo, che si stagliano in una composizione dettagli di architettura e scorcio di paesaggio; “Sansone e i Filistei” di Carlo Rosa, tela di grandi dimensioni in cui è rappresentata una convulsa scena di lotta; “Agar e l’angelo” di Giovanni Maria Luffoli, dipinto dal tema frequente nella pittura italiana e olandese del Seicento e “Vergine che contempla Gesù Bambino dormiente” di Giovan Battista Salvi. Inoltre, saranno in mo-
stra 24 manufatti - 8 dipinti, 8 ceramiche e 8 arti decorative -, che verranno restaurati grazie all’intervento degli industriali. “Il mito fa sognare – spiega il direttore generale di Confindustria Marche Nord, Salvatore Giordano -. Per farlo, bisogna avere progetti di lungo respiro. Significa assumere comportamenti fruttuosi per le generazioni future. La devozione, invece, induce alla riflessione, all’acutezza dello spirito”. “È importante avere spiritualità per declinare il mito – aggiunge -: se viviamo nella bellezza, i comportamenti dei cittadini sono migliori. All’epoca siamo stati i primi in Italia ad avere una convenzione del genere e la nuova firma è un pezzo di storia che si rinnova”. È il 2006 e, per la prima volta in Italia, un’amministrazione comunale, quella di Pesaro, e un’associazione privata, la Confindustria provinciale, si accordano per restaurare, conservare e promuovere opere d’arte, che altrimenti sarebbero rimaste chiuse e nascoste all’interno di uno scantinato. Un accordo, che diventa una best practice a livello nazionale, tanto da essere replicato nel corso degli anni in altre città. La formula burocratica è quella della concessione in uso, il risultato è straordinario: nel 2008, Palazzo Ciacchi diventa sede museale e ospita un percorso espositivo con ceramiche e dipinti provenienti dai depositi dei Musei Civici e restaurati appositamente per essere resi finalmente visibili. In questo modo, l’offerta di Pesaro si arricchisce di un nuovo ‘luogo della cultura’ e consoli-
La collezione
Per la prima volta Comune e Associazione di imprenditori uniti per restaurare e valorizzare opere dei Musei Civici
Nella pagina precedente un particolare di Sansone e Dalila di Luca Giordano In alto, Vergine che contempla Gesù Bambino dormiente di Giovan Battista Salvi Sopra, Sansone e i Filistei scena di lotta di Carlo Rosa
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da l’idea strategica di fare della città un vero e proprio museo diffuso. Nell’intesa entrerà anche la Card dei musei, che in questi ultimi quattro anni ha coinvolto novemila utenti entro un raggio di 100 chilometri da Pesaro, un racconto mirato e di qualità, che vuole creare nuove modalità di interesse per un pubblico sempre più ampio. Confindustria ha sposato e rilanciato la strategia culturale di valorizzazione del patrimonio: la durata dell’accordo iniziale doveva essere decennale e, puntualmente, 10 anni dopo la convenzione è stata rinnovata, questa volta a tempo indeterminato, mentre il progetto si è arricchito con nuovi dipinti e nuove ceramiche ai quali si sono aggiunte le arti decorative, con sculture in bronzo, marmo, porfido e alabastro, oltre alle specchiere in legno intagliato e dorato. “Rinnovare la convenzione rappresenta la volontà di confermare il nostro impegno a collaborare alla valorizzazione del patrimonio storico – artistico cittadino mediante un’azione sinergica fra pubblico e privato – ha affermato Mauro Papalini, presidente della territoriale di Pesaro Urbino di Confindustria Marche Nord – il percorso espositivo a Palazzo Ciacchi è stato inoltre inserito nel circuito museale cittadino ‘Pesaro Musei per favorirne una maggiore fruizione, anche da parte di target di pubblico differenti, come scuole, famiglie, specialisti, che permetta la sua giusta collocazione nel generale patrimonio locale”. Per questo motivo sono stati ampliati gli orari di apertura al pubblico di Palazzo Ciacchi, visitabile nei pomeriggi del
secondo e quarto giovedì di ogni mese e in occasione della “Stradomenica” cittadina, oltre ad aperture straordinarie legate ad iniziative di carattere nazionale, come la Giornata Internazionale dei Musei o le Giornate europee del Patrimonio. Se oggi si festeggia il rinnovo della convenzione è grazie al primo seme del progetto di collaborazione pubblico-privato, piantato nei primi anni Novanta: da una parte l’allora assessore comunale alla Cultura, Simonetta Romagna, dall’altro il presidente e il direttore generale dell’associazione degli industriali, rispettivamente Catervo Cangiotti e Salvatore Giordano, con il ministro dei Beni culturali dell’epoca, il riminese Antonio Paolucci, che ebbe un ruolo di collante e di semplificatore. L’obiettivo dichiarato era quello di garantire il restauro delle opere d’arte presenti nella provincia attraverso l’autotassazione degli imprenditori, che nel frattempo si erano messi insieme nel Comitato Cultura. Un gruppo coeso, che ha resistito alla crisi e che, recentemente, ha contribuito al recupero della ‘Testa del fanciullo’, che fa parte della tela raffigurante “Il martirio di San Sebastiano”, opera giovanile di Federico Barocci datata 1558 e conservata nel Duomo di Urbino: all’inizio degli anni Ottanta, un ignoto sfregiò quel capolavoro per ritagliare il volto del bambino, che finì nel mercato illegale fino a quando, nel maggio dello scorso anno, fu rintracciata dal gallerista pesarese Giancarlo Ciaroni all’interno di un sito d’aste. ¤
Il recupero
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Cimitero degli ebrei “archivio di pietra” L'AREA SIMBOLO DI ANCONA CHE GUARDA AD ORIENTE
A
di Paola Cimarelli
ffacciato sul mare Adriatico, verso est, verso Gerusalemme. Un “archivio di pietra” della storia della comunità ebraica dorica e di Ancona stessa di cui è uno dei luoghi più belli. Il Campo degli ebrei è un simbolo di questa città che guarda ad oriente, che nei secoli ha aperto le sue porte a numerosi passaggi e comunità. Il vecchio cimitero ebraico, 15 mila metri quadrati di terreno, circondato da cespugli, arbusti, da un boschetto di olmi e inserito in quello che oggi è il Parco del Cardeto, si estende dal Baluardo dei Cappuccini del ‘500 fino alle prime abitazioni della città e alla zona delle vecchie caserme, ora Polveriera, completamente ristrutturata, con un
auditorium con sale convegni e mostre. Nello stesso luogo erano presenti gli antichi cimiteri ortodosso, acattolico, inglese, la chiesa di Santa Caterina. “Il primo documento ufficiale della sua esistenza è del 1428 – racconta l’architetto Giovanna Salmoni di Archisal studio Salmoni Architetti associati, che ha curato l’intervento di riqualificazione -, è l’atto con cui il Comune cede alla comunità ebraica un terreno confinante con l’antico Campo della Mostra ossia un’area prossima all’ingresso della città da sud. Dopo un primo ampliamento del 1462, nei due secoli successivi l'area destinata a cimitero degli ebrei non subisce variazioni significative. Fino al 1711, quando la co-
Il recupero
Un progetto ha recuperato la bellezza e l’unicità di uno dei più importanti cimiteri ebraici in Italia e in Europa
28 munità, sotto la spinta della crescita naturale e di una forte immigrazione da Levante, acquisisce una nuova area per l’espansione del cimitero sotto al Baluardo dei Cappuccini, quella che diviene la posizione definitiva”. A fine ‘700, in epoca napoleonica, però, l’area, che apre un ampio orizzonte sul mare, diventa di interesse strategico dei militari che cercano prima di confiscarla e poi costruiscono delle strutture alle sue pendici, verso il Colle Cardeto. “La controversia tra lo Stato e la comunità israelitica anconetana – dice Salmoni - dura quasi settant’anni e si risolve solo nel 1863, con un accordo col quale gli ebrei anconetani cedono una parte del loro terreno, nella zona più bassa del cimitero, al demanio militare”. Viene realizzato un muro di recinzione, che collega il Bastione dei Cappuccini con la zona delle nuove caserme. L’intesa raggiunta prevedeva anche la concessione di una nuova area per le sepolture della comunità ebraica nel nuovo cimitero di Tavernelle e, quindi, il Campo degli ebrei smette di funzionare. Restituito al luogo il suo valore sacro
Nella pagina precendente e nelle successive alcune immagini relative al "Campo degli ebrei" dove si trova il vecchio cimitero ebraico 15 mila metri quadrati di terreno collocato nell'attuale parco del Cardeto
Nel 2001, parte il progetto di recupero e di valorizzazione dell’area, curato dallo studio Archisal per il Comune di Ancona, in collaborazione con la Comunità ebraica, che si conclude nel 2004, con cui si è voluto restituire la bellezza e l’unicità di questo segno storico, uno dei più importanti cimiteri ebraici in Italia e in Europa. “Il Campo degli ebrei è un archivio di pietra - dice l’architetto Salmoni -, il lavoro di riqualificazione è nato dalla necessità di recuperare la memoria su questo luogo, per la città e per le persone che lo frequentano ossia che era un cimitero religioso con le sepolture presenti, che, non
tutte evidenti, ma fittissime, sono una accanto all’altra”. Nel tempo, “le hanno vandalizzate. Ci sono molti cippi tagliati alla base che sono stati asportati, spostati, riusati, se ne trovano in giro per la città senza più la scritta in ebraico, o addirittura sono stati fatti rotolare lungo la falesia che si affaccia sul mare. C’è stata quindi la volontà del Comune e della Comunità ebraica di restituire a questo luogo il suo valore sacro”. Due le fasi del progetto. “Nella prima, accanto ai lavori architettonici, di recinzione, della creazione degli accessi, dei percorsi, del belvedere – spiega Salmoni -, è stato fatto un lavoro scientifico e culturale per ricostruire la storia di questo luogo. Da una parte lo studio della comunità ebraica e dall’altra la catalogazione di tutte le lapidi, per riuscire a leggerle grazie anche ad un’opera di traduzione, curata da due esperti, Amedeo Spagnolet-
Il recupero
to della comunità ebraica di Roma e Mauro Perani di Bologna. Un lavoro che ha permesso di individuare un ricchissimo materiale epigrafico che testimonia i movimenti e i flussi di persone che sono transitate ad Ancona dal 1400 fino al 1863. Un pezzo di storia, che non era ancora del tutto nota, che testimonia l’arrivo dal Portogallo, dalla Spagna dopo la bolla papale del 1555, che manda via tutti gli ebrei, dall’est Europa che arriva qui attraverso il suo porto, importante snodo per il commercio con il medio oriente”. La cronologia delle tombe segue le curve del terreno Delle tombe rinvenute, 1.058 tra lapidi e cippi, tutte catalogate, solo 735 erano nella loro collocazione originale, diverse sono state ristrutturate durante il programma di riqualificazione del parco, altre ancora sono precipitate in riva al mare o lungo il pendio
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ripidissimo della falesia, in parte recuperate. “La presenza delle tombe sembra seguire le curve di livello del terreno – dice ancora l’architetto Salmoni -, in alto quelle più antiche, del 1400 e poi a scendere dal 1500 fino al 1800, le più recenti. Questa disposizione cronologica si trasmette anche nella tipologia delle tombe. Quelle del 1400 più semplici, rettangolari. Nel 1700 a cippo cilindrico, che sono anche le più decorate, nel 1800 si ritorna alle stele molto semplici, rettangolari, senza vezzi, dove però compaiono le prime scritte bilingue, in ebraico e in italiano. Lo schema dell’epigrafe è sempre lo stesso: prima si nomina il nome della persona defunta, di chi è figlio, moglie, marito, figlio, citando il dolore della famiglia, e poi le date anagrafiche. La scrittura varia a seconda dell’epoca di realizzazione. Gli scalpellini, i marmisti, erano anche non ebrei, magari lavoravano per gli altri
Rinvenuti 1058 tra lapidi e cippi Dalle epigrafi emerge la testimonianza dei flussi provenienti da Portogallo, Spagna ed est Europa
Il recupero
Il Campo degli ebrei è parte importante dell'auspicato museo diffuso per valorizzare il sapere ritrovato nel cimitero e legarlo alle sinagoghe
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cimiteri, avevano imparato a copiare il testo in ebraico che gli veniva fornito. Da questo si giustifica gli errori riportati su qualche stele”. Le informazioni sulle stele sono confluite nel Centro di documentazione storia urbana di Ancona che si trova alla Mole Vanvitelliana. La seconda fase del progetto prevedeva la musealizzazione del Campo degli ebrei, per renderne più comprensivi le origini e i contenuti. È stata realizzata una pedana in legno, nel lato sud-est del cimitero, lungo la quale sono state allineate le stele recuperate dalla falesia e restaurate. Sono stati poi allestiti dei pannelli grafici esplicativi, situati all’esterno dei casermaggi e di un piccolo edificio chiamato “Deposito del tempo”, che, in una prima fase, ha anche ospitato una postazione multimediale, pannelli che però in questo periodo non si possono vedere. Il Campo degli ebrei doveva anche essere parte di “Chayim”, dalla radice ebraica “chai”, vivere, primo iti-
nerario di un Museo diffuso urbano con cui si voleva valorizzare tutto il sapere ritrovato nel cimitero, con la possibilità di collegare la zona, tramite un “sentiero ebraico”, agli altri luoghi simboli del vecchio ghetto. Due sinagoghe nella storica via Astagno In primis alle due sinagoghe che si trovano in via Astagno, quella di rito italiano e quella di rito levantino, che prima era in via dei Levantini e che riproduceva la pianta di un Tempio di Safed, in Palestina. Entrambi sono state trasferite dopo lo sventramento di parte degli edifici del ghetto, che si estendeva dai quartieri Capodimonte e Guasco fino al porto, per le modifiche ai piani urbanistici cominciati nel 1800, per la realizzazione di corso Garibaldi, prima, e poi nel 1933 di corso Stamira. Le sinagoghe, i cui arredi sono quelli originali, si possono visitare ogni anno in autunno durante la “Giornata europea della cultura ebraica”. ¤
Il pellegrino di Assisi
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I miracoli di Francesco nella Provincia stellata IL SANTO NELLE MARCHE TRA STORIA E LEGGENDA
P di Marco Belogi
In alto, San Francesco nel famoso affresco di Giotto situato nella basilica superiore di Assisi
ochi santi hanno colpito il cuore e l’immaginazione degli italiani come San Francesco d’Assisi, compatrono del nostro Paese, il cui esempio di inerme e gioioso abbandono alla Provvidenza e di comunione con ogni creatura non è altro che la stretta applicazione del Vangelo. “Sembra potersi affermare” scrive Pio XI “non esservi mai stato alcuno in cui brillasse più viva e somigliante l’immagine di Cristo… e per questo fu salutato come un Cristo redivivo dai contemporanei e dalle generazioni future”. Ce lo raccontano le tante colorite e insostituibili Vite scritte su di lui dopo il 1228, fonti tra le più affascinanti e suggestive del primo francescanesimo e
quelle del suo fondatore che tanto amò la nostra terra marchigiana da renderla con i suoi numerosi passaggi la regione più francescana d’Europa “ figlia primogenita di San Francesco”. Cercheremo qui di riassumerle anche per riappropriarci del significato autentico del Natale ormai alle porte. Il Natale per Francesco era considerato una delle festività più importanti e gioiose dell’anno, non solo per gli uomini ma anche per tutto il creato. Nei suoi frequenti ritiri in luoghi immersi nella natura e nel silenzio era solito meditare tutte le principali vicende del vangelo, soprattutto il mistero di quella Santa Notte, per lui simbolo dell’umiltà dell’incarnazione.
Il pellegrino di Assisi
Francesco iniziò la sua avventura nelle Marche nel febbraio del 1208 accompagnato da frate Egidio
32 Un episodio, dei primi anni della sua predicazione itinerante, accaduto nell’abbazia di Santa Croce presso il castello di Montemaggiore al Metauro, dove il Santo aveva trovato accoglienza nel Natale del 1217, ci rivela la sua devozione verso questa ricorrenza. Il piccolo paese è sulla strada che congiunge Mondavio a Saltara, luoghi dove in precedenza aveva fondato due comunità. Molto probabilmente Francesco, recatosi a far visita ai suoi frati, si trovò costretto lungo il percorso a chiedere asilo ai benedettini di quella abbazia. Era di venerdì e i monaci chiesero il suo pensiero sul divieto o meno del vitto grasso in quella solennità. Francesco rispose che non solo gli uomini, ma bestie ed uccelli e perfino le mura potevano mangiare in tanta letizia di cielo e di terra. Nel 1223, quasi al termine della sua breve ma intensa esistenza, riuscì a realizzare a Greggio, in forma del tutto nuova, la mistica ricorrenza di quella Santa Notte: il presepe. Nell’autunno di quell’anno Francesco si trovava a Roma in attesa della approvazione definitiva della regola scritta per i suoi frati, presentata e poi approvata dal papa Onorio III. L’inverno era ormai alle porte ed un pensiero assillante dominava la sua mente: rappresentare la natività del Salvatore nella sua semplicità. Chiese al pontefice durante l’udienza di poterla rappresentare dal vivo. Nel suo recente viaggio in Palestina era rimasto molto colpito dai luoghi santi, in particolare da Betlemme. Fermo in questo proposito si recò nell’eremo di Greggio, luogo impervio del reatino da lui frequentato fin dai primi anni di vita itinerante. Viveva in quella contrada un uomo di nome Giovanni Velita, castellano del luogo, a lui molto caro perché, pur essendo nobile e ricco, non disdegnava gli in-
segnamenti del Santo. Circa due settimane prima della festa della Natività lo chiamò e gli disse: “se vuoi che celebri il Natale a Greggio precedimi e prepara quanto dico. “Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme e vedere con gli occhi del corpo i disagi patiti per mancanza del necessario ad un neonato: come fu adagiato nella greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”. La notte della vigilia tutta la popolazione accorse alla caverna insieme ai frati venuti da ogni parte, mentre il bosco risuonava di voci e tanti lumi tremolavano nel buio. Uomini e donne recavano ceri e fiaccole per illuminare quella notte nella quale “s’accese splendida nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni e i tempi”. Nella grotta figure umane rappresentavano la scena evangelica mentre laudi e preghiere risuonavano nell’aria.”L’uomo di Dio stava davanti alla mangiatoia ricolmo di pietà, cosparso di lacrime, traboc-
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cante di gioia”. Un sacerdote celebrò l’Eucarestia proprio sul presepe e il Santo, vestito di panni diaconali, cantò con voce sonora. Poi rivolto al popolo rievocò con dolcissime parole la storia del neonato Re povero. La notte era chiara come in pieno giorno, dolce agli uomini e animali. Al termine ognuno fece ritorno al proprio casolare ricolmo di gioia. Da allora Greggio divenne una nuova Betlemme e la mistica rievocazione del presepe si propagò in tutto il mondo cristiano. Diventò anche una di quelle favole che si raccontano ai bambini in tempo natalizio. In verità Francesco si era ispirato ad una tradizione liturgica che risaliva al IX secolo, quando in molti paesi europei, dalla Francia alla Germania all’Italia, avevano avuto origine dall’ufficio quotidiano delle Ore i cosiddetti Uffici drammatici che rievocavano le principali scene evangeliche con brevi dialoghi. Successivamente quei primi esperimenti dram-
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matici si erano ampliati in strutture complesse; sicché il tema della Natività, che inizialmente era rappresentato nell’Officium pastorum, dove si sceneggiavano l’adorazione dei pastori e quella dei Magi, ispirò nel monastero di Benedikbueren un vero e proprio dramma della Natività con decine di personaggi e varie scene al cui centro campeggiava quella del presepe, che nel latino praesaepe significa proprio greppia o stalla. Il presepe di Greggio è una delle scene nel ciclo di affreschi che raffigurano le principali storie di San Francesco nella basilica superiore di Assisi, attribuiti a Giotto e realizzati tra il 1295 e 1299.Oltre alla valenza religiosa i dipinti rimangono uno straordinario documento d’epoca. Francesco aveva iniziato la sua stupenda avventura itinerante nel febbraio del 1208. Colpito dall’ascolto del vangelo aveva abbandonato l’abito secolare per coprirsi con un sacco, cingersi di una corda e
Sopra in alto, San Francesco con Storie della vita e miracoli nella chiesa di Santa Croce cappella Bardi a Firenze Subito sotto, paticolare di San Francesco con i marinai quando si imbarcò da clandestino A sinistra, particolari della tavola: Il riscatto della pecorella e Il riscatto dei due agnelli Al centro pagina l'eremo di Valleremita
Il pellegrino di Assisi
34 marciare a piedi nudi. Fu nella primavera di quell’anno, accompagnato da frate Egidio, uno dei primi seguaci, che Francesco si incamminò per la Marca varcando la porta orientale d’Assisi “porta qua itur in Marchiam”. Parlava francese, lingua materna, dei commerci paterni e delle grandi gesta dei paladini e guerrieri. Era anche la lingua dei giullari perché voleva superare le grandi imprese di tutti per il suo altissimo onnipotente bon Signore. Allora molte città di questa terra, come Pesaro, Fano, Ancona erano tornate “ad dominium Ecclesiae”, la quale, per promuovere sviluppo, aveva imposto una leggera tassa di pochi denari per ciascun nucleo familiare, allora chiamato fumante. In tal modo il commercio in tutto il territorio - per grano, olio, vino, lino - era ripreso con intensità. Al contrario dell’Umbria perennemente in tensione tra le varie città, specie tra Spoleto, Assisi, Perugia. Nessun ritratto autentico di San Francesco
Dall'alto, Polittico di Valleremita di Gentile da Fabriano di seguito, la lapide sulla porta dell'archetto in Assisi su cui è scritto "questa è la porta per la quale si va nella Marca" e infine, particolare del santo nella chiesa di San Francesco a Matelica
Di Francesco non ci è stato tramandato un ritratto autentico e neppure la maschera mortuaria sicché possiamo solo immaginarcelo sommariamente sulla scia della descrizione di Tommaso da Celano: pare fosse piccolo di statura, molto magro, con i capelli scuri, la barba nera e rada e con le dita lunghe. Proprio così l’ha raffigurato il Cimabue in un affresco della basilica inferiore di Assisi dove il Santo mostra le stimmate ricevute sul monte della Verna e fissa il visitatore con due occhi che, pur nella sofferenza di un uomo prossimo alla morte, esprimono la beatitudine allusa dai celebri versi del Cantico del frate Sole: Laudato sì, mi Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullo omo vivente pò scampare… Beati quelli che troverà ne le tue sanctissime voluntati, ca la morte seconda no li farrà male. Era giunto nella Marca seguendo la vecchia Flaminia che passava per Cagli che è, come scrive Salimbene, la chiave della Marca. Chiedeva ospitalità a sacerdoti e a “persone spirituali” come sarà sempre suo costume dicendo:” siamo penitenti e veniamo da Assisi “e con voce robusta e dolce, chiara e sonora cantava ed esortava ad amare e temere Dio facendo penitenza”. Non gli era permesso predicare. Così continuava il suo pellegrinare pregando e meditando. Era primavera inoltrata e “se vedeva distese di fiori si fermava a predicare loro… allo stesso modo alle messi, le vigne, le acque correnti, ed i giardini, la terra ed il fuoco, l’aria ed il vento, con semplicità e purità di cuore. E pregare dinnanzi ad una Croce, ad un oggetto a forma di croce, per terra o sulle pareti, tra o nelle siepi. Tappe le chiese solitarie”. I due pellegrini scoprirono per la prima volta il mare e guardandolo ammirati il Santo disse:” Noi saremo come dei pescatori che gettano le reti per raccogliere una gran quantità di pesci”. Molti marchigiani “ pur restando edificati” rimanevano sconcertati e nessuno osava seguirli. Li ritenevano pazzi o fissati; le giovani fuggivano per timore di malefici. In qualche luogo “non mancarono scherni e sassi e fango e persino una cavezza al collo”. E “percorsa che ebbero quella provincia” fecero ritorno in Assisi. Fu poi nel 1211, come narra il Celano, che il Santo questa volta “prese a percorrere la terra della Marca e solcandola col vomere della parola spargeva il seme della vita”. Si appoggiò alla benevolenza e accoglienza di persone pie e di religiosi, tanto più che
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Francesco ed Egidio scoprirono per la prima volta il mare: “Saremo come dei pescatori che gettano le reti” in quel periodo tre vescovi della nostra costa erano di estrazione monacale: Gerardo d’Ancona, Trasmondo di Senigallia e Riccardo di Fano. Questi religiosi non mancarono di raccomandarlo ad abati ed a priori. Instancabile camminatore, fermandosi solo per la recita delle ore canoniche, tanti furono i luoghi da lui visitati. In questo viaggio “fu mèsse abbondante di buoni frutti e subito uomini buoni ed idonei abbracciarono la sua vita ed il suo programma”. Si può quindi fissare al 1211 la nascita nella nostra regione del francescanesimo, ad opera di Francesco e dei suoi primi seguaci. A questi uomini della penitenza, a cui poi aveva dato il nome di minori per esprimere la condizione di umiltà assoluta, cioè soggetti a tutto, Francesco raccomandava di non spaventarsi per la sua e la loro semplicità. Contenti di una sola tonaca, talvolta rammendata fuori e dentro e stretta ai fianchi con una corda, porta-
vano rozzi calzoni. Spesso, ingiuriati, vilipesi, percossi, spogliati, legati, incatenati, sopportavano tutto senza creare alcuna difesa. Di fronte alle tante asprezze della vita che avevano abbracciato li confortava rivelando sue visioni: “Il Signore ci renderà una innumerevole moltitudine che si propagherà fino ai confini del mondo. Ho visto infatti una gran quantità di uomini venire a noi, desiderosi di vivere con l’abito secondo la Regola. Risuona ancora nelle mie orecchie il rumore del loro andare e venire. Rivedo ancora strade affollate da uomini provenienti da tutte le nazioni: spagnoli, francesi, tedeschi, inglesi oltre ad una folla di gente di varie lingue ”. Fu proprio così e come “pietre vive raccolte in ogni parte del mondo crebbero numerosi”. Il suo esempio, infatti, avrebbe suscitato vocazioni in tutta l’Europa e le sue parole avrebbero risuonato dal Portogallo a Parigi. Il suo vivere alla lettera il Vangelo, senza
In alto, la tela attribuita ad Allegretto Nuzi dove ai piedi della croce si intravvede l'immagine parzialmente scomparsa di San Francesco Qui sopra, l'interno dell'eremo di Valleremita e di seguito il convento francescano di S. Igne a San Leo
Il pellegrino di Assisi
Chiedeva ospitalità dicendo: “Siamo penitenti e veniamo da Assisi”. Non gli era permesso predicare, così pregava e meditava
36 preoccupazioni teologiche e senza ambizioni riformatrici, indicava una via nuova a chi voleva vivere in povertà e in carità all’interno della Chiesa che allora non dava uno spettacolo edificante, favorendo movimenti spirituali che poi cadevano nella ribellione e nell’eresia come i valdesi e i catari. I primi loci della Marca scelti dal Santo, costituiti da povere dimore di fango dove i frati potevano attender al necessario lavoro e riposo, sorgevano a due o tre miglia dall’abitato, presso una chiesetta, vicino ad una selva e all’immancabile fonte. Luoghi presso vie consolari o diverticoli che conducevano ad abbazie benedettine, avuti in uso da signori locali o da monaci. Francesco non rifiutava nemmeno un fazzoletto di terra ad uso d’ orto o di giardino, da circondare con siepe che fungeva da clausura, ove prendere i pasti seduti per terra e cantare la sera, ascoltati da stupefatti contadini. Assolta la predicazione, frate Francesco era “zelantissimo per la vita comune” e persino preoccupato se “ circa l’ora sesta fosse acceso il fuoco a cuocer l’erba per la fraternità”. Nel 1215 il Santo ritornò nella Marca. Il suo nome era ormai noto. Egli passava “predicans et signis corugans”. La folla lo circondava, lo toccava, gli rubava pezzi di tonaca con cui operare guarigioni. La santità inoppugnabile di Francesco era infatti “grandissimo onore per l’intera gerarchia ecclesiale” e parecchi ricevettero il saio dalle sue mani. Per tutti costoro scelse e domandò o accettò un convento in luoghi boscosi o isolati e poiché il santo non vi teneva più di sette, massimo dieci frati per luogo, ne scelse molti in varie zone della Marca, da nord a sud. Le fonti nominano molti di questi insediamenti primitivi, che qui ricordiamo per dare un’idea della
diffusione del fenomeno, sia pure con i legittimi margini di dubbio per quanto riguarda date e ubicazione. Il primo in ordine di tempo fu l’eremo di Santa Maria di Valdisasso presso Fabriano, che si vuole offerto a Francesco in occasione della sua prima venuta in quella città nel 1210. Seguirono tra il 1211 ed il 1215 gli eremi di S. Maria Maddalena a pochi chilometri da Ascoli; di Sant’ Igne presso San Leo; di San Marco a Jesi; di Malpasso a Pioraco; di Soffiano presso Gabella Nuova, ed altri ancora che sarebbe troppo lungo elencare. Oggi queste strutture originarie sono quasi tutte scomparse. La cosiddetta “Grotta dei Frati” presso Cessapalombo è un esempio conservato e quanto mai suggestivo di queste prime sedi. Si tratta di una spelonca che si apre a fianco di una ripida gola, sul cui fondo scorre il torrente Fiastrone. Il movimento Minoritico si diffuse nella Marca con straordinaria rapidità, soprattutto per il fascino esercitato dalla personalità di Francesco e dai suoi instancabili spostamenti. Ben presto però si avvertì la necessità di superare la fase eremitica e itinerante per occupare sedi stabili, più vicino alla gente. All’azione diretta del santo si attribuiscono nelle Marche una ventina di insediamenti entro il primo quarto di secolo. Alcuni presero il nome da miracoli o eventi prodigiosi: Monte Illuminato, presso il castello di Lunano, dalla guarigione di un cieco; Sant’Igne, presso S. Leo, dal fuoco che aveva illuminato la notte per ritrovare la strada smarrita; Santa Vittoria di Fratterosa dalla vittoria, ottenuta con l’aiuto di tanti animali chiamati e accorsi in suo aiuto, per uccidere un drago che terrorizzava la popolazione della vallata del Metauro. Per la canonizzazione del Santo, avvenuta nel 1228, furono pre-
Il pellegrino di Assisi
sentati vari miracoli avvenuti nella Marca: il rattrappito, il lebbroso e l’idropico di Fano e la cieca di Camerino. Tanti sono gli episodi,veri o leggendari, che si raccontano nelle vite e nei Fioretti avvenuti nelle Marche. Alcuni, per entrare nel personaggio, meritano menzione, come quello accaduto a San Leo l’8 maggio del 1213 quando Francesco giunse nella piazza dove si festeggiava la vestizione solenne di “ un cavaliere novello”. Mentre la festa era al culmine, il Santo saltò su un muricciolo e, accennando al motivo di una canzone erotica cantata da un giullare, Tanto è quel bene ch’io aspetto\ che ogni pena m’è diletto, la interpretò in chiave cristiana. Un nobile del Casentino, Orlando da Chiusi, ne rimase talmente colpito che gli donò il monte della Verna, dove poi nel settembre del 1224 ricevette le stimmate. Nel 1221 camminando verso Osimo si commosse nel vedere una sola pecorella tra montoni e capre. Pareva Cristo tra i farisei. Non avendo denari fu soltanto la pietà di un mercante in viaggio che gli permise di acquistarla e poi consegnarla alle claustrali di San Severino. “Nel giugno del 1219- narra il Celano - ardendo di un intrattenibile desiderio del martirio, Francesco decise di recarsi in Siria a predicare la fede. Si imbarcò per quella regione, ma il vento avverso fece dirottare la nave verso la Schiavonia…Pregò alcuni marinai di Ancona di prenderlo con loro per fare ritorno. Ne ebbe un netto rifiuto perché i viveri erano insufficienti. Ma il Santo, fiducioso nella bontà di Dio, salì di nascosto sulla imbarcazione col suo compagno. Ed ecco sopraggiungere, mosso dalla divina Provvidenza, un tale, sconosciuto a tutti, che consegnò ad uno dell’equipaggio timorato di Dio delle vivande, dicendogli: Prendi queste cose e dàlle
37 fedelmente a quei poveretti nascosti nella nave, quando ne avranno bisogno. Scoppiata una paurosa burrasca, i marinai, affaticati per molti giorni a remare, consumarono tutti i loro viveri; poterono salvarsi solo con quelli del Poverello, i quali, moltiplicati per grazia di Dio, bastarono per tutti fino a quando raggiunsero il porto di Ancona”. In questo periodo fu un moltiplicarsi di conventi in tutta la regione tanto che la Marca poteva essere chiamata “la Provincia stellata”, alla quale si poteva applicare ciò che scrisse Ruggero di Wendover nel suo Flores Historiarum: ”hanno riempito la terra; essi abitano nelle campagne in
gruppetti di sette o dieci, non posseggono nulla, vivono del Vangelo in una povertà eccessiva nel vitto e nel vestito”. La Regione Marche ha recentemente finanziato, con il determinante contributo della provincia marchigiana dei Frati Minori, un importante ed audace intervento di restauro e valorizzazione dell’ Eremo di Santa Maria di Valdisasso a Valleremita frazione di Fabriano. Luogo che la tradizione vuole tra i primi insediamenti francescani nella nostra regione tanto da
All’inizio lo ritenevano pazzo e fissato Subì percosse scherni e ingiurie Poi lo acclamarono rubandogli pezzi di saio per guarigioni
In alto a sinistra, una veduta del borgo di Montemaggiore che ospitò San Francesco a Natale del 1217 Subito sotto, Grotta dei Frati la chiesetta costruita in una cavità naturale a Cessapalombo Qui sopra, "sorella luna" accanto alla chiesa di San Francesco in Rovereto riedificata nel 1434
Il pellegrino di Assisi
Aprì numerosi conventi da nord a sud delle Marche e molti insediamenti presero il nome da suoi miracoli ed eventi prodigiosi
In alto, San Francesco mentre si imbarca ad Ancona per Gerusalemme, affresco situato nella basilica di San Giuseppe da Copertino di Osimo di G. Bocchetti Qui sopra, panorama in cui si scorge il convento francescano di Saltara con il monte Catria sullo sfondo
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meritare il nome di “Porziuncola delle Marche”. Luogo dello spirito che ha accolto, oltre al fondatore, anche una schiera di grandi personaggi dell’Ordine come San Bernardino di Siena, San Giovanni da Capestrano, San Giacomo della Marca. Centro di spiritualità dunque di grande rilevanza storica e culturale, capace di accogliere oggi numerosi visitatori e meritevole di essere inserito nei percorsi del turismo religioso. Il com-
plesso sorge su uno sperone roccioso, circondato da un fitto bosco, dove anticamente c’era un castello di difesa che dominava l’angusta vallata, corridoio strategico per i Longobardi. Sul finire del primo millennio il fortilizio fu trasformato in un cenobio benedettino che più tardi avrebbe ospitato Francesco. Nel 1401 il complesso passò al signore di Fabriano, Chiavello Chiavelli, che lo elesse a suo mausoleo. Fu in quell’occasione che adornò la piccola chiesa dell’eremo con il prezioso polittico di Gentile, L’Incoronazione della Vergine, oggi nella Pinacoteca di Brera. Dopo tredici secoli di storia l’eremo può tornare a
rigermogliare come uno dei luoghi francescani più belli e significativi che ci riportano alle origini. Uno spazio che evoca la pace interiore e conduce alla riscoperta del fraterno legame con il creato. Uno spazio dell’animo e del silenzio, dove la bellezza e la quiete del paesaggio regalano immagini indimenticabili secondo lo stile di essenzialità e semplicità francescana. Tramite emozioni percepite dai raggi di sole e dai brividi del vento che corre tra cielo, alberi e terra, si scruta nel profondo. Luogo ancora in grado di favorire pause serene, come al tempo dei viandanti e pellegrini che qui trovavano sosta. La natura ha sempre costituito un mezzo per stimolare la riflessione, raffinare i sentimenti, stabilire un rapporto con i valori trascendenti. Tutto ciò in modo mirabile attraverso una sensibilità straordinaria l’ha insegnato Francesco.Egli infatti, innamorato della Creazione, era in grado di captare nel reale la presenza di Dio e diventare un tutt’uno con quella presenza. Il Cantico delle Creature esprime con sommessa voce d’amore tale simbiosi. San Bonaventura nella biografia del Santo scrive: “Considerando che tutte le cose hanno un’origine comune, si sentiva ricolmo di pietà ancora maggiore e chiamava le creature, per quanto piccole, col nome di fratello e sorella. Risalendo sempre più verso l’origine di ogni cosa, finiva per nutrire verso tutte le cose create un’amicizia profonda perché sapeva bene che tutte provenivano, come lui, dallo stesso unico Principio”. ¤
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1860, truppe piemontesi passarono il Tavollo LA PRESA DI PESARO RACCONTATA DAL VESCOVO FARES
I di Dante Trebbi
l 5 giugno 1859, dopo la vittoria di Magenta, le truppe franco-piemontesi, occupavano Milano e costringevano gli Austriaci ad abbandonare la città e ripiegare nella nuova linea difensiva che comprendeva Peschiera, Mantova, Legnano,Verona. Rimaste senza copertura, il 12 giugno anche le truppe austriache residenti a Bologna furono costrette a ritirarsi in fretta e furia verso Modena, “lasciando sulle vie alcune suppellettili, pagnotte, e oggetti di vestiario”. Le truppe papaline di stanza a Bologna non riuscirono ad organizzarsi e ciò permise ai cittadini di accorrere a Piazza Maggiore ed issare la bandiera tricolore su cui era impressa la croce dei Savoia. Incapace di contrastare la sommossa, il cardinale delegato pontificio, Giuseppe Milesi Pironi Ferretti lasciò la città in mano ad una giunta rivoluzionaria. Dopo Bologna anche tutte le città della Romagna si ribellarono al Papa costringendo i papalini ad abbandonarle. Allo scopo di riorganizzarsi, questi ultimi si attestarono a Rimini ma, avuto notizie che anche le città marchigiane e umbre erano in fibrillazione, preferirono ritirarsi a Pesaro sotto il comando del Cardinale Tancredi Bellà, Delegato della Legazione. Nei mesi successivi non accadde nulla. Le città ribelli umbro-marchigiane che avevano alzato la bandiera tricolore mancavano di una strategia comune e non ebbero il giusto appoggio da parte dei bolognesi, forse in
virtù dell’accordo firmato nel 1856 da Camillo Benso conte di Cavour, primo ministro del regno del Piemonte e Napoleone III, imperatore dei Francesi che prevedeva la sola occupazione delle Romagne. Abbandonate a sé stesse le città vennero rioccupate dalle truppe papaline e alcune, come Perugia, messe a ferro e fuoco. A rompere questo equilibrio politico fu nel 1860 la “spedizione dei Mille” agli ordini di Giuseppe Garibaldi, finanziata dai piemontesi con lo scopo di occupare l’intero regno borbonico ed assoggettarlo alla Casa Savoia. In breve tempo Garibaldi dalla Sicilia, dove era sbarcato, risalendo vittoriosamente la Calabria, era giunto a Napoli e con la vittoriosa battaglia sul fiume Volturno aveva conquistato l’intero regno borbonico. La paura che Garibaldi, pur essendosi proclamato dittatore in nome di Vittorio Emanule II, si dirigesse verso Roma, come aveva molte volte dichiarato, o proclamasse una Repubblica (Mazzini era già a Napoli), nell’agosto 1860 Cavour fu costretto a dare l’ordine alle truppe piemontesi, stanziate sui confini dello Stato Pontificio, di preparare il piano d’invasione delle Marche e dell’’Umbra e di raggiungere nel più breve tempo possibile le truppe garibaldine. “sulli primi di settembre, si legge nel diario scritto in quei giorni dal Vescovo di Pesaro Mons. Clemente Fares, si faceva voce d’una invasione di Piemontesi nelle provincia dell’Umbria e della Marca
Storia
Nel 1859 le truppe papaline dopo la ribellione di Bologna e di tutte le città della Romagna preferirono ritirarsi a Pesaro
40 ma non ni si prestava fede, sembrando impossibile una simile audacia. Nel giorno 8 qui su seppe che nelle ore della mattina dello stesso giorno Urbino era caduta in potere dei corpi franchi in seguito di una capitolazione conclusa dopo una breve resistenza apposta dalli pochi Carabinieri che si trovavano di guarnigione. Il Cardinale Bellà, pensando che in caso di attacco avrebbe avuto di fronte pochi fuoriusciti pesaresi inviò subito parte dei soldati di stanza in città a soffocare la rivolta. Pesaro, tuttavia, attendeva da un momento all’altro si essere attaccata e sebbene avesse una guarnigione di mille uomini circa compresi li gendarmi e li provinciali, comandata dal Colonnello Zappi, si preparava alla difesa, ma più ancora nel piccolo Forte approvvigionato per resistere sette o otto giorni. Nella notte del 9 settembre furono fatte molte carcerazioni di persone ritenute complici di mire rivoluzionarie e per carcere fu loro assegnato il Forte. Diverse mogli degli arrestati vennero da me per perorare la causa dei loro mariti. Scrissi al Delegato Pontificio, Cardinale Bellà, che mi rispose che non aveva alcun potere in quanto era tutto nelle mani del Comando Militare. Nel giorno 10 fu proclamato lo stato di assedio e furono fatte delle perquisizioni quasi in tutte le case per la consegna delle armi. La mattina degli 11 due ore prima di mezzogiorno si sparsero i militari per le piazze strade e per le strade di ogni angolo della città, ordinando a chiunque passava di ritornare immediatamente in casa dopo mezz’ora furono fatte chiudere le porte delle botteghe e delle case. Molti che si trovavano nelle chiese o nelle case particolari non fecero
in tempo di tornare alle loro famiglie e dovettero passare la giornata dove si trovavano. Verso mezzo giorno lo stesso cardinale “ cintosi di uno spadone e percorrendo la città piuttosto da capitano che da prelato, animò a combattere i pochi soldati di cui poteva valersi: i quali la maggior parte appartenevano a quella ridicola milizia … chiamati per ‘istrazio’ dal volgo barbacani, abbietto perpetuo di schermi e riso delle donne”. Contro ogni previsione, l’11 settembre 1860 l’intero esercito piemontese di stanza a S. Giovanni in Marignano e a Cattolica, al comando del generale Enrico Cialdini attraversò il fiume Tavollo puntando su Pesaro e, verso l’una del pomeriggio si presentò di fronte a Porta Fano “ forte di 20.000 uomini e 8 batterie di cannoni. Nel frattempo il cardinale Bellà, forse sperando nell’arrivo di rinforzi, si ritirò nella Rocca Costanza dotata soltanto di due cannoni (uno scoppierà dopo pochi colpi). “ Per evitare un inutile spargimento di sangue fu inviato al Bellà una richiesta di resa “nel termine di tre ore”. Non avendo ricevuto risposta i piemontesi circondarono la città. Mentre alcuni cannoni cercavano di aprirsi un varco nelle porte cittadine, altri situati sul Monte Ardizio cominciarono a bersagliare Rocca Costanza. Alle quattro del pomeriggio i soldati papalini arroccati sulle mura abbandonarono le difese rifugiandosi nella rocca. Entrati in città i bersaglieri si appostarono sul campanile del Duomo e sui tetti delle case vicine mentre altri soldati rompevano le porte dell’episcopato ma,” visto che non era una posizione strategica, si ritirarono”. La battaglia continuò per tutto il pomeriggio fino
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alle due di notte. In un momento di tregua il Vescovo che si era ritirato nella cantina del Vescovado, mandò, attraverso un ufficiale piemontese, “a sigillo alzato”, una lettera al delegato “pregandolo di ben riflettere se era il caso di arrendersi con una onorevole capitolazione, visti i momenti che soffriva la città pel cannoneggiamento e bombardamento e dei timori … che molte vittime vi fossero a deplorare”. Il vescovo, decise poi di abbandonare l’episcopato per recarsi ospite di Don Antonio Severini nella Chiesa del Suffragio e così non seppe mai se la missiva fosse giunta a destinazione perché alle nove della mattina il forte si arrese senza condizioni. Mons. Bellà fu immediatamente trasferito a Bologna mentre tutta la guarnigione pontificia per parecchie ore dalla giornata “soffrì i più duri e villani trattamenti nelle strade e nelle piazze dove fu tenuta
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a spettacolo e a discrezione di una plebaglia furente”. Tornata a calma, il Vescovo tornò all’episcopato e non gli rimase altro che constatare i gravi danni che le palle di cannone sparate da ambo i contendenti avevano prodotto al fabbricato: il muro verso la rocca fortemente leso; le finestre tutte divelte e i pavimenti coperti di vetri e di cristalli rotti. Nella stalla una palla aveva spezzato di netto la coda ad uno dei cavalli della sua carrozza e “se fu salvato, perse di molto pregio, e si spese molto per farlo curare”. Alla promessa del nuovo governo di risarcire i cittadini dei danni subiti dal bombardamento, il vescovo orgogliosamente “preferì di non fare alcuna domanda di tal natura e di sopportare in pace i danni ricevuti”. Se molti cittadini accolsero l’invito a denunciare i danni subiti, pochi risposero alla notificazione che imponeva il ritiro di tutte le armi in
Nel 1860 Cavour diede l’ordine alle truppe piemontesi di preparare un piano di invasione delle Marche e dell’Umbria
Nella pagina a fianco in alto un ritratto il generale Enrico Cialdini Sotto, il Cardinale Clemente Fares Qui sopra, Camillo Benso di Cavour
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Una “bomba all’Orsini” fu lanciata nel 1863 contro il marchese Baldassini davanti al suo palazzo in via San Francesco
Sopra, una vecchia incisione della "bomba all'Orsini"
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loro possesso. Più che a pistole o fucili, le autorità miravano a ritornare in possesso delle cassette contenenti le bombe all’Orsini (simili alle attuali bombe a mano) che, nei mesi precedenti il Comitato Italiano di Rimini aveva consegnato ai partigiani della provincia. Alcune di queste, sotto uno strato di fieno, erano state portate a Pesaro e consegnate al Comitato Nazionale Pesarese composto da Adolfo Spada, Andrea Marzetti e Domenico Fattori. Andrea Marzetti che le custodiva in qualità di Maggiore della Guardia Nazionale, obbedì all’ordine, ma “senza dare dimostrazione dell’esito di tali bombe”. Nel 1863 una bomba all’Orsini fu lanciata contro il Marchese Baldassini mentre dialogava con il suo fattore dinnanzi al portone del suo palazzo situato in Via S. Francesco. La polizia sospettò subito che la bomba fosse una di quelle date a suo tempo al Comitato Nazionale pesarese. Messo alle strette, Andrea Marzetti confessò di aver trattenuto una cassa contenente sette bombe di cui sei (6) consegnate al guardiacaccia di S. Angelo in Lizzola per “scoraggiare i bracconieri” e una di averla regalata a sua suocera, Contessa Doralinda Paoli, che a sua volta l’aveva donata ad un amico. Sia il guardiacaccia che l’amico indicato dalla contessa” non avallarono la depo-
sizione per cui per il Marzetti, scattò il mandato di arresto con l’accusa di aver fornito l’arma del reato compiuto ai danni del Marchese Baldassini. Resosi latitante, Marzetti con un pro-memoria ritrattò la sua prima versione asserendo che la suocera si era ricordata di aver dato la bomba ad un suo servo. Questo servo confermò il fatto, ma non fu creduto dagli inquirenti, in quanto Marzetti apparteneva alla setta repubblicana “Unione Cittadina” composta di 91 elementi “divisi in squadracce” che già da alcuni anni, in nome di Mazzini imperversava nella città, compiendo atti terroristici contro le autorità ed elementi filogovernativi cittadini. Nel 1865,dopo l’uccisione del Delegato di Pubblica Sicurezza di Pesaro, Alessandro Ferro, molti di questi “repubblicani”, fra i quali Mario Paterni e Domenico Monti ritenuti capi, furono chiamati in giudizio per associazione a delinquere e per essere stati gli esecutori o i mandanti di tutti gli omicidi e dei vari attentati sovversivi avvenuti a Pesaro negli anni precedenti. Arrestati subirono il carcere in Ancona per circa due anni. Nel 1867 la Corte d’Assisi di Pesaro non volle celebrare il processo “per motivi di sicurezza e per probabile sollevazione popolare”. La causa passava allora alla Corte d’Assise di Bologna che il 17 luglio 1868 mandava tutti assolti per insufficienza di prove e ne ordinava l’immediata scarcerazione. ¤
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Premio Nobel sfiorato dall’Adone italiano RICERCATORI FRENATI DA LIMITI IMPOSTI DAI TECNICI
Nelle collisioni un elettrone ed un positrone si annichilano e tutta la loro energia si trasforma in un piccolo Big bang da cui possono nascere nuove particelle
L di Francesco Grianti
aboratori Nazionali di Frascati, 10 novembre 1974. Squilla il telefono, a rispondere è Giorgio Bellettini, Direttore dei Laboratori. "Abbiamo individuato una nuova risonanza. E' estremamente stretta e si trova a 3,1 Gev". La voce era quella di Sau Lan Wu, collaboratrice di Samuel Ting ai Laboratori di Brookhaven negli Stati Uniti. A Bellettini si gelò il sangue. Andò di corsa nella sala di sperimentazione e, dopo essersi consultato con Ferdinando Amman, il capo dei macchinisti, prese la decisione: Dobbiamo rischiare. Portiamo Adone oltre la sua energia di sicurezza di 2,8 Gev e andiamo a 3,1 Gev. Fu così che, anche a Frascati, si individuò senza alcuna dif-
ficoltà in soli due giorni, il segnale di quella risonanza, cioè di una nuova particella, quella che sarà chiamata J/y, che di li a poco avrebbe rivoluzionato la fisica delle particelle elementari. Purtroppo però, i primi a varcare la soglia della "rivoluzione di novembre" non furono i fisici italiani, ma quelli che lavoravano negli Stati Uniti, e così Samuel Ting e Burton Richter vennero premiati con il Nobel per la Fisica nel 1976 "scippandolo" agli italiani. Nessuno, dico nessuno, fece osservare che gli scienziati italiani erano stati i primi a realizzare una macchina come Adone che fu la prima a riuscire a far interagire materia (elettroni con carica negativa) con antimateria (po-
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44 sitroni = elettroni con carica positiva). Da da quel momento tutte le altre macchine acceleratrici avrebbero seguito quella strada come l'attuale ultimo LHC (Large Hadron Collider) del CERN di Gine-
dell'universo. La scoperta di queste particelle apre nuove finestre nella Fisica sempre protesa a conoscere le leggi che governano il microcosmo anche se sappiamo fin d'ora che ci è impossibile raggiungere il momento "zero" del Big Bang. Chi ci separa da lui irrimediabilmente è il tempo di Plank pari a 0, (43 zeri)1 secondi come stabilito dal principio di indeterminazione di Heisenberg. La speranza di trovare la particella mancante
La nuova particella chiamata J/y diede una svolta alle teorie della fisica Svolta denominata “Rivoluzione di novembre”
Sopra, Adone di Frascati primo acceleratore al mondo con fasci incrociati di elettroni e positroni con energia massima di 3,2 Gev Nella pagina a destra in alto, "AdA" prima macchina circolare a incrocio di elettroni e positroni Sotto, l'ettrosicrotrone di Frascati primo acceleratore di elettroni italiano
vra dove tutta la fisica mondiale di frontiera si è raccolta. Solo con questa macchina, cresciuta anch'essa sulla via tracciata dall'italiana Adone, si sarebbero potuti risalire i gradini della scala energetica che porta al mistero del Big Bang. Questo è il motivo di fondo che ha portato a spendere tanto denaro nella costruzione di LHC dove si è arrivati con l'energia massima dei teraelettronvolt, cioè migliaia di Gev, ad esplorare quali particelle ci fossero quando l'età dell'universo era di un millesimo di miliardesimi di secondo. Tutto questo è possibile perché facendo scontrare materia ed antimateria queste si annichilano in un flash di radiazione immateriale. Dalla energia di questo piccolo Big Bang, legata alla data di vita dell'universo, si possono generare quelle per noi nuove particelle come furono generate in quel momento della storia
Alla fine dei suoi giorni anche Stephen Hawking si rassegnò a non riuscire a scoprire la formula del Tutto che avrebbe spiegato ogni cosa, dicendo " per riuscirci dovrei essere alla zero entropico che per un fisico significa "essere un attimo prima del Big Bang". Detto questo pensate quale era la nostra speranza di trovare una particella che mancava per dare la sistemazione quasi definitiva alla teoria delle particelle elementari. L'unico nostro ostacolo era quel limite di 2,8 Gev impostoci dai macchinisti per timore che superandolo non avrebbero resistito i grandi magneti di Adone. Così stavamo muovendoci in un deserto cercando nuove oasi sulla strada maestra e con un mezzo estremamente efficiente, ma continuavamo a trovare e classificare oasi già note. Pensate che colpo ci dette quella telefonata rivelandoci che l'oasi tanto cercata era li a 3,1 Gev, dietro quell'ultima duna alzataci dai macchinisti e poco prima della energia massima di Adone a 3,2 Gev. Si, la "rivoluzione di novembre" non venne dall'Italia, come neppure il Nobel, anche se Adone l'avrebbe sollevata addirittura qualche anno prima avendo inziato a lavorare dal 1969. I macchinisti erano nostri amici, non li abbiamo uccisi. Eppure proprio a
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Frascati era iniziata questa storia. Era il marzo del 1960 quando il grande indimenticabile Bruno Touschek, sfuggito miracolosamente alla persecuzione razziale a causa di una madre ebrea anche se moglie di un ufficiale austriaco, espose la sua geniale idea : l'esplorazione della fisica delle alte energie tramite gli urti tra elettroni e positroni, quelle che lui chiamava "particelle civili", che da li in poi avrebbero per lungo tempo soppiantato quella confusionaria "teppa adronica" usata fino a quel momento. Con questo termine Toushek si riferiva a tutta quella sperimentazione della Alte Energie che usava protosincrotroni che acceleravano protoni per spararli contro i protoni fermi dentro una cella di idrogeno liquido. Questo tipo di urto coinvolge molti tipi di reazione che creano un ambiente difficile da esplorare ma lo "scippo" ci fu procurato dal protosincrotrone di Brookhaven e lo descriveremo accuratamente in seguito. Intanto negli anni 57-59 a Frascati si era costruito un elettrosincrotrone da 1 Gev, cioè una macchina che accelerava elettroni che colpivano un target che rappresentava l'oggetto su cui fare esperimenti.
45 presente nello scontro testa a testa di due auto dotate delle stessa velocità. Al seguito della intuizione di Toushek la prima macchina che si pensò di realizzare nei laboratori di Fisica a Roma fu AdA (Anello di Accumulazione) e la sua costruzione iniziò nel 1960 e confermò la fattibilità dell'intuizione di Touschek. Il contagio ai Laboratori di Frascati fu immediato e fin dal 1960 si cominciò subito a pensare alla realizzazione di un anello di accumulazione per elettroni e positroni di energia maggiore e vi lavorarono Ferdinando Amman, Claudio Pellegrini e Mario Basetti. Adone entrò in funzione nel 1969 dove erano previste quattro posizioni di incrocio dei fasci da mettere a disposizionene dei gruppi di ricerca che potevano lavorare contemporaneamente senza alternarsi come invece avveniva con l'elettrosincrotrone. I quattro gruppi erano diretti da nomi famosi in Italia come Carlo Bernardini di Frascati, Marcello Conversi di Roma, Giorgio Salvini di Milano e Antonio Zichichi del CERN, io facevo parte del gruppo di
Le potenzialità delle strumentazioni Con questi tipi di macchine come elettrosicrotroni o protosincrotroni si potevano fare solo esperimenti dove l'energia al momento dell'impatto poteva essere solo quella portata dai proiettili (elettroni o protoni) mentre nella macchine tipo Adone si sommavano le energie dei due fasci e quindi si raggiungevano energie maggiori nel punto di incontro delle particelle. Basta pensare all'energia che distrugge un'auto che va contro un muro a quella
Conversi come responsabile del sistema di rivelazione composto da Contatori a scintillazione, Elettronica veloce e Camere a scintilla. L'attività dei vari gruppi produsse
La particella fu scoperta a 3,1 Gev Adone invece fu bloccato a 2,8 per motivi di sicurezza legati ai magneti Così il Nobel sfuggì
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Gli scienziati italiani furono i primi a realizzare un macchinario capace di far interagire materia e antimateria
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molte pubblicazioni scientifiche ma, come ho detto, nel deserto era rimasta quell'ultima duna dei 2,8 Gev impostaci dai macchinisti e che non potevamo superare ma dietro la quale ci sarebbe stato il Nobel più che meritato per questa nostra Italia. Solo dopo lo shock di quella telefonata, e dopo aver trovato, solo due giorni dopo, anche noi quella particella formata da due quark, andammo a ricostruire come fosse stato possibile quello "scippo" cino_ americano. Le prime tracce della particella J/y erano apparse già nel 1970 nei Laboratori Nazionali di Brookhaven (USA), ben quattro anni prima della sua effettiva scoperta. La macchina era un protosincrotrone che accelerava protoni per colpire altri protoni fermi dentro un bersaglio di idrogeno liquido, insomma nella confusione di quella "teppa adronica" come li chiamava Toushek. Si stava studiando una reazione per la produzione di mesoni quando in un grafico si vide un "spalla" anomala tra le energie fra 3 e 3,5 Gev che si ipotizzò rappresentare una nuova particella. Purtroppo i rivelatori usati non avevano la risoluzione necessaria per indagare all'interno di quella zona di energia, cioè era come avere un bastone lungo un metro con cui andare a misurare un oggetto lungo un cm. L'articolo uscì su "Phisical Revew Letters" nel 1970 ma sfuggì alla osservazione dei fisici di Frascati dove Adone era già entrato in funzione dal 1969. Forse non gli dettero importanza sapendo di avere una macchina, prima ed unica al
mondo, e molto più adatta del protosincrotrone a scoprire nuove particelle. Ma il cinese Samuel Ting, con la caratteristica propria di quel popolo, sostituì i rivelatori precedenti con uno spettrometro magnetico e camere a fili molto più sensibili e ripetendo l'esperimento potè scoprire nel novembre del 1974 la particella cui dette il nome J, e fu proprio la sua collaboratrice Sau Lan Wu a comunicarcelo a Frascati. Ma questa particella sarà anche l'unica ad avere due nomi perché contemporaneamente, all'università di Stanford, Burton Richter la rivelò con SPEAR, una macchina progettata nel 1970 sul modello di Adone, e la chiamò y. A pensar male si commette peccato ma non sarà che prima che a noi quella telefonata sarà stata mandata a Stanford per dividere il Nobel anche con l'americano Richter ? In fondo Frascati se avesse conosciuto quell'articolo avrebbe scoperto la particella qualche anno prima ma Frascati è Italia e Italia è Galileo è Leonardo e molto altro e qui chiudo. Comunque dopo quello "scippo" a Frascati si concluse la Fisica delle Alte Energie come nel resto del mondo per continuarla solo al CERN di Ginevra dove molti ricercatori si trasferirono e chiamarono anche me ma preferii tornare nel mio paese natio a Pesaro, nella piccola università di Urbino e chiamato solo più tardi da Antonino Zichichi ai Laboratori del Gran Sasso dove andai saltuariamente a lavorare a quegli esperimenti dove i neutrini arrivano dall'universo senza passare per l'America. ¤
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Riforma Basaglia una rivoluzione tradita OSPEDALI PSICHIATRICI CHIUSI SENZA ALTERNATIVA
Q di Salvatore Passanisi
uando il 13 Maggio 1978 fu approvata la Legge 180 con la riforma psichiatrica fortemente voluta da Franco Basaglia e da tutti gli schieramenti progressisti dell’ epoca, l’ Italia si trovò ad essere la prima nazione al mondo ad abolire gli Ospedali Psichiatrici. La ratio che detta Legge sottintendeva era che reimmettendo nella Società i pazienti psichiatrici, fino ad allora reietti e dimenticati, la Società stessa sarebbe cambiata. La Legge Basaglia partiva dal concetto di fondo che la malattia mentale era proprio “causata dalla Società” e questo assunto ideologico, che aveva trovato fertile humus nel favoloso decennio precedente, influenzò ed anzi infiammò gli animi dei più sensibili tra gli operatori della salute mentale ma questa visione ideologica è stata in qualche modo tradita dalla incapacità politica ed economica - o forse dalla reale impossibilità- di realizzare adeguatamente una valida
alternativa con strutture di accoglienza e cura per coloro che da secoli erano rinchiusi nei manicomi. Fino al 1978 agli Ospedali Psichiatrici era richiesta la “cura e custodia” dei pazienti perché la vecchia Legge (del 1904) si preoccupava che il “pazzo” non potesse nuocere alla società dei sani…. e tutt’ora, comunque, quando si è convocati in Tribunale per peritare in ambito psichiatrico molto spesso la domanda di fondo è se il sogg. possa essere “pericoloso per sé o per altri”. Ho lavorato in tre dei quattro ospedali psichiatrici delle Marche tra il 1974 ed il 1981 prima di essere destinato al “territorio” e questa esperienza professionale mi ha portato a considerazioni alquanto diverse da quelle espresse dalla maggioranza dell’ opinione pubblica. Il Manicomio non è stato per me solo la sentina di orrori sadico/macabri descritti dalla quasi totalità dei media, soprattutto da film cult come “Qualcuno volò sul nido del cuculo” o “Il diario di una schizofrenica”, film peraltro bellissimi ma che non descrivevano la realtà bensì il “sentito” di chi, dall’ esterno, si accostava ai problemi della malattia mentale caricandolo delle proprie paure, dei propri pregiudizi aprioristici, di un malinteso senso di libertarismo e di progresso. Dobbiamo ricordare che il primo farmaco psicotropo, il Largactil è stato introdotto nella farmacopea nel 1952 mentre prima non esistevano mezzi, se non fisici, per contenere i deliri ed i comportamenti auto ed etero-aggressivi dei pazienti. Da allora varie ge-
Quaranta anni fa
Dal San Benedetto di Pesaro nel 1981 uscirono tanti pazienti molti dei quali però impreparati ad affrontare il mondo esterno
Sopra, Franco Basaglia artefice della riforma sugli ospedali psichiatrici Nella pagina precedente, uno scorcio del cortile dell'ex Crass di Ancona
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nerazioni di psicofarmaci permettono sì di addomesticare allucinazioni e deliri, ma costituiscono, nello stesso tempo, una forma di contenzione chimica che non so se possa essere peggiore della camicia di forza. Il Manicomio faceva paura per le sue pesanti porte, i suoi catenacci, i suoi muri scrostati e raramente restaurati, per le grida dei pazienti, per il loro odore di dopamina, per le camicie di forza, con l’Elettroshock! Eppure quanta umanità da parte di infermieri, medici ed impiegati; certo c’era anche chi era cinico, chi sfogava propri conflitti interni, chi la propria aggressività, ma erano percentualmente pochi. Ricordo vecchietti, anche coppie, che ai primi rigori autunnali chiedevano di essere ricoverati adducendo goffamente sintomi strani o suggeriti da qualcuno ed a queste improbabili psicopatologie si rispondeva con un sorriso e, se possibile, venivano accontentati per consentire loro di trascorrere l’ inverno al caldo e/o quanto meno di risparmiare sulle spese per la legna e per il combustibile. Questo avveniva più di 40 anni fa, quando non c’erano i DRG (sistema che permette di classificare tutti i pazienti ricoverati in ospedale in gruppi il più possibile omogenei per valutare le risorse impegnate e permettere di quantificare economicamente, controllare e contenere la spesa sanitaria.) e i LEA (i Livelli Essenziali di Assistenza sono le prestazioni e i servizi che il Servizio Sanitario Nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o die-
tro pagamento di un ticket) a dettar legge -mercantile ed arida- nella gestione della Sanità Pubblica. Il giorno della chiusura del S. Benedetto, l’O.P. di Pesaro, nel Febbraio del 1981 con altri colleghi ci trovammo davanti al grande portone ormai spalancato e da cui uscivano i nostri ex pazienti, per cercare di aiutare, di indirizzare, di provvedere in qualche modo alle loro necessità immediate determinate dalla improvvisa libertà: si, è certamente vero, come scrisse Mario Tobino, che all'indomani dell'attuazione della legge, vi sono stati numerosi suicidi perché queste persone si sono trovate del tutto impreparate ad affrontare un mondo da cui erano state escluse e, non sapendo come vivere la nuova libertà l’hanno usata in quel modo. Per quanto riguarda noi operatori psichiatrici sparsi nel territorio, furono allestiti pochi posti letto negli ospedali “normali” e lì, in ambienti di fortuna abbiamo a poco a poco strutturato modalità di intervento completamente nuove senza aver mai avuto una qualche formazione che non fosse direttiva politica. L’accoglienza dei colleghi, sia per gli infermieri che per i medici, fu un misto tra timore, -percependo loro la Follia come una realtà misteriosa ed “altra”- e curiosità per “come sarebbe andata a finire”, come vari di loro, molti anni dopo, mi hanno bonariamente confessato. Questo a riprova che la follia non si lascia imprigionare dalle nuova ideologie e rimane ineluttabile e reale, vera ed enigmatica espressione del vivere umano. ¤
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Nella “Villa Favorita” Ancona si unì all’Italia EDIFICIO IN STILE PALLADIANO TRA STORIA E LEGGENDA
N di Claudio Sargenti
A villa Favorita c’è chi scommetteva di aver visto aggirarsi l’anima di un giovane o visi di donna dietro i vetri
ell’immaginario collettivo “Villa Favorita” di Ancona, oggi sede dell’Istao (l’Istituto “Adriano Olivetti” fondato da Giorgio Fuà) è ancora, e indissolubilmente, legata alla Famiglia del Conte Ricotti, e a quel Luigi che nei primi decenni del XIX secolo la fece costruire come “casino di campagna”, ovvero una residenza estiva nella quale la famiglia nobile o benestante poteva trascorrere nella fresca quiete i giorni più caldi della stagione estiva, troppo afosi per essere sopportati nelle strade cittadine a diretto contatto con la natura e con i terreni di proprietà. Un edificio, una costruzione, entrata suo malgrado nella leggenda del capoluogo non tanto e non solo per la possenza e la particolarità di quella struttura (che pure rappresenta un unicum ancora oggetto di studi da parte di storici e architetti) ma per quella frase entrata ormai nel linguaggio comune tra gli Anconetani pronunciata dal Conte Ricotti durante un violento nubifragio che colpì la città. Quell’ “avanti si vada” che il Conte intimò al proprio cocchiere che gli consigliava di fermarsi e magari di tornare a casa, è diventato quasi un tutt’uno con la Villa che si erge maestosa in cima alla collina della Baraccola. La discesa del Pinocchio, all’epoca molto scoscesa, con la pioggia, divenne un torrente in piena; la carrozza sulla quale viaggiava fu investita dalla violenza dell’acqua che travolse tutto, uomini, mezzi e cavalli. Il Conte e il suo chaffeur persero la vita nei pressi
dell’ex Ospedale Psichiatrico, a Piano San Lazzaro. Da allora quella frase “avanti si vada” è entrata, direi quasi di diritto, nel linguaggio comune degli Anconetani che la tramandano di padre in figlio, come una sorta di monito per chi pensa di affrontare i problemi o le difficoltà con (troppa) superficialità. Ma “Villa Favorita” rappresenta anche un pezzo di storia della città. E come ogni storia che si rispetti attorno a quelle mura, a quei giardini sono fiorite anche tante leggende. La storia innanzitutto. Il 29 settembre 1860, alle 14, nei locali della Villa dove si era insediato il Comando italiano, venne firmata la resa, all’indomani della vittoriosa battaglia di Castelfidardo, nelle mani del Generale Fanti da parte dei plenipotenziari inviati dal Comandante generale dell’esercito papalino, De Lamoriciere. Alle 14,50 proprio nei saloni della “Favorita”, venne decisa l’unificazione di Ancona all’Italia. Ancora. L’edificio fu al centro, poi, di altri episodi certamente meno edificanti legati alla guerra. Durante il secondo conflitto mondiale fu occupato dalle truppe tedesche e quindi da quelle alleate: entrambi gli eserciti non ebbero certo riguardi nell’usare la Villa, danneggiando sistematicamente gli arredi, gli affreschi e i decori, abbandonata ormai da decenni dai suoi proprietari. E altrettanto poco riguardo usarono i tanti sfollati che vi trovarono rifugio dopo i primi bombardamenti sulla città. Mentre la Villa veniva dichiarata monumento nazionale, continuava a versare nel più
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Negli anni ‘70 il regista Zurlini vi girò il film “La prima notte di quiete” con Alan Delon e un cast stellare
Sopra, due immagini della cappellina "autentico gioiellino" della chiesetta privata prima e dopo il restauro
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grave stato di incuria e di abbandono, stato di abbandono culminato nella sua occupazione, senza controlli, da parte dei terremotati dopo il sisma che colpì Ancona nel 1972. Una Villa così imponente ma lasciata al suo destino. Massiccia, ma ridotta ormai ad uno scheletro, minacciosa, con le porte divelte, le finestre aperte, il più completo degrado al suo interno, in mezzo ad un bosco secolare e tetro, non poteva non alimentare la fantasia di tanti. “Villa Favorita” dalla storia entrò direttamente nella leggenda. In quegli anni, infatti, c’era chi era pronto a scommettere di aver visto l’anima persa di un giovane aggirarsi all’interno della casa; chi, addirittura, visi di donne che comparivano nei pochi vetri rimasti in piedi; oppure era sicuro di aver sentito strani rumori provenire da quei saloni abbandonati. Per qualche tempo andare nella villa dei misteri (o delle “centofinestre” come pure veniva chiamata) per scoprire cosa ci fosse o chi l’abitasse era diventato una sorta di “passatempo” per molti giovani anconetani. Era forse la cosa più trasgressiva dell’epoca. E così venivano organizzate spedizioni in auto o in moto, rigorosamente all’imbrunire. Ci si andava elettrizzati, armati di “torce”; si finiva immancabilmente davanti ad una birra o a un gelato, per “smaltire” l’adrenalina accumulata e per alimentare la leggenda di “Villa Favorita”. Una leggenda che in qualche modo anche un film molto duro e crudo contribuì a te-
nere viva. Nei primi Anni ‘70, Valerio Zurlini girò nei saloni diroccati alcune scene de “La prima notte di quiete” con l’enigmatico Alain Delon, la splendida Lea Massari, la bella e sensuale Sonia Petrovna e un cast d’eccezione che comprendeva anche Alida Valli, Giancarlo Giannini, Renato Salvatori e Salvo Randone. Ma nel 1990 la Villa rientra prepotentemente nella storia della città e riacquista quel ruolo che le compete. L’iniziativa è dell’Istato, l’Istituto “Adriano Olivetti” per la gestione dell’economia e delle aziende diretto da Giorgio Fuà. Ancora una volta l’economista anconetano guarda lontano e decide di acquistare l’edificio dagli eredi del Conte Ricotti per 620 milioni di lire. Dopo imponenti lavori di ristrutturazione e restauro, l’Istao, nel 1998, vi trasferisce la propria sede. Oggi in quelle sale un tempo abbandonate e nell’incuria, vi si tengono corsi, master, incontri, tavole rotonde con studenti e docenti tra i più prestigiosi in Italia e nel Mondo. “Villa Favorita” fa parte di un complesso di edifici che comprende anche la scuderia (in corso di recupero dopo i danni del terremoto del 2016), la limonaia, il giardino d’inverno, il parco secolare e un annesso colonico. La Villa ha riacquistato appieno un ruolo centrale nel panorama storico e culturale, diventando via via un punto di riferimento per associazioni culturali, iniziative musicali, centro studi e sede di conferenze, a disposizione delle realtà produttive e più dinamiche. E non solo della città. ¤
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Da casa di villeggiatura a centro internazionale IL COMPLESSO OSPITA RICERCATORI DA TUTTO IL MONDO
L
Villa Favorita sorge in una vasta proprietà agricola acquistata a metà del Settecento dai ricchi conti Ricotti
a saletta dove si tengono le riunioni più importanti, quelle operative, è intitolata a “Modigliani”, quel Franco Modigliani premio Nobel nel 1985 per l’economia, italiano ma naturalizzato americano (è considerato uno dei massimi esponenti della scuola postkeynesiana) grande amico di Giorgio Fuà, il fondatore dell’Istao, l’Istituto “Adriano Olivetti” che da venti anni ha sede proprio a Villa Favorita. Si racconta che l’economista americano ogni volta che veniva in Italia, non mancasse mai di andarlo a trovare magari nella sua casa di campagna sulle colline di Ancona. Al secondo piano, invece, c’è, tra le altre, la “Studio Pareto”, dedicata al sociologo ed economista italiano (anche se nato a Parigi nel 1848) Vilfredo Pareto, le cui teorie hanno avuto un grande influsso (e forse lo hanno tutt’ora) nello sviluppo della scienza economica contemporanea. Al piano terra si trova la “cappellina”, un autentico gioiellino, l’originaria chiesetta privata interna alla Villa: qui si ricevono gli ospiti più illustri. Sopra il vecchio altare sconsacrato, si conservano come autentici cimeli, anche scritti autografi del Patriarca. Proprio come fossero preziose “reliquie”. E poi, l’aula magna, lo scalone monumentale tornato agli antichi splendori dopo i lavori di restauro, le sale per studiare, per leggere, per incontrarsi, accanto agli uffici e alle biblioteche. Una struttura, cioè, in grado di ospitare al meglio studenti, ricercatori, docenti, collaboratori provenienti un po' da tutto il Mondo. Villa Favorita oggi si presenta così. Ma quel superbo edificio
che in cima alla collina della Baraccola sovrasta una vasta area commerciale e produttiva cresciuta in maniera un po' confusa alla periferia sud di Ancona, nasce con tutt’altri scopi. Infatti, il complesso a cui fa capo “Villa Favorita” (o “Villa La Favorita”, come riportano alcuni testi) sorge all’interno di una vasta proprietà agricola acquistata dai Conti Ricotti a partire dalla metà del Settecento e in modo più massiccio dopo il 1793. Già dal XVIII secolo la Famiglia Ricotti (a cui l’edificio è ancora oggi incredibilmente legato) è annoverata ad Ancona tra i “pubblici negozianti” (i Ricotti erano commercianti che svolgevano le loro attività nelle vicinanze del porto) e figura tra le famiglie più ricche e influenti della città, tanto che nel 1792 Tommaso Ricotti, riuscì ad ottenere per sé e i propri discendenti il titolo di “conte”. Il cambiamento portò grosse novità sia per quanto riguarda la gestione del patrimonio che delle attività familiari. Così venne liquidata l’impresa commerciale a favore dell’acquisto di beni immobili, soprattutto di vasti terreni agricoli. Agli inizi dell’800 i beni posseduti alla Baraccola costituiscono forse la maggiore azienda agricola della Famiglia. E a partire dal 1801 e nei tre decenni successivi, Luigi Ricotti, erede di Tommaso, portando a compimento il trasferimento delle sue attività (da commerciante a proprietario terriero) fa edificare sulla sommità della collina, la “grandiosa casa di delizia denominata La Favorita”, appunto. Si tratta di un vasto complesso che comprende oltre l’edifi-
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La struttura è ispirata a modelli palladiani Il piano terra permetteva ai nobili in caso di pioggia di attraversare l’edificio in carrozza
Sopra, l'atrio di Villa Favorita in condizioni di degrado e come si presenta oggi restaurato
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cio principale, le ex scuderie, la limonaia, il giardino d’inverno, un complesso colonico e un grandioso parco secolare per complessivi 16 mila metri quadrati. Nei documenti è definita “casa di villeggiatura” della Famiglia Ricotti. L’edificio è a pianta centrale, ispirata a modelli palladiani e tardo rinascimentali; l’impianto strutturale ha una simmetria complessa su base ottagonale. L’apparato decorativo murale è diffuso e
ispirato a modelli neoclassici; i pavimenti sono realizzati in seminato alla veneziana con disegni geometrici e decori. L’interno si sviluppa su quattro piani: un piano terra con la cucina; un piano nobile con salone centrale a doppia altezza il cui soffitto è formato da una cupola e con ampi finestroni che permettono di dare luce
alla sala; un piano superiore, dove vi erano le camere per i signori e un piano sottotetto praticabile per la servitù. L’organizzazione della pianta ottagonale segue due ordini: una croce ortogonale orientata secondo gli assi nord-sud ed est-ovest ed una croce formata dalle diagonali del quadrato. Gli spazi interni erano ordinati gerarchicamente e funzionalmente secondo questa complessa gabbia. Il piano terra è stato realizzato in modo da dare la possibilità di attraversare il grande edificio con la carrozza per permettere ai nobili di accedervi senza sporcarsi o bagnarsi in caso di pioggia. Ancora aperto, infine, il dibattito su chi abbia progettato la Villa. Tra paragoni con edifici simili realizzati nello stesso periodo non solo nelle Marche e suggestioni come quella che fa riferimento all’iconologia simbolica (legata alla natura a sfondo cosmologico co-stagionale, al moto solare, ai venti, per consentire sempre una percezione guidata della campagna circostante dai punti cardinali) l’architetto e storico di Ancona, Fabio Mariano scrive che “…la Villa Favorita appare a pieno titolo come una fra le opere più compiute del neoclassicismo architettonico nelle Marche” per poi concludere la sua riflessione affermando che “…rimane un’opera direttamente o indirettamente ispirata a quel particolare linguaggio di morbida mediazione sperimentale fra tradizione classica e razionalismo illuminato che vide come suo indiscusso caposcuola Giuseppe Valadier.” Forse il più grande e famoso architetto della Roma Papalina, aggiungiamo noi. c.s.
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Collettore romano riemerso dopo il sisma L’ALTOPIANO DI COLFIORITO E LA CITTÀ DI PLESTIA
S di Gianfranco Paci
Sopra, la cartina dell'area di Colfiorito: nn. 1-3 (abitati protostorici) 4 (necropoli dei Plestini) 5 (abitato di Monte Orve) A (santuario di Cupra) B (collettore romano) C (città romana di Plestia)
ulla organizzazione politico-amministrativa dell’altopiano di Colfiorito in età antica, la quale - come è noto - fece capo al municipio romano di Plestia, ubicato dove ora sorge (isolata nella pianura) la chiesetta altomedievale di Santa Maria di Pistia, che ne conserva il nome, esiste come era da attendersi una discreta bibliografia scientifica. Tuttavia la recente scoperta del collettore romano di Fonte delle Mattinate ha contribuito a riportare alla memoria il fatto, pressoché obliterato nell’immaginario collettivo, che l’altopiano era una volta interamente coperto dal un ampio lago, di cui le paludi che ancora oggi si vedono ad ovest del paese di Colfiorito sono una
piccola sopravvivenza. Esso era chiamato lacus Plestinus, dal nome antico degli abitanti dell’altopiano, i Plestini: è ricordato da Appiano a proposito dello scontro, avvenuto sulle sue sponde nel 217 a.C., tra la cavalleria di Annibale ed uno squadrone romano e vinto dai Cartaginesi. Lo scoperte archeologiche del secolo scorso hanno mostrato che in età preromana, a partire dal X-IX sec. a.C., i Plestini si attestarono sulle sponda occidentale di quella parte del lago che occupava l’attuale Piano del Casone, cioè la vasta pianura che si estendeva tra il paese di Colfiorito e i rilievi dell’Appennino marchigiano. In particolare sono stati identificati tre villaggi - uno in loc. La Capannaccia,
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54 al di sotto dell’area che sarà poi occupata da un importante santuario della dea Cupra (VI-I sec. a.C.), un altro su un terrazzo dominante la Fonte Formaccia, il terzo nell’area della successiva città romana -, nonché la necropoli, ubicata presso l’attuale cimitero di Colfiorito. L’altopiano del Casone presenta una pendenza verso est che va dai 760 circa ai 750 m s.l.m. e pertanto i villaggi, essendo posti ad una quota altimetrica tra i 758 e 760 m s.l.m., dovevano occupare una posizione perilacuale. Il trasferimento sul Monte Orve
L’altopiano era una volta interamente coperto da un ampio lago testimoniato dalle attuali paludi
Tra la fine del VIII e gli inizi del VII sec. a.C. questi insediamenti di pianura furono abbandonati, probabilmente a causa di una situazione di insicurezza che costrinse questi abitanti a cercare luoghi più sicuri, sulle colline circostanti: il monte Orve per la sua favorevole posizione strategica, che consentiva il controllo della principale viabilità dell’altopiano, fu l’insediamento più importante di questo periodo, come mostrano i resti archeologici tuttora visibili. Quindi con il III sec. a.C., quando ormai l’estendersi della potenza e dell’influenza romana nell’Italia centrale garantiva una ritrovata sicurezza, si assiste ad un ritorno al piano dei Plestini che tornano ad occupare i precedenti siti perilacuali, in particolare quello di S. Maria di Pistia, sul quale sorgerà poi il municipio romano. La nascita del municipio, un fatto centrale nella storia dell’altopiano, è stata così ricostruita dagli studiosi a partire dagli inizi del secolo scorso: tra il III e il II sec. a.C. l’altipiano avrebbe visto l’arrivo di un certo numero di cittadini romani, qui trasferiti in quanto beneficiari di assegnazioni individuali di lotti
di terra. La loro presenza, trattandosi di cittadini romani, comportò la necessità, per Roma, di istituirvi una praefectura: un sistema, cioè, che facesse fronte alle esigenze di questi cittadini e garantisse in particolare l’amministrazione della giustizia: cosa che avveniva grazie all’invio di un funzionario ad hoc, un praefectus, appunto. Nella seconda metà del I sec. a.C. tutte le prefetture furono trasformate in municipi: così avvenne, ad es. nella vicina Sabina, dove i nuovi municipi furono amministrati mediante un sistema magistratuale composto di otto uomini, gli octoviri. Anche Plestia avrebbe beneficiato del momento favorevole e sarebbe stata innalzata allora a municipio. Infatti su un’epigrafe di questa città compare un ottoviro: ed è stata proprio l’attestazione di questa carica a determinare questa ricostruzione a ritroso dei fatti, ivi compresi l’arrivo dei coloni e l’istituzione della prefettura, della quale - in particolare - non c’è peraltro notizia in nessuna fonte. Si capisce, scorrendo questi lavori, che gli studiosi non hanno tenuto nella giusta considerazione le caratteristiche ambientali, molto particolari, dell’altopiano di Colfiorito, tra cui quella della presenza del lago. Si tratta di un errore spiegabile, forse, per il fatto che quella che l’altopiano allora trasmetteva era l’immagine di una vasta pianura asciutta. Ma si trattava, anche, di una situazione artificiale e precaria, prodotta dal fatto che negli anni 1458-1464 Giulio Cesare da Varano, signore di Camerino, aveva fatto costruire, nel punto più basso ed orientale del Piano del Casone, un condotto (noto come la “Botte dei Varano” e funzionante fino ai nostri giorni), allo scopo di far defluire le acque del pianoro e recuperare così delle terre alla coltivazione. Quando il
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terremoto del 1997 provocò la parziale ostruzione della “Botte dei Varano” si rese necessario costruire con urgenza un nuovo condotto, onde evitare l’impaludamento - che stava iniziando - del Piano del Casone. E fu appunto allora, durante la costruzione della nuova opera idraulica, che avvenne la scoperta (ed anche la parziale esplorazione) di un condotto d’età romana, che con percorso sotterraneo di circa 1 km correva parallelo alla “Botte dei Varano” ed aveva svolto la medesima funzione di svuotamento delle acque dell’altopiano: un’opera fin qui del tutto ignota, che getta nuova luce sulla storia dell’altopiano. Un territorio “troppo montuoso” La presenza del lago, infatti, riduce sostanzialmente la disponibilità di terre da coltivare; d’altra parte parliamo di terre che sono pur sempre sui 750-760 m s.l.m., quindi sfruttabili soltanto per poche e determinate colture. Vale la pena di ricordare, in proposito, la descrizione che Strabone fa del territorio degli Umbri posto sulla destra della Flaminia (dove cita tra l’altro Camerino, che è a quota decisamente più bassa): si tratta – dice il geografo - di un territorio “un po’ troppo montuoso”, per cui “nutre i suoi abitanti più con la spelta che con il grano”. D’altra parte gli altri pianori della zona - di Annifo, di Dignano, ecc. - sono posti mediamente sugli 800 metri s.l.m., e sono adatti, semmai, per l’allevamento, più che per l’agricoltura. Stiamo parlando, insomma, di terre assolutamente non appetibili da parte di cittadini romani: ciò che fa evidentemente cadere il mito dei coloni del III-II sec. a.C. D’altra parte la recente scoperta di un’epigrafe in cui compare un ottoviro, ma di
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condizione libertina ha dimostrato in modo indiscutibile che questi ottoviri di Plestia non sono magistrati; ma si tratta d’un collegio di natura sacerdotale. Viene così a cadere anche l’idea del municipio ottovirale, che tante perplessità aveva suscitato in alcuni studiosi, dal momento che tutti municipi romani sorti in territorio umbro avevano una costituzione quattuorvirale, facente cioè capo ad un collegio di quattro magistrati. Come è noto tutti questi municipi furono creati nel 90 a.C., o a ridosso di questa data, grazie ad una legge speciale che – nel momento critico dello scoppio della guerra sociale – Roma promulgò in tutta fretta, per impedire che proprio gli Umbri (insieme ad alcuni altri popoli) entrassero in guerra accanto agli insorti. Ed è proprio in questo momento storico che andrà dunque collocata anche la creazione del municipio di Plestia, il capoluogo amministrativo del popolo umbro dei Plestini. E il collettore romano di Fonte delle Mattinate, venuto fortuitamente alla luce nel 1997 e per il quale manchiamo di elementi di datazione, va per forza di cose ricondotto a questo particolare momento
Sulle sponde del lacus Plestinus avvenne lo scontro tra uno squadrone romano e la cavalleria di Annibale vinto dai Cartaginesi
In alto il collettore romano di Fonte delle Mattinate dopo il restauro del 2012 (Foto N. Frapiccini)
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La costruzione di un nuovo condotto dopo il sisma del 1997 che danneggiò la “Botte dei Varano” portò alla scoperta di un collettore romano
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ed inserito nella vicenda della creazione del municipio, alla quale fu senz’altro funzionale. D’altra parte, per rimanere sulle caratteristiche del municipio romano di Plestia, è da ritenere che l’abitato abbia avuto una consistenza abbastanza modesta, così come non particolarmente numerosa sarà stata nell’insieme la popolazione che occupava l’intero altopiano di Colfiorito nella sua accezione più
ampia. Al potenziamento del sito di S. Maria di Pistia, che con la creazione del municipio diventa il capoluogo del comprensorio, avrà certamente contribuito il confluirvi della popolazione discesa al piano dal Monte Orve tra il III e II sec. a.C.. Ma il recupero delle terre coltivabili del Piano del Casone, pur con i limiti derivanti dalla quota altimetrica che le stesse presentano, era indispensabile per la vita di una comunità in ascesa che aspirasse a diventare municipio, cioè centro politico e amministrativo dell’intero territorio. Anche se - a mio avviso - la promozione municipale del sito non avvenne a motivo della sua grandezza o della
sua importanza o per il peso politico dei Plestini, ma per la sua utilità, agli occhi del governo romano, come punto di controllo e centro di servizi di un territorio vasto, articolato ed in buona parte spopolato, come è per le zone di alta quota. Il recupero delle terre fu dunque funzionale alla crescita del sito e quindi alla sua promozione, ma fu anche indispensabile allo scopo. La città di Plestia continuò a vivere nei secoli successivi, fino all’età tardo antica, quando risulta essere diventata anche sede di una diocesi paleocristiana: essa è ancora, dunque, punto di raccordo e di riferimento del territorio degli altipiani. Poi ad un certo punto (tra il VI e VII sec. d.C.) interviene un fatto grave: un movimento del terreno, non si sa se dovuto ad un “cedimento differenziale del sottosuolo”, oppure se prodotto - come forse è più probabile - da un sisma “causò una dislocazione notevole” del collettore di Fonte delle Mattinate “alterandone perfino la pendenza originaria nell’ultimo tratto” e determinandone di fatto la fine del funzionamento. Un sondaggio effettuato per chiarire l’accaduto ha rivelato che vi fu anche “un tentativo di riparazione, di cui sono state trovate le tracce, che fu effettuato raggiungendo il manufatto con un grande scavo a cielo aperto”. Ma senza risultati positivi. Dopodiché l’acqua tornò nel suo luogo naturale, sommergendo il Piano del Casone e fu la fine di Plestia. La chiesetta di S. Maria di Pistia, che segna il punto in cui la città sorgeva, fu costruita in età medievale (sec. XI). ¤
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“Tagli” alle pensioni e principi costituzionali I DIRITTI A CONFRONTO CON LE ESIGENZE DI BILANCIO
I di Maurizio Cinelli
diritti sociali «costano». È questo l’argomento principale sul quale si fondano, non da oggi, le posizioni di coloro che intendono giustificare situazioni di tutela affievolita o comunque di non piena garanzia di quei diritti. E la crisi economica che da tempo attanaglia il nostro paese ha dato ulteriore alimento alle politiche di ridimensionamento, in particolare, dei diritti pensionistici: non solo attraverso discipline normative vieppiù rigorose – la riforma Fornero delle pensioni del 2011 è soltanto l’esempio più recente –, ma anche attraverso periodici interventi ablativi (e altri sono all’orizzonte, come ben sappiamo), quali il blocco della perequazione automatica dei trattamenti pensionistici o l’imposizione di contributi di solidarietà di varia consistenza e durata. L’esigenza di stabilizzazione dei precari equilibri del sistema previdenziale; gli impegni di contenimento del debito pubblico, assunti dal nostro paese con l’Unione europea; la necessità di reagire alle iniquità del vigente sistema pensionistico: sono queste le ragioni che comunemente si adducono per giustificare il suddetto tipo di iniziative «regressive». Ma particolarmente suggestivo, tra i tanti, è l’argomento che fa leva sull’esigenza di garantire, con il risparmio attuale, i trattamenti pensionistici delle generazioni future. Il richiamo alla questione della c.d. solidarietà intergenerazionale – che apre un fronte di potenziale conflitto tra padri e figli – è questione che preoccupa anche per il fatto di prestarsi ad essere ap-
prezzata più con i sentimenti, che con la ragione. Invero, la solidarietà intergenerazionale è una sorta di «catena» che si snoda nel tempo e vede la generazione degli «attivi» (necessariamente, i «giovani») accollarsi, tramite la contribuzione, il carico dei trattamenti pensionistici degli anziani (che altrettanto hanno fatto a loro tempo con la generazione che li ha preceduti), e non viceversa. Giustificato, appare, dunque, l’imbarazzo che si prova di fronte a tesi o programmi che, pur di garantire gli anelli successivi di quella catena, di fatto ribaltano tale schema: così trascurando di considerare, però, che l’indebolimento dell’anello sul quale oggi si pretende di intervenire in funzione di esigenze future di fatto si converte in una sorta di tradimento di quel vincolo della solidarietà intergenerazionale, che pur si invoca. Resta comunque il fatto che alle prerogative discrezionali del legislatore ordinario, realisticamente, non è possibile opporre alcun limite: se non quello di un trattamento atto ad assicurare le esigenze vitali minime della persona. È quanto ritenuto, fin da epoca risalente, da sentenze della stessa Corte costituzionale (ad esempio, dalla sentenza n. 78 del 1963). Ne consegue un implicito, potenziale appiattimento, a discrezione del legislatore ordinario, anche delle prestazioni pensionistiche a un livello minimale, o di sussistenza: alla stessa stregua, cioè, delle prestazioni di natura assistenziale. E, tuttavia, nonostante l’indiretto avallo che parrebbe-
Previdenza
Il nodo della cosiddetta solidarietà intergenerazionale apre un potenziale conflitto tra padri e figli
Qui sopra, la Corte Costituzionale ed il palazzo del Quirinale Diritti sociali ed esigenze di bilancio in continuo confronto-scontro
58 ro fornire sentenze del surricordato tenore, non si può dire che siffatta conclusione rispecchi puntualmente il disegno tracciato dalla nostra Costituzione. Vi è innanzitutto un punto fermo del quale tener conto. Sia la tutela costituzionalmente garantita ai cittadini inabili al lavoro (il «mantenimento» e l’«assistenza sociale», di cui al comma 1 dell’art. 38), sia quella garantita ai lavoratori (i «mezzi adeguati alle esigenze di vita», di cui al successivo comma 2) perseguono il medesimo, fondamentale obiettivo: quello di garantire la dignità di tutti e realizzare il «pieno sviluppo della persona umana» (artt. 2 e 3 Cost.). Preso doverosamente atto di questo, va anche riconosciuto che, come la stessa terminologia evidenzia, la garanzia di «adeguatezza», inerente alla prestazione di natura previdenziale, evoca un livello di tutela superiore a quello proprio della prestazione di natura assistenziale (fermo al livello della «sufficienza»). E il livello «accresciuto» di tutela, che distingue la prestazione previdenziale «adeguata», non può che essere significativo dell’emersione di un valore ulteriore: il «merito» acquisito con una vita di lavoro. In sostanza, nella tutela dei diritti sociali, garantita dalla fonte costituzionale, coesistono i valori della «retribuzione» (merito) e della «redistribuzione» (solidarietà), in reciproco rapporto dialettico. L’esigenza che la pensione esprima anche una valenza «retributiva» trova radicamento positivo sia nel ruolo fondante della Repubblica democratica, riconosciuto al lavoro (come solennemente dichiara in apertura l’art. 1 della Costituzione): sia nel dovere di svolgere «un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società», che grava
(come sancisce il successivo art. 4, comma 2) su ogni cittadino abile al lavoro. E la rilevanza del «merito» è in perfetta linea, d’altra parte, con il solenne impegno della Repubblica a garantire quel «pieno sviluppo della persona umana» (art. 3 Cost.), che tale non potrebbe essere, se la tutela accordata fosse amputata di quanto il lavoratore, al termine della propria vita attiva, ha motivo di attendersi per aver assolto (in conformità ai suddetti precetti) al dovere di lavorare. I diritti previsti dalla Costituzione Si potrebbe dire, in estrema sintesi, che costituzionalmente garantito è il diritto a trattamento pensionistico che rispecchi il servizio reso alla collettività (il «merito», appunto, seppur convenzionalmente valutato, a fini previdenziali, tramite il riferimento agli anni di lavoro o all’entità della contribuzione versata), temperato dal dovere della solidarietà (ex art. 2 Cost.). Sembrerebbe giusto attendersi, dunque, che la prestazione «adeguata» non venga trattata dal legislatore ordinario alla stessa stregua di una prestazione assistenziale, neppure in periodo di scarsità di risorse finanziarie, come l’attuale. E, tuttavia, di fatto, così non è. Già il «merito» è parametro che, per essere di complesso, sfuggente apprezzamento, mal si presta a fondare un nucleo solido – la «adeguatezza» della prestazione, appunto –, atto a resistere agli interventi «regressivi» o «ablativi», che il legislatore adotti nell’esercizio delle sue discrezionali prerogative. Ma, sopratutto, il rapporto dialettico tra ragioni dell’economia e ragioni della socialità, oggi (anche grazie al nuovo testo dell’art. 81 della Costituzione), è noto-
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riamente sbilanciato a favore delle esigenze di pareggio del bilancio. Dobbiamo, dunque, rassegnarci a considerare l’«adeguatezza» della prestazione previdenziale – in primis, pensionistica – un concetto meramente nominale, di evanescente applicabilità concreta, sostanzialmente vuoto di contenuti normativi specifici e dunque di incerta giustiziabilità? Come tali interrogativi lasciano intendere, la posta in gioco è alta. A rischio, infatti, è addirittura la condizione di «effettività» della stessa valenza normativa delle disposizioni che la Costituzione pone a garanzia dei diritti sociali; e con essi è a rischio l’essenziale progetto di eguaglianza sostanziale, consacrato dall’art. 3, non per nulla a base dell’intero impianto costituzionale. Ben si può comprendere, allora, perché la situazione reclami oggi un’attenzione del tutto particolare da parte di chi è preposto a bilanciare la convivenza di valori fondamentali, ma di fatto confliggenti, quali sono, in particolare, quelli del pareggio di bilancio, da un lato, e la tutela dei diritti sociali, da un altro lato: istituzionalmente il Parlamento; ma anche e comunque il Giudice delle leggi, «attore» che, nel suo ruolo di difensore istituzionale di ultima istanza della Costituzione, è sospinto, dalle dinamiche del particolare momento storico, a farsi paladino dei diritti sociali e, dunque, artefice e guida nell’opera di conciliazione di questi con i vincoli di bilancio. Il bilanciamento di interessi contrapposti E, in effetti – ed è questa la novità meritevole di particolare segnalazione –, il Giudice costituzionale, nel bilanciamento dei contrapposti interessi cui è tenuto quando
59 è chiamato a sindacare la legittimità di specifiche norme di legge, sempre più frequentemente si mostra propenso, oggi, ad utilizzare in chiave sistematica un canone di giudizio già ampiamente sperimentato, ma sulla base di un impiego prevalentemente casistico: quel canone di ragionevolezza, che può considerarsi il distillato del parametro di eguaglianza sostanziale, radicato nell’art. 3, comma 2, Cost. Non è di certo questa la sede per una compiuta rassegna della giurisprudenza costituzionale. E tuttavia già il sintetico richiamo ad alcune recenti, emblematiche sentenze può dare contezza della potenzialità di tale innovativa impostazione. Espressione del nuovo corso può considerarsi, innanzitutto, la sentenza – la n. 173 del 2016 – con la quale la Corte ha sottoposto a scrutinio la norma della legge di stabilità 2014 (l’art. 1, c. 486, l. n. 147 del 2013) che, per la durata di un triennio, ha imposto un contributo di solidarietà a carico dei titolari di «trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatoria» complessivamente superiore da 14 a 30 volte il trattamento minimo INPS. La sentenza non si è limitata ad esporre le ragioni che le hanno permesso di decidere il caso specifico (come di consueto), ma ha colto l’occasione per un intervento di tipo «pedagogico», dettando una sorta di «decalogo» – destinato, come è intuitivo, ad essere punto di riferimento anche per future occasioni – delle condizioni soltanto in presenza delle quali il ricorso del legislatore ai contributi di solidarietà può considerarsi ammissibile e (superato quel vaglio) legittimo. Innanzitutto, il primo punto che la sentenza fissa è che il tipo di «destinazione» del prelievo ne condiziona l’am-
Il pareggio di bilancio e l’equilibrio finanziario non possono essere utilizzati per aggirare i diritti costituzionali
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Il principio di ragionevolezza è il cardine attorno al quale devono ruotare le scelte del legislatore in campo pensionistico
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missibilità. Nel senso che l’operazione – contribuzione di solidarietà – è ammissibile solo a patto che il prelievo sulla pensione rifluisca in impieghi endoprevidenziali: cioè, non sia destinato all’erario, bensì alle gestioni degli enti previdenziali coinvolti dal prelievo stesso: a fini «di sostegno previdenziale ai più deboli, anche in un’ottica di mutualità intergenerazionale», puntualizza la Corte. In altre parole, quel prelievo può riconoscersi legittimo quando vi sia coerenza dei canali che collegano l’ambito di provenienza del gettito e la sua destinazione. Ma la sentenza non si ferma qui. Accertatane l’ammissibilità nei termini suddetti, il contributo di solidarietà, per essere legittimo, deve anche rispondere ad alcuni ben precisi requisiti: deve essere giustificato da una situazione di crisi contingente e grave del complessivo sistema previdenziale; deve essere misura di carattere eccezionale, e, dunque, non
ripetitiva, né rappresentativa di un mero criterio di alimentazione del sistema previdenziale stesso; deve incidere solo sulle pensioni più elevate; e comunque, anche nei confronti delle pensioni elevate, deve essere contenuto in limiti di sostenibilità, e, dunque, non superare livelli apprezzabili, rispettando criteri di proporzionalità. Il medesimo rigore è ravvisabile nella sentenza n. 70 del 2015, che, in tema di perequazione automatica delle pensioni, ha ritenuto non conforme alla Costituzione i criteri in base ai quali la legge di riforma Fornero delle pensioni (art. 24, comma 25, d.l. n. 201 del 2011) ha proceduto a rinnovare il blocco di quel meccanismo. Da notare che detta sentenza non disconosce la legittimità dell’iniziativa, perché in contrasto con il «monito» di non ravvicinata reiterazione della specifica misura di blocco, da essa espresso in una precedente, non remota occasione
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(sentenza n. 316 del 2010). Piuttosto, essa stigmatizza e censura che, nell’occasione, il criterio di bilanciamento dei contrapposti interessi di rango costituzionale, concretamente adottato, sia rimasto privo di evidenza e, dunque, non abbia realizzato le condizioni che consentono di superare il proprium del sindacato di legittimità costituzionale. «La disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo (...) si limita a richiamare genericamente la “contingente situazione finanziaria”, senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento», osserva la Corte, stigmatizzando, appunto, il fatto che nella specie un diritto costituzionalmente fondato, quale è «il diritto ad una prestazione adeguata (...), risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio». Quest’ultima sentenza può essere giudicata come rappresentativa anche di un ulteriore passo avanti della giurisprudenza costituzionale. Precisamente, come espressione di quell’orientamento che, in riferimento alla discrezionalità del legislatore in materia finanziaria, si sta progressivamente affrancando dalla impostazione «astensionistica» tradizionale, secondo la quale le scelte del legislatore ordinario in materia di ripartizione delle risorse finanziarie disponibili tra i vari impieghi non sarebbero di per sé sindacabili (se non sotto il profilo dell’arbitrarietà). In realtà, concetti come pareggio di bilancio e equilibrio finanziario non possono essere utilizzati come argomenti per aggirare il rispetto dei principi costituzionali. E il programmatico assoggettamento a valutazione (anche) dell’istruttoria legislativa
61 sulla norma di rilevanza finanziaria è metodo innovativo del Giudice delle leggi, che, pur nel rispetto della discrezionalità del legislatore finanziario, ben si presta a rendere trasparenti le manifestazioni di quella discrezionalità, o, se del caso, a temperarle: così da prevenire o evitare situazioni di squilibrio tra esigenze di bilancio e diritti sociali. In tale quadro, il principio di ragionevolezza viene a rappresentare – e lo enuncia, riassuntivamente, la sentenza n. 250 del 2017 – «il cardine intorno al quale devono ruotare le scelte del legislatore nella materia pensionistica, e assurge, per questa sua centralità, a principio di sistema». E una coerente applicazione di tale principio richiede che gli interventi legislativi che si prefiggono risparmi di spesa siano «accuratamente motivati, il che significa sostenuti da valutazioni della situazione finanziaria basate su dati oggettivi», sottolinea ancora la Corte. Il “messaggio finale” nel contesto sociopolitico Allo stato questo è quanto ci si può ragionevolmente attendere dal «diritto costituzionale vivente» (quale incarnato, appunto, dalla giurisprudenza costituzionale), quando la piena soddisfazione dei diritti sociali, quelli pensionistici in primis, risulti messa in discussione in nome di esigenze di contenimento o riduzione della spesa pubblica. E ciò, oggi, non è poco, se si considera l’attuale contesto culturale e politico, prevalentemente orientato a valorizzare sopratutto le ragioni dell’economia; e non è poco anche per il «messaggio» che viene così veicolato, in vista di quanto potrà parimenti verificarsi se gli interventi ablativi sulle pensioni, dei quali oggi tanto si vocifera, verranno realmente attivati. ¤
L’associazione
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LE CENTO CITTA’ Associazione per le Marche Fondata nel 1995 “L’Associazione si pone lo scopo di promuovere e coordinare studi ed azioni finalizzati a rafforzare l’identità culturale della Regione Marche e a favorirne lo sviluppo economico e sociale attraverso la conoscenza e la valorizzazione delle realtà esistenti, il recupero e la tutela del passato, la collaborazione tra soggetti pubblici e privati, la partecipazione al dialogo culturale interregionale ed europeo, nonché con le comunità marchigiane all’estero.” (Art.3 dello Statuto)
Presidenti
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(marzo 1995 – dicembre 1996)
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(gennaio 1996 – dicembre 1997)
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(gennaio 1998 – dicembre 1999)
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(gennaio 2000 – dicembre 2001)
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