Sped. in a.p. - 70% - Filiale di Ancona
Rivista di divulgazione culturale e artistica del territorio marchigiano
ARTE | STORIA | ARCHEOLOGIA | LETTERATURA | SOCIETÀ | MUSICA | SCIENZE
“LA STORIA”
Io
nell’inferno delle miniere di carbone
Ciriaco e Francesco Ancona, via di Santi di pace e di fede
Sant’Ippolito Scalpellini un’arte secolare
A PAGINA 7
A PAGINA 35
NUMERO
64|2018 OTTOBRE
L’editoriale
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I marchigiani bellezza della nostra regione
S di Mara Silvestrini Presidente de Le Cento Città
La presidente dell'associazione Le Cento Città mostra la rivista durante la prima uscita a Serravalle del Chienti
coprire la bellezza e l'unicità del nostro territorio: continueremo a farlo come associazione, perpetuando i principi e gli obiettivi che hanno ispirato la sua fondazione, per l’amore che abbiamo per la nostra regione, per il suo paesaggio, talvolta danneggiato, per la cultura, per l’archeologia, per la sua storia. Lavoreremo per continuare a valorizzare e a rispettare questo patrimonio, attraverso la conoscenza dei luoghi e dei borghi ma anche delle persone, della gente e delle comunità, che sono l’altro aspetto
della bellezza della nostra regione. Lo faremo come soci de Le Cento Città, di cui ho l’onore di essere presidente per un anno, attraverso un insieme di iniziative culturali e di scoperta di luoghi nelle Marche, ma anche oltre i suoi confini, e di confronti di approfondimento e di conoscenza. Un’attenzione rivolta non solo verso il patrimonio sto-
rico, artistico, architettonico, ma anche verso quello umano che con le sue abilità, le sue conoscenze, le sue competenze modella l’anima dei luoghi. Significativa in questo senso sarà la visita a due esperienze marchigiane, modelli nel panorama nazionale: la Lega del Filo d’Oro, polo di eccellenza per i sordociechi, per abbattere la barriera dell'isolamento, per una vita integrata e dignitosa, e il Gruppo Loccioni, impresa virtuosa che punta sulle persone e sul territorio. L’associazione deve rivendicare la funzione di pungolo e il ruolo propositivo che sempre l’ha caratterizzata cercando di costituire un supporto anche ai progetti presenti nel nostro territorio. Per rendere sempre più incisiva la nostra azione lavorerò perché “Le Cento Città” potenzi il suo ruolo di fulcro, di connessione, e di relazione in particolare con altre associazioni culturali e con le istituzioni. In quest’ottica di apertura verso tutte le problematiche del nostro territorio – culturali, sociali, economiche - importante ruolo è svolto e deve continuare ad essere svolto dalla rivista che con i suoi quattro numeri annuali sta diventando sempre più prestigiosa ed apprezzata, costituendo un biglietto da visita qualificato, ma anche e soprattutto strumento che ci permette una continua attenzione verso il territorio. “LeCentocittà” è la voce dei nostri soci e dell’Associazione ed è quello che resta, concretamente, del nostro impegno. E’ dunque necessario riflettere sull’opportunità di aumentare capillarmente la diffusio-
L’editoriale
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Non solo attenzione ai luoghi e borghi ma anche alle persone e al progetto per il riconoscimento Unesco della Riviera del Conero
Alcuni momenti della visita al collettore romano del I secolo a.C. in località Fonte delle Mattinate
ne della rivista che è il mezzo per raggiungere un pubblico più ampio, che possa essere il portavoce dei nostri progetti e delle nostre proposte. Fra queste quella lanciata dal presidente uscente Giorgio Rossi per il riconoscimento della Riviera del Conero e di Portonovo come patrimonio Unesco. Un’idea che ha trovato subito eco nelle istituzioni regionali suscitando l’interesse necessario a portare avanti il percorso per arrivare a questo risultato. Un processo che seguiremo con la passione che ci contraddistingue e per il quale è stato creato uno specifico gruppo di lavoro. La rivista dovrà lasciare una finestra sempre aperta sui luoghi terremotati per “vigilare” attivamente il lento processo ricostruttivo degli edifici e delle comunità. Non a caso la prima uscita da me
promossa in qualità di presidente è stata quella a Serravalle di Chienti, due volte colpita dal sisma e due volte rinata. Di questo tema continueremo a trattare perché la continuità sia un segno nell’azione e nello scritto delle parole. Perché il cammino faticoso nel portare a compimento le azioni dell’Associazione non ci spaventa. La ricerca di risultati, e lo dico anche come archeologa, con il desiderio continuo di scoperta nel cuore e nella mente, può essere spesso un percorso tortuoso, fatto di sacrifici e di grande impegno per arrivare a quelle che potrebbero sembrare piccole scoperte ma che, in realtà, non lo sono affatto perché messe in fila, una dietro l'altra, permettono e consentono di tracciare la storia e il percorso dell'umanità. ¤
Argomenti
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Sommario 7
La ricorenza | 1
Il mare di Ancona via di fede e di pace DI MONS. ANGELO SPINA
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La ricorenza | 2
Ancona e Gerusalemme unite da due Santi DI CLAUDIO DESIDERI
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Il progetto nelle Marche
A scuola di sentimento per i nativi digitali DI PAOLO ERCOLANI
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Itinerari di ieri
Viaggio alla ricerca dell’anima dei luoghi DI MARCO BELOGI
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L’anniversario
Urbino nell’Unesco più risorse e turismo DI LUIGI BENELLI
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L’intervista
Marche, l'altra metà conquista il mondo DI PAOLA CIMARELLI
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La storia
Da contadini a minatori rischiando la vita DI BRUNA BAIOCCO
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Il mestiere antico
Scalpellini e S. Ippolito un connubio secolare DI RENZO SAVELLI
Argomenti
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Sommario 39
Il ricordo
Luni “o professore mio professore” DI OSCAR MEI
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Arte
La malia di El-Fayum nei ritratti di Moschini DI LAURA CAVASASSI
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Il dopo sisma
Tre ragazze e il colore ridanno vita al museo DI MARIA FRANCESCA ALFONSI
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Il dopo sisma
Un patto per ricostruire i borghi delle Marche DI CLAUDIO SARGENTI
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La rassegna internazionale
L’arte contemporanea interpreta i temi del ’68 DI FEDERICA FACCHINI
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Ambiente
I “guazzi” del Musone un prezioso habitat DI EDOARDO BIONDI
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Alchimia ed esoterismo
Scrigno di storia e arte non solo farmacia DI MAURIZIO CINELLI
In copertina elaborazione grafica di Sergio Giantomassi
Le ricorrenze | 1
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Il mare di Ancona via di fede e di pace PORTA D'INGRESSO DEL CRISTIANESIMO NELLE MARCHE
A
di Mons. Angelo Spina Arcivescovo Metropolita di Ancona - Osimo
ncona da sempre è stata definita la “Porta d’oriente”, per il suo porto antico che si affaccia sull’Adriatico. Con le tante testimonianze archeologiche paleocristiane può essere a ragione definita la porta d’ingresso del cristianesimo nelle Marche. Nel museo diocesano di Ancona è conservato un sasso con cui venne lapidato s. Stefano, primo martire. Quando lapidavano Stefano vi erano presenti persone che non parteciparono alla lapidazione. Uno dei sassi che colpirono il Santo, rimbalzando, cadde davanti ad una persona pia che lo prese e lo conservò. Essendo marinaio, quando toccò il porto di Ancona, gli fu rivelato che colà doveva lasciarlo. Obbedì e da allora cominciò
ad esservi la memoria, ossia il tempietto dove si conservava la reliquia di S. Stefano. Della memoria di S. Stefano e di Ancona ne parla s. Agostino in un sermone del 425. Altro evento importante, dal punto di vista della fede, fu l’arrivo del corpo di S. Ciriaco ad opera di Galla Placidia, figlia dell’imperatore Teodosio nel 418. S. Ciriaco nell’anno 326 aveva rivelato, all’imperatrice Elena, madre di Costantino, il luogo in cui era nascosta la croce di Cristo. Lui ebreo, si convertì al cristianesimo cambiando il suo nome da Giuda in “Kuriakos”(del Signore). Ancona e s. Ciriaco sono un binomio inscindibile. In questo anno 2018, ricorrono 1600 anni dall’arrivo, via mare, del corpo del santo che
Le ricorrenze | 1
La città dorica accolse 1600 anni fa le spoglie di San Ciriaco l’ebreo della “vera Croce”
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è patrono dell’intera Arcidiocesi e di Ancona Nel 1219 Fracesco d’Assisi si imbarcò al porto di Ancona per raggiungere la Terra Santa, come pellegrino di pace durante la V crociata. Approdò ad Akko, allora si chiamava San Giovanni d’Acri, città nel nord della Galilea, dove c’era una roccaforte crociata e da lì insieme ad un frate suo compagno, Pietro Cattani, scese fino a Damietta in Egitto, per vivere l’incontro con il Sultano Al Malik Al Kamil. L’incontro con il Sultano fu l’incontro tra due persone di religioni diverse, culture e modi di vivere diversi, ma che avevano ambedue il cuore grande aperto l’uno all’altro. Da quell’incontro Francesco ricevette un salvacondotto speciale dallo stesso Sultano e così poté raggiungere i luoghi santi in particolare il Santo Sepolcro e poi sicuramente Betlemme. Luoghi che rimasero dentro il cuore, dentro la spiritualità di Francesco, luoghi che lui stesso vorrà ricreare con il presepe a Greccio e con il suo amore particolare al mistero della passione e morte redentrice del Signore per noi. Probabilmente salì fino a Nazaret per poter celebrare, vivere ed adorare il mistero dell’incarnazione, davanti alla grotta dell’Annunciazione, di cui le Marche sono diventate custodi, a Loreto, con la Santa Casa. Francesco attraversando la Siria si imbarcò facendo ritorno in Italia, sbarcando ad Ancona nel 1220. Nei contatti con il Sultano sicuramente s. Francesco ha potuto intravvedere un mondo così diverso e “altro” rispetto a quello a lui noto, un’altra cultura e fatto
cogliere che dall’incontro con gli altri possono nascere cose nuove. Sicuramente Francesco è il primo santo dell’Occidente cristiano a cercare contatti con il mondo musulmano. La sua iniziativa, non ispirata da scopi politici, economici è esclusivamente evangelica e missionaria. Sono trascorsi 800 anni da quando S. Francesco è partito dal porto di Ancona per recarsi in Terra Santa. Oggi assistiamo a fenomeni migratori, ad attentati terroristici, le nuove situazioni di convivenza o di intolleranza fra uomini e donne di provenienza diversa, hanno portato sotto casa le problematiche di popoli, di tradizioni e culture che, solo pochi anni fa, erano considerate estranee alla nostra vita. La celebrazione degli ottocento anni da quando Francesco è partito dal porto di Ancona possono aiutarci a capire il nostro tempo su alcuni temi: vincere la paura, vivere l’incontro, aprirsi al dialogo con l’altro che è diverso, riscoprire la fratellanza universale, educare alla pace e costruire la civiltà della pace, riscoprire e promuovere l’ecologia ambientale e l’ecologia umana, aiutare l’uomo ad aprirsi all’Infinito, per un nuovo umanesimo. Ancona e le Marche possono nel 2019 riscoprire come essere via di pace. S. Francesco ha costruito un ponte tra occidente e oriente. Ogni ponte serve per congiungere, per andare e venire, e, una volta costruito, ha bisogno di gente che lo percorra. Il mare allora via della fede è via della pace che unisce popoli e culture diverse, nella convivialità delle differenze. ¤
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Ancona e Gerusalemme unite da due Santi CIRIACO E FRANCESCO FORIERI DI PACE IN SECOLI DIVERSI
U di Claudio Desideri
San Ciriaco pietra scolpita del XIII secolo
n filo sottile ma molto luminoso unisce Ancona alla Terra Santa. Un filo intrecciato di fede, di amore e di pace che due Santi hanno tessuto con le loro vite: San Ciriaco e San Francesco. Un martire il primo, che ha donato la sua vita per amore di Cristo, l’uomo del dialogo il secondo che ha incentrato la sua esistenza nella ricerca della fraternità universale. Vissuti in epoche diverse essi sono stati e lo sono ancora esempi di un amore che compendia ogni altro valore ed è rivelazione vivace della Chiesa anconetana, una delle più antiche del mondo Cristiano. La storia di Ancona è legata sin dalle sue origini al mare che non ha mai rappresentato una barriera ma un mezzo di comunicazione, di condivisione, di conoscenza. E se il mare è stato l’elemento, che in questo caso, accomuna l’esistenza dei due Santi, il porto è stato il luogo che li ha visti, ad ottocento anni di distanza, partire ed arrivare, tra la gioia della gente, forse commossa perché consapevole di assistere ad eventi non comuni, irripetibili come l’arrivo della nave che recava le spoglie di San Ciriaco e la partenza di San Francesco e dei suoi undici confratelli diretti verso la terra del sultano. Giuda – Ciriaco nacque in Palestina tra la fine dell’anno 200 e l’inizio del 300 da Anna e Simeone. Eusebio da Cesarea, conosciuto come il “padre della storia ecclesiastica”, ci ha lasciato svariate notizie sulla vita del Patrono anconetano
che assieme a quanto scritto da altri autori in diversi momenti storici, ci permetteranno di ricostruire in parte una sua biografia. Tutto ebbe inizio dalla Croce Elena, madre dell’imperatore Costantino, si recò nel 326 d.C. a Gerusalemme con la volontà di ritrovare la Croce e di onorare degnamente, con la costruzione di una chiesa, i luoghi che erano stati testimoni della vita di Gesù. Per questo appena giunta in città diede ordine di raccogliere quante più notizie possibili e soprattutto di ascoltare tutti coloro che erano a conoscenza delle storie e delle tradizioni locali. Tra questi fu convocato anche Giuda che fu il personaggio fondamentale della ricerca in quanto rivelò il luogo in cui erano state nascoste le tre croci ma questo solo dopo la minaccia della morte, come egli stesso aveva promesso a chi gli aveva rivelato il nascondiglio. Un segreto che poteva essere noto solo a persone che dovevano aver ricoperto posizioni di rilievo nella comunità ebraica di Gerusalemme e che attesterebbe l’importanza del ruolo che Giuda rivestiva nella sua città. Egli si oppose con determinazione, almeno inizialmente, alla rivelazione del sito e lo rese noto molto tempo dopo essere stato imprigionato in una cisterna senza né acqua né cibo e destinato, quindi, a soccombere. Giuda aveva allora poco più di trent’anni e la sua opposizione e resistenza alla madre
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Giuda-Ciriaco rivelò dove si trovava la Croce su cui morì Cristo e successivamente avenne la sua conversione
10 dell’Imperatore non dovette essere cosa da poco anche perché rivelare il luogo in cui era nascosta la Croce significava consegnare ai Cristiani il Simbolo della loro fede. La leggenda vuole che una volta ritrovate le tre croci, non sapendo come riconoscere quella di Cristo fu disteso su di esse un uomo morto che al contatto del Legno Santo ritornò in vita. Se questo fu il primo miracolo della Croce, il secondo fu certamente la conversione dell’Ebreo Giuda al Cristianesimo con l’assunzione di un nome molto in voga in quegli anni, Ciriaco dal greco “del Signore”. Lo spazio di tempo entro cui dovrebbe essere stata ritrovata la Croce e avvenuta la conversione di Ciriaco è tra il 335 e il 347. Il nuovo nome scelto dal Santo fu sinonimo dell’impegno che questi dedicò alla diffusione dell’insegnamento Cristiano. Romano il Melode, vissuto nel VI secolo ci parla di lui come “araldo” e “apostolo”, come “Paolo appartenuto prima ai Giudei” e poi divenuto “ministro” e “pastore” dei Cristiani. Questo porterebbe a supporre che Ciriaco viaggiò molto per evangelizzare comunità che non conoscevano il Cristianesimo ricoprendo anche incarichi vescovili, come ad Ancona. Di ciò non vi è assolutamente notizia certa ma non sarebbe da escludere totalmente se si pensa che Ciriaco potrebbe anche essere arrivato nella città dorica, che intratteneva rapporti costanti con l’Oriente, e in un momento di vacanza della Cattedra vescovile, essere stato eletto dal popolo o dal clero vescovo della città per la sua indubbia fama di chi aveva contribuito a trovare la Croce di Cristo. Non vi sono documenti o fonti storiche che attestano questi fatti, ma la tradizione potrebbe essere veritiera anche per il fatto che il Santo non è stato mai rivendicato da altre sedi vescovili in Italia e in Oriente.
La sua elezione a vescovo non interruppe il suo legame con la Palestina che Ciriaco volle tornare a visitare nel 363. Fu durante questo viaggio che, a Gerusalemme, venne arrestato e dopo il martirio ucciso il quarto giorno di maggio. Ha da poco superato i sessant’anni, come è testimoniato dalle indagini eseguite sulle reliquie del Santo, ma è ancora una persona forte e robusta. Fu questa forza a fargli sopportare un martirio lungo e tremendo che lo portò alla morte dopo incredibili sofferenze. Ma perché fu imprigionato Ciriaco? A guida dell’impero vi era Giuliano che aveva praticamente capovolta la politica religiosa di Costantino riportando in vigore il paganesimo e con esso nuove difficoltà per i Cristiani, nuove persecuzioni e uccisioni. A Gerusalemme le tensioni con l’impero e con gli Ebrei erano quindi molto forti.
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In una atmosfera così difficile Ciriaco decise di recarsi in quella città per rivedere i Luoghi Santi, per rincontrare la propria madre, per cercare soluzioni pacifiche ai conflitti accesi. Certo è che non aveva paura di andare incontro alla morte e i suoi nemici ne approfittarono per catturarlo, per processarlo, forse per umiliarlo per aver ripudiato la sua religione, per distruggere il prestigio di un uomo che era conosciuto ed amato da tutto il mondo Cristiano, per pretendere da lui un’abiura pubblica e plateale che fosse ad esempio per tutti. Dagli “Atti” si sa che fu lo stesso imperatore a tenere il processo poco prima che morisse nella guerra contro i Persiani. Gli Atti non sono altro che resoconti dei processi e delle morti dei primi martiri Cristiani e ci consentono di conoscere le prove cui fu sottoposto Ciriaco: il taglio della mano destra, una minaccia non eseguita, i serpenti, l’olio bollente e il fuoco, torture che però non
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possono essere verificate. Vere sono la somministrazione del piombo fuso, ritrovato in grande quantità nei resti del Santo e le bastonature che causarono diverse fratture. Come pure la lesione presente sul torace, all’altezza del collo, e sul cranio causate da una lancia, l’oggetto che dovrebbe aver dato il colpo di grazia a San Ciriaco, dopo giorni di violenze ripetute con ferocia e crudeltà. Torture e sofferenze documentate e convalidate dalle ispezioni scientifiche effettuate sul corpo del Santo, l’ultima in ordine di tempo iniziata il 9 novembre del 1979. Dalle indagini anatomopatologiche risulta che una frattura fu causata quarantacinque giorni prima della morte. Questo testimonia come il martirio sia stato lungo e doloroso. Come doloroso fu per Ciriaco assistere al martirio della propria madre, fatta ardere viva davanti a lui. Ciriaco morì all’ora ottava, il primo sabato del mese di
In alto a sinistra, lastra raffigurante S. Ciriaco e S. Stefano, XII secolo Sotto e qui sopra reliquari rispettivamente di S. Stefano e S. Ciriaco In alto, la leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca
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Una volta convertitosi al cristianesimo scelse il nome Ciriaco che significa “del Signore”
In alto, un pluteo con la figura di S. Ciriaco all'interno della cattedrale Qui sopra, Madonna con Bambino e il patrono di Ancona Nella pagina a destra la Madonna affiancata dai Santi Palazia, Ciriaco, Stefano Liberio e Marcellino
12 maggio, del secondo anno del regno dell’imperatore Giuliano. Dopo il martirio, Ciriaco fu sepolto ai piedi del monte Calvario, e la sua tomba divenne subito luogo di culto per la notorietà del personaggio e per la sua fede che aveva resistito ad incredibili torture. Il corpo, secondo le indagini scientifiche, fu avvolto in un sudario dopo essere stato sottoposto a trattamenti per la conservazione. Successivamente fasciato con la mano destra accuratamente composta nella forma benedicente, mentre la sinistra messa in modo da impugnare un bastone, il pastorale. Una posizione riservata alla salma di un vescovo. La profonda cura con cui fu trattato questo corpo rivela la grande considerazione e l’amore che gli furono riservati. Come giunse ad Ancona il corpo di San Ciriaco? In tempi lontani le nonne anconetane raccontavano ai bambini, una storia oggi andata perduta: “un giorno di tanti secoli fa, arrivò nel porto di Ancona un sarcofago in pietra che, in barba alle leggi scientifiche, galleggiava tra le onde. Gli anconetani stupiti dell’avvenimento con l’ausilio di due forti buoi legarono la cassa con l’intento di sollevarla sul molo senza però riuscirvi. Passando di li un pastorello vista la scena egli chiese di provare con due dei suoi agnelli che senza fatica alcuna riuscirono a portare in terrà la pesantissima cassa. Una volta aperta questa rivelò la presenza del corpo di San Ciriaco con sopra due dischetti d’oro legati con il piombo attestanti il martirio subito”. Per quanto affascinante sia il racconto, la verità è altra cosa. Gli storici anconetani non sono concordi sulla data in cui il corpo di San Ciriaco fu portato da Gerusalemme ad
Ancona. Il Bernabei individua l’anno 403, il Ferretti il 405, il Saracini il 418. Solo il giorno in cui la nave giunse in porto può ritenersi certo: l’8 di agosto, la data in cui la liturgia della Chiesa anconetana ha festeggiato il Santo in tempi più antichi. Attribuendo però l’ottenimento del corpo del Santo a Galla Placidia, la data più reale è sicuramente dopo il 415, anno in cui fu ritrovato il sepolcro di Santo Stefano. Galla Placidia, figlia di imperatore, moglie di uno, nipote di tre, sorella di due, madre di imperatore fu fervente cristiana e particolarmente legata alla città dorica che era proprio al confine tra i due imperi romani, d’oriente e di occidente, e quindi in posizione strategica al centro dell’Adriatico. Già dall’epoca costantiniana esisteva ad Ancona una chiesa dedicata al Protomartire Stefano nella quale, secondo la tradizione, si conservava una delle pietre che erano state usate per lapidarlo. Questa notizia è ricordata anche da Sant’Agostino nella sua opera omnia e annunciata in un sermone che il Padre della Chiesa rivolse agli abitanti di Ippona nel 425. La comunità anconetana era molto legata a Santo Stefano. Un affetto che portò Galla ad intervenire affinché il corpo del Santo fosse portato ad Ancona. Serviva un assenso imperiale anche per la presenza di una legge del 386 che vietava la traslazione dei corpi dei santi martiri. Ma per Galla non fu difficile ottenerlo e Costantinopoli lo concesse ma commutò il corpo di Santo Stefano con quello di San Ciriaco, martire altrettanto importante, membro della stessa famiglia, già vescovo di Ancona. Galla aveva fatto erigere, fuori le mura cittadine, una nuova chiesa dedicata a Santo Stefano e in quella chiesa fu portato il corpo di San Ciriaco
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subito dopo l’arrivo da Gerusalemme. Dopo questa prima traslazione ve ne fu un’altra, intorno all’anno 1017 dalla chiesa di Santo Stefano a quella di San Lorenzo sul Colle Guasco. In quell’anno, infatti, avvenne anche la traslazione del corpo del vescovo anconetano, San Marcellino e quasi presumibilmente vi fu la prima ricognizione del corpo di San Ciriaco resasi necessaria sia per verificare che il corpo non avesse subito danni durante il trasporto da fuori a dentro le mura, sia per controllare la presenza dei resti mortali perché in quell’epoca era cosa comune rapire le spoglie dei santi soprattutto se questi erano noti o molto amati. Il sarcofago di San Ciriaco fu collocato nella cripta della basilica e posto tra quelli di San Marcellino e San Liberio. Una posizione che attestava già allora che egli era venerato come Martire, Vescovo e Patrono. Un patrono di cui però non sono state trovate notizie circa le celebrazioni dei centenari che si sarebbero dovute susseguire nei secoli dopo l’arrivo del corpo da Gerusalemme. Come non ci fossero mai state. Possibile che gli storici anconetani, molto attenti a riportare anche le minime e a volte veramente prive di interesse, manifestazioni tenutasi in città non scrivano mai di celebrazioni importanti come i centenari dedicate al patrono? E questo ci appare assai strano o comunque non comprensibile per una città dalle più antiche tradizioni Cristiane e che almeno i primi secoli lo ha amato molto cambiando in suo onere anche il nome della cattedrale da San Lorenzo a San Ciriaco. Non spetta a noi individuare le cause di questo probabile “distacco” che ancora esiste tra la comunità e il suo Patrono ma non possiamo esimerci dal sottolineare il fascino di
13 un “uomo” che ha rinunciato alla propria vita terrena pur di non tradire la sua fede e quindi le sue convinzioni, ha cercato di costruire la Pace anche con chi la rifiutava. Ciriaco come ogni altro essere umano amava la sua vita e l’ha consegnata non contro qualcuno o contro un nemico, ma solo affinché si interrompesse la violenza e vincesse la Pace, la verità si affermasse sulla menzogna, l’amore trionfasse sull’odio. Un uomo che per un cristiano non dovrebbe essere difficile da amare e per chiunque facile da comprendere e stimare per la sua forza d’animo che ha saputo incutere paura ai potenti.
Anche San Francesco scelse Ancona Dopo ottocento anni un altro Santo, costruttore di Pace, scelse Ancona come luogo da cui partire per raggiungere la Terra Santa: San Francesco. Lo storico anconetano Giuliano Saracini, nelle sue “Notitie Historiche d’Ancona” del 1675 scrisse che il Santo arrivò ad Ancona nel 1219 e in attesa di
Ottocento anni fa un altro santo scelse Ancona come luogo da cui partire per la Terra Santa: Francesco
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San Francesco con il suo viaggio aveva cercato per la prima volta nella storia il dialogo fra diverse religioni
In alto, San Francesco nell'affresco di Giotto Sopra, il sacello di San Ciriaco all'interno della cattedrale
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avere il mare buono per partire verso la terra del sultano chiese al Consiglio del Comune di ricevere un sito per costruire un monastero e subito gli fu concesso il luogo dove sorge San Francesco ad Alto e donati i fondi necessari per la costruzione del convento e della chiesa. Il Saracini scrisse inoltre che essendo molti i confratelli che accompagnavano Francesco, temendo il Santo di andare incontro alle tempeste e anche alla morte in terra straniera, al fine di non sacrificare troppe vite, chiese ad un fanciullo di scegliere chi dovesse accompagnarlo. Il ragazzo tocco undici frati. Gli altri tornarono ai loro conventi. Identiche notizie, purtroppo niente di più, riporta alla fine del 700’ Camillo Albertini nella sua “Storia di Ancona”, VIII manoscritto e Antonio Leoni nell’”Ancona illustrata” del 1832. Il 24 giugno, festa di San Giovanni Battista, Francesco lasciò il porto di Ancona e dopo aver fatto tappa a Cipro e a San Giovanni d’Acri, presso Haifa in Israele, giunse nel mese di luglio a Damietta sul delta del Nilo. Nel novembre dello stesso anno assistette alla presa della roccaforte da parte dei crociati, rimanendo disgustato dalla loro sanguinaria cupidigia. La sua presenza e le sue parole non evitarono, purtroppo, le atrocità della guerra. Francesco riuscì ad ottenere una udienza con il sultano d’Egitto, Malik al Kamil, ma anche questa non portò alcun risultato sul piano del conflitto. Il Sultano rimase comunque affascinato dalle parole di Francesco e anche se non ac-
colse il Vangelo volle donare al Santo una grande quantità di doni che ovviamente Francesco non accettò. Egli prese solo un corno di avorio, oggi conservato ad Assisi, e un salvacondotto che lo condusse in Palestina dove visitò il Santo Sepolcro. Anche se la missione del Santo non ebbe i risultati attesi, la conversione del Sultano, il dialogo e la pace, essa rappresentò la volontà di incontrare non un nemico ma un'altra persona che non conosceva il Vangelo e quindi Gesù. Francesco ha con questo suo viaggio cercato, per la prima volta nella storia, il dialogo tra due diverse religioni, basandolo non sul rigido principio della verità ma su quello dolce della carità. Francesco volle andare in Egitto per portare il messaggio della non violenza e della Pace, per stare tra gli uomini che conoscevano o no il Vangelo, e costruire con loro una società fraterna che comprendesse tutti. Questa esperienza portò poi il Santo di Assisi a scrivere nella Regola del 1221 il modo con cui si sarebbe potuto vincere l’Islam, non con le guerre e l’odio ma: “…una maniera si è di non far liti né dispute, ma essere soggetti ad ogni umana creatura, per amor di Dio e confessare di essere cristiani; l’altra maniera è questa: se a loro sembra che piaccia a Dio, annunzino la parola divina, affinché gli infedeli credano in Dio Onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo.” La vittoria cui Francesco mirava, aveva come unico obiettivo la Pace, la stessa che voleva Ciriaco, quella che ancora oggi tutto il Mondo cerca. ¤
Il progetto nelle Marche
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A scuola di sentimento per i nativi digitali STACCARE GLI OCCHI DAGLI SCHERMI E APRIRLI ALL'UMANITÀ
L di Paolo Ercolani
La “generazione app” sempre più iperconnessa ma in realtà ingabbiata all’interno delle proprie solitudini comunicanti
i vediamo sorridenti e spensierati, i ragazzi e le ragazze del nostro tempo, pieni di amici e immersi in molteplici attività che li appagano. Riusciamo letteralmente a vederli perché immortalano gli attimi festosi della loro esistenza, le smorfie buffe e i giochi della loro giovane età sui più svariati social network. Quei social network che possiamo prendere come lo specchio che ci restituisce l’immagine di una generazione mai come in questo tempo piena di possibilità. Anzitutto possibilità di entrare in relazione e fare un’esperienza piena della propria vita sociale. Il guaio è che, stando ai numerosi studi su quella che a vario titolo viene chiamata «generazione app», «I-Gen», o più comunemente «nativi digitali», lo specchio dei social network risulta essere assai distorto. Ci restituisce un’immagine che corrisponde alla realtà «virtuale», ma che è ben distante, se non contrapposta, rispetto alla realtà reale. Sì, perché nei fatti «questa generazione è sull’orlo della più grave emergenza di salute psicologica giovanile da decenni», come afferma in maniera perentoria e documentata la psicologa americana Jean M. Twenge nel suo libro «Iperconnessi», edito in Italia da Einaudi. Se nel virtuale vediamo giovani sorridenti, «smorfiosi» e colmi di irrefrenabile e costante felicità, nel quotidiano dobbiamo prendere atto di una generazione di persone sempre più sole, spaventate e depresse. Si tratta di un paradosso drammatico: la generazione in possesso dei
più potenti e incredibili mezzi per entrare in contatto con gli altri, si rivela come quella più incapace di allacciare relazioni profonde e appaganti. Ragazzi e ragazze con lo sguardo costantemente incollato a degli schermi piatti e ipnotizzanti, «iper-connessi» ma in realtà frammentati e ingabbiati all’interno delle proprie solitudini comunicanti. Intendo precisare che tali considerazioni non si basano su una semplice osservazione, che ognuno di noi può peraltro svolgere anche solo osservando i ragazzi di oggi (spesso seduti a un tavolino per svariati minuti, senza mai parlarsi né alzare lo sguardo dallo schermo del proprio smartphone). Piuttosto sono dati che emergono dagli studi scientifici di celebri e affermati psicologi, pedagogisti e studiosi a vario titolo della dimensione digitale. Da questi presupposti, certamente non generalizzabili ma neppure da sottovalutare, parte l’idea di provare a innestare nelle Scuole l’«educazione sentimentale». Intendendo questa «materia» inedita di studio in un duplice significato: da una parte fornire a ragazzi e ragazze gli strumenti critici per poter cercare se stessi (o fuggire da sé) non all’interno di uno schermo sempre acceso e di una dimensione tanto virtuale quanto aleatoria; dall’altra suggerire loro delle modalità di relazione con gli altri che siano più rispondenti alla specificità dell’essere umano che non all’aridità asettica e superficiale delle macchine. Ecco perché l’educazione sentimentale nulla c’entra, né intende entrarci, con l’educazione sessuale.
Il progetto nelle Marche
Violenza sessuale e bullismo spesso sono l’esito patologico di una scorretta conoscenza dei meccanismi affettivi e relazionali
In alto, "Teenager" illustrazione di Sergio Giantomassi
Non si tratta di insegnare ai giovani la meccanica del sesso, bensì di fornire loro quegli strumenti che gli permettano di vivere una relazione quanto più ragionevolmente equilibrata sia con il proprio «sé» sia con le altre individualità con cui entreranno in contatto. In questo senso l’educazione sentimentale si rivolge a una sfera della persona che precede l’eventuale concretizzazione del rapporto una volta che i due (o più) individui sono entrati in relazione: che sia la realizzazione di un’amicizia, dell’ingresso in un gruppo o in una squadra, o di un rapporto sessuale, una corretta «alfabetizzazione» emotiva e relazionale è alla base della possibilità di allacciare relazioni sane ed equilibrate. Violenza sessuale o di genere, bullismo, rapporti a vario titolo conflittuali e che talvolta sfociano in esiti drammatici che poi leggiamo sui giornali, sono a mio avviso l’esito patologico di una scorretta conoscenza dei meccanismi affet-
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tivi e relazionali che regolano il rapporto dell’essere umano con se stesso e, quindi, con gli altri. Ciò è stato vero in ogni epoca, ma nel tempo in cui i nostri ragazzi e ragazze fanno sempre più esperienza della propria vita (e dei propri rapporti umani) attraverso l’intermediazione onnipresente e distorcente della tecnologia digitale, tale problema assurge al rango di vera e propria emergenza sociale. Non si tratta di fare allarmismo o utilizzare toni apocalittici: bensì di rimboccarsi le maniche e costruire progetti che affrontino il problema e cerchino in misura ragionevole di contenerlo. In questo senso credo sia oltremodo positivo il fatto che, dopo il Consiglio regionale del Piemonte, anche la città di Pesaro (con il Provveditore professoressa Tinazzi, e l’assessore Giuliana Ceccarelli) e la Regione Marche (con la Commissione regionali Pari opportunità, presieduta da Meri Marziali) abbiano aderito al progetto di «Educazione sentimentale nelle Scuole», che verrà realizzato in collaborazione con l’associazione di ricerca internazionale «Filosofia in movimento». Un Paese che rinuncia all’educazione si auto-condanna a essere popolato da barbari. O, come in questo caso, da solitudini comunicanti sempre meno in grado allacciare relazioni sane e reciprocamente proficue. L’educazione sentimentale avrà proprio questo compito. Insegnare ai ragazzi a staccare ogni tanto gli occhi dagli schermi. Per aprirli all’umanità in cui si trovano a vivere la vita reale. ¤
Itinerari di ieri
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Viaggio alla ricerca dell’anima dei luoghi LO SCRITTORE ALVARO DESCRIVE LE MARCHE NEL ‘33
D di Marco Belogi
Sopra, la campagna di Corinaldo nel tempo della mietitura
i fronte alla realtà paesaggistica di oggi, profondamente offesa dall’invadenza dell’uomo, ripercorrere itinerari di ieri, più o meno famosi, può esserci di aiuto . In essi compaiono e si ricompongono immagini di luoghi a noi cari. Riprendono forma sagome di città e campagne quasi sconosciute a noi forestieri in casa nostra, offrendoci un insostituibile antidoto alla omologazione, alla perdita di identità, all’usura del tempo. Negli anni ’30 scrittori italiani, tra cui anche grandi firme del giornalismo, viaggiavano molto. Forse anche per evadere dalla soffocante dittatura di quel tempo. Mostravano una certa
predilezione ,a dire il vero, per l’Oriente. Nel ’37 Alberto Moravia, infatti, si recava in Cina per regalarci straordinari reportages su quella popolazione, mentre Mario Soldati era già andato negli stati Uniti per spalancare
una finestra su quegli smisurati spazi metropolitani e su quell’inconfondibile e formicolante popolo italo-americano generato dall’emigrazione. Anche l’Italia, però, veniva visitata in lungo e in largo. Basterebbe ricordare l’Ojetti con Cose viste e il Gadda con Le meraviglie d’Italia, tanto per rimanere tra i grandi della letteratura italiana .Un posto di rilievo, entro questa pattuglia di scrittori-viaggiatori, tocca a Corrado Alvaro con il suo Itinerario Italiano del ’33, nato da una raccolta di “ pezzi” giornalistici inizialmente eterogenei. Raccolta che costituisce una delle migliori prove di quella stagione letteraria situata nel passaggio dalla tradizione alla modernità . La chiave di lettura di quest’opera, dove non c’è spazio per l’attualità e la cronaca ,ce la fornisce lo stesso autore. “E’ un lungo viaggio da fermo nei luoghi che ci appartengono per un confronto serrato con le nostre radici, per capire dove abbiamo sbagliato e cosa c’è da salvare”. Una guida, dunque, fuori dagli schemi, intrisa di memoria, modernità ,impegno etico e culturale, tesa alla ricerca dell’anima del luogo, della città, degli uomini, nel cuore pulsante di quegli anni. Con una prosa coltissima e raffinata Alvaro racconta le mille Italie , tratteggiando un ritratto bucolico di un paese che oggi ci sembra lontanissimo e dove c’è il rischio di perdersi. Racconta l’ umanità agricola che lui, nato in un piccolo paese dell’Aspromonte, ha conosciuto da vicino. Gente che pratica il duro lavoro della terra, come quella di Virgilio, dove
Itinerari di ieri
Lo scrittore e viaggiatore coglie lo spirito e la bellezza delle Marche ricche di segni antichi e semplici mestieri
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le tematiche colturali erano all’incirca le stesse, vecchie di millenni, fondate sul sudore dell’uomo e sul muscolo animale e dove si ara talvolta con tre o quattro coppie di buoi per aprire la terra. Racconta la gente italiana degli anni ’30: le mondine, gli artigiani dei lavori che non esistono più, i treni, le strade, i calessi, le stalle, le fiere. Un mondo estinto, quando esisteva il vestito della festa e i sarti che li cucivano e i santi che davano nome e significato alla festa. Per carità di patria nessun confronto con il nostro presente a base di Zara e di Halloween. Offre percorsi inusuali, autentiche magie del paesaggio, profili di città e di borghi dimenticati e sconosciuti. Ci restituisce insomma il colore di un’Italia antica che non c’è più e che alcuni di noi hanno sentito raccontare dai nonni, insieme alla vita di un mito, di una realtà, di uno spazio, di una identità fatta di persone, di paesaggio, di
bellezza, di storie e di cultura. Dietro ad ogni uomo Corrado Alvaro vede il suo campanile, la sua torre, la storia del paese Italia, la sua civiltà moltiplicata per centinaia di luoghi e di genti, evidenziando il vero miracolo dell’Italia : che civiltà e bellezza in ogni dove si identificano. Tutto questo , oggi, ci riempie di stupore. Quando Alvaro giunge nelle Marche coglie subito lo spirito e la bellezza di questa terra, schiva ed appartata. Non parla della costa, così simile a quella di altre regioni, né di città note come Ancona, Urbino o Loreto, da secoli meta di pellegrini provenienti da tutta Europa, né di artisti marchigiani famosi o opere d’arte che questa terra custodisce gelosa. Va subito dritto al paesaggio collinare dell’entroterra o Marca Interna come la chiama, dove la casa colonica costituisce uno degli aspetti più interessanti. “Nacque spontanea come un fiore errabondo - scrive -.
Itinerari di ieri
All’inizio fu di mota, quasi un attendamento sulla terra non ancora dissodata ”. Poi la gente povera, che in quegli anni era tanta, si appropriò dei terreni lasciati in abbandono dai proprietari. Furono questi pacifici conquistatori , che non possedevano nemmeno gli strumenti di lavoro, a dare origine alla mezzadria. Le abitazioni in seguito si ampliarono, si popolarono di famiglie, di animali, rendendo tipico l’aspetto della Marca Interna. Un paesaggio che descrive con poesia: “da poggio a poggio sugli scrimoli dei colli e dei monti, tutti con il loro profilo a mucchio e a pigna culminanti nella chiesa con il suo campanile a freccia, nel paesaggio dolce e aspro, monotono e inesauribile, sotto un cielo dolce e luminoso di cui mai si è scordato Raffaello, tra casa e casa, rispunta ancora l’embrione di quel vecchio abituro di mota”. Entrando poi nei paesi scopre sempre una traccia della vecchia nobiltà papalina con
19 i suoi palazzi settecenteschi e le tante chiese intorno a cui sono nati i borghi. Dentro vive una popolazione “diligente, operosa che lavora battendo il ferro e che ha ben imparato i vecchi mestieri”. Sono fabbri, falegnami, muratori. Si utilizza l’unico elemento che offre la regione: il cotto, che “dà un senso di diligenza umana” a questa terra e diverse sfumature di rosso ai vari paesi. Il cotto viene messo di taglio anche per lastricare le strade. “Tra lo squillo dell’incudine e il raschio della pialla che è il suono di molti paesi qui, sulle soglie delle porte o nelle stanze a terreno le donne lavorano i loro pizzi o ricami”. Un paese “cantiere” che sta sulle sue, dove si intuisce una vita familiare chiusa e gelosa, rimasta ferma e orgogliosa. All’interno di alcuni palazzi emergono segni di antichi legami con la curia romana. Fortune maturate all’ombra della Chiesa: vecchi libri, vecchie carte, vecchie stampe, dipinti di autori famosi , ritratti di pontefici e prelati marchigiani, reliquie sacre, vecchi mobili, vecchi orologi e vecchie tirannie familiari. Come la casa di Leopardi che per Alvaro costituisce” biografia modello del marchigiano”. Per lui cittadino dell’Italia grande e universale, dell’universo ottocentesco, proprio questo tipo di vita dedicata ai semplici mestieri umani è lo specchio della civiltà marchigiana, ciò che dà un senso alle Marche. Quel fuggire la propria terra, che era proprio del Leopardi, e rimpiangerla di continuo, e tornarvi e ripartire, e il ricordo di questa vita tanto sommersa, quanto alacre e viva, è anche la storia di molti marchigiani, sparsi nelle grandi città italiane e in ogni continente. Tutta la poesia leopardiana è animata proprio dall’armonia che si respira in questi luoghi. Anche Vincenzo Cardarelli, tra i grandi poeti del primo
In alto, un momento dell'aratura e della semina A sinistra, il Colle dell'Infinito a Recanati Sopra, taglio del fieno nel pagliaio
Itinerari di ieri
Alvaro ci restituisce il volto autentico della nostra terra realizzando una guida fuori dagli schemi intrisa di memoria e di modernità
In alto, colline della vallata del Cesano Qui sopra, campagna nei pressi di San Bernardino di Urbino
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Novecento, ne Il cielo sulle città del ’39 scrive: “qui nelle Marche l’animo si eleva, si smarrisce nella luce, naufraga nello spazio… ridotto nella sua essenza poetica il paesaggio marchigiano è quale noi lo conosciamo in Leopardi: bellissimo, dolce e nondimeno avaro di ogni facile e umana consolazione”. Lo confermerà più avanti nel ’56 Guido Piovene, grande giornalista e scrittore, con il suo Viaggio in Italia, frutto di una lunga e meticolosa esplorazione del paese per conto della Rai: “le Marche prototipo del paesaggio idillico e pastorale… medio, dolce, senza mollezza ,equilibrato, moderato ,quasi che l’uomo stesso ne avesse fornito il disegno”. In quegli anni trenta, ancora lontani dalla globalizzazione, Alvaro, come più tardi Pasolini, diventa profeta di fronte ad un mondo “ormai piccolo, praticabile e veloce che non riesce nemmeno a fermarsi per vedersi”. Intuì che l’accentramento nelle città avrebbe condotto all’ impoverimento delle regioni dove sarebbero andati
dispersi quei “focolai di cultura che preparano gli uomini”. Quella gente impreparata che avrebbe abbandonato la provincia per la vita urbana, avrebbe arrecato nella società “certi caratteri antipatici che sarebbero diventati i caratteri della nazione”. Per Alvaro il nostro paese non può avere altra civiltà che di intelligenza, qualità, tecnica, individualità, personalità e il lavoro di incubazione si compie proprio nell’ambiente della provincia, preziosa “riserva di energie per il paese”. La Marca interna resta tuttora paesaggio di bellezza, anche se inesorabilmente continua a spopolarsi. Rimane intatto il suo messaggio e modello di vita, fatto di qualità, appartatezza e purezza antica. Difendere e tutelare quanto possibile questo patrimonio è uno degli intenti fondamentali della nostra associazione che opera nel territorio da oltre due decenni. Nelle nostre uscite mensili sempre privilegiata è la visita ai centri collinari dell’entroterra, non solo per conoscerne la storia, l’arte, i personaggi e il paesaggio, ma anche per dare un senso di vicinanza a quella gente che, nonostante tutto, terremoto compreso, resiste ancorata alle proprie radici. In un’epoca come la nostra, caratterizzata dalle proliferazioni dei mezzi di comunicazione, dove ci ostiniamo a credere che il presente si riduca alle novità, dimenticando il passato, può essere di aiuto riscoprire l’opera di Alvaro che ci restituisce il volto autentico della nostra terra e ci aiuta a “capire dove abbiamo sbagliato e cosa c’è da salvare”. ¤
L’anniversario
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Urbino nell’Unesco più risorse e turismo DA 20 ANNI LA CITTÀ DUCALE PATRIMONIO MONDIALE
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di Luigi Benelli
enti anni di Urbino nell’Unesco come patrimonio mondiale dell’umanità. Un traguardo, ma anche un punto di forza per la promozione del territorio. A fine novembre due giornate per ricordare l’anniversario dell’iscrizione e mettere a fuoco gli obiettivi assieme agli altri comuni che fanno parte dell’Associazione Beni Italiani Patrimonio Mondiale Unesco. Fare rete per spingere sulla promozione ed evitare il turismo mordi e fuggi che caratterizza Urbino. Ma cosa si è fatto in questi venti anni? L’Unesco è solo una stella sul petto o può essere davvero un volano anche economico? Nel corso della ventiduesima sessione del Comitato per il Patrimonio Mondiale, tenutasi a Kyoto dal 30 novembre al 5 dicembre 1998, il Centro Storico di Urbino è stato iscritto nella Lista del Patrimonio Mondiale Unesco. Il dossier di candidatura fu redatto dalla Soprintendenza della Regione Marche e presentato al Ministero per i Beni Culturali e Ambientali il 5 maggio 1996
in accordo con l'Amministrazione Comunale della città. Superati i paletti imposti, ecco finalmente l’iscrizione. Con tanto motivazione: “Urbino rappresenta un vertice dell'arte e dell'architettura del Rinascimento, armoniosamente adattato al suo ambiente fisico e al suo passato medievale in modo eccezionale”. Un percorso che non si è fermato perché l’attuale assessore comunale Massimo Guidi, con delega all’Unesco, già dal 2000 si era occupato della questione. “Il comune di Urbino è presente nella Associazione Beni Italiani Patrimonio Mondiale Unesco dal 2000 ed è stato uno tra i primi Siti che hanno costituito l’Associazione. “Dal 2006 l’Associazione ha promosso diversi progetti che hanno ottenuto il finanziamento della Legge 77/2006 realizzando Guide dei Siti Italiani Unesco, la Collana di guide Unesco per ragazzi, la mostra fotografica itinerante “Siti Unesco Italiani”, il sito web dell’Associazione e da ultimo il progetto Unesco per la scuola”. Ma le ricadute sono state anche per Urbino. “I progetti presentati dal comune di Urbino che hanno ottenuto il finanziamento della Legge 77/2006 sono stati la redazione del Piano di Gestione del Sito con 50000 euro nel 2006, la realizzazione e sistemazione aree di sosta contigue al Sito Unesco e di un sistema pedonale d’accesso al centro storico grazie a un contributo di 100.000 euro nel 2012. Poi la riqualificazione dell’accesso al centro storico Piazzale Roma – Pian del Monte per 89000 euro nel 2016”. Nel 2017 sono arrivati anche 60.000 euro per il pro-
L’anniversario
Progetti finanziati e presenza turistica migliorata, ora Urbino si appresta a festeggiare la ricorrenza a novembre
Nella pagina precedente e sopra due vedute del centro storico di Urbino
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getto “Urbino per bene, Educare al bello”, un progetto per rendere consapevoli i giovani del patrimonio e valorizzarlo. Infine la riqualificazione dell’area contigua al Sito Unesco a Borgo Mercatale nel versante nord-ovest con 89.700 mila euro. Ma oltre agli interventi, l’aspetto di ricaduta turistica è una delle questioni dirimenti. Secondo i dati regionali le presenze si attestano a Urbino sulle 544 mila all’anno, men-
tre gli arrivi sugli 83 mila. Dieci anni fa gli arrivi erano 125 mila e le presenze 275 mila. Dunque i turisti hanno dormito più notti nella città ducale. “La presenza turistica è migliorata in termini di numero di presenze e anche di durata della permanenza, ma certamente si può fare ancora di più attraverso una proposta turistica che promuova non solo Urbino ma anche il territorio – spiega Guidi - L’Associazione partecipa inoltre a molte iniziative promozionali turistiche. Ma occorre anche migliorare la qualità delle strutture e la capacità degli operatori del settore. Continueremo a proporre progetti da finanziare anche con la Legge 77/2006 come il miglioramento della qualità del Sito e della sua ac-
cessibilità ma anche progetti di promozione”. Ma ecco la bozza di programma delle due giornate del 29 e 30 novembre che ricorderanno l’anniversario dell’ingresso di Urbino nel Patrimonio Unesco. A Palazzo Ducale alle 10,30 la presentazione e l’anteprima della mostra dedicata a Giovanni Santi. Poi nella sala Serpieri del Collegio Raffaello l’assemblea dei soci dell’Associazione beni italiani patrimonio Unesco. Nel pomeriggio, nella sala dei convegni di Palazzo Ducale, la presentazione delle attività e delle sinergie fra le istituzioni per la valorizzazione del sito Unesco, poi l’intervento della Commissione italiana per l’Unesco. Al Teatro Sanzio alle 21,30 il concerto della Banda dell’Arma dei Carabinieri. Venerdì 30 a Palazzo Battiferri la presentazione delle attività del Progetto Urbino per Bene con il Desp -Dipartimento di Economia, Società, Politica e la Scuola di Conservazione e Restauro. Si parlerà anche della Data e dell’Orto dell’Abbondanza e del ruolo della struttura nelle attività di progetto e la riqualificazione funzionale dell’edificio per la sua caratterizzazione quale luogo di aggregazione sociale e di valorizzazione a livello nazionale ed internazionale delle reti territoriali legate al Rinascimento, alla cultura delle Marche e alla cultura e all’imprenditorialità locale, negli ambiti tradizionali e nei settori emergenti. Non mancheranno interventi dei Comuni di Firenze e Mantova, impegnati in progetti simili e una serie di interventi legati a vincoli e tutele per salvaguardare il patrimonio. ¤
L’intervista
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Marche, l’altra metà conquista il mondo QUASI 2 MILIONI HANNO CERCATO VITA MIGLIORE ALL'ESTERO
H di Paola Cimarelli
Il presidente Nicoletti: “Per noi le Marche è la bella patria dei nonni dove si vive e si mangia bene”
anno tutti cognomi italiani, anzi marchigiani. Sono figli, nipoti, pronipoti di coloro che hanno scelto di cercare una vita migliore fuori dal confine nazionale lasciando sempre una parte di cuore da qualche parte in cima ad una collina o in una casetta in un piccolo borgo. Passaporto e visto in mano sono partiti, è il caso di dirlo, alla conquista del mondo. Il loro mondo e, nella maggior parte dei casi, hanno costruito un futuro per la loro famiglia accompagnati però da quella nostalgia straziante, quel sentimento di struggimento che solo un migrante può capire. Franco Nicoletti, famiglia originaria di Pergola, nel pesarese, vive nel Lussemburgo, lavora all’Unione europea ed è presidente dei Marchigiani nel mondo, che riunisce 63 associazioni e 5 federazioni attive in 12 Stati e tre continenti, Europa, America e Oceania. Quante sono le persone che vivono fuori dalle Marche? Il dato ufficiale dei marchigiani nel mondo è di 150 mila. Coloro che hanno la cittadinanza italiana, che sono iscritti all’Aire, l’Anagrafe italiani residenti all’estero, e che possono avere anche una seconda cittadinanza, sono 130 mila anche se pensiamo che siano molti di più. Perché l’iscrizione non è obbligatoria ed è necessaria solo in alcuni casi, per la richiesta di documenti o per votare nelle ambasciate per le elezioni politiche ed europee. Una persona che, ad esempio, va a Bruxelles per tre anni per lavoro non ha bisogno di passaporto e risulta, quindi, essere sempre residente in una
città marchigiana. Il dato ufficioso, invece, è di 1,7 milioni di marchigiani nel mondo con un milione che vivono soltanto in Argentina. Non hanno più la cittadinanza italiana, sono americani, canadesi, francesi, argentini ma rimangono sempre attaccati alla nostre Marche. Io dico sempre che noi siamo l’altra metà delle Marche. E forse anche un po’ di più. Per questo, quando incontro il presidente della Regione Marche, Luca Ceriscioli, dico, scherzando, che noi due siamo i presidenti delle Marche. I marchigiani emigrati sono storie di sacrificio, di sofferenza, di separazione ma soprattutto di grande coraggio e speranza. Cosa resta di questo nelle comunità sparse nel mondo? Dipende dalle zone dove vivono. Nell’America del Sud, le migrazioni sono cominciate fra fine ‘800 e inizio ‘900, con una prima ondata che ha interessato mezzo milione di persone. Lì siamo già alla terza e quarta generazione di marchigiani e fra molti di loro c’è soltanto un ricordo. La maggior parte dei giovani hanno sentito dei racconti ma hanno perso il legame diretto. Sanno che vengono dalle Marche ma non di più. In Europa, invece, dove l’emigrazione è avvenuta soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, coinvolgendo circa 800 mila persone, siamo alla seconda generazione. Le distanze temporali e fisiche sono più corte, le famiglie ritornano nelle Marche minimo una volta all’anno e quindi il rapporto è ancora forte. In moltissimi di noi, c’è un gran-
L’intervista
24 de amore per la terra d’origine. Se ne parla moltissimo, siamo sempre in ammirazione quando sappiamo che un marchigiano è un’eccellenza od è protagonista nei vari settori, scienza, cultura, spettacolo, sport, come nel caso di Valentino Rossi.
Per gli imprenditori marchigiani il legame con chi vive all'estero può essere un’opportunità un fattore di sviluppo e di promozione
E le persone più anziane? Prima si riunivano in gruppi, come associazioni, per ritrovarsi, parlare, per confrontarsi, per scambiarsi i pensieri sulle avventure e sulle esperienze che hanno vissuto. Come Consiglio stiamo cercando di portare avanti questa memoria e promuovere attività che permettano a molti di loro di continuare a vedersi. I giovani marchigiani, invece, si frequentano? Sono giovani e ovviamente si comportano come tutti i ragazzi. Con i nuovi mezzi di comunicazione, non hanno quasi più interesse a riunirsi nelle associazioni e rimangono attaccati alla regione d’origine ma in un’altra maniera. Stiamo cercando di coinvolgerli di più e anche per questo abbiamo appena organizzato il primo educational tour nelle Marche, un percorso di conoscenza delle proprie origini per i giovani discendenti di emigrati. Sono stati 19 i partecipanti, arrivati da Argentina, Brasile, Uruguay e Canada. I marchigiani sono stati interessati da un’emigrazione di ritorno? Negli anni ‘60, c’è stato un grandissimo rientro, specie dal Belgio e dalla Germania. Certi hanno resistito, altri invece sono ripartiti. Non sempre tornare nella terra d’origine è un percorso facile.
Qui sopra, due momenti dell'incontro del presidente dei Marchigiani nel mondo con i giovani e i vertici dell'Accademia Poliarte di Ancona In alto a destra, Franco Nicoletti presidente dell'associazione e sotto, il museo dell'emigrazione marchigiana nel mondo
A proposito di origine, andando all’estero e incontrando persone italiane, l’orgoglio di appartenenza sembra
in loro molto forte rispetto a chi vive in Italia. Com’è possibile questo? Dentro ognuno di noi probabilmente è rimasta quell’italianità, quella marchigianità, che ci fa battere il cuore sempre forte. E’ come il sogno degli emigrati, che volevano tornare a casa. La speranza della maggioranza, il pensiero e il desiderio, era di partire per un periodo limitato, per cercare lavoro, fare fortuma ma poi tornare ma in realtà non è successo a tanti. Per noi, le Marche è la bella terra, la bella patria dove c’erano i nonni, dove si vive bene, dove si mangia bene. Il legame quindi qual è? Quello del territorio e della famiglia. Si dice che ogni marchigiano ha un parente all’estero. Un milione e cinquentomila marchigiani hanno sicuramente un parente in qualche parte del mondo. Parlando di attualità, l’emigrazione è diventata di nuovo un fenomeno di massa, che assomiglia a quanto già vissuto proprio dall’emigrazione italiana. Come viene percepita da chi appartiene a una famiglia che ha una storia simile? Le polemiche di oggi sono le stesse che abbiamo vissuto noi, le nostre famiglie, i nostri nonni quando sono partiti per andare a lavorare all’estero, nelle miniere di Belgio, Francia, Germania o nei campi del Sud America. Purtroppo anche noi non eravamo trattati bene. E’ una situazione globale. Quello che abbiamo vissuto noi per tanto tempo oggi si ripete però in Italia. La percezione è quindi positiva o negativa? E’ negativa. Chi vive all’estero ha completamente un’altra impresssione dell’Italia, dell’attualità, della politica, di
L’intervista
quello che succede e che si fa. Noi vediamo le cose dall’estero in maniera differente, forse facendo anche paragoni fra i Paesi dove viviamo e l’Italia e spesso siamo scettici su quello che succede sul territorio italiano. Non capiamo il perché della discriminazione, perchè in certi Paesi queste persone vengono accolte, in altri no, perché c’è questa posizione adesso verso l’immigrazione. Le migrazioni ci sono sempre state anche interne, dalle regioni italiane del sud verso quelle del nord. C’è anche poi un altro tipo di emigrazione che riguarda i giovani, i laureati, le alte professionalità. Questa è completamente un’altra migrazione. Si parla di fuga dei cervelli perché è più facile forse trovare lavoro all’estero che in Italia. Dunque uno ci prova. Così come per studiare si va all’estero. Rispetto a questo fenomeno, come Consiglio dei marchigiani, ci siamo lanciati in una sfida, per capire se sono migrazioni provvisorie, a lungo termine, se durano solo il tempo di un lavoro, di qualche anno e poi si ritorna. Faremo uno studio per comprendere come funziona questo nuovo fenomeno, come mai si fa questa scelta. Perché il giovane marchigiano va all’estero? Per studiare, lavorare, cambiare il mondo, per seguire una persona per amore? Sarà un’iniziativa che porteremo avanti come associazioni con la Regione. Non abbiamo ancora deciso poi come concretizzarla, se con una rivista, un libro o diffonderla on line. In Consiglio regionale, si è svolta a settembre una seduta aperta con le vostre associazioni. Siamo un po’ una comunità a parte, che viene riconosciuta il 10 dicembre con la Giornata delle Marche, un’idea
25 venuta ad un nostro membro in Argentina, che propose al precedente presidente della Regione di fare una festa nazionale delle Marche. Quel giorno, perciò, si festeggia l’orgoglio marchigiano ma è una data che non ci sembra sia molto sentita dai marchigiani. A parte questa iniziativa, però, il resto dell’anno siamo un po’ dimenticati. Abbiamo chiesto così di poter esporre le nostre idee al Consiglio regionale, cosa che è stata accettata dal presidente Antonio Mastrovincenzo e dall’assessore Moreno Pieroni. Volevamo dimostrare che ci siamo anche noi, per dire che vogliamo una fetta, non certo di soldi, ma di opportunità, che i marchigiani che vivono all’estero possano essere più considerati quando ci sono iniziative per il turismo di ritorno, leggi o regolamenti che possono interessarci, come per la formazione professionale. Era importante per noi dire che non si pensi solo ad una regione geopolitica da Pesaro ad Ascoli Piceno ma ad una regione globale. E’ stata già organizzata della formazione? Nel 2014, un gruppo di giovani imprenditori che venivano da diversi Stati hanno fatto uno stage di due settimane nei settori dell’enogastronomia e della green economy, con visite e confronti con le aziende marchigiane. E’ stata un’esperienza a cui sono seguiti diversi contatti commerciali che si sono concretizzati in contratti firmati fra imprese. Per gli imprenditori marchigiani, il legame con chi vive all’estero può essere un fattore di sviluppo e di promozione. Un anticipo delle prossime iniziative? Riproporremo l’educational tour, che è stato un successo enorme. Questi ragazzi, dei veri “ambasciatori delle Marche”, hanno promosso sui social, nelle due settimane di
Le polemiche di oggi sui migranti sono le stesse che hanno vissuto le nostre famiglie E non erano trattate bene
L’intervista
Riviera del Conero patrimonio Unesco? Bellissima idea Avrebbe già dovuto esserlo Noi appoggeremo questa proposta
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permanenza, tutto quello che hanno visto e conosciuto nelle Marche, con un approccio ovviamente diverso rispetto alle campagne fatte sui magazine. Sono giovani che hanno postato racconti e foto con cui invogliare i loro amici e coetanei a venire nelle Marche. Hanno visitato diverse località, le bellezze della regione, aziende di fashion, del calzaturiero, di vini. Hanno incontrato altri giovani, anche con eventi sportivi, ma la cosa più importante è che hanno potuto apprendere direttamente la lingua italiana, che magari non parlano troppo bene. Questa esperienza consentirà loro di diffondere l’italiano nei luoghi dove vivono. Anche la cultura è una delle vostre priorità. Per l’anno rossiniamo, abbiamo organizzato 17 eventi in altre città del mondo dedicati a Gioacchino Rossini, alla sua musica, all’arte, al suo essere gourmet. L’anno prossimo, poi, sarà l’anno di Giacomo Leopardi e nel 2020 di Raffaello Sanzio e noi ci stiamo già pensando. Abbiamo tre big delle Marche di cui parlare nel mondo.
La proposta delle Cento Città di riconoscere la Riviera del Conero patrimonio dell'Unesco trova consenso e appoggio anche da parte dell'associazione Marchigiani nel mondo
Il Museo dell’emigrazione marchigiana di Recanati è un riferimento per la comunità? Assolutamente. E’ stato aperto al pubblico nel 2013. Ci sono voluti circa dieci anni per pensarlo e realizzarlo. C’è stata una grandissima raccolta da parte delle associazioni dei marchigiani nel mondo che hanno fornito materiali, lettere, biglietti di viaggio, di navi e treni, foto. Abbiamo catalogato tutto e arricchito il Museo, che
è interattivo. Si passa davanti una carrozza di un treno, una cabina della nave, su cui i viaggi potevano durare anche mesi, e ci sono personaggi che raccontano il loro. Si organizzano anche attività didattiche con le scuole. C’è stato un momento di pausa ma adesso vogliamo lanciare una grande raccolta sul territorio marchigiano. Gli oggetti possono essere scansionati o fotografati e, quindi, non è necessario lasciare gli originali che capiamo ogni famiglia voglia custodire. Raccoglieremo tutto il materiale, precedente e attuale, in un grande data base da consultare. Coinvolgeremo i Comuni, le parrocchie, che hanno una grande memoria storica nei loro archivi, i cittadini. Siamo sicuri che nelle case ci sono tante testimonianze da scoprire sulla storia della migrazione delle Marche. L’associazione Le Cento Città ha lanciato l'idea di riconoscere la Riviera del Conero patrimonio dell’Unesco. Una bellissima idea. La Riviera del Conero avrebbe già dovuto essere patrimonio dell’Unesco perché tutti parlando di questa meravigliosa montagna sull’Adriatico, l’unica sulla costa che va da Venezia fino in Puglia. Questi ragazzi, che sono venuti per la prima volta in Italia e nelle Marche, volevano andare al mare. Li abbiamo portati a Numana e Sirolo e sono rimasti stupefatti della bellezza del paesaggio, del posto. Come Marchigiani nel mondo apppoggiamo veramente questa proposta. ¤
La storia
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Da contadini a minatori rischiando la vita ANNI ’50, QUANDO GLI EMIGRANTI ERANO GLI ITALIANI
16 di Bruna Baiocco
Gruppo di lavoratori italiani all'interno di una delle numerose miniere belghe
marzo 1948, Emiliano era partito per il Belgio, insieme al suo amico, con una piccola cassetta di legno che si era fatto da solo. Sì perché la valigia non ce l’aveva di certo, roba di lusso, la scatola di cartone neanche, avrebbe dovuto prima comperare qualcosa di cui sarebbe stata l’imballo. Invece legno e chiodi non mancavano. D’altronde non c’era bisogno di un grande bagaglio perché il contenuto era ridottissimo, poca biancheria personale e il resto pane e “companatico” per il viaggio che sarebbe durato 3 giorni con cinque treni diversi. Aveva visto pochi mesi prima l’annuncio rosa affisso al comune di Sassoferrato, con il quale si informava che era-
no aperte le emigrazioni per il Belgio, dove c’era il lavoro in miniera ben pagato e c’era anche la casa per i minatori. Sembrava un sogno nell’Italia del dopo guerra dove “non si trovava da fare niente”. Alla base il patto Italia-Belgio che metteva insieme la mancanza di lavoro in Italia che all’epoca aveva 2 milioni di disoccupati con la scarsità di manodopera in Belgio che limitava la quantità di carbone estraibile dagli enormi giacimenti presenti. O meglio, i belgi non erano più disposti a lavorare in miniera in quelle condizioni di lavoro e di salario e così le autorità, invece di migliorarle preferirono aprire agli italiani, che erano più disperati di loro. I polacchi che avevano esperienza di mi-
La storia
Oltre duecentomila si trasferirono in Belgio, attirati da un manifesto rosa in cui veniva offerto lavoro ben pagato in miniera
28 niera non erano più disponibili perché si erano ritrovati dall’altra parte della cortina est-ovest. Gli italiani non avevano mai visto una miniera, erano contadini, abituati a lavorare sotto il sole. L’Italia doveva inviare in Belgio 50.000 uomini da impiegare nelle miniere e in cambio riceveva 2 quintali di carbone al giorno per ogni minatore. Per i primi 5 anni non si poteva lavorare “in superficie” ma solo in miniera. Uomini venduti per un sacco di carbone. Dopo la seconda guerra mondiale, dal 1946 al 1963 oltre duecentomila italiani emigrarono in Belgio per lavorare nei cinque bacini carboniferi, il principale era quello di Charleroi, 60 km a sud di Bruxelles, nella zona francofona. Le miniere si trovavano alla periferia della città. Emiliano era stato sottoposto a una visita medica di idoneità alcuni giorni prima di partire, poi a un’altra a Milano e un’altra ancora all’arrivo in Belgio; ad ogni tappa venivano scartati e rimandati indietro, come “inabili” al lavoro in miniera, i soggetti che non erano perfettamente robusti e in salute. La discesa in miniera avveniva con un montacarichi. Chiamarlo ascensore non si poteva. La cabina era una gabbia a tre piani dove venivano stipati più di 100 operai con le pareti di rete metallica in modo da farli respirare.
Le miniere avevano profondità fino a 1600 metri. La gabbia partiva con un “vuu” assordante e sembrava in caduta libera, arrivava al “fondo” in un paio di minuti, lo stomaco saliva alla gola per l’accelerazione e la temperatura passava da zero a 50 gradi. Per alcuni era un trauma tale che non se la sentivano di scendere il giorno dopo. Così venivano “espulsi”, rispediti in Italia insieme agli inabili, con il divieto di tornare per cinque anni. La sicurezza in galleria appesa a un filo Il lavoro era duro e scandito da tre turni di 8 ore ciascuno, a partire dalle 6, dalle 14 e dalle 22. La paga veniva consegnata due volte al mese. Spesso si lavorava in base alla quantità di carbone estratto. Il salario medio all’inizio degli anni 50 si aggirava tra i 250 e i 350 franchi belgi al giorno. Con il lavoro a cottimo si riusciva a raggiungere i 400 franchi. Il carbone veniva estratto con il martello pneumatico che creava un rumore assordante e polvere permanente. Anche il minimo graffio si copriva di quel minerale, quando la ferita si rimarginava rimaneva sottopelle il colore scuro della polvere di carbone, come fosse un tatuaggio. Data la temperatura i minatori lavoravano a torso nudo. A volte, quando gli strati erano troppo duri venivano fatti saltare con cariche esplosive. Il carbone veniva poi spalato, e posizionato su nastro trasportatore meccanico o su carrelli. Le dimensioni in altezza delle “gallerie” andavano da qualche metro, dove si lavorava in piedi fino alle “taglie” di 60 cm, gallerie così basse che i minatori dovevano operare in ginocchio o sdraiati. Usare il martello pneumatico o la pala in uno spazio così stretto e spesso inclinato era massacrante.
La storia
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La storia di Emiliano partito nel 1948 da Sassoferrato con una cassetta di legno come valigia è la storia di tantissimi italiani Tutte le gallerie dovevano essere armate e puntellate man mano che venivano scavate. I rischi d’infortunio erano altissimi. Il lavoro a cottimo portava a una fretta che peggiorava ulteriormente le condizioni di sicurezza. Gli italiani tendevano a stare insieme nel formare le ”èquipe” che lavoravano sulla stessa taglia guidati da un responsabile. I motivi erano vari: l’attività era molto pericolosa e tutti volevano lavorare con persone che si conoscevano bene e di cui ci si poteva fidare, il cottimo era di gruppo e tutti dovevano impegnarsi molto e, non ultimo, ci si capiva meglio. Emiliano guidava una equipe specializzata nella riparazione delle frane e veniva chia-
mato a tutte le ore. Una volta si rifiutò perché aveva giudicato l’intervento troppo pericoloso. Andò un altro gruppo e durante il lavoro si verificò un ulteriore crollo, i minatori fuggirono ma l’ultimo non ce la fece e morì con la testa schiacciata da un masso. La sicurezza era veramente approssimativa e la vita delle persone era appesa a un filo. Un altro pericolo veniva dal grisù, una miscela di gas (composta da metano, etano, azoto, anidride carbonica, ossigeno con tracce di elio, neon e idrogeno) che veniva naturalmente emessa dagli strati di carbone. Nell’aria la miscela è inodore, infiammabile e, in concentrazioni maggiori, anche esplosiva. Martelli pneumatici e
A sinistra, Emiliano Baiocco nella tipica tenuta da minatore con gli strumenti del lavoro In alto, le baracche usate nei campi di concentramento poi utilizzate come abitazioni per i minatori Subito sotto, la valigia di legno con la quale Emiliano ha intrapreso il primo viaggio verso il Belgio Qui sopra, il manifesto di "reclutamento" degli italiani
La storia
Per scendere nella miniera si usava un montacarichi su tre piani in cui venivano stipati più di cento operai
30 cariche esplosive potevano essere usati solo quando la percentuale di grisù nell’aria era sotto determinati limiti. Misurazioni frettolose o poco frequenti aumentavano il rischio di incendi ed esplosioni. E poi c’erano i rischi di malattie, che più che rischi erano certezze. In primis la silicosi: la polvere respirata per anni si deposita sui polmoni, irrigidendo nel tempo gli alveoli, fino a bloccarli. L’uso della maschera, che avrebbe filtrato un po’ di polvere, divenne obbligatorio solo nel 1959. Altre malattie frequentissime erano: l’enfisema polmonare, la bronchite cronica a causa della differenza di temperatura tra l’esterno e i 40-50 gradi della miniera, la sordità o i disturbi dell’udito dovuti al rumore dei martelli pneumatici, l’artrosi dovuta all’umidità e alle posizioni assunte per lavorare. Tutte queste malattie, oggi note, a metà degli anni 50 non erano state rese pubbliche, i minatori non le conoscevano, hanno dovuto scoprirle sulla loro pelle. In particolare la silicosi. Sempre più spesso c’era qualche minatore che “si ammalava”. Mio padre aveva un amico che aveva iniziato a lavorare in miniera a 18 anni, aveva preso la pensione di invalidità a 28 anni ed era morto a 31 per silicosi. Man mano che accadevano questi casi, i minatori iniziarono a farsi visitare privatamente per conoscere la propria condizione di salute e tutti si resero conto di avere la silicosi, in forma più o meno grave. Ma spesso non bastava per abbandonare il lavoro. Anche mio padre nel 1958, dopo 10 anni in miniera, decise di fare questa visita e il medico gli disse che ancora non era abbastanza grave da ottenere la pensione di invalidità ma mancava poco. Se avesse lavorato ancora un paio d’anni avrebbe avuto “abbastanza silicosi”. Non
scese più in miniera e, dopo un primo rifiuto, una nuova domanda e una concessione provvisoria, nel 1961 ottenne la pensione e tornò in Italia. Io sono nata due anni dopo, ho passato la mia giovinezza con la paura di perdere mio padre perché ogni tanto si andava al funerale di qualche suo amico che aveva lavorato in miniera con lui. Poi negli anni 80 per noi i funerali finirono perché erano morti tutti. Una difficile integrazione negozi vietati agli italiani All’arrivo i minatori venivano alloggiati nei campi di concentramento costruiti dai nazisti per i prigionieri sovietici, polacchi e francesi della seconda guerra mondiale, baracche poi usate dagli americani per i prigionieri tedeschi. Erano lunghe costruzioni metalliche a forma di tubo con pareti sottili riscaldate da stufe a carbone. Doveva essere una sistemazione provvisoria ma durò quattro anni. I miei si sposarono nel 1951 in Italia, durante le ferie estive concesse a mio padre. L’anno dopo mia madre Caterina lo raggiunse in Belgio con un viaggio di tre giorni e relative visite mediche a Milano e Namour. Sempre con cinque treni ma lei aveva una valigia di cartone. Come tutte le famiglie di minatori, ebbero “ben” una baracca di legno, anche questa di un ex campo di concentramento, ma un po’ più grande e con le pareti dritte. Il bagno era fuori a 20 metri di distanza, condiviso con una decina di famiglie e così anche il lavatoio, perché in casa l’acqua corrente non c’era. In realtà, la società delle miniere aveva, oltre alle baracche, anche delle case di proprietà per alloggiare le famiglie dei minatori ma in numero assolutamente inadeguato. Nel 1954, nel frattempo era nato mio fratello e come tante altre famiglie con figli, la si-
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tuazione era diventata quasi insostenibile, Caterina chiese una vera casa all’ufficio della miniera ma si sentì rispondere di cercare in affitto un alloggio privato perché il marito “guadagnava bene”. Così è stato: finalmente un riparo di mattoni, la cucina era al primo piano, la camera al terzo. Al secondo piano alloggiava un’altra famiglia. Il bagno era in comune al seminterrato. In Belgio le stesse difficoltà per trovare un alloggio decoroso sono state condivise da tutti gli italiani. Le promesse di ospitalità del manifesto rosa non corrispondevano alla realtà. Due anni dopo, con una “mancia” di 500 franchi, fu loro assegnata una casa più adeguata. Siamo tornati a vederla nel 2006, c’era ancora il filo per stendere i panni che aveva fissato mio padre 50 anni prima. Aveva anche il prato e l’orto, dove i pomodori non si sarebbero mai maturati. Il sole era troppo poco. L’accoglienza non è stata delle migliori. Alla fine degli anni 40 sulla porta di alcuni negozi e bar compariva la scritta: “ni chiens ni italiens” oppure “interdit aux chiens et aux italiens”, “vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”, che fa rima anche in francese. Gli italiani a Charleroi erano tanti, la maggioranza degli stranieri. I minatori erano più di 10.000 e con i famigliari potevano arrivare a 50.000 in una città di 230.000 abitanti. Avevano anche una grande chiesa intitolata a Santa Maria Goretti, con tanto di messa in italiano, ovviamente con un prete italiano che era arrivato con il portafoglio vuoto e si era poi comprato la bicicletta, la moto e l’automobile. I minatori di solito si fermavano alla bicicletta. Gli uomini soli alloggiavano nelle baracche e mangiavano nelle “cantine” dove il cibo era quello della tradizione belga: patate, formaggi e zuppe di
31 verdure, un’alimentazione assolutamente inadeguata per i minatori che avevano bisogno di cibi nutrienti. Se non proprio la fame, molti avevano sofferto “l’appetito”. Anche i sapori erano molto lontani dalla loro cultura a tal punto da pregare mia madre, appena arrivata in Belgio, di cucinare anche per loro. Le donne contribuivano al bene della comunità Così, a 20 anni, si era ritrovata a preparare i pasti tutti i giorni, anche per otto uomini, contenti di poter finalmente mangiare la pasta. Lei, in realtà, di mestiere faceva la sarta, si era portata in Belgio la sua macchina da cucire e aveva sempre la casa piena di stoffe. E di clienti. Le donne belghe le lasciavano la mancia mentre le italiane chiedevano lo sconto; quelle del sud andavano a misurarsi i vestiti sempre accompagnate dal marito, non potevano uscire di casa da sole. Esperienze del tutto nuove per lei. Le donne italiane, rispetto agli uomini, erano le straniere più accettate perché erano clienti preziose nei negozi di alimentari e avevano l’opportunità di incontrare la popolazione locale accompagnando i figli a scuola o all’asilo. Dal canto loro i bambini giocavano senza problemi, gli italiani più sfrenati dei loro coetanei belgi ma quando si prendevano in giro difendevano con forza le proprie identità nazionali apostrofando i belgi con “pomme de terre!” (patata). Loro rispondevano immediatamente con “macaronì!” La domenica i minatori italiani si ritrovavano insieme, giocavano a carte con gli amici, andavano a passeggio con le famiglie. Stranamente erano molto più eleganti dei belgi, mettevano il loro vestito migliore, che spesso era l’unico. Emiliano, come altri,
A volte le gallerie erano talmente basse che si doveva lavorare sdraiati Un lavoro durissimo spesso pagato a cottimo
A sinistra, il montacarichi per trasportare in profondità anche 100 minatori stipati nella "Gabbia" metallica In alto, Caterina impegnata a cucire vestiti; qui sopra insieme al marito Emiliano in un momento spensierato
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32 lavorava anche la domenica in modo che poi aveva due mesi all’anno di ferie per stare in Italia. Marcinelle, 262 morti una tragedia annunciata L’8 agosto 1956 alle 8.10 scoppiò l’incendio nella miniera di Marcinelle, alla periferia di Charleroi. In caso di incidente suonavano le sirene di allarme che si sentivano anche da fuori ed ogni volta era una
I minatori italiani al loro arrivo venivano alloggiati nelle baracche dei campi di concentramento usati dai nazisti
stretta al cuore per i familiari in attesa di sapere cosa era successo e a chi. Quella mattina la notizia si diffuse in pochi minuti, tutti uscirono dalle case e si precipitarono davanti alla miniera. Emiliano lavorava a Marchienne a 4 km di distanza, appena finito il turno alle 14 andò a piedi, in bicicletta non si circolava, a vedere dalla collina adiacente e come tutti gli altri minatori si rese conto subito che sotto quelle due colonne di fumo nero, che uscivano dai pozzi degli ascensori, non poteva esserci nessuno vivo. Davanti alla miniera c’era una folla di migliaia di persone che rimase lì per giorni e
giorni. Intanto radio e televisione continuavano a dire che c’erano speranze e che i soccorsi andavano avanti. Dopo 15 giorni non fu più possibile raccontare altre bugie e per spegnere l’incendio ed estrarre i corpi si dovette allagare la miniera e successivamente pompare fuori l’acqua. Quando ci furono i funerali, la fila delle bare era lunga 2 km. 262 morti dei quali 136 erano italiani, 12 marchigiani. Lasciarono 200 vedove e 500 orfani. A quel punto tutti si resero conto che gli immigrati facevano un lavoro disumano. Molti tornarono in Italia, gli stipendi furono aumentati del 10% ma le condizioni di sicurezza non migliorarono. Questa è stata solo la tragedia più grande nelle miniere del Belgio ed anche la più nota, oggi possiamo dire la più mediatica, perché la televisione si stava diffondendo proprio in quegli anni e quelle immagini hanno fatto il giro del mondo. Ma non è stata una tragedia isolata. Tutti gli anni avvenivano incidenti mortali nelle miniere, nello stesso 1956 ci furono altre 50 vittime oltre quelle di Marcinelle. Alla fine, quando fu chiusa nel 1968 l’ultima miniera di carbone del Belgio il conto delle vittime ammontò a 867. Il processo che seguì la tragedia di Marcinelle si concluse con l’assoluzione dei dirigenti della società mineraria. La responsabilità fu attribuita a un minatore che avrebbe sbagliato una manovra, un italiano anch’egli morto nel disastro. Nel 1968 la miniera di Marcinelle chiuse definitivamente e negli anni 90 il sito del Bois du Cazier (Bosco di Cazier, famiglia proprietaria del terreno nel 1830 quando la miniera iniziò ad operare) era in stato di completo abbandono. Rischiava di diventare la sede di un centro commerciale. Fu l’associazione degli ex
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minatori e dei loro familiari a opporsi trasformandolo in museo. Nel 2012 l’Unesco ha riconosciuto il Bois du Cazier patrimonio dell’umanità. E’ uno dei luoghi più importanti da visitare in Belgio. Negli anni Sessanta la tecnologia era cambiata, la fonte principale di energia si era trasferita dal carbone al petrolio. La stagione delle miniere era ormai conclusa. Rimanevano solo le colline formate dal materiale di scarto del carbone. Molti tornarono in Italia, con la pensione di invalidità, con la voglia di costruirsi una casa e far studiare i figli. Avevano conosciuto un Paese dove negli anni ‘50 c’erano già gli asili nido e le scuole materne per tutti, il premio alla nascita, le piste ciclabili e i supermercati. Dove i prezzi erano fissi e scritti a chiare lettere, dove lo Stato funzionava, dove si premiava il merito. Mio fratello alle scuole elementari prendeva la pagellina tutte le settimane, si contendeva il primo posto con il figlio del dentista, belga naturalmente, il più bravo aveva in regalo un cioccolatino. Gli emigrati riportarono a casa un bagaglio di esperienze e di cultura molto più moderno di quello presente allora in Italia e un flusso di denaro che contribuì a risollevare l’economia del Paese. Molti altri restarono in Belgio, perché i figli si erano sposati lì oppure perché (dopo almeno 5 anni avendo ottenuto il permesso di tipo A) avevano trovato un lavoro “in superficie” o avevano aperto qualche attività e si erano abituati al clima: poco sole, pioggerella che smette e riprende per tutto il giorno. Si sono integrati perfettamente nella società e la seconda generazione, grazie alla logica del merito, ha raggiunto gli stessi obiettivi dei Belgi “nativi”, anche il ruolo di presidente del consiglio. (Elio Di Rupo, classe
33 1951, figlio di minatore italiano, presidente del consiglio dal 2011 al 2014). Molti dei loro coetanei, tornati invece in Italia – non importa se laureati con 110 e lode - si sono sentiti consigliare di non perdere tempo, ad esempio, con la carriera universitaria, perché tanto per quegli incarichi c’erano amici e parenti dei “baroni”. Ai concorsi nelle amministrazioni locali si sono accorti di arrivare sempre secondi se c’era un posto e terzi se ce ne erano due. Sanvensis, Emiliano chiamato con un numero Al lavoro mio padre si chiamava sanvensis ma non era un santo, era diventato un numero (126), quello inciso sulla medaglietta che portava al collo come tutti i minatori. La medaglietta permetteva di identificare le persone in un luogo dove le lingue erano molte, dove in caso di incidente serviva la velocità e la sicurezza dell’identità (così hanno dato un nome ai morti di Marcinelle), dove i visi coperti di carbone non erano facili da riconoscere. Mio fratello all’età di tre anni era fuggito piangendo quando il padre gli era andato incontro all’uscita dalla miniera, era tutto nero e lui non l’aveva riconosciuto. Era il 4 dicembre, il giorno di Santa Barbara, protettrice dei minatori, quel giorno i famigliari andavano ad aspettare i minatori all’uscita dalla miniera, e di una santa protettrice avevano senz’altro bisogno, noi questa data la ricordiamo tutti gli anni. Grazie alla fortuna, al fisico robusto e alla scelta di vivere ad un’altitudine media (600700 metri s.l.m.) mio padre è arrivato a 88 anni di età, ma per un ex minatore questo è un miracolo. Una volta mi disse: “Quando morirò, andrò sicuramente in paradiso. All’inferno ci sono già stato”. ¤
Con la tragedia di Marcinelle tutti si resero conto del lavoro disumano degli immigrati Il rischio di incidenti era altissimo
Nella pagina a fianco, due immagini della tragedia di Marcinelle In alto, il cartello affisso in diversi negozi un cui si negava l'ingresso ai cani e agli... italiani Qui sopra, alcuni significativi timbri apposti sul passaporto che testimoniano i vari viaggi verso una possibilità di lavoro
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Un mestiere antico
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Scalpellini e S. Ippolito un connubio secolare LA PRIMA TESTIMONIANZA CERTA RISALE AL 1300
S di Renzo Savelli
ant’Ippolito, unico comune italiano con questo nome, è un paese di circa 1.500 abitanti che sorge sulla riva destra del Metauro nel tratto collinare che unisce Fano a Fossombrone. Sorto probabilmente intorno all’anno Mille, prese il nome dalla vicina pieve dedicata al martire Ippolito e dalla metà del secolo XIII fu uno dei più importanti castelli del contado di Fossombrone. Durante il dominio dei Montefeltro rivestì, con la sua poderosa rocca, una funzione difensiva che in seguito, con l’avvento dei Della Rovere, venne a perdersi. La rocca non fu demolita, ma inglobata nel castello che si ampliò notevolmente. Come tutti i castelli limitrofi, aveva una sola porta di accesso con pon-
te levatoio e vie interne, che si diramavano a pettine dalla strada centrale raggiungendo quella che circondava le mura. I due borghi fuori dalla cinta muraria furono eretti successivamente. Anche Sant’Ippolito godeva di una tenue autonomia, forse residuo di forme di partecipazione già presenti fin dalla fondazione, resa possibile grazie al Consiglio della Comunità, retto da massari, in gran parte coltivatori diretti e artigiani, tra i quali diversi scalpellini. Il connubio tra il paese e gli scalpellini è davvero antico, risalendo molto indietro nel tempo, almeno fino al secolo XIV. Lo è stato poi ininterrottamente per sei secoli, attestato da un crescendo di documenti e di opere. La pri-
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La pietra di Sant’Ippolito “di colore azzurrognolo e berettino” era considerata di gran pregio
36 ma testimonianza certa risale allo scalpellino Aimonetto da Sant’Ippolito, che si trovava ad Avignone per lavorare nel palazzo dei papi. Come e perché sia andato a lavorare così lontano, chi conosceva la sua bravura nel lavorare la pietra, chi lo abbia invitato per unirsi con i suoi colleghi provenzali e così via, non è dato sapere. Un altro nome, anche se di un cavatore di pietre, compare in questo secolo, cioè nel 1371, allorché un certo “Tadeo de Santo polito” consegna al comune di Fano 321 piedi di “pietra tolta da lui a santo Polito” che servirono per armare la torre maestra della rocca di quella città. Fin da quel tempo dunque la pietra di Sant’Ippolito era considerata di pregio. Due secoli più tardi ce lo conferma Bernardino Baldi, matematico e poeta urbinate, precisando che la pietra usata dagli scalpellini era di “colore azzurrognolo e berettino, detta pietra di S. Ippolito dal nome di un castello dove se cava e se lavora gran copia”. L’arenaria, estratta dalle cave del posto e lavorata in gran copia, indusse i tagliapietre del castello a migliorare e perfezionarsi diventando scalpellini e imponendosi sulla concorrenza per la loro bravura. Inutile sottolineare che l’arenaria abbondava in tutto il territorio del ducato d’Urbino e che nuclei di scalpellini erano presenti un po’ dappertutto, ma quelli di Sant’Ippolito erano i più bravi e richiesti. Quando avvenne questo salto di qualità che permise ai discendenti di antichi tagliapietre di diventare i più apprezzati scalpellini delle
Marche? Di certo nel corso del XV secolo, periodo di grandi innovazioni architettoniche, allorché entrarono in contatto con maestranze venete, toscane e lombarde, giunte in diverse località delle Marche, tra cui Urbino, per operare nel palazzo ducale. Gran parte di questi scalpellini prese dimora nel castello di Sant’Ippolito. L’aggettivo “lombardo” divenne il cognome di alcuni di loro che sposarono le figlie di altri scalpellini, come riportano i registri matrimoniali della parrocchia. L’insediamento di questi lavoratori era motivato principalmente dalla ricchezza di cave di arenaria, pietra che per le sue qualità fu per almeno tre secoli la preferita dai committenti. Questa “contaminatio” tra locali e stranieri fu decisiva per le maestranze del posto che fecero un vero salto di qualità. Il primo a parlarcene è messer Tommaso Azzi (1561-1611) che ricorda come dal territorio di Sant’Ippolito ”si cavano si belle et ottime pietre per farne conci di color bianco et azzurro, che recano tanto ornamento non solo alla nostra città, ma alle circonvicine ancora... fino a raggiungere luoghi lontani e la Santissima Casa di Loreto”. Ulteriori importanti informazioni le fornisce l’Anonimo Forlivese che scriveva agli inizi del ‘600. Afferma infatti che la maggior parte degli abitanti di quel castello erano scalpellini ”in grado di fare bellissime cose di pietra dolce: porte, finestre, camini, ornamenti d’altare ed altre cose con intagli e statue molto belle che non solo vanno in molti luoghi dello Stato, ma anco fuori in lontanissime parti”. Ecco i nomi delle famiglie dei mastri scalpellini: Almerici, Anniballi, Ascani, Bettini,Bottone, Elisi, Fabbri, Fabbri, Fiorani, Giorgi, Lana, Lombardo, Passarini, Rossi, Trappola. Alcune di queste famiglie erano divise in più rami, tutti comunque addetti all’arte la-
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picida. Tra i tanti un episodio singolare da raccontare risalente alla metà del Cinquecento che evidenzia la bravura raggiunta da questi artisti. Il duca Guidobaldo II Della Rovere aveva eretto una splendida cappella nel santuario di Loreto. Mancavano le opere ornamentali che voleva realizzare con pietra bianca finissima rinvenuta nel letto del fiume Metauro. Bisognava dunque rivolgersi ai migliori artisti dell’epoca, che erano i Trappola di Sant’Ippolito. Peccato che i cinque membri di questa famiglia erano stati condannati a morte per omicidio. Il duca fece sospendere la pena e li inviò a Loreto. Al termine della loro fatica il nuovo duca d’Urbino Francesco Maria II li graziò. La indiscussa bravura artistica salvò loro la vita mentre a noi ha consegnato un capolavoro di grande raffinatezza. A partire dagli ultimi decenni del ‘600 l’arenaria cominciò ad essere via via sostituita dal marmo. Pur non avendo sul posto cave di questo materiale, i nostri scalpellini furono talmente abili che riuscirono ad inserirsi anche in questo
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nuovo settore artistico con ottimi risultati. Inizialmente i marmi furono reperiti saccheggiando quelli delle città romane di Forum Sempronii e Suasa, poi direttamente prelevati da Venezia e Ancona. La città lagunare, dove avevano dei propri agenti, era un emporio fornitissimo. Pietre delle più diverse specie venivano caricate su barconi che approdavano al porto canale di Pesaro. Grandi navi con preziosi marmi partivano anche da Genova con il verde di Susa e passando per Messina, caricavano diaspro e agata, per giungere prima in Ancona poi a Pesaro. Per prelevare questi marmi gli scalpellini inviavano dei grandi carri o i birocci dei loro contadini nel porto pesarese e, ritornati in paese, scaricavano i materiali nei vari laboratori. I mastri scalpellini di questo periodo erano veri e propri imprenditori come Gian Andrea Ascani. Egli organizzava tutte le fasi della lavorazione avendo rapporti con grandi artisti dell’epoca come il famoso canonico-artista pesarese Gian Andrea Lazzarini. Senza sosta partecipava infatti a gare
I tagliapietre del castello erano i più richiesti Cinque fratelli accusati di omicidio si salvarono per la loro bravura
Nelle immagini alcuni eccellenti lavori di Natalia Gasparucci prima donna scalpellino e Filippo Ferri In alto una veduta di Sant'Ippolito
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Oggi a Sant’Ippolito è attiva la bottega di Natalia prima donna scalpellina che ha rilanciato la tradizione
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o aste per procacciarsi nuovi lavori confidando sulla propria bravura e onestà. ”Le mie opere le decantano per tutta la Marca, e in moltissime altre città” scriveva orgogliosamente l’otto settembre al Lazzarini, che sapeva anche dei lavori inviati in Romagna e in Emilia. Sempre l’Ascani nel 1770 ricordava in una sua lettera che “da circa 18 anni sono in mia bottega di continuo 35 uomini”. Altro dato interessante è che l'ovvia concorrenza esistente tra le varie botteghe veniva a cadere quando si stabilivano rapporti di collaborazione per grandi lavori, come per il duomo di Rieti. L’elevato numero di lavoratori del marmo aumentò in modo considerevole la popolazione del castello. Si trattava di un lavoro a catena di tante braccia che scorreva sotto l’occhio vigile del Mastro. Verso la metà del '700 giunse un altro materiale a sostituire l’arenaria: il gesso, nel quale i Santippolitesi ebbero ugualmente successo. E’ in questo periodo che nel borgo inferiore del paese vennero eretti i grandi palazzi delle ricche famiglie di scalpellini (Ascani, Elisi, Guerra), mentre quelli dentro il castello purtroppo sono scomparsi. Per meglio comprendere la mole di lavoro svolta in queste botteghe basti ricordare che più della metà veniva commissionato dai vari ordini religiosi e dalle numerose confraternite. Questa attività cominciò inesorabilmente ad entrare in crisi nel corso dell'Ottocento dopo le varie occupazioni e soppressioni dando inizio a migrazioni verso altre città. Se ne andarono quasi tutti. All’inizio del Novecento il Vernarecci
fotografava così la desolante situazione del paese: ”Oggi le cave della bellissima arenaria di Sant’Ippolito giacciono inoperose per manco commissioni, e ancora per le tasse, con cui lo stato affligge e snerva ogni tentativo di industria nazionale”. Quanti erano rimasti lavoravano “per così dire in senso commerciale non certo artistico”. Realizzavano cioè “pile, acquai, soglie di porte e di finestre, lastre per gradini, formelle da pavimento”, tutto in pietre delle Cesane. Oltre agli abbeveratoi, alle lastre per forni e all’arte funeraria. Gli ultimi superstiti di quell’antica tradizione nel 1900 erano meno di una decina. Durante il XX secolo l’attività cessò del tutto. Oggi in paese è attiva la bottega di Natalia Gasparucci, prima donna scalpellino, che trent’anni fa ha rilanciato l’attività degli antenati. L’artista ha saputo riproporre, rinnovandoli, i motivi tradizionali delle immagini sacre, come la Madonna di Loreto. Al suo attivo ha anche molte altre opere, tra cui grandi statue sparse in varie località della regione. Ma altri due giovani si stanno anche loro affermando, Filippo Ferri e Carlo Battistoni. L’arenaria, anche se non è più quella del territorio, torna ad essere lavorata. Risorge una tradizione ultrasecolare che pareva per sempre scomparsa. Lassù in tanti ne saranno felici. Il Mutas (Museo del Territorio e dell’Arte degli Scalpellini), in via di completamento, attende la sua inaugurazione. E’ un doveroso omaggio al glorioso passato che ha reso davvero grande questo piccolo paese delle Marche. ¤
Il ricordo
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Luni “o professore mio professore” ARCHEOLOGO MA ANCHE UOMO DI GRANDE UMANITÀ
S di Oscar Mei
L'archeologo Mario Luni con i suoi allievi e colleghi libici nel tempio di Demetra
ono passati ormai quattro anni da quando Mario Luni ci ha lasciato, quel 12 luglio del 2014, nello stesso momento in cui noi allievi stavamo riportando alla luce il tempio più importante nell’area forense di Forum Sempronii, la città romana che proprio lui aveva iniziato a scavare nel 1974 e a cui si sentiva indissolubilmente legato. La considerava infatti una parte di sé, tanto da scegliere proprio Fossombrone come luogo della sua sepoltura, e Fossombrone lo ha ripagato ospitando l’urna con le sue ceneri nel famedio comunale, proprio a fianco del monumento in onore di
Mons. Augusto Vernarecci, storico e archeologo locale, considerato l’iniziatore della moderna ricerca archeologica a Forum Sempronii. Luni ha dedicato tantissimo tempo e tantissime pagine all’archeologia delle Marche, occupandosi in primo luogo della via consolare Flaminia, ma anche degli approdi greci in Adriatico, della topografia e urbanistica delle antiche città di Ancona, Fanum Fortunae, Pisaurum, Urvinum Mataurense, dei bronzi di Cartoceto di Pergola, e tanto altro ancora. Ma il suo nome non era legato solo alle Marche, il suo cuore batteva soprattutto per una terra si-
Il ricordo
Luni ha dedicato tanto tempo e pagine all’archeologia delle Marche Si sentiva legato all’area di Forum Sempronii
Sopra, Luni a Cirene nel tempio di Cibele Al centro pagina, foto di gruppo dell'archeologo nel tempio di Demetra A destra, alcune sculture appena portate alla luce nel tempio di Cibele
40 tuata al di là del mar Mediterraneo, la seducente Libia, dove ha lavorato per quasi cinquant’anni a partire dal 1968. A Cirene ha dedicato i suoi sforzi maggiori e ha lasciato indelebile memoria della sua attività, soprattutto in qualità di Direttore della Missione Archeologica Italiana dell’Università di Urbino dal 1996 al 2014. Moltissime pietre antiche dell’unica e maestosa colonia greca in terra d’Africa portano impresso il suo nome, in quanto sono state portate alla luce, studiate e valorizzate grazie al suo intervento: basti pensare al Ginnasio ellenistico-Caesareum, al Santuario dei Dioscuri, all’area sacra libya di Slonta. Ma, soprattutto, il simbolo della sua attività archeologica in Libia è il grandioso Santuario di Demetra: 5 ettari di estensione, che ne fanno uno dei più grandi santuari greci del Mediterraneo, un propileo monumentale di accesso, un portico conservato fino al soffitto, un altare, edifici sacri, recinti per animali, un teatro scavato nella roccia e infine un tempio dorico esastilo risalente all’inizio del V secolo a.C. Il Santuario di Demetra rappresenta sicuramente il culmine della sua carriera e un fiore all’occhiello dell’archeologia italiana all’estero. Le colonne della cella del tempio, risollevate dai tecnici e archeologi urbinati sotto la sua direzione, svettano oggi sul colle di Baggara, come i locali chiamano l’area delle rovine, e rappresentano uno dei punti panoramici più belli e più amati del sito archeologico di Cirene, soprattutto al tramonto, quando il sole filtra tra i fusti slanciati del colonnato e ammanta di rosa le pietre calcaree del monumento. Ma Libia non è solo Cirene, negli ultimi anni in particolare Luni aveva dedicato
molto tempo allo studio e ad un progetto di restauro dell’Arco di Marco Aurelio e Lucio Vero a Tripoli; la fase preparatoria era stata completata nel 2010 ed era tutto pronto per iniziare i lavori di restauro nella primavera del 2011, ma un’altra “primavera”, quella araba, arrivò a seminare distruzione in quella terra bellissima, rivelandosi purtroppo un tragico “autunno”. Questo mal d’Africa di cui “soffriva” lo ha poi inevitabilmente trasmesso a tutti i suoi allievi, che lo hanno seguito per anni nelle missioni in Libia e che da lui hanno imparato tanto, sia dal punto di vista professionale, sia da quello umano. Avere lui accanto, in quel paese sconosciuto ai più e così diverso dalla nostra quotidianità, voleva dire anche sentirsi protetti, e non solo per la sua proverbiale mole. Aveva il dono innato di saper tranquillizzare anche la persona più insicura con quella calma
Il ricordo
e pacatezza che nulla sembrava poter scalfire e con la straordinaria capacità di reagire alle avversità sempre con buonumore e con ottimismo. Davanti agli ostacoli vedeva sempre il bicchiere mezzo pieno, sapeva volgere a proprio favore anche le situazioni a prima vista più ostili, e riusciva a trasmettere questa sua fiducia anche agli altri, persino negli anni della sua malattia. Con noi allievi, anche con i collaboratori più stretti, ha sempre mantenuto il “lei”, probabilmente in ossequio ad una prassi e ad una tradizione universitaria a cui era molto legato; questa sorta di schermo esteriore però non impediva che trapelasse comunque l’affetto che provava per noi. Solamente in alcune situazioni, quando era particolarmente euforico per delle scoperte importanti ad esempio, d’istinto usciva fuori il “tu” e allora la distanza tra noi diminuiva. Non dimenticherò mai l’ultima
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telefonata che mi fece alle 10 di sera del 5 luglio 2014: aveva un atteggiamento più affettuoso del solito, percepibile dal tono di voce e dalla scelta delle parole con cui si rivolgeva a me. Mi ha dato le ultime indicazioni sullo scavo che era in corso, mi ha chiesto di occuparmi degli altri ragazzi, di dare loro le varie mansioni, abbiamo parlato come sempre di problemi archeologici, di Libia e di Sicilia e sembrava non voler più chiudere il telefono. Nulla lasciava presagire quello che sarebbe accaduto solo una settimana dopo e non sembrava un uomo consapevole del proprio imminente destino, quale in realtà era, ma lo avrei saputo solo in seguito. Se oggi ho un rimpianto, è quello di non aver continuato quella lunga telefonata per qualche altro minuto…. Mi piace chiudere questo breve ricordo del mio Professore (ci sarebbe un libro da scrivere per contenere
Ha lavorato per 50 anni anche in Libia diventando protagonista di importantissimi ritrovamenti
Il ricordo
Ha trasmesso il suo “Mal d’Africa” a tutti gli allievi che lo hanno seguito reagendo alle avversità con ottimismo
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tutto quello che ho vissuto e imparato insieme a lui, e forse un giorno vedrà la luce, come tra l’altro era suo desiderio) con le parole che ho pronunciato il giorno del suo funerale, nella Chiesa di San Bernardino di Urbino: “Non farò menzione della sua attività scientifica, che è nota a tutti e di cui ci sarà tempo e modo in futuro di parlare. Non dirò che era un uomo perfetto, perché non lo era, come tutti, e aveva molti difetti, come noi del resto. Lascerà un vuoto immenso nella famiglia, nella comunità scientifica, in noi suoi allievi, paragonabile alla sua stazza fisica. Ci mancheranno i suoi sorrisi, le sue frittate da 24 uova, le visite allo scavo fatte da mezzogiorno alle tre del pomeriggio, i suoi post-it gialli, che noi chiamavamo i “pizzini”, le “confessioni” notturne nello studio di Parisia o a Casa Frigerio (sedi a Cirene della Missione Italiana, n.d.a), i suoi SMS alle 4 di notte, il suo modo “sportivo” di guidare, la sua gestualità, il modo in cui ci tranquillizzava di fronte ai problemi, la sua manona stretta sulle nostre spalle, e tanto altro ancora. Negli ultimi mesi era diventato più pensieroso, più fatalista ma, sembra strano a dirsi, sembrava anche più sereno. Era inoltre più affettuoso nei confronti di noi allievi, erano piccoli gesti, un lieve cambiamento nel tono di voce, qualche parola in più, cose di cui magari chi non lo conosceva bene poteva non accorgersi, ma invece molto cariche di significato per noi. Mi viene in mente
un episodio particolare: il 10 maggio avevo un importante evento a Macerata Feltria, la mia prima esperienza da direttore di scavo, e tenevo molto alla sua presenza. Con un sms la mattina stessa mi avvertì che non poteva venire perché aveva fatto tardi la notte per ultimare un articolo ed io ci rimasi molto male, avevo bisogno di lui e non risposi al messaggio. Ad un certo punto lo vidi comparire là, quando stavo proprio dicendo agli altri relatori che aveva avuto un imprevisto. Ci guardammo per un attimo negli occhi e accennammo un sorriso: non ci dicemmo niente ma ci eravamo detti tutto. Il professore se n’è andato sabato notte. Il Vangelo della domenica riportava, per caso direbbe qualcuno, ma io ho imparato da tempo a non credere al caso, la parabola del seminatore. Quante volte mi ha detto: «bisogna seminare per raccogliere; questo è il tempo della semina; ha seminato in questi anni? Ora è il momento di raccogliere…» e così via. Me lo ha ricordato ancora una volta, così, attraverso il Vangelo. Non è esagerato dire che è stato per me come un secondo padre. Da sabato mi sento un po’ più grande e ho le spalle un po’ più larghe; soprattutto grazie a lui. E, per quanto sarà nelle mie possibilità, farò di tutto, tutti noi allievi faremo di tutto, insieme, perché quello che lui ha seminato non vada perduto o disperso. E parafrasando le sue parole mi piace concludere dicendo: “E questa è la vita”. Ad maiora! Grazie Maestro.” ¤
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La malia di El-Fayum nei ritratti di Moschini FORTE INFLUENZA DELL'EGITTO NELLE OPERE DELL'ARTISTA
C di Laura Cavasassi
L'artista Roberto Moschini nel 2007 mentre disegna all'interno del museo egiziano del Cairo
i sono sensibilità così fini e intense che hanno la potestà di entrare nei meandri della altre culture e immedesimarvisi come se fossero la propria. E’ ciò che accade a Roberto Moschini. Quando nell’anno 2008 il grande archeologo Mario Luni portò nella città di Fossombrone la Vittoria di Kassel volle coinvolgere anche Roberto Moschini, di cui conosceva il forte segno artistico: ne nacque da parte del Maestro un’opera scultorea, un trittico, che rendeva omaggio all’evento. Quando nel 1997 Roma ospitò la Mostra dei ritratti provenienti da El-Fayum, gli appassionati di cose antiquarie ed egizie, in particolare, conobbero il fascino di opere che in
Egitto, sino all’epoca ellenistica si aveva in uso di tributare ai defunti. In quell’occasione Roberto Moschini sentì profondamente la magia e la potenza che emanavano dai quei volti e volle cimentarsi con quella espressione pittorica, per la quale volti di uomini-donne-fanciulle e bambini,
agghindati con ogni cura nei capelli, con preziosi gioielli che li adornano, si preparavano adeguatamente al momento del trapasso dalla vita terrena all’immortalità. Questi ritratti hanno tutti un’aria di famiglia, perchè venivano realizzati parzialmente durante la vita del protagonista e poi completati nei particolari quando era il tempo di porli accanto al defunto per accompagnarlo nelle sue “nozze” con la terra. Anche se iconicamente ci ricordano l’arte bizantina, questi ritratti ritrovati a El-Fayum sono contrassegnati da un realismo intenso che esprime austerità e mestizia allo stesso tempo nei loro grandi occhi, il cui sguardo non è attratto dalla dimensione metafisica ma è tutto proiettato verso la realtà terrena che stanno per lasciare. Moschini ha percepito fortemente questa realtà artistica sino ad immedesimarsi e a riprodurla; mutuando le parole di Mario Luni, scritte per la presentazione dei ritratti di Moschini, si può affermare “che questi rappresentano moderne opere d’arte che danno continuità a quelle di El-Fayum attualizzandole con la stessa profondità artistica che le pervade e piene di antica vita”. I ritratti di Moschini sono stati realizzati, per lo più, al Cairo, al Museo Egizio tra il 2007 e 2008, comprese le cornici fatte da un artigiano di Shoubra, perché in questo modo ha potuto disegnare dal vivo assorbendo le emozioni vitali e l’aura del luogo, dopo aver trascorso un’intera giornata all’oasi ElFayum. L’efficacia della resa pittorica di questi volti è tale che risulta come se Moschini prendesse per mano i modelli di questi ritratti del passato
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I ritratti ritrovati nella città egiziana vengono attualizzati in modo potente e suggestivo nelle opere di Moschini
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per ricondurli all’attualità attraverso tipi reali di amici egiziani. Seguitando sulla stessa linea mi sembra significativo inserire in questo fascicolo dedicato a Mario Luni e Robero Moschini che lo esalta la presentazione che l’archeologo scrisse attorno all’avventura molto seria che l’artista intraprese avvicinandosi da Maestro all’esperimento dei ritratti di El-Fayum, unitamente alla poesia Avvenimento amaro che Moschini ha voluto dedicare a Mario Luni per la sua scomparsa. Presentazione dei ritratti di El-Fayum Da Mario Luni E’ da un sogno ispiratore che inizia questa innovativa esperienza artistica pittorica suscitata dai ritratti ad encausto di El-Fayum del Maestro Roberto Moschini. Si tratta di una tecnica di “pittura a fuoco” che proviene dall’antico Egitto e che ha avuto successo nella Grecia classica ed in Italia, in età ellenistica e romana. Le notizie tramandateci da Plinio il Vecchio (Naturalis historia) e da Vitruvio (De Architectura) hanno coinvolto nelle epo-
che successive grandi pittori quali Leonardo ed altri artisti fino ai nostri giorni; essi tendevano soprattutto al recupero di questa tecnica pittorica, riconosciuta in opere emblematiche, quale ad esempio nei colori a cera usati nel sarcofago in legno di Tutankhamon e nelle centinaia di ritratti su tavolette di legno che raffiguravano il volto di defunti mummificati in tombe nell’oasi di El-Fayum. L’opera di sperimentazione e creativa di Roberto Moschini non si lascia irretire soltanto dalla suggestione potente dei vivi colori diluiti con cera fusa, che hanno resi famosi i circa seicento ritratti dei primi secoli dell’impero rinvenuti fin ora; intensa infatti risulta la sua tensione emotiva nel cercare di comprendere gli aspetti più profondi insiti nelle singole “immagini”. Inizia da qui la sfida pittorica “di un incontro metafisico” con modelli reali di amici egiziani. Un percorso artistico questo che porta alla mente una analoga esperienza vissuta dal giovane De Chirico in Libia agli inizi del novecento, quando gli archeologi italiani iniziavano a scoprire statue romane a Leptis Magna e la“Venere” a Cirene; anche qui la potenza dell’opera d’arte antica stimola profondamente l’artista e diventa occasione di partenza che rifluisce raffigurata in moderne pitture di carattere metafisico. Roberto Moschini nel suo percorso di ricerca abbandona l’encausto e la tempera che ha utilizzato in altre precedenti esperienze artistiche, e si dedica con passione a felici sperimentazioni ulteriori, sia nell’uso sapiente dei colori, sia dei materiali di supporto, passando talvolta con estrema finezza dal disegno al leggero rilievo e combinando con successo tecniche diverse per rendere espressive e vive le nuove realizzazioni artistiche. Il risultato è stato quello di “attualizzare” in modo potente e sug-
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Poesia di Roberto Moschini per Mario Luni Avvenimento amaro
Addio amico addio archeologo. Apparve ad articolare antiche aree abbandonate. Alzasti architetture abbattute agli antenati, artefice ardimentoso, aperto all’ascolto attratto all’armonica anatomia architettonica, apprezzasti anche attuali avventure artistiche, affascinato all’arte, anima assoluta.
Roberto Moschini
gestivo i ritratti di El-Fayum, evadendo anche dalle regole della tradizione, con l’incidere a rovescio i soggetti su fogli bianchi e poi su fogli neri per realizzare così un rilievo. Nel meditato percorso artistico innovativo si è poi usata anche la tecnica del “monotipo ad olio”, secondo la tradizione di secoli precedenti. Questa “fantastica avventura” del Maestro Roberto Moschini era già iniziata con il primo contatto nel 1997 con la Mostra a Roma di ritratti di ElFayum e poi proseguita con visite ad altri Musei, da ultimo quello del Cairo nel 2008, traendo “emozioni vitali”, unitamente alla moglie egiziana Aicha. La singolare esperienza della
ritrattistica della tradizione dei pittori di El-Fayum, dove gli artisti hanno raggiunto una straordinaria “interpretazione del vero” è stata vissuta con intensa interiorità dal Maestro soprattutto come capacità di rendere nel ritratto il vero sentire, caratterizzato in vari modi “con una partecipazione che affascina e commuove”; talvolta sono presenti fiori, anch’essi rinvenuti in tombe presso l’oasi usati come modello per le moderne realizzazioni artistiche, dove l’azzurro è introdotto in modo originale. Il documento archeologico e la moderna opera artistica si fondono in definitiva in un riuscito e sapiente abbraccio ideale, di sottile e coinvolgente impatto emotivo. ¤
Luni elogia Moschini nella sua sfida pittorica vissuta con intensa interiorità e tensione emotiva
In alto a sinistra, I due fratelli cartonnage su tavola pellet e acquarello; sotto, Hierak, Acquarello su tavola; qui sopra in alto, L'europea e subito sotto Ritratto di donna su tavole dipinte in acquarello
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Mantegna e Bellini due giganti a confronto
U Nelle esposizioni di Londra e Berlino anche la Testa di Battista di Marco Zoppo su cui si ravvisano le mani del Bellini
Qui sopra, il Cristo deposto e in alto la Testa di Battista che da Pesaro hanno preso temporaneamente la via di Londra e Berlino
na delle mostre più importanti di questa stagione. Due giganti del Rinascimento a confronto: Andrea Mantegna e Giovanni Bellini. Due sedi espositive di primo piano, la National Gallery di Londra e poi alla Gemaldegallerie di Berlino. Un percorso espositivo in cui migliaia di visitatori potranno ammirare anche la Testa di Battista e il Cristo deposto di Marco Zoppo. Le opere torneranno a Pesaro a luglio 2019 e sono state assicurate per 1,4 milioni di euro, ma sarà anche un’occasione per risolvere un mistero sulla paternità del quadro della testa del Battista. Nuovi studi diranno se dietro c’è la mano del celebre Bellini o quella di Marco Zoppo. Una diatriba su cui lo storico dell’arte Giovanni Villa interviene anche alla luce del prossimo catalogo ragionato su Bellini che uscirà entro l’anno edito da Zel e che lo vede coautore assieme a Mauro Lucco e Peter Humfrey. “Si tratta di un dubbio di paternità aperto da Pallucchini nel 1952 – spiega Villa – la pala dello Zoppo “Madonna con bambino e santi”, realizzata a Pesaro e ora conservata a Berlino ha offerto degli spunti interessanti. Pallucchini si chiede se Zoppo abbia guardato a Bellini o viceversa. Un tema
ripreso da Conti durante un convegno a Cento. A giudicare dalle date la pala dello Zoppo è del 1471 mentre la Sacra conversazione del Bellini è databile al 75. Ma esisteva una pala perduta in cui Bellini aveva già dipinto la stessa idea compositiva di raggruppamento dei Santi attorno alla Vergine. Dunque è Zoppo che segue modelli belliniani e anche la Testa del Battista è da ascrivere al lavoro di Marco Zoppo”. Motivo per cui nel nuovo catalogo ragionato, il primo dedicato a Bellini, un’opera omnia da 600 pagine, la Testa del Battista non figura tra le 192 opere schedate. Per la pala di Pesaro saranno dedicate 25 cartelle e oltre 300 voci bibliografiche mentre per l’altro dipinto conservato a Pesaro, il Dio Padre 5 cartelle e 38 voci bibliografiche. Ma qui Villa sottolinea: “E’ sicuramente una parte di un’opera più grande perché sul retro ci sono due assi di pioppo orizzontali e dunque sono il culmine di una pala di altare. Il dato tecnico è molto interessante perché ancora oggi si vedono le impronte digitali di Bellini che ha voluto spalmare il colore per cancellare i segni del pennello e restituire una fusione tonale più morbida delle cromie. Un lavoro eccezionale”. l.b.
Il dopo sisma
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Tre ragazze e il colore ridanno vita al museo COME IL “PIERSANTI” DI MATELICA HA VINTO IL TERREMOTO
C di Maria Francesca Alfonsi
i sono storie cha vanno raccontate, perché fa bene sentirle. Trenta ottobre di due anni fa, 2016, 6,5 scala Richter, la scossa più violenta delle migliaia e migliaia nel tormentato triangolo appenninico del Centro Italia, a cavallo tra i monti Sibillini e della Laga Laga, e dunque Lazio, Umbria e soprattutto le Marche, le più colpite, il 60% del vasto cratere. Devastazioni ovunque, le vite, le case, la memoria, gli affetti di decine di storici borghi. Così fino alla media collina maceratese. Così anche a Matelica - le radici nei Piceno, un grande verdicchio e amatissimo luogo di nascita di Enrico Mattei. Matelica dove, tra le ferite, c'è anche quella di Palazzo Piersanti: edificio quat-
trocentesco, nel Settecento di un grande gentiluomo d'arte, la cui collezione attraversava superba i secoli, fino a diventare museo cittadino ma di proprietà diocesana. Sapete come sono considerati i musei, tanti musei: noiosi anfratti polverosi dove andare obbligati con la scuola quando si è pischelli, far finta di stare a sentire e poi darsela a gambe. Così era vissuto anche il Piersanti, che pur - nelle laterali Marche - di bellezza ne ha sempre contenuta tanta. Epperò quando il trenta ottobre di due anni il cortile interno si riempì del campanile della cappellina ormai macerie, i muri, architravi e soffitti del piano nobile sussultarono, e a terra caddero ceramiche, busti, sculture, quel trenta ot-
Il dopo sisma
Valentina, Giulia e Angela con la loro opera e tanta passione hanno permesso la riapertura del museo
48 tobre tre ragazze decisero di non potevano restare a guardare, che non potevano accettare la obbligata chiusura. Valentina architetto, Giulia storica dell'arte e Angela restauratrice - 28, 30 e 32 anni, volontarie del museo - aiutate dalla Protezione Civile, in poco più di un mese hanno smontato il museo, hanno messo altrove in sicurezza oltre duemila opere, le hanno fotografate e ricatalogate. Così, con testarda e giovanile splendida fretta. Intanto il Piano Nobile veniva messo in sicurezza. Poi, qualche mese dopo che era già primavera, è arrivata un'idea: il piano terra poteva essere agibile con qualche accorgimento. Ecco: poche stanze, poche opere, ma il Piersanti si poteva riaprire. Al lavoro sempre loro Valentina, Giulia e Angela, loro il nuovo allestimento di quelle cinque stanze dove da, luglio 2017, si celebra senza sosta la colorata primavera del Piersanti, la sua rinascita. Già, non solo perché è tornato a tutti visibile il magnificente Crocifisso di Antonio
da Fabriano, 1452, la potente struttura fisica, teso come una corda di violino, i lustri fiamminghi portati da lui fin a Matelica; e non solo perché sono di nuovo a tutti visibili la Madonna di Costantinopoli col Bambino e i sette Santi, 1460, di Jacopo e i figli Gentile e Giovanni Bellini, inizio del grande Rinascimento, e il trittico splendente della Madonna in trono del Maestro di Brancaccio, o il magico Lorenzo d'Alessandro. Così la polvere si è scrollata dal ritratto di Venanzio Filippo Piersanti - cerimoniere papale, collezionista cui il palazzo deve il nome - ritratto fino a due anni fa di incerta firma, e ora finalmente attribuito a Sebastiano Conca, barocco romano di cui non si conoscono altri ritratti. E poi ci sono il Guercino, Barocci, Spadino e altro, nonostante siano solo poche ancora liberate dal sisma. Già, ma non solo - scrivevo - a quella bellezza ritrovata si deve la primavera del Piersanti. "Avevamo notato - mi racconta Alessandro Delpriori, storico dell'arte e sinda-
Un patto per ricostruire i borghi delle Marche
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n grande cantiere. Anzi. Quando verrà aperto, sarà, probabilmente, il più grande cantiere d’Europa; coinvolgerà gli 87 comuni marchigiani colpiti dal terremoto, un quarto della popolazione residente nelle Marche, ma di fatto riguarderà l’intera regione. Sono gli obiettivi del Patto per la Ricostruzione e lo Sviluppo messo a punto a due anni dal sisma che sconvolse le Marche, sisma che investì anche Umbria, Lazio e Abruzzo. Frutto di un atto di indirizzo approvato dal Consiglio regionale con il quale si è dato mandato alla Giunta di mettere a punto un documento progettuale com-
plessivo da presentare al Governo nazionale e all’Unione Europea. Terminata la fase dell’emergenza e della prima sistemazione adesso è arrivato il tempo di ricostruire. Alcune cifre ci aiutano ad inquadrare il fenomeno che ha sconvolto l’Italia Centrale. Dalla prima, violenta, scossa della notte del 24 agosto del 2016, la terra ha tremato almeno altre 90 mila volte; nuove, forti scosse ci sono state in ottobre e nel gennaio dell’anno successivo. Particolarmente pesante il bilancio delle vittime: 299 complessivamente; 51 nella sola nostra regione; decine i feriti. E ancora: 30 mila gli sfollati nelle
Marche; decine di migliaia gli edifici, i luoghi di culto, le attività produttive andati distrutti o gravemente lesionati. Qualcuno (le Università marchigiane, ma anche Nomisma, Symbola, Fondazione Merloni, Censis) pensando alla ricostruzione di quei territori e a quei borghi feriti, ha evocato immagini quasi oniriche e comunque sicuramente suggestive, parlando di sentieri e tribù dell’Appennino da sostenere e preservare, mettendo al centro il bosco non solo come bene naturale o luogo dello spirito, ma come punto di riferimento per un nuovo
Il dopo sisma
co di Matelica - che i bambini per raccontare il terremoto lo disegnavano grigio e marrone. Allora abbiamo pensato: ci serve colore, tanto colore. Così, quando Valentina-Giulia-Angela hanno riallestito il Piersanti, al Comune di Ferrara che ci voleva aiutare abbiamo chiesto in regalo anche ombrelli colorati". Ombrelli di tutti i colori vivaci - mancano però grigio, nero, bianco, marrone - che vi accompagnano dall'ingresso al rinato cortile del Piersanti, che è diventato la nuova piazza di Matelica, il luogo degli affetti della città: ci si va a incontrare gli amici, a sentire un concerto ma anche a festeggiare un compleanno. I matelicesi si sono accorti di quanto sia ricca quella casa museo - i cassetti ancora pieni di preziose stoffe e ricami secolari Gino alle grandi cucine in cui il tempo si è aristocrati-
49 camente fermato. Le macerie hanno soffiato via la polvere, appunto. Tant'è che, messo in sicurezza lo scalone, pur chiuso il piano nobile, si sale ora fino al secondo piano. Dove - fino al 4 novembre - è da visitare la mostra sul Duecento, quello stile che non è più romanico e non ancora gotico, singolare momento storico - spiega il curatore Fulvio Cervini - in cui il linguaggio figurativo mutua le forme espressive verso il naturalismo plastico, nuovi stili in tutte le forme d'arte. Salite lassù per restare stupiti e - tra scultura, oreficeria, pittura - comprendere il non senso della eterna divisione centro- periferia. A cominciare dal monumentale Crocifisso del Maestro di Sant'Eutizio -1160 - " un albero che si è fatto Dio", scrisse - quando lo vide a Matelica, nel 1913 - Lionello
Nelle pagine, le preziose opere raccolte e in esposizione nel museo Piersanti edificio quattrocentesco di Matelica
sviluppo di quei luoghi così duramente colpiti. “L’obiettivo - sono parole del presidente della Regione, Luca Ceriscioli – resta, comunque, lo sviluppo e il rilancio delle comunità terremotate, ma l’impegno tocca e coinvolge inevitabilmente tutto il territorio marchigiano.” Dunque, un Patto nato attorno ad un “tavolo” di concertazione, allestito dall’Istao, l’Istituto “Adriano Olivetti”, realtà re-
gionale di eccellenza nel campo dell’economia applicata, tavolo attorno al quale si sono ritrovati, per portare un contributo di idee, tutte le principali “voci” della società marchigiana (gli enti locali, le rappresentanze sindacali e imprenditoriali, i quattro atenei, fino alla conferenza episcopale regionale). Un percorso impegnativo, ma estremamente proficuo che si è articolato su alcuni ambiti identificati come cruciali (svi-
luppo economico; territorio, ambiente-infrastrutture; servizi educativi e socio-assistenziali; sostenibilità amministrativa e governance) che ha portato alla messa a punto di 134 progetti concentrati poi in 94, cantierabili per un impegno finanziario di poco meno di 1,8 miliardi di euro, capaci di creare circa 10 mila nuovi posti di lavoro. “Il risultato strategico – ha commentato il presidente del Consiglio regionale, Antonio Mastrovincenzo – è quello di dare un’anima alla ricostruzione secondo tre linee: lo sviluppo sostenibile, il lavoro di qualità, la coesione sociale della comunità.” Dicevamo dei 94 progetti elaborati e su cui si è tro-
Il dopo sisma
Sono tornate visibili tante opere importanti e il cortile è diventato una nuova piazza Il sindaco Delpriori: «Noi marchigiani siamo testardi»
vata una identità di vedute. Ne citiamo solo alcuni. Si va dalla diffusione, capillare, della banda ultra larga, allo sviluppo e alla innovazione della foresta e del legno, dalla “green economy” alla valorizzazione del patrimonio storico e culturale e delle potenzialità turistiche. E ancora. La promozione di un polo tecnologico unico regionale emanazione delle università. Ma trovano posto anche: la rete museale dei Sibillini, le ciclovie, i cammini francescani accanto a quelli lauretani. “E durante le riunioni dei “tavoli” di lavoro – ha notato il presidente Istao, Pietro Marcolini – si è visto che c’era voglia di incontrarsi, di confrontarsi e di dialogare. Insomma di ritrovarsi uniti per
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Venturi, "ideale di bellezza suprema è sfuggente, all'incrocio tra naturalismo e astrazione". Attorno a quella forza, in mostra tenta opere di quello straordinario museo diffuso che è la dorsale appenninica, incrocio millenario di culture dall'Ille de France al Mediterraneo: dalle croci bronzee di Cortona e Fabriano alla Croce del Tesoro di San Francesco di Assisi, dalla testa della Vergine di Brera al San Cristoforo di Prato, dal salvato Crocifisso di Arquata del Tronto alla spettacolare lignea Madonna col Bambino dell 'Aquila, fino al Crocifisso tunicato di San Gimignano. "Possiamo, dobbiamo ricominciare dalla nostra bellezza"
fare squadra attorno ad un obiettivo strategico comune.” Dunque. Il Patto come unica strategia operativa capace di trasformare il sisma da grave problema ad opportunità di rilancio. Un progetto paradigmatico da offrire a chiunque, anche evidentemente fuori regione, a chi voglia, cioè, investire nello sviluppo delle aree interne montane.
dice Delpriori " sarà perché noi marchigiani siamo testardi, sarà perché teniamo alle nostre cose come fossero la cristalleria buona di famiglia, sarà che non c'era niente altro da fare e che non potevamo pensare che quella porta sarebbe stata chiusa troppi anni, ma è successo, ce l'abbiamo fatta. Abbiamo cerotti ovunque, ferite, ma siamo aperti e abbiamo un futuro. Nell'Appennino, di questi tempi è un lusso". Ah, dimenticavo: nel 2018 il Piersanti ha compiuto cento anni da museo, da quando è stato donato dalla famiglia. E infine: Valentina, Giulia e Angela, poco meno e poco più di trenta anni, sono ancora volontarie, speriamo ancora per poco. Loro hanno diritto al futuro, non solo a speranze. Grazie ragazze. ¤ Adesso il confronto (dopo la fase della presentazione dei risultati e la sottoscrizione con la firma dei rappresentanti degli enti e delle associazioni interessate, complessivamente 25 soggetti) si sposta nelle sedi istituzionali. Ad iniziare dall’aula del Consiglio regionale con l’obiettivo dichiarato, e a questo punto auspicabile, di una condivisione la più ampia possibile, per aprire, subito dopo, un confronto con il Governo nazionale e la Commissione europea. Così quei borghi, tanto carichi di storia, quei boschi popolati da fate, gnomi e folletti, scacciate le streghe cattive, potranno tornare a vivere. E con loro tutte le tribù dell’Appennino. Claudio Sargenti
La rassegna internazionale
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L’arte contemporanea interpreta i temi del ‘68 IL PREMIO SALVI DEDICATO AGLI ANNI DELLA RIBELLIONE
N di Federica Facchini
elle Marche è sicuramente una delle manifestazioni artistiche più longeve e rinomate il “Premio Giovan Battista Salvi” di Sassoferrato, che attraverso varie espressioni artistiche - dalla pittura alla scultura, dalla grafica alla fotografia ai progetti installativi, – ha sondato l’arte nazionale degli ultimi settantanni. Nata inizialmente come premio di pittura nel 1951 su idea di alcuni cittadini sassoferratesi per celebrare e fare conoscere una tradizione pittorica locale che inizia con Pietro Paolo Agabiti (1470 1540) e culmina con Giovan Battista Salvi (1609 - 1685) detto il Sassoferrato, famoso nella storia dell'arte per le stupende Madonne dislocate in tutto il mondo, la manifestazione, anno dopo anno, si è consolidata e ha continuato a costituire un importante punto di riferimento marchigiano. Giunta quest’anno alla 68ª
edizione, la Rassegna Internazionale d’Arte/Premio G.B. Salvi, (visitabile fino al 4 novembre - organizzata dal Comune di Sassoferrato con il contributo della Regione Marche, della Fondazione Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana e con il patrocinio dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” - continua a rispondere alla tradizionale finalità di promuovere iniziative rivolte in particolare alla valorizzazione dei giovani artisti, delle nuove tendenze e linguaggi stilistici, mantenendo comunque alto il livello qualitativo con sezioni dedicate ad artisti affermati. E il tema della manifestazione di quest’anno non poteva che essere il ’68, dal momento in cui ne ricorre il 50º anniversario. Singolare la coincidenza che sia proprio la 68ª edizione del Premio a ricordare l’anno simbolo di grandi cambiamenti sociali, culturali, di costume, etici e politici, attraverso il confronto di una visione artistica contemporanea con gli argomenti chiave di quel periodo storico. Curatore di quest’ultima edizione Riccardo Tonti Bandini, docente all’Accademia di Belle Arti di Macerata, il cui progetto è visibile e ancora visitabile nelle diverse sedi espositive dislocate nella bella Sassoferrato, annoverata tra i Borghi più belli d’Italia. Diverse infatti le sezioni che la Rassegna ospita: al Palazzo della Pretura (via Garibaldi, 18), si può ammirare la Sezione “Premi – Artisti in Concorso”, alla quale partecipano gli studenti delle Accademie di Belle Arti italiane - giovani artisti under 35 operanti nel
La rassegna internazionale
Nato nel ’51 il premio di Sassoferrato intende valorizzare giovani talenti e nuove tendenze dedicando sezioni ad artisti affermati
Nella pagina precedente, un'opera di Giuliano Vangi a Sassoferrato nel 2009 in occasione della sua mostra Omaggio In alto, il Bozzetto per la Resurrezione realizzato da Pericle Fazzini per la mostra del 2016 Qui sopra, al centro Vasco Bendini durante la rassegna del 2011 In alto a destra, Geografie Sospese allestimento di Michele Sereni nella chiesa di San Giuseppe Sotto, Trubbiani insieme a Antonio Maria Luzi anima storica del premio Salvi
territorio italiano - insieme alla sezione “Piccola Europa”, riservata ad invito, a giovani artisti delle Accademie Europee. Quest’anno gli italiani under 35 selezionati sono: Nicola Bizzarri, Ado Bradimarte, Kane Caddoo, Daniele Caggiano, Filippo Ciacci, Matteo Costanzo, Carmela De Falco, Arianna Maestrale, Elisa Mossa, Noa Pane, Dario Picariello, il collettivo Rgm, Valentina Sammaciccia, Sofia Solustri, Antonio Tolomeo, Pengpeng Wang. I giovani studenti europei invitati sono Svea Bischoff – Europa Universitat Flensburg, Germania, Lauren Curry – University of Salford, Inghilterra, Marko Dumnic – Fakultet likovnih umjetnosti Cetinje, Montenegro, Christina Kapetaniou – Aristotle University of Thessaloniki, Grecia, Izabela Kmiec – Academy of fine arts in Krakow, Polonia, Aleksandra Wilk, Panstwowa Wyzsza Szkoła Zawodowa w Tarnowie, Polonia. I tre lavori vincitori che ricevono premi in denaro resteranno di proprietà del Comune di Sassoferrato, andando arricchire la Collezione parzialmente allestita a Palazzo degli Scalzi. Nella stessa sede del Palazzo della Pretura è visibile anche una parte delle collaborazioni o sinergie, strette con altre realtà artistiche marchigiane: il Museo Omero di Ancona con cui si è cercato di rendere accessibili all’esperienza tattile alcune opere, e la Pinacoteca Civica di Jesi che, per l’occasione ha prestato un’opera di un artista emblematico del periodo in esame, Luigi Ontani. Spostandoci nella suggestiva cornice della Galleria d’Arte Contemporanea MAM’S a Palazzo degli Scalzi (piazza Gramsci), dove è allestita permanentemente parte della Collezione del Premio, si trovano altre sezioni dedi-
52 cate ai sodalizi che l’iniziativa sassoferratese ha stretto negli anni: quella con il Premio Edgardo Mannucci di Arcevia e quella con la FIAF, dedicata ai vincitori del “FacePhotoNews 2017”. Ma in questa occasione il Mam’S ospita anche una piccola esposizione dei lavori storici del ’68 provenienti dalla stessa Collezione del Premio Salvi. Collezione che è impossibile ammirarla in tutta la sua interezza dal momento in cui arriva a comprendere circa quattromila opere (tra pitture, sculture, grafiche, libri d'artista, medaglistica, ceramica, arazzi, ex-libris), tra quelle acquisite dal Comune e quelle donate dagli artisti partecipanti nel corso di sessantasette anni di storia della Rassegna. Di queste ne sono esposte solamente cinquecentoventi nella Galleria Regionale d'Arte Contemporanea (Mam’s) inaugurata solo nel 2014. Sempre al Mam’S anche gli artisti fuori concorso Renzo Marasca e Roberto Memoli. Nell’antico rione Castello, le sedi espositive della Chiesa di San Giuseppe e della Chiesa di San Michele Arcangelo, ospitano le personali degli altri due artisti fuori concorso invitati da Tonti Bandini. Nella Chiesa di San Giuseppe, Michele Alberto Sereni ci mette di fronte al nitido e intimo dialogo tra l’artista e la sua opera. In Geografie Sospese. La scena dell’immagine il fotografo racconta l’imminente istante tra l’opera d’arte e l’autore, in luoghi e momenti del circuito della grande arte contemporanea. Nella romanica Chiesa di San Michele Arcangelo c’è invece Nevio Mengacci con “Le radiazioni non toccano il suolo”. Qui l’intervento dell’artista è in rapporto con lo spazio e nasce dal dialogo tra la sacralità religiosa del luogo e uno spirito laico e antiromantico.
La rassegna internazionale
Se in origine il Premio Salvi fu una mostra quasi locale, già alla quarta-quinta edizione assunse fama nazionale, vantando tra i partecipanti nomi significativi dell'arte di quegli anni come Tamburi, Guttuso, Bartolini, Cantatore, Carnevali, Ciarrocchi, Fazzini, Muzio, Castellani, Cagli, Uncini. Anche i giovani più dotati facevano le prime esperienze, come Miele, Piacesi, Ricci, Gulino, Bompadre. In varie edizioni si sono dedicate sale-omaggio a movimenti d'arte contemporanea ormai storicizzati come la Pop art, l'arte metafisica, l'arte geometrica, la poesia visiva ecc. o messi a confronto gli artisti marchigiani con l'opera di artisti di altre regioni. Nel 2000 si è celebrata la 50ª edizione, sotto la direzione scientifica del prof. Armando Ginesi, dedicando due sezioni a Mirò e Picasso e una terza presentando un gruppo rappresentativo di opere provenienti dalla raccolta dei premi-acquisto della Rassegna
Salvi. Da allora si è orientati, ogni anno, nella presentazione di un grande autore in una sezione e nell'altra di un gruppo di giovani artisti. La stima che in tanti anni ha goduto la mostra sassoferratese, trova merito in Padre Stefano Trojani che dal 1957 l'ha coordinata con grande intraprendenza e intelligenza sino alla seconda metà degli anni '90. Dal 2001 è stato nominato Presidente Onorario e ha continuato a dare il suo contributo critico fino agli ultimi anni della sua vita. Una stima dimostrata non solo dagli artisti - amici e non – chiamati di volta in volta a partecipare ma anche dalla presenza ai lavori delle giurie di selezione e premiazione e dei più noti critici, sia marchigiani che di quelli operanti in campo nazionale, come: Achille Bonito Oliva, Pietro Zampetti, Franco Simongini, Andrea Emiliani, Elverio Maurizi, Giancarlo Politi, Francesco Carnevali, Mauro Corradini, Valerio Volpini. ¤
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I lavori vincitori restano a Sassoferrato andando ad arricchire una collezione che ormai può vantare circa quattromila opere
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I “guazzi” del Musone un prezioso habitat SONO SPECCHI LACUSTRI REALIZZATI PER LA CACCIA
N di Edoardo Biondi
Un esempio di specchi lacustri di piccole dimensioni in cui si evidenzia la presenza di anatidi diversi
el settore planiziale e alluvionale del tratto terminale del fiume Musone e del suo affluente Aspio, nei comuni di Recanati, Castelfidardo e Loreto si rinvengono limitati specchi lacustri che prendono il nome di guazzi. Si tratta di ambienti umidi artificiali, di piccole dimensioni, che sono realizzati e gestiti per scopo venatorio, qui come in altri siti alluvionali, subcostieri, delle Marche. I guazzi sono ecosistemi che svolgono inoltre un efficace ruolo di rinaturalizzazione del territorio poiché racchiudono specifici habitat, per piante e animali. I guazzi situati nella zona del Musone e dell’Aspio sono frequenti nel settore planiziale costituita da depositi alluvionali ghiaiosi, ghiaioso-sabbiosi e da lenti variamente estese di depositi fini limoso-sabbiosi e limoso-argillosi (Nanni, 1992). La morfologia della pianura costiera, posta in corrispondenza della foce fluviale del Musone, è stata profondamente modificata nel corso dell’era quaternaria. Durante l’Olocene, in particolare, alle dinamiche
naturali, condizionate dalle variazioni climatiche, si aggiunsero le conseguenze delle modificazioni del paesaggio indotte dall’uomo. Nell’Olocene Antico in corrispondenza della foce attuale del Musone, si formò un’ampia baia estesa per alcuni chilometri e separata da promontori con falesia viva. Alla fine dell’età del Bronzo di fronte alla baia, sul prolungamento della falesia costiera, si originò un cordone litorale instabile che determinò la formazione di estese lagune e paludi verso l’entroterra. Questo processo si verificò come conseguenza dell’arrivo di un forte carico solido provocato dalla distruzione della copertura forestale che innescò i primi processi di erosione del suolo (Coltorti, 1992). A partire dal 1100 la zona venne interessata da vistosi interventi antropici e intorno al 1200 si verificò una forte progradazione (modalità di deposito dei sedimenti parzialmente sovrapposti) della cimosa costiera mentre a partire dal 1400 e fino alla fine del 1800, la linea di costa subì un forte avanzamento. Fu proprio in
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La presenza dei guazzi confermata dall’esistenza di un’area acquitrinosa vicino a Castelfidardo
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questo periodo che si decise di bonificare le basse valli del Musone che, a causa del cattivo controllo delle acque che si era avuto fino a quel momento, già più volte si era occluso alla foce causando forti straripamenti. Il fiume, che ancora oggi ha un regime torrentizio, durante le piene stagionali, inondava frequentemente il tratto terminale del suo corso. Di tali bonifiche ci restano numerosi documenti storici e alcuni toponimi medioevali che richiamano a questa condizione ambientale con fondovalle occupato da paludi in parte, estese: Laghi, Moglie e Pescara (Moroni, 1985). La presenza di queste aree acquitrinose è inoltre confermata dall’esistenza di una vasta zona paludosa nel territorio di Castelfidardo, denominata “lago dell’Acquaviva” che nel Medio Evo era occupata da un vero e proprio lago originatosi dall’impaludamento del fosso omonimo (Moroni, 1982). Tali paludi, fonte di malaria e di altre malattie, spinsero Recanati
a progettare più volte degli interventi di bonifica, fino a quando nel 1403 furono iniziati i lavori con i quali si riuscì a deviare il Musone più a nord, nella foce dell’Aspio come è tuttora. La terra del vecchio bacino, che conserva il nome di “Musonaccio”, fu “scossata” e messa a coltura da immigrati schiavoni (probabilmente di origine slovena) e la zona bonificata si denominò “Scossicci” (Moroni, 1995). E’ su questa terra pianeggiante, alla destra orografica dell’Aspio, che si sviluppa una vasta area ora gestita ad agricoltura intensiva, di proprietà della Santa Casa di Loreto. Il paesaggio agrario non è stato sempre così, come dimostrano il confronto tra l’immagine attuale con quella del 1964 che è ricca di elementi arborei, viti maritate ed olivi, con pochi spazi lasciati al grano, tra le alberature e le colture orticole (coltura promiscua). La Santa Casa di Loreto ora come in passato, affitta a gruppi di cacciatori appezzamenti di terreno che gli stes-
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si scavano per realizzarvi i guazzi dei quali controllano nell’annata il regime idrico. Tali interventi sono realizzati in funzione dell’attività venatoria, principalmente rivolta contro l’avifauna di passo ma nel contempo i guazzi, fanno assumere all’agro-ecosistema un importante aspetto di miglioramento della biodiversità animale e vegetale, durante il periodo in cui non è consentita l’attività venatoria. La superficie media del bacino di un guazzo è di circa 7.000 m2 mentre i livelli di profondità delle acque a regime sono stabiliti in base all’esperienza pluriennale dei cacciatori, in modo da consentire la diversificazione delle nicchie ecologiche dell’avifauna. La profondità media dell’acqua è di circa 50 cm, verso la riva si raggiungono i livelli maggiori di circa 70 cm per ridursi appena a 20 cm di fronte alla capannina di appostamento. Questi ecosistemi umidi, al pari dei naturali, richiamano una grande quantità di uccelli tra i quali, a titolo di esempio si
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possono citare: il Germano reale (Anas platyrhynchos), Alzavola (Anas crecca), Fischione (Anas penelope), Mestolone (Spatula clypeata), Moretta (Aythya fuligula), Marzaiola (Anas querquedula), Gallinella d’acqua (Gallinula clorophus), Tordo bottaccio (Turdus philomelos), Garzetta (Egretta garzetta), Airone cenerino (Ardea cinerea) e Poiana (Buteo buteo). A queste specie comuni ne sono state avvistate altre di notevole rileva per la zona quali: Piro piro (Tringa glareola), il Cavaliere d’Italia (Himanthopus himanthopus), l’Avocetta (Recurvirostra avocetta), la Gru (Grus grus), Cicogna bianca (Ciconia ciconia), Cicogna nera (Ciconia nigra) e Falco di palude (Circus aeruginosus). Non meno importante risulta la flora di questi bacini umidi, complessivamente costituita da 165 entità ripartite in 49 famiglie e 116 generi. Si tratta per lo più di specie banali di ambienti ruderali e antropizzati alle quali però si sommano specie di significa-
I guazzi si trovano nel tratto terminale del fiume Musone e dell’affluente Aspio nei comuni di Recanati, Loreto e Castelfidardo
Nella pagina a fianco, in alto le piccole foto permettono di osservare in dettaglio due piante palustri che colonizzano il guazzo: la Giunchina comune, sorvolata da una Libellula e il Ranucolo di Baudot Nella parte basaledella stessa colonna è posto un Cabreo, di Proprietà della Santa Casa di Loreto, in cui oltre ai campi si evidenzia il Lago dell'Acquaviva, presente nel territorio di Castelfidardo sin dal Medioevo Sopra, la foto rappresenta la situazione attuale del paesaggistico che va confrontata con quella del 1964 (pagina precedente) per rendersi conto dell'enorme variazione del terreno agrario ricco di colture alberate ed affatto costruito
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Strutture simili ai guazzi potrebbero essere realizzate all’interno di parchi e riserve per la tutela della flora e fauna
Sopra, uno scatto che ritrae esemplari di Cavaliere d'Italia richiamati da questi ecosistemi umidi
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tivo interesse floristico che si rinvengono proprio all’interno dei guazzi. I ranuncoli sono tra queste specie sicuramente le più rare per l’attuale flora marchigiana e in generale, per l’intero versante adriatico della penisola italiana: il Ranuncolo di Baudot (Ranunculus baudotii), la specie ampiamente diffusa in tutti i guazzi della pianura alluvionale; il Ranuncolo con foglie di Ofioglosso (R. ophioglossifolius), rara in tutto l’areale di distribuzione italiano; il Ranuncolo tricofillo (R. trichophyllus) e il Ranuncolo vellutato (R. velutinus), comune nei prati umidi ed inondati ma raro lungo le coste per la scarsità di ambienti idonei al suo sviluppo. Altre piante acquatiche sono: la Salcerella con due brattee (Lythrum tribracteatum), la cui presenza nelle Marche interessa ora solo la pianura sublitoranea del Musone mentre anticamente doveva avere maggiore diffusione; la Ruppia marittima o fieno di mare (Ruppia maritima),
specie delle paludi salmastre e degli ambienti lagunari; la Zanichellia peduncolata (Zannichellia peduncolata) e la giunchina comune (Eleocharis palustris). L’ analisi della vegetazione acquatica e terrestre permette di rilevare numerose associazioni di piante differente significato ecologico. I guazzi vanno quindi interpretati come nodi di un sistema di relazioni biologiche secondo la concezione dei corridoi ecologici, unitamente agli elementi diffusi del paesaggio agrario, purtroppo veramente rarefatti negli ultimi anni. Da questa constatazione nasce l’opportunità di realizzare strutture simili anche all’interno di aree protette, quali parchi e riserve naturali, ovviamente sottraendole all’esercizio delle attività venatorie. In questi casi assolveranno prioritariamente alla tutela delle specie della flora e della fauna, favorendo l’osservazione, la ricerca naturalistica e la didattica ecologica. ¤
Alchimia ed esoterismo
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Scrigno di storia e arte non solo farmacia STORIA DELL'ANTICA MAZZOLINI-GIUSEPPUCCI A FABRIANO
I di Maurizio Cinelli
L'interno della storica farmacia Mazzolini-Giuseppucci di Fabriano
n prossimità della piazza principale di Fabriano, affacciata sul corso, si apre l’antica farmacia Mazzolini – Giuseppucci, una delle farmacie storiche meglio conservate delle Marche, la cui importanza travalica i confini regionali, a buona ragione, dunque, dal 1983 assoggettata a vincolo pubblico di tutela. Ristrutturata nella sua forma attuale verso la fine del 1800 lungo l’allora corso Vittorio Emanuele II da un professionista non solo ricco di scienza e di intelletto, ma anche impegnato nella vita politica e culturale, Ermogaste Mazzolini (1849-1899), rampollo di famiglia di farmacisti, l’esercizio può essere considerato emblematico delle farmacie “moderne”: di
quelle farmacie, cioè, destinate non solo alla vendita, ma anche alla preparazione dei farmaci, e, dunque, a pieno titolo eredi delle “spezierie” medievali, per la prima volta enucleate dalla professione medica nel corso del XIII secolo e distintamente regolamentate dalle Constitutiones imperiali, promulgate da quel Federico II che, per aver avuto i natali a Jesi, un po' appartiene anche alla nostra Regione. E gli speziali che in detti ambienti operavano erano maestri nel preparare le medicine, ma erano anche profondi conoscitori delle qualità medicamentose delle sostanze elementari, delle proprietà terapeutiche dei vari composti, e, alla bisogna, esperti raccoglitori, prepara-
Alchimia ed esoterismo
tori e miscelatori di erbe. Tale “originaria” caratteristica spiega la ricca e pregiata dotazione di armamentari e contenitori che da allora impreziosiscono la struttura, ormai museale: una collezione di oltre quattrocento tra contenitori e vasi in porcellana, dal fondatore commissionati a quella che, all’epoca, era (e sarebbe stata per molti anni ancora) la manifattura artistica più prestigiosa, cioè le Ceramiche Ginori di Doccia, in quel di Firenze. Il fatto, inoltre, che ognuno dei vasi e contenitori sia accompagnato dalla relativa iscrizione per l’identificazione del contenuto o del preparato ivi conservato, rappresenta una testimonianza straordinaria e rara di quella che era la dotazione esemplare di una farmacia del diciannovesimo secolo, strettamente conforme ai dettami della farmacopea ufficiale dell’epoca. Una collezione, dunque, che, a buon titolo, regge ottimamente il confronto nella Regione con quelle analoghe già appartenenti, rispettivamente, alla Spezieria di Loreto, ora parte della collezione della Santa Casa, e alla Spezieria di Jesi, attualmente collocata presso la Pinacoteca civica di quella città. Ma il pregio della farmacia storica di Fabriano è legato anche ad altri fattori, e non certo di minor importanza. Nel momento in cui decideva di rinnovare radicalmente la farmacia di famiglia, Ermogaste Mazzolini perseguiva anche un disegno ambizioso: fare di essa un piccolo tempio dedicato alla scienza sperimentale e ai suoi più illustri e moderni interpreti; il tutto da celebrare attraverso decori lignei che potessero esprimere il meglio dell’arte dell’ebani-
60 steria. La scelta cadde su Adolfo Ricci (1834-1904), intagliatore e plasticatore rinomato, romano ma di nascita perugina, proprio in quegli anni chiamato a ricoprire la cattedra di intaglio nella Scuola professionale di arti e mestieri di Fabriano; cattedra che egli avrebbe mantenuto e sviluppato, con successo e riconoscimenti anche all’estero, fino alla fine della sua vita. Una scelta, va detto, assai felice. E’ quanto testimoniano gli arredi – un gioiello del neogotico italiano dell’ebanisteria, che ha rari riscontri –, che la famiglia Giuseppucci, acquirente nel 1954 della farmacia, ha saputo custodire con dedizione e sapienza e conservare nella pienezza dell’antico splendore. Gli intagli che ricoprono l’intera superficie – dalla porta di ingresso al bancone e dalle pareti al soffitto, senza soluzione di continuità – non solo sono opere di indiscusso valore artistico, ma rappresentano un ciclo iconografico di particolare pregio e suggestione, un’efficace esaltazione della scienza sperimentale e della professione del farmacista, attraverso i ritratti – eseguiti tutti con particolare perizia – degli illustri protagonisti delle più recenti scoperte scientifiche nei settori della chimica, della fisica, della biologia – da Amedeo Avogadro a Michael Faraday, da Antoine Laurent Lavoiser a Wilhelm Röntgen, da Sebastiano Purgotti ad Alessandro Volta, per citarne alcuni –, nonché di alcuni celebri medici o farmacisti; con l’aggiunta dell’effige dello stesso Ermogaste, immortalato all’ingresso in un medaglione sormontato da un’aquila. Ma Adolfo Ricci non fu soltanto artista e insegnante; egli fu anche attivista politico, fedele agli ideali repubblicani, iscritto alla carboneria e presto passato alla massone-
Alchimia ed esoterismo
ria. Così come massone era, d’altronde, anche Ermogaste Mazzolini. In effetti, la massoneria, all’epoca, raccoglieva e metteva in contatto intellettuali, uomini di scienza, attivisti politici di fede mazziniana e repubblicana. E tra le sedi di periodico incontro dei “fratelli” non erano infrequenti, appunto, le farmacie; nelle Marche se ne ha testimonianza, ad esempio, ad Ascoli Piceno, dove è documentato che almeno due “spezierie” sono state sede elettiva, nel fermento dei moti risorgimentali dell’epoca, di riunioni carbonare e di intellettuali liberali. Più di un indizio fa ritenere che la farmacia storica di Fabriano sia stata un contraltare laico del potere papale, tanto più di spicco e denso di implicazioni proprio perché ubicato in cittadina di provincia da sempre soggetta a quel potere. Inducono a tale conclusione non tanto l’enfasi dell’inno alla scienza, che traspare dai ritratti, dei quali si è detto e dalle aggraziate figure femminili che ad essi si accompagnano, vesti allegoriche della medicina, della farmacia e
delle altre branche scientifiche dalle quali il farmacista attinge il suo sapere. Rendono credibile tale conclusione sopratutto l’architettura del locale, con il maestoso arco che divide i due ambienti; il bancone intagliato posto al di sotto di esso, come un altare; i cassetti “segreti” ufficialmente destinati alle sostanze più costose, ma, alla bisogna, utilizzabili anche come nascondigli per elenchi di associati o verbali di riunione; la presenza di sei sgabelli. Elementi, tutti i suddetti, emblematici di un autentico tempio massonico. La ricchezza e il gusto artistico propri della farmacia storica Mazzolini – Giuseppucci sono godibili, comunque, anche nei particolari, che ne rappresentano altrettante deliziose, seppur più minute, opere d’arte: come il sensuale porta ombrelli, il delfino fermaporta, il bancone, i cassettini con i nomi dei medici della città. E, su tutto, a mo' di solenne suggello della narrazione, il tondo scolpito sopra l’ingresso, con il motto galileiano “omnia in pondere et mensura”. ¤
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Più di un indizio fa ritenere che la storica farmacia sia stata tempio massonico e contraltare laico al potere papale
Nella pagina a sinistra, una vetrina interna e la statua allegorica simbolo della farmacia In alto, particolari dei fregi lignei e qui sopra, medaglione del fondatore dr. Ermogaste Mazzolini
L’associazione
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LE CENTO CITTA’ Associazione per le Marche Fondata nel 1995 “L’Associazione si pone lo scopo di promuovere e coordinare studi ed azioni finalizzati a rafforzare l’identità culturale della Regione Marche e a favorirne lo sviluppo economico e sociale attraverso la conoscenza e la valorizzazione delle realtà esistenti, il recupero e la tutela del passato, la collaborazione tra soggetti pubblici e privati, la partecipazione al dialogo culturale interregionale ed europeo, nonché con le comunità marchigiane all’estero.” (Art.3 dello Statuto)
Presidenti
Giovanni Danieli
(marzo 1995 – dicembre 1996)
Catervo Cangiotti
(gennaio 1996 – dicembre 1997)
Folco Di Santo
(gennaio 1998 – dicembre 1999)
Alberto Berardi
(gennaio 2000 – dicembre 2001)
Evio Hermas Ercoli
(gennaio 2002 – dicembre 2003)
Mario Canti
(gennaio 2004 – luglio 2005)
Enrico Paciaroni
(agosto 2005 – dicembre 2006)
Tullio Tonnini
(gennaio 2007 – dicembre 2007)
Bruno Brandoni
(gennaio 2008 – luglio 2008)
Alberto Pellegrino
(agosto 2008 – luglio 2009)
Walter Scotucci
(agosto 2009 – luglio 2010)
Maria Luisa Polichetti (agosto 2010 – luglio 2011)
Ettore Franca
(agosto 2011 – luglio 2012)
Natale Frega
(agosto 2012 – luglio 2013)
Maurizio Cinelli
(agosto 2013 – luglio 2014)
Giovanni Danieli
(agosto 2014 – luglio 2015)
Luciano Capodaglio
(agosto 2015 – luglio 2016)
Marco Belogi
(agosto 2016 – luglio 2017)
Giorgio Rossi
(agosto 2017 – luglio 2018)
Le Cento Città Direttore responsabile Franco Elisei Direttore editoriale Maurizio Cinelli Comitato editoriale Marco Belogi Fabio Brisighelli Alberto Pellegrino Giordano Pierlorenzi Claudio Sargenti Direzione, redazione amministrazione Associazione Le Cento Città redazionecentocitta@ gmail.com
Progetto grafico Poliarte Accademia di design Ancona Coordinamento progetto grafico e impaginazione Prof. Sergio Giantomassi Stampa Errebi Grafiche Ripesi Falconara M.ma Presidente Le Cento Città Mara Silvestrini
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