Federica Facchini Romano Folicaldi Alberto Meriggi Alberto Mazzacchera Maurizio Cinelli Dante Trebbi
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Rivista di divulgazione culturale e artistica del territorio marchigiano
ARTE | STORIA | ARCHEOLOGIA | LETTERATURA | SOCIETĂ€ | MUSICA | SCIENZE
NUMERO 58 | 2017
58|2017
Marco Belogi Fabio Brisighelli Paola Cimarelli Franco De Marco Nando Cecini Grazia Calegari
Marco Belogi Fabio Brisighelli Paola Cimarelli Franco De Marco
Nando Cecini Grazia Calegari Federica Facchini Romano Folicaldi NUMERO
58|2017
Alberto Meriggi Alberto Mazzacchera Maurizio Cinelli Dante Trebbi
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Editoriale
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“I classici” al tempo di Twitter e del pensiero unico
D di Marco Belogi Presidente de Le Cento Città
opo l’elogio della cultura dello scorso numero, torno ancora su alcuni aspetti dello stesso tema, quanto mai attuali, che aprono uno spiraglio di speranza per il futuro. Sotto i nostri occhi, quasi increduli, sta sollevandosi una richiesta di cultura vera in controtendenza rispetto alla realtà di oggi dominata dal linguaggio invasivo e pervasivo del computer, di Internet, di discutibili modernizzazioni a base di tablet e di “nativi digitali” come Facebook e Twitter. Il passato sembra non contare più nulla. La nostra storia sembra quasi terminare di fronte a questi mezzi comunicativi, che rientrano poi quasi sempre nell’alveo di miti momentanei come quelli generazionali, cinematografici, musicali e mediatici . Ma il presente non basta. E’ il titolo dell’ultima pubblicazione del professor Ivano Dionigi, pesarese di origine, professore ordinario di Lingua e Letteratura Latinadell’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, di cui è stato Rettore dal 2009 al 2015. Un docente che si è particolarmente distinto con numerose pubblicazioni sul problema della lingua e dei classici come: Lucrezio, le parole e le cose; Di fronte ai Classici; Nel segno della parola; I Classici e la Scienza. Lo dimostrano i vertici della classifica. Salgono , infatti, i libri su Giacomo Leopardi, sulla bellezza del latino e l’importanza del greco. Tutti strumenti efficaci che si uniscono per demolire un pregiudizio: i classici sono lingue morte, inutili o una riserva per pochi.
Il poeta di Recanati, raccontato da Alessandro D’Avenia ne L’arte di essere fragili, ovvero una lettera-dialogo con Giacomo Leopardi appassiona i giovani, macina copie ed è il caso editoriale di questi mesi anche perché il bestseller è diventato uno spettacolo da tutto esaurito. Nella saggistica, è in vetta alla classifica Viva il latino di Nicola Gardini, latinista italiano, da anni insegnante di letteratura italiana e comparata a Oxford. Ma c’è anche Ivano Dionigi, con Il presente non basta, la lezione del latino. Ai piani alti della classifica c’è poi La lingua geniale, 9 ragioni per amare il greco, della grecista Andrea Marcolongo. E non è ancora terminata l’onda lunghissima di Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli, ovvero come rendere comprensibile, senza banalizzarla, la scienza della natura. Un vero trionfo anche per le numerose pubblicazioni all’estero. Autori che riescono a coniugare cultura alta e popolarità, alla stregua di Vittorio Sermonti con letture dantesche e di Vittorio Sgarbi con lo spettacolo Teatrale incentrato su Caravaggio. Ma cosa accomuna i libri citati? Una richiesta di cultura con la C maiuscola, tale quando la divulgazione difende il vero sapere. Lo dimostrano gli stessi studenti che a scuola si annoiano, mentre riempiono le sale e le biblioteche per ascoltare D’Avenia con il suo Leopardi, Sgarbi con il suo Caravaggio, Rovelli con la Fisica, Gardini con il Latino, Dionigi con Lucrezio e Seneca. Lingua vivissima, il latino è il cuore della nostra cultura,
Editoriale
Il mondo globale sembra privo di una visione organica. Ne deriva una società cieca Ora il mondo sono io e il selfie lo certifica
4 dell’Umanesimo, nome originato da studia humanitatis, vale a dire l’insieme dei valori che formano l’uomo, strumento indispensabile per capire il presente, per riconoscere il volto delle parole e per comprendere l’ immenso patrimonio artistico ,culturale, archeologico, orgoglio dell’Italia e degli italiani nel mondo. Quel latino che ha percorso un lungo viaggio in compagnia della storia remota e recente d’Europa: dalla Grecia arcaica alla Roma imperiale, alla Spagna altomedievale, alla Parigi dei vari secoli, dalle origini alle banlieues. Parigi nei giorni seguenti agli attentati del 13 novembre 2015, insieme ai colori della bandiera ha adottato come frase simbolo della propria reazione l’espressione fluctuat nec mergitur (è sballottata dai flutti ma non affonda), scritta sui muri della Place de la République, proiettata sulla torre Eiffel. La Francia si è affidata, non ai suoi grandi saggisti o filosofi, ma ad un motto che risale alle origini della città. La conoscenza dei classici è una via all’eccellenza nel mondo. Latino che riceve molta considerazione in Inghilterra, si studia in Cina tanto che a Shanghai si sta preparando un convegno importantissimo su Ovidio nell’anno a lui dedicato. Di norma anche i grandi scienziati apprezzano il latino e greco. Scienze “pesanti” e studi umanistici si toccano, sono complementari. La rapidità con cui oggi la globalizzazione è entrata nella vita di ognuno, generando omologazione, provvisorietà e provincialismo, ci induce ad alcune riflessioni. Il cosiddetto Pensiero Unico, che alla fine non è altro che il riflesso del globale sul piano delle idee e dei comportamenti, domina incontrastato. Composto da più elementi è una miscela tra il dominio assoluto del mer-
cantismo, il predominio della tecnica e del suo universo pratico-funzionale. Ha il suo codice bioetico nel politically correct. A guardare bene poi non è un Pensiero ma solo un processo teso a uniformare le differenze, omologare lessico e comportamenti e a spegnere idee, pensieri e visioni non solo divergenti. I mezzi usati diventano scopi di vita, la tecnica digitale come l'economia da mezzi di servizio si ergono a padroni seguendo uno scorrere in automatico. Per la prima volta nella storia la nostra società sembra non avere una visione del mondo, visione che proviene dal senso religioso, che attinge dall’arte e dal pensiero e che si unisce ai caratteri , ai costumi ed alle tradizioni, e che si riconosce nella storia. Con la globalizzazione il mondo è visto invece come un fatto, come un processo meccanico. Un tempo piccoli mondi erano sorretti da grandi visioni del mondo. Ora il mondo globale sembra privo di una visione organica. Suo principio metafisico è la libertà, suo orizzonte la tecnica, suo paradigma il mondo finanziario, sua sovranità l’individuo a prescindere dalla comunità in cui è inserito. Da tutto questo deriva una società cieca, dove la prospettiva di ciascuno si restringe nel suo campo d’accesso alla rete, dove la visione si riduce a film, a figura dell’effimero. Il mondo sono io, ed il selfie lo certifica. Una svolta che trasforma radicalmente l’umano, ridotto nelle sue facoltà critiche ed intellettive, spirituali e morali di fronte ad un automatismo digitalizzato. Si spezza dunque ogni collegamento alla vita, al passato, al futuro. Da più parti e con sempre maggior intensità, sottolinea il professor Dionigi, si leva corale un lamento” sulla generale povertà di discorsi che domina il nostro tempo: la parola oggi rischia di non
Editoriale
esserci amica; isola e non comunica, affanna e non consola, uccide e non salva. Ridotta a slogan, a vocabolo, a merce”. Si entra insomma dietro quella linea di confine che Dante tracciò per dividere i bruti da coloro che seguono virtù e conoscenza. Ivano Dionigi inizia la sua lezione sul latino proprio con questa domanda: come mai nell’era del Web planetario e del massimo sviluppo di mezzi di comunicazione, minima è la comprensione? Risponde con Erasmo: “la colpa è degli uomini. Di fronte al rumore ed alla chiacchiera imperante, di fronte ad una vera e propria anoressia del pensiero, è necessario imboccare la via del rigore, abbassare il volume e dare il nome alle cose”. Il latino è un lascito non solo storico, culturale e linguistico ma anche simbolico: si scrive “latino” ma si legge “italiano, storia, filosofia”. E’ il tramite che - oltre Roma - ci collega a Gerusalemme e ad Atene. Un’eredità che possiamo spartire, una memoria che ci allunga la vita. Un mezzo che ci permette di captare tre dimensioni ed esperienze fondamentali: il primato della parola, la centralità del tempo, la nobiltà della politica. Che cos’è allora un classico? Un’opera che sa parlare a tutti gli uomini di ogni tempo e di qualsiasi civiltà. Ecco perché Omero e Shakespeare, Raffaello e Caravaggio, Dante e Leopardi sono tali, al contrario di altri artisti che dopo aver brillato per una stagione cadono nel dimenticatoio. Di che cosa parla un classico? Di ciò che interessa di più all’uomo: della realtà del mondo e del senso della vita, fatta di desideri, frustrazioni, domande e non sempre di risposte. Risposte invece che a volte si celano tra le pagine dei libri esposte da traduttori ed interpreti dei classici nelle aule scolastiche o nelle sale teatrali. Infatti, nonostante il
5 tanto declamato del virtuale, ciò che più manca oggi è proprio la presenza fisica, spesso scenica ,di uomini in carne ed ossa che sappiano interpretare le opere degli immortali. E’ così che i giovani, stanchi del Leopardi triste e pessimista appreso a scuola, accorrono a imparare un Leopardi, che, nella fragilità, sa amare la vita come insegna il professor D’Avenia, capace di rendere efficace, sul palcoscenico, la comunicazione che, da letteraria e verbale, si fa totale. Passando dalla delicatezza leopardiana alla possenza michelangiolesca, il risultato non cambia. Trionfo garantito da Vittorio Sgarbi che, con il suo Caravaggio, miete successi insegnando l’opera di un genio straordinario. Tutto lo spettacolo si regge sull’inventiva e sulla capacità comunicativa di Sgarbi, che, riprendendo vecchi temi di Storia dell’arte del liceo, li rende attuali e dimostra che la realtà, descritta da Caravaggio, non è diversa da quella di oggi. L’uomo non cambia, con le sue bassezze ed i suoi slanci, e renderlo più decifrabile diventa più facile se ci lasciamo trasportare da un interprete che si trasforma in vivace protagonista. Queste riflessioni si rendono attuali e urgenti di fronte alle nuove sfide delle scienze e alle pervasività delle tecnologie digitali che” possono e debbono trovare negli studia humanitatis un’alleanza naturale e necessaria”. E’ la risposta ad un’altra domanda che si pone il professor Dionigi: come mai le parole di Lucrezio sull’universo, di Cicerone sulla politica, di Seneca sull’uomo colpiscono la mente e curano l’anima più e meglio dei trattati specialistici. Un’alleanza dunque che diventa necessaria e naturale, “un compito da consegnare in primo luogo alla scuola: palestra dei fondamentali del sapere e crocevia del futuro”. ¤
Il Classico è un'opera che sa parlare a tutti gli uomini di ogni tempo e di qualsisi civiltà E in Cina riscoprono addirittura Ovidio
Nella pagina a fianco i simboli dei social network e sopra un francobollo per la celebrazione di Ovidio
Argomenti
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Sommario 9
Musica|Il ricordo
Zedda, indimenticabile "Maestro" di Rossini DI FABIO BRISIGHELLI
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Terremoto nelle Marche|1-2
In mostra l'arte ferita agli Uffizi Le proposte di monsignor Corradini DI PAOLA CIMARELLI
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Terremoto nelle Marche|3
Salviamo la chiesetta gioiello dei Sibillini DI FRANCO DE MARCO
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La storia|Antichi mestieri
Un grande artigiano in una fornace antica DI ROMANO FOLICALDI
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Pisaurum|Una realtà nella storia
Pesaro, dal mito dell'oro alla città intermedia DI NANDO CECINI
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Archeologia|Tesori sotterranei
Mosaici del Duomo vietato l'oblio DI GRAZIA CALEGARI
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Design|Il personaggio
Gavina nelle Marche designer "sovversivo" DI FEDERICA FACCHINI
Argomenti
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Sommario 43
Il Novecento|Cultura
Dante Cecchi, grande studioso del Medioevo DI ALBERTO MERIGGI
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Arte|Wunderkammer
Collezione d'arte passione e investimento DI ALBERTO MAZZACCHERA
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Letteratura|Il personaggio
Antonelli, inquieto poeta tra genio e follia DI MAURIZIO CINELLI
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Storia delle Marche| Il treno
Ferrovia, il Papa la volle e il re poi l'inaugurò DI DANTE TREBBI
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Le pubblicazioni
> Freschi di stampa, le opere > Tre protagonisti del design
Le Cento Città Presidente Le Cento Città Marco Belogi
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Musica|Il ricordo
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Zedda, indimenticabile "Maestro" di Rossini ILLUSTRE MUSICOLOGO E STUDIOSO SI È SPENTO A 89 ANNI
“N di Fabio Brisighelli
Alberto Zedda durante una delle sue applaudite direzioni d'orchestra
on omnis moriar” (Non morirò del tutto), si potrebbe dire con Orazio, pensando ad Alberto Zedda. Perché nella sua poliedrica attività, nella teoria e nella pratica di un discorso musicologico di rara profondità e esattezza, il “Maestro” di Rossini ha innalzato come il Poeta un personale monumento aere perennius, più duraturo del bronzo. C’è un ‘prima’ e un ‘dopo’ per Rossini, per la fruizione dell’incomparabile patrimonio operistico-musicale del Cigno di Pesaro. Lo spartiacque è il Rossini Opera Festival, che con l’apporto imprescindibile della
Fondazione e dell’Accademia omonime ha permesso agli addetti ai lavori e soprattutto al grande pubblico dei musicofili e dei melomani di conoscere e di godere sulla scena l’intero repertorio del grande compositore autoctono. Di tutto questo Alberto Zedda, studioso e musicologo insigne, illustre direttore d’orchestra, docente di vaglia e straordinario direttore artistico di istituzioni musicali
tra le più prestigiose, a cominciare proprio dal Rof, la sua “casa”, è stato il mentore senza confronti, la guida più salda e sicura. Il nostro caro Maestro ci ha lasciati la sera del 6 marzo scorso, a ottantanove anni di età portati benissimo, ad onta di tutto, fresco come sempre di lucidità intellettuale e di verve e simpatia al tratto e al contatto immediato. Del resto era stato attivo fino a poco tempo prima, avrebbe dovuto addirittura, come è noto, dirigere La Cenerentola a Pesaro in forma di concerto l’ultimo giorno di febbraio, in occasione del genetliaco del “suo” Gioachino, ma i postumi di un intervento chirurgico gli avevano impedito di salire sul podio del Teatro Rossini. “Sarà una serata indimenticabile, anche senza di me” - aveva detto-. Zedda era nato a Milano, dove aveva compiuto studi umanistici e musicali. Vinto il Concorso della Rai per direttori d’orchestra (1957), ha posto la sua bacchetta al servizio dei più prestigiosi teatri del mondo, che sarebbe qui fin troppo lungo elencare. Tra i suoi incarichi di rilievo, quelli di Direttore artistico del Teatro alla Scala e del Teatro Carlo Felice di Genova, del Festival Barocco di Fano e del Centro di perfezionamento P. Domingo di Valencia; di Consulente artistico del Festival della Valle d’Itria (Martina Franca) e del Festival Mozart de La Coruña. E se è doveroso ricordare la poliedricità dei suoi interessi musicali e di musicologia applicata, con una frequentazione di repertorio che si estende da Monteverdi a
Musica|Il ricordo
È stato l'anima del Rof insieme a Mariotti La sua bacchetta al servizio dei più prestigiosi teatri del mondo
Il musicologo è stato protagonista di spicco del Rossini Opera Festival a Pesaro fin dalla sua fondazione (Foto studio Amato Bacciardi)
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Puccini a Leoncavallo, occorrerà sottolineare a caratteri cubitali la comunione di amorosi sensi musicali istauratasi tra lui e Rossini, durata una vita intera; sin dall’inizio della sua brillante carriera di musicologo, allorquando, con riguardo al Barbiere di Siviglia, gli capitò casualmente di confrontare la partitura standard con quella, rivelatasi assai diversa, dell’autografo di Rossini: da qui, per la casa Ricordi, la prima storica edizione critica rossiniana, al fine di mettere ordine al problema filologico della discordanza tra il testo della partitura autentica e il portato ormai secolare di una tradizione esecutiva fuori dall’alveo della stesura originale. La Rossini Renaissance, di cui Zedda è stato un protagonista assoluto (e che dura tuttora), accelerava i tempi della revisione generale dell’opera rossiniana, ampliandone al contempo la fruizione da parte del pubblico nel momento in cui i margini fino ad allora ristretti della conoscenza dei testi in musica dell’autore, confinata a pochi titoli, venivano viepiù ad estendersi grazie agli studi finalizzati della Fondazione Rossini e agli emozionanti riscontri di palcoscenico del Rossini Opera Festival, a partire dal 1980: di questo il maestro Zedda è stato costantemente uno dei numi tutelari, lui stesso Consulente artistico del sodalizio dal 1981 al 1992, quindi Direttore artistico dal 2001 al 2015. E se l’ opera di revisione critica da parte del Nostro si è estesa dal Barbiere alla Cenerentola, dalla Gazza ladra a Semiramide, ad Adelaide
di Borgogna, va anche posta tra le sue benemerenze sul campo l’istituzione ventisette anni fa dell’Accademia Rossiniana, come seminario permanente di studio e di istruzione sui problemi dell’interpretazione a largo raggio delle relative opere. Zedda ne è stato il Direttore carismatico sin dalla sua fondazione, contribuendo da par suo a forgiare i nuovi talenti vocali alla luce del verbo rossiniano più veritiero. In qualità di direttore e concertatore, risulta aver condotto dal podio ben 32 titoli, dai più noti, come Il barbiere, ai meno, come Torvaldo e Dorliska (opera semiseria, come La gazza ladra). E molte volte sulle scene del Festival di Pesaro. Mi legano ad Alberto tanti ricordi amati, in teatro come ai suoi incontri pubblici sugli argomenti a lui peculiari; ma soprattutto con riguardo alle nostre occasioni di ritrovarci insieme attorno a un tavolo a parlare di Rossini, e di altro, per un intervista o per una semplice chiacchierata; numerose quasi quanto quelle con l’altra grande figura del Rof, Gianfranco Mariotti, il Sovrintendente in odore di mito. E’ peraltro impossibile separare, nella conta dei meriti acquisiti con il Festival, Zedda da Mariotti, che ora piange l’amico perduto. In un colloquio congiunto di alcuni anni fa li avevo definiti, con loro divertimento, i “Dioscuri” del Rof: Castore ha perso il suo Polluce. Addio, caro maestro Alberto Zedda: dallo “stellato soglio” del cielo, Rossini ti ha già di certo preso per mano. ¤
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In mostra agli Uffizi l’arte ferita dal sisma OPERE ESPOSTE E IN PRESTITO PER AIUTARE LA RINASCITA
D di Paola Cimarelli
ai depositi verso la rinascita. Una porzione dei beni culturali colpiti dal terremoto sarà esposta al grande pubblico degli Uffizi di Firenze "in una mostra il cui ricavato sarà usato per il loro restauro". Simboli di una terra devastata dal sisma ma che non molla di un centimetro sulla necessità di continuare ad essere un luogo di cultura e di amore per il bello. Parte di quelle decine di migliaia di opere, chiese, palazzi, arredi, quadri, moltissimi ancora in fase di recupero, schiodati, staccati, incelophanati, imballati, trasportati, che sono ora protetti all'interno dei depositi temporanei allestiti nelle città di appartenenza o in quelli del ministero dei Beni culturali,
come alla Mole Vanvitelliana ad Ancona, dove ne sono custoditi oltre 600, fino a che nuova luce non permetterà loro di essere ammirati ancora da fedeli, cittadini, turisti. "Sono favorevole a prestare le opere, anche in situazione di normalità - dice Stefano Papetti, direttore Musei civici di Ascoli Piceno, docente di Museologia all'Università di Camerino - perché, se esposte, ovviamente in condizioni di assoluta sicurezza, in luoghi di grandi visibilità o in grandi mostre, diventano un volano per far conoscere anche i luoghi da dove provengono. Vedere un capolavoro marchigiano a Milano piuttosto che a Napoli magari poi spinge qualcuno a visitare le città, i posti da dove arriva.
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Il Museo degli Uffizi, in questo periodo, mette a disposizione una sala per esporre opere che vengono dai luoghi del terremoto, scelte dalla Soprintendenza di Ancona, che rappresentano le eccellenze dei luoghi toccati dal sisma. Noi prestiamo il dipinto del Maratta "La Madonna appare a Santa Francesca romana", che viene dalla chiesa di Sant'Angelo Magno. Considerando che gli Uffizi hanno milioni di visitatori all'anno, queste testimonianze saranno viste da almeno centinaia di migliaia di persone". A Fi-
Le opere interessate sono qualche decina di migliaia Negli Uffizi diventeranno un buon volano per il territorio
Molte opere recuperate da chiese e siti danneggiati dal sisma sono state raccolte nel deposito della Mole Vanvitelliana di Ancona (foto da fb Mibact) Nella pagina a fianco, il salvataggio della tela del Tiepolo dalla chiesa San Filippo a Camerino
renze, aggiunge Luca Maria Cristini, direttore ufficio Beni culturali dell'Arcidiocesi di Camerino e San Severino Marche, "invieremo il Polittico di Nocria, una frazione di Castelsantangelo sul Nera, un trittico bellissimo di Paolo da Visso e della sua scuola, che fino al 1 novembre avrebbe potuto essere salvato e che invece ora è in pezzi e così lo invieremo agli Uffizi. Dopo l'esposizione sarà restaurato all'Opificio delle pietre dure. La scelta fatta dall'arcivescovo di Camerino, monsignor Francesco Giovanni Brugnaro, è quello di concedere il prestito delle opere solo con il fine di raccogliere risorse per il restauro. Questa mostra inoltre, se-
12 condo gli organizzatori, rappresenta l'occasione per dare risalto a quello che è successo con il terremoto nelle Marche, che ha avuto forse minore esposizione mediatica rispetto a zone come Amatrice o Norcia. Quello che accadde un po' nel 1997 con il terremoto che era più dell'Umbria invece che di entrambi le regioni". Ma quanti sono i beni culturali coinvolti negli effetti del sisma? "Le opere interessate - aggiunge Papetti -, sono nell'ordine di qualche decina di migliaia se si conteggiano anche tutti gli arredi, dai candelabri ai confessionali delle chiese, i numeri aumentano. Magari hanno un interesse artistico non rilevante però fanno comunque parte dell'arredo antico della chiesa o dell'edificio e vanno quindi tutelati". Per quanto riguarda il loro recupero e la loro salvaguardia Papetti dice di essere "sconcertato della completa inazione che c'è stata durante il periodo fra agosto e ottobre". E anche se il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, nella sua visita a Camerino, rispondendo alle critiche del sindaco Gianluca Pasqui sui ritardi negli interventi agli edifici lesionati, ha rimarcato che "i tecnici non sono stati in vacanza" e che "non si sono fermati un giorno", Papetti aggiunge che "non si è fatto nulla fino al terremoto di ottobre non soltanto per la messa in sicurezza delle opere mobili ma anche per cercare di dare un minimo di stabilità agli edifici che erano stati lesionati. Questo ha portato alla distruzione completa di alcune chiese e al danneggiamento ulteriore di opere mobili che già erano state colpite dal sisma di agosto". Dopo il 30 ottobre, "mi pare che ci sia mossi un po' di più. C'è stata anche questa diatriba sul luogo dove ricoverare le opere. La Soprintendenza, data la disponibilità del Comune di Ancona, ha in-
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dividuato la Mole Vanvitelliana così come sono stati anche scelti degli ambienti ad Ascoli Piceno, nel Forte Malatesta, e proposti anche a Fermo e Macerata, ma c'è poi stato il sollevamento, giusto, da parte degli amministratori che non volevano che le opere fossero troppo allontanate dai luoghi di provenienza. La situazione si è andata definendo nel corso del tempo e in particolare nell'incontro di Macerata con il segretario generale del Mibact, Antonia Pasqua Recchia, in cui sono stati decisi, oltre ad Ancona e Ascoli, altri siti per ricoverare le opere senza farle allontanare dai luoghi da cui provengono". Lo stesso Franceschini ha detto che "tutte le opere torneranno nei luoghi da dove sono state salvate" e che i depositi nei Comuni "vanno benissimo se si realizzano dov'è possibile farli con condizioni di sicurezza e di tutela adeguate per le opere" magari in spazi che possano essere visitati anche dai turisti. Anche perché, afferma Papetti, se "le opere stanno tutte nei depositi, dove non si possono vedere, non avrebbe senso cercare i turisti. Credo che bisognerebbe che musei vicini si mettessero insieme individuando dei depositi. Ci sono tanti capannoni industriali che non sono più utilizzati e che potrebbero essere favorevolmente usati come luoghi di deposito dei beni culturali ma che possano però essere visitati, ricreando un minimo di promozione turistica". Nella Diocesi di Camerino e San Severino, "la più grande delle Marche come territorio, con 34 Comuni di cui 31 nel cratere del sisma - spiega l'architetto Cristini -, abbiamo organizzato tre depositi per i beni culturali, a Camerino, San Severino, Serrapetrona. In questa zona, c'è un patrimonio di edifici storici di chiese enorme, 486 su cui ad oggi, sembrerà strano, ma il rilievo
non è ancora terminato, non solo dell'accertamento del danno ma nemmeno della segnalazione che stiamo ancora conducendo. Abbiamo perso due mesi di tempo fra le scosse di agosto e quelle di ottobre per poter avviare la macchina dei recuperi. Molte cose, che a fine agosto erano recuperabili, dal 1 novembre non lo sono state più. Negli oltre 350 edifici danneggiati, non agibili, c'è un range che va dal crollo totale all'inagibilità per danno grave o lieve che comunque ne impedisce l'utilizzo. Nella zona dell'Alto Nera,
Ussita, Visso, Castelsantangelo sul Nera, la distruzione è pressoché totale; non c'è un edificio che non abbia avuto danni seri". Nella prima fase della ricostruzione, spiega Luca Ceriscioli, presidente della Regione Marche, per i beni culturali si è utilizzata "la riparazione per pubblica incolumità, oggi lo strumento più praticato è la riparazione per la conservazione del bene. In questa direzione, ci sono numerose richieste anche se è logico che l'intervento complessivo ha un percorso più lungo. La parte dei beni pubblici passa attraverso il Piano delle opere in cui la Regione e ogni Comune interessato inseriscono gli edifici, le scuole e appunto
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Vanno messe in sicurezza le chiese danneggiate altrimenti i restauratori non potranno entrare Situazione allarmante
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i beni culturali da recuperare. Il Piano viene trattato in Conferenza dei servizi. Una parte delle opere viene curata direttamente dal ministero dei Beni culturali. Il resto segue l'intervento della ricostruzione privata, con gli strumenti disponibili a seconda che si tratti di una riparazione leggera o grave". Adesso, per i recuperi, dice Papetti, "per i quali va detto grazie all'opera straordinaria dei Carabinieri della Tutela del patrimonio culturale, comandati dal maggiore Carmelo Grasso, è quello di pensare ai dipinti murali. Gli edifici lesionati, in parte puntellati, in parte no, conservano uno straordinario patrimonio di centinaia e centinaia di metri quadri di affreschi. Occorre mettere in sicurezza quei luoghi, come le chiese del territorio di Acquasante Terme, perché i restauratori non possono entrare. E' una situazione abbastanza allarmante. Bisognerebbe fare dei sopralluoghi per decidere quali devono essere salvati perché alcune pareti non sono più in grado di sostenerli. Vanno perciò fermati per evitare che si stacchino porzioni d'intonaco ma tutto questo va fatto in edifici sicuri. E' questa ora l'emergenza". Per queste operazioni, sottolinea Papetti, "mi pare che manchino le risorse economiche. Quello che noto è che ci sono fondi annunciati ma non mi pare che siano spendibili per i beni artistici e monumentali, musei, chiese. Ad Ascoli Piceno, la messa in sicurezza e i primi restauri li abbiamo fatti perché il Comune ha un'assicurazione di otto milioni di euro, stipulata due anni fa contro il terremo-
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to". Le operazioni di recupero hanno dimostrato una delle difficoltà emerse con questo terremoto, secondo Cristini, causata dalle modifiche di legge del 2012 all'organizzazione della Protezione civile, "la scarsa presenza dei volontari oltre ad aver sfilato la gestione dell'emergenza del patrimonio culturale al coordinamento della Protezione civile, affidandola al Mibact, togliendola ad una macchina che invece funzionava perfettamente nel coordinamento, nella tempestività, nella presenza delle forze giuste al momento giusto. Nella nostra emergenza sono emerse tutte le carenze di questo nuovo tipo di sistema". Tutto ciò per la gestione di un patrimonio culturale già colpito dal sisma del 1997 i cui lavori di ricostruzione, dice l'architetto Cristini smorzando accenni di polemiche sul passato, "sono stati fatti bene nella gran parte dei casi, che hanno preservato i beni, con interventi meno invasivi rispetto a quelli che si facevano nel passato, con un buon risultato visto che il terremoto che abbiamo avuto in questi mesi è molto superiore a quello precedente. Se non fosse stato così, oggi avremmo tutto a terra nella parte più interna della regione. Questo sfortunato evento ha purtroppo costituito un importante collaudo di quanto è stato fatto dopo il terremoto del 1997, con il Mibact che sta facendo delle ricerche puntuali, a campione, per verificare gli effetti di un sisma così violento sui lavori fatti nel giro di dieci-vent'anni. Mi auguro che anche oggi prevalga la linea conservativa". ¤
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“Un Errani ecclesiastico per i beni salvati” MONS. CORRADINI: INSIEME CURIA E LAICI PER RICOSTRUIRE
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In alto, Monsignor Sandro Corradini Qui sopra, quello che resta della chiesa di San Marco in Colpolina a Montazzano di Fiastra
ccorre evitare che il post terremoto faccia più danni del terremoto stesso”. Monsignor Sandro Corradini, studioso della storia della Chiesa e dell’arte, esperto di Caravaggio, membro della Congregazione cause dei santi, “avvocato del diavolo”, ha le idee piuttosto chiare su quello che sarebbe necessario fare nelle Marche per la ricostruzione a cominciare dalla tutela di tutto ciò che racconta la fede, la storia, l’arte. “Un bene culturale è irripetibile - dice -, va salvaguardato sempre e comunque” ma non solo. Dalle rive del lago Polverina, suo luogo di origine, da dove ci ha accompagnato a vedere alcune ferite provocate da “questo serpentone e dal suo cammino nella terra”, dice che “la prima cosa da fare é far ripartire il territorio, definire una strategia ricostruttiva per ridare dignità di vita a tutte le aree colpite in cui si era riusciti a creare un’economia mista ma integrata fra agricoltura, produzioni, tipicità, unite ad un museo diffuso, unico, prezioso. Senza queste condizioni, molte delle persone che sono state costrette a spostarsi potrebbero decidere di rimanere sulla costa”. Questo vorrebbe dire la perdita delle comunità, di un’identità e anche delle opportunità che nascono dal turismo, dall’interesse per tutto ciò che è cultura. “La sicurezza degli edifici, delle chiese, dei monasteri è
ovviamente la prima cosa afferma -, ma lo è altrettanto la tempestività. Ci sono beni che si stanno sgretolando, come Santa Maria in Via a Camerino o San Marco in Colpolina, a Montazzano di Fiastra, edifici che sono ‘esplosi’ per il sisma, maciullati dalle scosse, che hanno dovuto subire anche i gravi danni dell’inverno e che rischiano di scomparire. Non possiamo cedere alla strategia della ruspa, degli abbattimenti. Dobbiamo conservare anche fossero solo le pietre, se i muri sono crollati, perchè un domani si potrà ricostruire. Dobbiamo fare l’autopsia, la biopsia dell’edificio per capire cos’è successo, per scoprire quali erano i sistemi antisismici più arcaici e acquisire informazioni che possono essere senz’altro utili in tutta la ricostruzione”. Una rigenerazione che non è detto debba essere fatta tutta insieme, per arrivare ad una restituzione completa. “Bisogna dirselo che le risorse per fare tutto non ci sono - sottolinea monsignor Corradini -, dove è possibile, allora, cominciamo con interventi graduali, più leggeri, ad esempio il reintelaggio di un quadro, che avranno un costo minore rispetto al restauro completo ma potranno consentire di conservare il bene finchè non sarà possibile intervenire in maniera più strutturale”. Sulla necessità di radunare i beni culturali danneggiati all’interno dei depositi attrezzati, monsignor Corradini non ha dubbi ma “bisogna che tutti tornino nei luoghi di origine - dice - non basta ammassare e custodire. Occorre che la classificazione prima
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e la conservazione poi avvenga con la massima cura. Temo che ci possa essere un problema iconografico, specie in campo religioso. E’ invece fondamentale archiviare con precisione tutti i pezzi, intatti o danneggiati, indicando la giusta provenienza e l'iconografia. Purtroppo non sappia-
In alto, il Monsignor esperto di storia della chiesa e dell'arte Nelle altre immagini, le chiese di San Marco in Colpolina e Santa Maria in Canonica a Fiastra
mo fra quanti anni potranno rivedere la luce, magari fra venti-trent’anni, quando potranno essere di nuovo esposti al pubblico. Forse non sarà la stessa generazione che li ha presi in custodia a ridare loro vita e senza la necessaria precisione rischiamo di perdere il nostro patrimonio di conoscenza. Un patrimonio ferito che sarebbe giusto
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esporre, per far vedere quello che il sisma ha provocato, creando anche luoghi della memoria e musei geo-sismici per conoscere le tracce del terremoto sul territorio”. Nella prossima fase di recupero sarà fondamentale anche il ruolo della Chiesa. “Non dico che sarebbe necessario nominare un Errani ecclesiastico per affrontare la ricostruzione - sostiene monsignor Corradini -, ma nominare un’èquipe di sacerdoti e laici per trattare i beni insieme, senza bende sugli occhi, e poter contribuire, con le proprie opinioni e consigli, a ripristinare i luoghi di culto, in modo anche di non subire più restauri chiavi in mano, come avvenne dopo il terremoto del 1997, con interventi talvolta discutibili. Le chiese, gli edifici di culto non sono solo proprietà di una diocesi ma di un popolo che li ha pagati nel corso del tempo. I veri custodi di questi beni sono gli abitanti del posto e tutti noi dobbiamo ispirarci a loro. Così, non possiamo aspettarci tutto dallo Stato ma dobbiamo pensare a recuperare questo senso del possesso di una comunità e attrezzarci per poter intervenire dove lo Stato non riesce”. Aspettando la lenta partenza della ricostruzione, anche per monsignor Corradini, occorre pensare alla valorizzazione dei beni culturali, da esporre in mostre fuori dalla regione, in luoghi di grande frequentazione turistica, come Firenze appunto o Roma, Milano. Anche quelli danneggiati. “Come biglietti da visita della bellezza delle nostre terre, che continuano a meritare di essere visitate e amate”. ¤ p.c.
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Salviamo la chiesetta gioiello dei Sibillini MADONNA DEL SOLE, IL FAI LANCIA RACCOLTA DI FONDI
S di Franco De Marco
alviamo la chiesetta gioiello del popolo dei Sibillini. Salviamo l’identità e la cultura del territorio ferito dal terremoto. L’Oratorio della Madonna del Sole di Capodacqua, frazione di Arquata del Tronto (Ap), risalente al XVI secolo, che tradizione ed esperti autorevoli attribuiscono al genio di Cola dell’Amatrice, pittore, scultore e architetto protagonista del Rinascimento, è stato semidistrutto dalle fortissime scosse del 24 agosto prima e del 30 ottobre poi. C’è il rischio di perderlo per sempre. Il Fai - Fondo Ambiente Italia - ha avviato, a livello nazionale, una raccolta di fondi per recuperarlo oltre a mettere subito a disposizione il denaro per la messa in sicu-
rezza ed evitare la perdita di un capolavoro universale. La cappella cinquecentesca venne costruita nel luogo dove avvenivano nell’antichità riti naturalistici in onore del sole. Poi la comunità locale sostituì il culto con quello per la Vergine. Dal profano al sacro. Dopo la scossa del 24 agosto 2016 la facciata principale e la cornice del rosone sono parzialmente crollate e gli splendidi affreschi della seconda metà del Cinquecento custoditi all’interno, come l’Assunzione della Vergine tra gli Apostoli e la Madonna del Sole (il dipinto più antico, sopra l’altare, risalente al 1523) attribuita ad un allievo di Carlo Crivelli, sono stati gravemente compromessi. L’altra forte scossa del 30 ot-
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L'Oratorio del Cinquecento quasi completamente distrutto dalle scosse Preziosi dipinti rischiano di andare perduti per sempre
tobre ha fatto crollare il secolare campanile a vela che era rimasto intatto. Nonostante ciò l’Oratorio, a pianta ottagonale, costruzione molto singolare, artisticamente molto elevata per una zona periferica come Arquata del Tronto, ancora resta miracolosamente in piedi. Il 16 novembre, subito dopo la prima grande scossa di terremoto, grazie all’impegno del Fai, sono potuti riprende-
re i lavori di consolidamento per garantire un futuro ad un pezzo di storia che appartiene a tutti gli italiani. Paradossale il fatto che, prima del terremoto, i pochi abitanti del posto, una cinquantina, in due occasioni, si erano autotassati per il restauro degli affreschi. Le continue scosse hanno vanificato l’intervento. È uno dei pochi esempi di edificio rinascimentale
In alto a sinistra esterno dell'oratorio Madonna del Sole danneggiato dal sisma Nelle altre foto primi interventi all'interno e all'esterno della struttura per la messa in sicurezza
Qual è valore artistico e sociale di questo monumento? «Enorme per entrambi i livelli. - risponde Alessandra Stipa presidente di Fai Marche e capodelegazione Fai di Ascoli Piceno - Sul piano prettamente artistico c’è da dire che si tratta di uno dei pochissimi esempi esistenti di edificio completamente
18 rinascimentale. Sul piano sociale il legame con la comunità locale è strettissimo, identitario, indissolubile nei secoli. Ecco perché lo abbiamo scelto». Nicola Filotesio, detto Cola dell’Amatrice, pittore e architetto, morto a 67 anni, nacque ad Amatrice il 9 settembre 1480 e morì ad Ascoli Piceno il 31 agosto 1547. Sin dal 1509-1510 , secondo i documenti, ebbe rapporti con la città di Ascoli Piceno dove venne ad abitare, dove si sposò e dove, il 20 dicembre 1518, prese la cittadinanza e fu nominato «pubblico architetto». Suo, per fare un esempio di maestria, è il disegno della facciata posteriore del Palazzo dei Capitani del Popolo. Cola dell’Amatrice ha lasciato opere di straordinaria bellezza soprattutto nel capoluogo piceno. Nel corso della sua attività artistica subì gli influssi di Carlo Crivelli, Raffaello e Michelangelo Buonarroti dopo un soggiorno a Roma. Proprio per i suoi natali, residenza e attività, Nicola Filotesio, è oggi diventato - lui non l’avrebbe mai immaginato - il pittore simbolo dei Sibillini, di quel vasto territorio del Centro Italia martoriato dal terremoto dell’anno scorso. Che l’Oratorio sia stato costruito su suo disegno e abbellito dalla sua pittura sembra certo come testimoniano alcuni autorevoli esperti. Non si è mai trovato, questo è vero, il documento che certifica la committenza e tale circostanza ha creato qualche dubbio. Infatti non mancano altri qualificati esperti d’arte che non concordano sull’attribuzione dell’opera a Cola dell’Amatrice. Simbolo religioso ma anche culturale L’importanza dell’Oratorio della Madonna del Sole non è solo storica e artistica ma
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anche e forse soprattutto perché rappresenta l’identità degli abitanti di questa terra. Simbolo religioso, simbolo di appartenenza, simbolo culturale. L’operazione di salvataggio lanciata dal Fai rappresenta anche la testimonianza concreta di una terra che non si arrende alle macerie e che vuole rinascere. Sono stati già raccolti oltre 200.000 euro. Ne servono però 600.000. Cittadini di tutta Italia, Delegazioni Fai anche molto lontane, si sono dimostrati generosi e impegnati. Anche dalle istituzioni pubbliche e private locali si attende altrettanta generosità fino ad ora assente. Questa non è una semplice raccolta di fondi, come si fa in tante occasioni, ma la condivisione di un sentimento. Le scosse a ripetizione, 50.000, che si sono susseguite nel Centro Italia da quel maledetto 24 agosto ad oggi, hanno distrutto o semidistrutto un immenso e prezioso patrimonio artistico. Chiese, dipinti, sculture, eccetera. Portata in salvo dai Vigili del Fuoco la copia autentica della Sacra Sindone custodita nella Chiesa di San Francesco di Arquata del Tronto. La rinascita significa sì ridare prima di tutto una casa a chi l’ha perduta ma anche riappropriarsi del patrimonio culturale devastato. Con la cultura non solo si mangia ma si vive, si rivive e si alimenta l’anima di un popolo. E si portano turisti dando ossigeno all’economia. L’Oratorio della Madonna del Sole è sopravvissuto, come detto, grazie ai lavori di messa in sicurezza provvisoria stimolati dal Fai ed eseguiti da Vigili del Fuoco e Protezione Civile su progetto della Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio delle Marche. Le impalcature, i puntellamenti e i supporti lignei hanno fatto sì che la
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struttura restasse in piedi. La chiesa ha quindi resistito al più recente sciame sismico ma sono gravi i danni delle prime scosse. I frammenti lapidei sono stati raccolti, catalogati, immagazzinati e messi in salvo. Fortemente lesionato anche l'interno caratterizzato da affreschi di grande pregio. «Nonostante la tenacia e la tempestività - afferma Alessandra Stipa - i danni sono
ingenti. Per questo ora è necessario l'aiuto di tutti. Il Fai si appella alla solidarietà degli italiani affinché partecipino alla raccolta fondi a favore di questo bene e contribuiscano a dare un segnale di forza e speranza. Gli abitanti di Capodacqua sono da sempre legati al
Sopra, l'Assunzione della Vergine tra gli apostoli il dipinto più antico risalente al 1523 e attribuito ad un allievo del Crivelli.
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Servono 600 mila euro ne sono stati raccolti gia 200 mila Tradizione ed esperti attribuiscono la struttura al genio di Cola dell'Amatrice
In alto l'ennesimo intervento dei vigili del fuoco e una panoramica esterna dell'oratorio danneggiato
loro oratorio. Il denaro raccolto, del quale sarà data comunicazione ufficiale, - continua Alessandra Stipa - sarà gestito dal Fai esecutore di un progetto in accordo con la Soprintendenza: prevediamo un adeguamento sismico compatibilmente con la struttura. I lavori saranno appaltati ad aziende possibilmente locali. La popolazione è affezionatissima a questo luogo. Lo abbiamo scoperto anche in occasione delle passate Giornate di Primavera quando abbiamo aperto diversi beni ad Arquata, ma non questo oratorio poiché era in restauro grazie ai soldi raccolti dagli stessi abitanti.
È un segnale dell'orgoglio di vivere in un posto ricco di fascino che il Fai ha colto e intende preservare. Il parroco Francesco Armandi ha definito un miracolo l'intervento del Fai e credo non abbia esagerato». Su questo monumento si sta concentrando l’attenzione di tutta Italia. Se ne è parlato anche al convegno nazionale del Fai al Lingotto di Torino intitolato «Con i piedi per ter-
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ra» e dedicato alla prevenzione dei terremoti. «Preghiamo tutti di stringersi attorno a noi - conclude Alessandra Stipa - per aiutarci con i loro piccoli e grandi contributi nello sforzo di restituire a queste nostre terre un piccolo bene simbolo della caparbia volontà degli abitanti di non abbandonare le loro case, i loro borghi, la loro vita travolta in due minuti e quattordici secondi dalle scosse e con essa la storia di tutta una comunità». «Mettiamo al servizio della ricostruzione il nostro supporto conoscitivo e operativo mobilitandoci per il salvataggio di un bene così importante e simbolico per la collettività. - afferma Andrea Carandini presidente nazionale Fai - Un gesto concreto, un piccolo passo per favorire il recupero dell’identità perduta del borgo e consentire alla popolazione di rientrare al più presto in possesso di un luogo molto amato. Con la speranza che tutti i nostri iscritti e gli italiani partecipino a questa raccolta fondi». Come si può effettuare la donazione? On line su www. faiperilterremoto.it, al telefono con la carta di credito chiamando il numero 02467615259, con bonifico bancario con codice Iban IT 29J033590160010000001752 (causale: Appello Terremoto Arquata 2016) o con bollettino ccp n. 11711207 intestato a Fondo per l’Ambiente Italiano. «Non possiamo fermare i terremoti ma possiamo rinforzare i territori perché possano resistere e reagire ad eventi catastrofici come il terremoto», fa notare il Fai. ¤
La storia|Antichi mestieri
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Un grande artigiano in una fornace antica A PETRELLA L'ULTIMO LAVORATORE DEGLI "EMBRICI"
L di Romano Folicaldi
In alto, Giovanni Falcioni e la sua bottega a Petrella una frazione di Ripatransone
a meta di quel sabato mattina era stata quella di andare a vedere una fornace a dimensione artigiana, alla quale era stata commissionata la fornitura di alcuni laterizi necessari al restauro di un palazzo fermano. Salendo dalla piana sul cui bordo a mare sorgono Grottammare e San Benedetto, lungo la strada che sale verso la collina, avevamo incontrato ancora una volta quella profonda ferita del terreno costituita dai calanchi che qui possono essere visti da vicino, facilmente, dalla curva della strada che li lambisce, dove le terre e le argille erano state dilavate mettendo a nudo nervature dal bordo sottile, bianche, quasi taglienti. Una vista al tempo terrrificante ma piena di fascino. Proseguendo ancora ci eravamo immessi in un’altra strada, che, se percorsa verso sinistra, porta a Ripatransone, un luogo che i Centocittadini ben conoscono.
Andando invece verso destra, dopo pochi chilometri si incontra invece la frazione di Petrella, e quasi di fronte alla piccola chiesa di Santa Maria della Petrella, al cui interno i numerosi affreschi testimoniano la devozione nei confronti della Madonna e dei Santi raffigurati, a protezione delle malattie e delle pestilenze, c’è la piccola fornace "Cotto Santa Maria della Petrella" (rimando a un altro momento le considerazioni che mi verrebbero da fare sulle frazioni dei comuni, le loro caratteristiche, la loro importanza, e il cui numero è stato al centro delle cronache di questi ultimi tempi, per dire invece qualcosa dei motivi che mi avevano fatto arrivare là, motivi che fanno un tutt’uno con il piccolo opificio che mi apprestavo a conoscere). Qualche mese prima avevo avuto l’opportunità di seguire una parte dei lavori di restauro di un palazzo fermano, Palazzo Monti, realizzato a
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Giovanni Falcioni ultraottantenne trasmette forza ed energia solo lui nelle Marche riesce a realizzare questi embrici
22 metà dell’Ottocento su progetto dell’architetto Giovanni Battista Carducci, cui si deve anche l’importante intervento urbanistico su Fermo di fine Ottocento, che aveva così permesso che grossi carri prima, autocarri e automobili poi, potessero accedervi e percorrerla. Nella revisione delle condizioni del tetto, si era constatato come molte tegole fossero rotte, e altrettanto si fosse verificato a carico di parecchi elementi di un particolare laterizio, di forma rettangolare, chiamato "embrice" che, posto nella parte più declive del tetto al di sotto delle tegole, previene possibili infiltrazioni nelle pareti murarie dell’acqua nel suo passaggio alla grondaia. Da questo fatto l’etimologia latina. Ma mentre le tegole costruite oggi possono, per le loro misure, sostitursi a quelle vecchie e rotte, non era stato altrettanto possibile che questo avvenisse per gli embrici, poiché quelli attualmente prodotti industriamente non erano delle dimensioni appropriate. Per portare avanti un restauro che, accanto alle più recenti soluzioni tecniche che comprendono anche la tutela antisismica, avesse il carattere di essere filologicamente corretto, almeno fin dove era possibile: era necessario trovare qualcuno che fosse in grado di ricostruire questo laterizio, nella forma e nelle dimensioni in cui era stato pensato all’inizio, senza dover ricorrere a soluzioni alternative con materiali differenti, della cui messa in opera, tra l’altro, nessuno avrebbe mai potuto accorgersi. Già ma chi avrebbe potuto apprezzare anche tutta la sapienza, la cura così contigua all’amore, che questi uomini stavano mettendo in atto per questo restauro, se non le pochissime persone che avevano avuto la ventura di essere presenti a quei momenti?
Questo era una specie di rovello che mi portavo dietro da qualche tempo, cioè quello che tutto questo non potesse essere visibile, un capitale tramandato per generazioni nel costruire le case, e ora impiegato per portare a nuova vita edifici che l’incuria di tanti anni aveva messo in pericolo di sopravvivenza. Questo e tante altre occasioni che sotto questo profilo a questo potevano essere accomunate, avevano fatto sorgere in me un sentimento quasi di rabbia, tanto che incontrando a Bologna, di persona, dopo tanto tempo, una vecchia amica (vecchia solo d’amicizia), non avevo potuto fare a meno di esprimerle questo mio stato d’animo. “Ma le vedranno gli Angeli” mi aveva detto, con molta calma, riportandomi la risposta che Gaudì aveva dato a uno che gli diceva che gli sembravano inutili tutte le minuziose decorazioni che ornavano la guglie della Sagrada Familia, tanto non le avrebbe potute vedere nessuno. Ma gli Angeli sì, specialmente quelli Custodi, forse non ce ne sono abbastanza, e non date retta a certi miscredenti come me, che non ci credono. Ma tornando al punto rispetto al quale avevo solo apparentemente deviato, si era deciso che fosse necessario ricorrere a una confezione di questo laterizio su misura, cosa non facile, tanto più che ne erano necessari un numero limitato di pezzi. Di artigiani in grado di far fronte a questo tipo di richiesta e in queste quantità, nelle Marche, i responsabili del cantiere avevano detto che ce n’erano rimasti, a loro conoscenza, solamente due, e il più vicino era un vecchio fornaciaio, che solo anagraficamente si sarebbe poi dimostrato tale, che abitava dalle parti di Ripatransone. Ad accompagnarmici era stata una persona amica che, aveva unito alla formazione
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professionale e alla vasta esperienza specifica, la passione per i molteplici significati del costruire: trovandosi a ricoprire il ruolo di presiedere una delle due braccia in cui si articola l’Istituto di credito che maggiormente si identifica nella città, aveva indirizzato le finalità dell’Ente verso l’acquisizione di questo palazzo, sottraendolo così al progresivo degrado, per restituirlo poi, restaurato, alla fruizione della comunità. Entrati nel capannone che pareva disabitato, con l’esitazione di chi si introduce in casa d’altri avendone trovata aperta la porta, dopo diversi “È permesso?”, dal fondo era emersa la figura potente di questo vegliardo, a cui gli anni sembravano aumentare la sensazione di forza che trasmetteva, in pantaloni fino al ginocchio e a torace scoperto: non per niente eravamo nel mese di luglio. Era Giovanni Falcioni, il cui sguardo accigliato e burbero dell’inizio aveva lasciato spazio a una espressione di cordiale accoglienza, a volte con un sorriso pieno di humor, raccontandoci di come era avvenuta la prima fase della costruzione degli embrici, essendosi fatto costruire un calco in fibra di vetro modellato su uno dei manufatti che si era mantenuto particolarmente integro, per costituire la forma negativa, generatrice di tutti i nuovi embrici, ai quali andava cambiando posizione, intanto che parlavamo, perché si asciugassero meglio, fino al punto ottimale per essere poi cotti nella sua fornace. Il piacere di raccontare come gestiva il suo lavoro, aveva dato origine a una narrazione dalla quale traspariva, in maniera sempre più evidente, tutta la sua passione, il piacere fisico con il quale le sue mani plasmavano, accarezzavano la creta, indicando le sottogliezze funzionali di ognuno dei suoi manufatti,
23 piccole serie di mattoni fatti a mano, cornici, elementi di composizioni decorative a forma di rosoni, piccole figure, quasi sempre femminili, a volte piccolissime, come il gruppo della Madonna con il Bambino, seduto sul tetto di una Santa Casa. Da parte mia, a volte si sente il bisogno di dire qualcosa sull’argomento anche se se ne è all’oscuro, avevo raccontato quanto mi aveva riferito una persona che pur non essendo un artista di professione, si era cimentato nella realizzazione di forme con la creta, forme che non sapendole definire meglio potrei dire astratte, molto sottili e che si sviluppavano verso l’alto tanto che di questo fatto si erano meravigliati professionisti del modellare la creta, di come nella fase dell’asciugatura che precede la cottura, non si fossero ripiegate su sé stesse. “La creta avverte la qualità della mano che la sta modellando, - mi aveva detto la persona a cui mi riferivo - e quindi si comporta in maniera differente a seconda che la sente amica o indifferente, ” E tra le mani amiche c’erano certamente anche quelle di Giovanni Falcioni. Queste grosse mani, in linea con il resto della corporatura, mani che gli anni e il continuo lavoro a contatto con la creta avevano reso un po’ limitate nel movimento delle dita, ma che mantenevano un’estrema leggerezza e delicatezza quando afferravano un manufatto per mostrarlo all’interlocutore, stringendolo con quel minimo di forza necessaria a trattenerlo per non farlo cadere a terra. Anche gran parte degli strumenti che tutt’ora adopera sembravano ripetere il senso di una vita trascorsa assieme a chi ora li stava ancora adoperando: il mulino per rendere omogenea la creta e forse per miscelarla, il compressore, l’estrusore dal quale
In alto a sinistra, l'ottantenne artigiano con la moglie Maria Pia Sotto, impegnato nella lavorazione della creta Qui sopra, una sua opera "Nudo di donna"
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Fin da ragazzo portava con sé un blocco di creta con cui creava forme e realizzava sogni con le sue grosse e sapienti mani
Falcioni ha la grande capacità di dare vita a elementi decorativi anche complessi come i rosoni
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continuava eliminare quanto ne usciva fino a quando questo non assumeva l’aspetto di una spessa e liscia lamina di creta. Questo voleva dire che erano state eliminate tutte le impurità, sassi e grumi che davano a quanto usciva dall’estrusore l’aspetto di affascinanti, ma inutili, efflorescenze. Giovanni Falcioni, in una delle visite successivamente fattegli, mi raccontava che fin da ragazzo, nei luoghi in cui andava a lavorare, si portava sempre dietro un blocco di creta, sul quale, alla sera, finito il lavoro, mi verrebbe da dire sfogava e placava il suo desidero di creare forme, di realizzare i sogni e i progetti che gli passavano per la mente. Così ha sviluppato, attraverso un continuo esercizio da autodidatta, la dote di dare vita alle forme più differenti, dagli elementi decorativi anche complessi, dai rosoni, alle formelle nelle quali condensa i caratteri di un luogo o il momento più drammatico di un avvvenimento. La figura umana è uno degli interessi più evidenti, dalle piccole figure a quelle a dimensione naturale come alcuni elementi per un Presepio che da anni convivono sotto a una grossolana copertura assieme a un giovane nudo di donna che non può non suscitare qualche risonanza. Giovanni Falcioni ha più di ottant’anni: ha ancora forza ed energia da vendere. È padrone di un’attività sempre più di nicchia, ma sempre più preziosa proprio perchè possiede un bagaglio di conoscenze, di esperienza difficilmente riscontrabili in persone molto più giovani di lui, direi un
passaggio obbligato per la soluzione di problemi che si presentino durante interventi di restauro. Nonostante questo un’idea è sempre presente nel suo pensare, ed è quella di “lasciare in eredità” questo patrimonio che è solo in parte commerciale, a qualcuno che ne prosegua anche lo spirito: un’intenzione questa che determina immediatamente, in chi l’ascolta, un’attenzione molto viva, entusiasmi anche, ma che poi gradatamente si esauriscono e non trovano quella soluzione che si vorrebbe. Lui abita con la moglie Maria Pia, in una villetta con un grande giardino contigua alla fornace, con una veranda in cui sono presenti evidenti i segni della passione di Giovanni, formelle, piccole figure, la cornice delle porte. Fa loro compagnia un grosso e affettuoso pastore abruzzese: spero che qualche fotografia riesca a dare, più rapidamente, un’idea almeno del loro mondo. I loro figli ricoprono incarichi di responsabilità in strutture finanziare ed economiche di rilievo, in grandi città. “I sogni muoiono all’alba” era il titolo di un vecchio film alla cui regia aveva collaborato anche Indro Montanelli: speriamo non tutti, per esempio quello che un giorno un ragazzo extracomunitario che magari nel suo paese d’origine abbia lavorato in una rudimentale fornace e che abbia quindi il gusto per questi materiali, bussi a quella porta e che con umiltà e passione, un poco alla volta, riesca a fare tesoro di quanto vedrà fare dal vecchio, più propriamente dall’antico e proprio per questo, forte Fornaciaio di Petrella. ¤
Pisaurum|Una realtà nella storia
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Pesaro, dal mito dell'oro alla città intermedia L'IMMAGINE LETTERARIA DEL CAPOLUOGO IN DUEMILA ANNI
C di Nando Cecini
ome un calendoscopio multicolore, si presentano alcuni riferimenti testuali per contribuire a un’immagine letteraria di Pesaro. E’ conseguente che la memoria di una città si trovi nel passato. Così anche Pesaro ha il suo mito insito nei tempi della Repubblica romana. Tutto ha inizio con una leggenda dai labili confini tra un fatto storico, realmente verificato, e un improbabile riferimento etimologico. I Romani
lecinquecento anni dopo, il mito dell’oro pesarese torni nel grande poema di Ludovico Ariosto, quando nel canto quarantaduesimo dell’Orlando Furioso, tessendo le lodi dello sfortunato poeta pesarese Guido Postumo dè Silvestri, scriverà che il toponimo della città era legato all’oro dei Galli , “…che per pesare il romano oro / di che perpetuo nome le rimase”. E l’oro torna anche in un carme di Catullo, quando si rivolge con un invettiva all’amichetto, che lo tradiva con uno sconosciuto pesarese, “Così Giovenzio, tu fra tanta gente / non trovasti nessun uomo gentile / all’infuori di questo moribondo / tuo pesarese, più di statua d’oro / pallido ospite”. Si avvera l'invettiva di Catullo
Tutto ha inizio da una leggenda dai labili confini tra fatto storico e riferimento etimologico legato al nobile metallo
furono sconfitti dai Galli nel 320 a.C. e pagato per riscattare il Campidoglio un’ingente quantità di oro. Alcuni storici sostengono che l’oro versato ai Galli non fu mai ripreso. Tanti altri, rifacendosi a Servio, scrissero che l’oro venne recuperato a Pesaro, da ciò il toponimo Pisaurum, dall’avvenuta pesatura del prezioso metallo [Pesa l’oro=Pis/aurum]. E’ significativo come mil-
Il traduttore, Enzio Cetrangolo, lega il termine moribondo al rivale in amore di Catullo, dal volto giallastro più pallido dell’oro. Ma una più corretta interpretazione filologica collega invece il verso “Praeterquam iste tuus moribunda sede Pisauri”, direttamente alla città di Pesaro destinata a decadere. L’invettiva di Catullo si è realizzata qualche secolo dopo, nel 544 d.C., quando Pesaro venne distrutta dai Goti e la periferia, fuori dalle mura abbattute, divenne “un luogo adatto al pascolo dei cavalli”. Decadenza durata lungo il Medioevo fino al secolo XIII, quando si può intravvedere una rinascita urbanistica, attentamente descritta da Annibale Abati Olivieri nel volume sulla storia della Chiesa
Pisaurum|Una realtà nella storia
A visioni oniriche si contrappone una tarda descrizione ottocentesca più triste e monotona
Nella pagina precedente la pianta di Pesaro (J. Blaeu 1663) Qui sopra, piazza Doria e la chiesa del Porto del primo decennio del novecento Nella pagina a fianco Porta Fano del 1910 (Archivio Stroppa Nobili)
pesarese di quel tempo. In questa prima “guida” si delinea una città, ricostruita dall’Olivieri con acribia documentale, circondata da mura quadrate, con chiese, torri, strade lastricate, orti e coltivi intorno alle porte aperte sui quattro punti cardinali. Presso che nulli i reperti archeologi di quel tempo. Oltre le memorie letterarie, restano i riquadri delle tarsie del coro nella chiesa di Sant’Agostino. E’ stato scritto, “Potrebbe apparire una città immaginaria, una di quelle città nate, quasi come un dilettoso esercizio della fantasia di un pittore invaghito dalla grande scoperta del suo secolo, la dolce prospettiva”. Alla visione onirica delle tarsie sforzesche, si contrappone una tarda descrizione ottocentesca, più aderente alla realtà del tempo, “Nell’interno la città si presentava d’aspetto triste e
monotono. Molte case cadenti della vecchia costruzione gotica dal 1000 al 1200 colle finestre e porte ad arco acuto e con muri e pietre anneriti dal tempo … le strade erano tortuose e strette e le case, generalmente irregolari e quasi tutte a un sol piano, avevano le finestre con le imposte a sola tela”. La medesima osservazione si può leggere in una lettera
26 di un viaggiatore anglo-francese, Maximilien Misson, che passò da Pesaro nell’inverno del 1688; faceva molto freddo e le finestre erano senza vetri. Il Rinascimento pesarese Il mito letterario di Pesaro cambia registro nel corso del XVI secolo, in concomitanza del trasferimento della capitale dell’antico Ducato di Urbino a Pesaro, voluto dai Della Rovere. Non più un città decadente e semi distrutta, ma una capitale in pieno sviluppo, un Rinascimento pesarese. Archetipo letterario resta la topografia storico-geografica di Fra Leonardo Alberti. Dopo una lunga divagazione storica, ripresa in parte dalla quattrocentesca Italia Illustrata di Flavio Biondo, Alberti descrive la città di Pesaro da lui ben conosciuta, avendovi vissuto nel convento dei Domenicani, “Ell’è d’edifici vaga et ha il sontuoso palagio …” Si dilunga poi a descrivere il paesaggio che la circonda, “Egli è il territorio di essa città molto ameno, e quasi tutto pien di belle vigne, di fichi, di olivi, et di altri fruttiferi alberi”. Il palinsesto di Pesaro città di bei palazzi, di giardini e dintorni fioriti, avrà risonanza europea nelle didascalie degli atlanti alemanno-olandesi. Cito dall’edizione francese di Braun, “La ville est presentement plaisant et belle d’edifices, en laquelle Joannes Sfortia a basti un chasteau beau et fort, au bord de la mere”. Alcuni decenni dopo, nel capolavoro cartografico di Jean Blaeu si legge, “Pesaro … costruita in riva al mare e in più bagnata ad ovest dal fiume Foglia, è abbellita di molte case dall’aspetto gradevole e da un magnifico palazzo. Inoltre è
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fortificata di mura robuste, di bastioni, da un castello”. Oltre agli atlanti anche le guide del Grand Tour e le enciclopedie storico-geografico, tra Sei e Settecento, presentano una Pesaro armoniosa e piacevole. In una delle decine di edizioni, la prima risale al 1600, tradotta nelle principali lingue europee dall’originario latino, dell’Itinerario di Franz Schott, si legge, “E’ fortificata con cinque buoni bastioni … si fabbricò una buona Fortezza, … Il sito della città è assai bello essendo circondato da feconde colline, con un Porto assai buono … la Piazza è assai spaziosa e vi è il bel Palazzo del Presidente”. Molto conosciuto è il testo enciclopedico dell’inglese Thomas Salmon, esemplato sulla precedente letteratura, ma anche con osservazioni originali, “[Pesaro] E’ collocata in situazione assai comoda e dilettevole che si potrebbe chiamare il giardino d’Italia … le Strade sono larghe e adorne di begli edifici … assai spaziosa la Piazza ove sono degne da vedersi la Casa della Città, la Chiesa dei Domenicani e la bella Fontana; oltreché quasi tutte le case che la circondano, paiono altrettanti Palazzi sostenuti da portici, sotto dè quali vi sono le botteghe di molti ricchi mercatanti”. Un dotto gesuita, Francesco Antonio Zaccaria, in forma epistolare consacra, a futura memoria, il mito letterario della cultura pesarese del Settecento. Si leggono le biografie dell’Olivieri e del Passeri, arricchite di notizie bibliografiche di manoscritti, incunaboli, preziosi volumi, molti dei quali oggi introvabili. Anche lungo l’Ottocento continua il mito della bella città. Cito da un poco frequentato testo di un ufficiale dell’esercito austriaco, Francesco Gandini,
“[Pesaro] Di mezza grandezza, è munita e ben fabbricata, con le strade diritte e spaziose, molto pulite, e fiancheggiate da begli edifici … Possiede Pesaro, un seminario, un ginnasio, un’accademia di lettere, un’accademia di letteratura, tre teatri, due dé quali privati, ed uno pubblico di nuova costruzione, una scuola di anatomia, di veterinaria, di disegno, un giardino botanico e parecchi istituti di beneficenza, tra’ quali un assai ben regolato ospedale di pazzi”. Se Pesaro piace agli Italiani, non così agli Inglesi che ne
infrangono il mito dell’ospitalità come l’architetto T. G. Jackson che, sceso all’Hotel Zongo, annota, “Stando attenti dove mettevano i piedi poiché l’impiantito era cosparso di paglia e di letame, giungemmo alla base di un’immensa scalea, degna di un castello di un gigante”. Con buona pace del Jackson, Pesaro, dalla seconda metà dell’Ottocento fino ai giorni
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Il grande Stendhal era attratto da Pesaro Qui sarebbe vissuto volentieri nel segno dell'amato Rossini
In alto, l'acquaiola davanti a Rocca Costanza (1921-archivio Stroppa Nobili) Qui sopra, un ritratto di Stendhal
odierni è diventata una meta turistica tra le più frequentata delle Marche. Lo spazio non permette di indagare sui viaggiatori stranieri di passaggio a Pesaro tra Cinquecento e Ottocento. Invero tra i testi si riscontra una lunga serie di stereotipi, che si rimbalzano tra gli autori e ne giustificano in parte la dimenticanza. Salvo qualche eccezione come il grande Stendhal che a Pesaro sarebbe vissuto volentieri, nel segno dell’amato Rossini. Nella seconda metà del Novecento, anni settanta, si registra il tentativo di proporre una lettura più moderna ed attuale del mito di Pesaro. Una nota rivista di arredamento, ma non solo, dedica a Pesaro un inserto dal titolo significativo, Pesaro una città intermedia (tra provincia e mondo), a cura dell’architetto Valerio Morpurgo, con un interessante apparato fotografico di Luigi Ciminaghi. L’occulto ispiratore, presente con un’intervista, può essere stato l’allora sindaco Marcello Stefanini, particolarmente attento ai problemi e alle pro-
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spettive culturali della città. Morpurgo per riproporre un mito significante della città elenca alcune emergenze singolari: una atipicità nel contesto regionale per una continuità con la Romagna; la presenza di un centro storico non omogeneo; il salto qualitativo del processo città-campagna; la velocità di trasformazione delle strutture produttive; l’accrescimento urbano; la presenza di determinate strutture culturali come per esempio il Conservatorio, (bisognerebbe aggiungere la Biblioteca e i Musei Oliveriani); la continuità di una guida politica di sinistra a partire dal 1946; largo spazio è riservato al piano urbanistico tra i primi in Italia; si illustrano poi gli orti; l’altra città dei quartieri periferici; la città a mare; le industrie dei mobili e delle ceramiche; tre tipologie abitative; un’ipotesi di verde per il parco dell’Imperiale. Sono passati poco più di quarant’anni, anche il mito pesarese del 1975 è diventato storia. Per la città dobbiamo inventarne uno nuovo, non solo letterario. ¤
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Mosaici del Duomo vietato l'oblio DUE PREZIOSI LITOSTROTI DEL IV E VI SECOLO, UN PATRIMONIO DA VALORIZZARE
U di di Grazia Calegari
n argomento affascinante sul quale mi fa piacere tornare, dopo avere collaborato con la Curia di Pesaro come consulente di don Giuseppe Signoretti, allora responsabile dei Beni Culturali, nella fase di scoperta e valorizzazione degli anni 1999-2000, quando era soprintendente ai beni architettonici Maria Luisa Polichetti; poi alla stesura del volume “I mosaici del Duomo di Pesaro”, assieme a Raffaella Farioli, Francesca Trebbi, Vittorio Guidi, don Raffaele Mazzoli, Ernesto Preziosi, Antonio Brancati, nel 2005. Negli ultimi vent’anni l’argo-
mento si è come ripiegato su se stesso, dopo essere stato per qualche tempo al centro dell’attenzione cittadina e dei quotidiani locali, con entusiasmo forse un po’ provinciale perché la scoperta poteva rivelarsi importante dal punto di vista turistico e del consumo culturale (“i mosaici potrebbero essere per la città un nuovo Rof”, si diceva). E infatti quando durante i lavori di restauro interno della cattedrale, nell’estate 1999, il vecchio pavimento ottocentesco venne completamente eliminato e si rivelò per la prima volta interamente l’estensione del mosaico pavimentale, il pubblico affluì
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in numero impressionante: oltre ventimila visitatori in due settimane. I lavori, lunghi e controversi anche per le diverse posizioni delle due Soprintendenze archeologica e architettonica, che qui sarebbe troppo complicato ricordare, erano cominciati nel 1990, quando durante i lavori di restauro si coprì interamente con un provvisorio pavimento di legno l’intera superficie di calpestio della cattedrale. Ma la copertura in legno non poteva essere conservata, si diceva, per l’imminente Giubileo del 2000 che avrebbe forse portato anche a Pesaro grandi folle, e si decise di coprire tutto con un altro pavimento ‘provvisorio’ a moduli removibili che è quello ancora oggi esistente. Due pavimenti antichi per oltre 600 metri quadri
Oltre ventimila visitatori in due settimane quando i mosaici vennero portati alla luce durante i lavori del 1999
Nella pagina preccedente un dettaglio dei mosaici presenti nella cattedrale di Pesaro Sopra e nella pagina a fianco i lavori che hanno portato alla luce l'estensione dei litostroti fin sotto il sagrato (Foto Luca Toni) A destra l'incisione dedicatoria circolare in cui si fa riferimento a "Giovanni, uomo illustre" corrispondente con buona probabilità al generale Giovanni che combattè con l'Imperatore d'Oriente Giustiniano
Sotto la cattedrale di Pesaro sono conservati due pavimenti a mosaico, o litostroti: il superiore, la cui superficie si estende per circa 600 metri quadrati, risale al VI secolo e contiene rifacimenti eseguiti fino al XIII; l’inferiore, posto mediamente 70 cm. sotto, dovrebbe avere la medesima vastità , ma ne risultano visibili solo alcuni frammenti emersi in vari saggi. Dagli scavi effettuati dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici delle Marche negli ultimi mesi del 2000, sono emerse importantissime porzioni che hanno confermato l’ipotesi dell’esistenza di una Basilica paleocristiana del IV-V secolo, della quale è visibile anche la scalinata nella zona di ingresso in corrispondenza dell’attuale via Rossini. I temi simbolici raffigurati nel mosaico pavimentale inferiore (splendidi motivi geometrici, simboli cristiani come colombe, pesci, croci uncinate e a nodo di Salomone), un’iscrizione con due
30 nomi, la raffigurazione di una mitria vescovile, attestano inequivocabilmente la cultura cristiana espressa dai mosaici più antichi. La presenza di due litostroti era già nota agli storici locali del XVII e del XVIII secolo, ma solo nel corso della grandiosa ristrutturazione ottocentesca della cattedrale, eseguita in forme neoclassiche dall’architetto fermano Giambattista Carducci, avvenne il definitivo, quasi totale scoprimento del pavimento superiore, documentato dalle tavole planimetriche stampate nel 1867. Dopo più di trent’anni di dibattiti e ipotesi, i mosaici vennero definitivamente sepolti nei primi anni del ‘900, con un piano di calpestio collocato a circa 70 cm. dal pavimento superiore. La loro sorte è tornata ad essere di scottante attualità a partire dai lavori iniziati nel 1990, nel corso dei quali è emersa, tra l’altro, la prima iscrizione rimasta sepolta e ignota al Carducci, che ha consentito una datazione sicura al pavimento superiore: è l’iscrizione dedicatoria circolare (clipeo), in lettere maiuscole capitali, posta in corrispondenza dell’ingresso, e circondata da quattro aquile collegate da fiori di loto diritti e rovesci. Il clipeo dedicatorio e il suo significato Nell’iscrizione dedicatoria circolare, in lettere maiuscole capitali si legge: AUXILIANTE/ DEO ET INTERCEDEN/ TE BEATA MARIA/IOH/ANNIS VIR GLORIOSUS MAGISTROMILITUM/ ET EXCONSUL PROVIN/CIAE MYSIAE NATUS/ HANC BASILICAM/ CUM OMNI DEVOTI/ONE ET DESIDERIUM/ A FUNDAM(ent) IS/ CONSTRU(xit) (Con l’aiuto di Dio e con l’in-
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tercessione della Beata Vergine Maria, Giovanni, uomo illustre, stratega di rango consolare, originario della Misia, ha fatto costruire dalle fondamenta questa basilica, con ogni devozione). Gli studi sono stati numerosi e diverse le ipotesi: dovrebbe trattarsi, con buoni margini di probabilità, del generale Giovanni, che combattè per l’imperatore d’Oriente Giustiniano a fianco prima di Belisario poi di Narsete durante la guerra tra Goti e Bizantini, conclusa nel 553 con esiti disastrosi di rovine e incendi, e che contribuì alle ricostruzioni gestite da Belisario per conto di Giustiniano, col quale era anche imparentato per avere sposato Giustina, figlia di Germano nipote dell’imperatore Giovanni venne celebrato dallo storico Procopio, che ricorda gli “alti incarichi in Italia e nel Piceno ove nel 551 la conquista di Senigallia segna la definitiva supremazia bizantina.” La primitiva Basilica di Pesaro, incendiata e distrutta durante quei tragici eventi, fu appunto riedificata: il pavimento musivo superiore appartiene dunque ai primi anni della seconda metà del VI secolo, e fu sovrapposto dopo il livellamento delle macerie accumulate sui precedenti mosaici del IV-V. La sovrapposizione avveniva con strati d’impasto di calce e frammenti di mattoni ricoperti da un letto di posa, sul quale sono state disposte le nuove tessere, in pietre e marmi colorati di grandissimo pregio. La vastità del mosaico superiore di Pesaro, contemporaneo ai pavimenti ravennati purtroppo scomparsi delle basiliche giustinianee di San Vitale e di Sant’Apollinare in Classe, è uno dei motivi di grande interesse storico-artistico, poiché alla stesura originaria del VI secolo ap-
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partengono grandi superfici, caratterizzati dal raffinato linguaggio geometrico e simbolico della tradizione bizantina. Anche la spartizione generale dell’intero litostroto, inizialmente divisa in 20 tappeti rettangolari e quadrati, più i pannelli degli intercolumni, presenta un’evidente struttura geometrica dominata da una croce latina inscritta nella navata centrale. I rifacimenti successivi Ci sono stati poi rifacimenti successivi, eseguiti soprattutto nella navata centrale sottoposta a maggiore usura, che hanno avuto fasi particolarmente intense nel XII e soprattutto nel XIII secolo. Si riconoscono linguaggi diversi, meno astratti e raffinati rispetto a quelli bizantini del VI secolo, e vengono aggiunte nuove immagini tratte da testi come le Enciclopedie, i Bestiari, o come la nave derivata dal ciclo troiano, talmente diffuso da essere utilizzato anche in tappezzerie da parato francesi, normanne, germaniche, spagnole. Oppure figure mitologiche fantastiche, animali simbolici, mostri tratti dal Liber Monstrorum che contenevano un senso particolare del favoloso, diffuso e ripetuto in varie parti d’Europa. Da un’apertura sulla parte destra della navata centrale sono visibili, ad esempio, le Lamie, uccelli-vampiro notturni che si riteneva succhiassero il sangue dei bambini. Ci si sposta, insomma, dal punto di vista iconografico e stilistico, verso comuni radici cristiane medievali europee, con collegamenti bretoni, francesi, germanici, oltre che con riferimenti all’ambito adriatico. I mosaici di San Marco a
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33 Venezia e quelli delle cattedrali di Termoli, Otranto, Brindisi sono espressioni da confrontare con i rifacimenti medievali di quelli di Pesaro e costituiscono una straordinaria scacchiera linguistica e storica da analizzare e studiare. Dunque il pavimento di Pesaro rappresenta una sintesi preziosissima, forse unica, di espressioni astratte e figurative che dimostrano la stratificazione della storia religiosa e sociale dal VI al XIII secolo, cioè dalla dipendenza orientale bizantina alle nascenti nazionalità dell’Europa. Le parti medievali del mosaico superiore, ricche di simboli come la Sirena-pesce, personificazione della lussuria, costituiscono insomma un insieme di immagini sicuramente non meno importante e suggestivo di quello, rimasto intatto e riconoscibile, della stesura originaria bizantina del VI secolo. Per ragioni evidenti di spazio, sceglierò solo alcune parti del pavimento da commentare. Esempio del pavimento bizantino del VI secolo La navata laterale sinistra è caratterizzata da motivi geometrici con cerchi annodati a tessere nere, rosse e di marmo rosa, arricchiti da crocette floreali rosse, con al centro un raffinato motivo geometrico costituito da quadrati posti in diagonale. La composizione gioca su una ridotta e decisa gamma cromatica (rosso, ocra, marrone scuro) che dona alla superficie un’elegante uniformità, modificata solo dalle parti mancanti e da alcune evidenti sostituzioni di tessere deteriorate. “Gli ambienti di passaggio, come le navate laterali, presentano decorazioni a carattere geometrico: il loro ritmo,
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regolato da rapporti numerici molto precisi, crea un senso di continuità che si dilata secondo diverse direttrici e scandisce il passo del fedele verso la zona sacra senza distrarlo e senza richiamarne l’attenzione.”(Farioli 1975) Questo tappeto mostra uno stretto confronto con il mosaico pavimentale di un tratto della navata sinistra della chiesa di epoca giustinianea a San Michele in Africisco a Ravenna, consacrata nel 545. La sirena pesce simbolo di lussuria
Il pavimento musivo superiore è posto a 70 centimetri rispetto al litostroto del IV secolo relativo a un edificio paleocristiano
“Nella navata centrale, il terzo riquadro a sinistra presenta un grande cerchio bordato da una larga cornice con intreccio vimineo a filari di tessere nere, grigie, bianche e rosse, con fiori e boccioli; al centro è raffigurata una sirena che regge con le mani la coda biforcuta con due code di delfino. Gli spazi triangolari sono decorati da un motivo a zig zag che allude all’acqua. L’iconografia della sirena-pesce è collegata simbolicamente alla lussuria unita al degrado fisico, espresso dal seno cadente, e viene diffusa dalle fonti letterarie a partire dalla metà dell’VIII secolo nel Liber Monstrorum. Sirene pesce bicaudate si trovano nei mosaici pavimentali di San Savino a Piacenza, della cattedrale di Termoli (XI e XII secolo), di Otranto (XI secolo), di Trani (XII secolo), di San Giovanni Evangelista di Ravenna (XIII secolo).”(Trebbi 2005) Le Lamie dal volto umano avide di sangue Nel secondo riquadro a destra della navata centrale si riconoscono per il rigore geometrico gli elementi del pavimento originario del VI secolo, mentre si presentano irregolari quelli del rifaci-
34 mento posteriore. Entro i contorni circolari di foglie di acanto stilizzate, sono inserite figure di animali prevalentemente marini, come pesci, seppie e granchi. Appaiono anche colombe, coppe con frutti, fiori e un motivo decorativo. Una fila di tessere nere separa il riquadro superiore del pannello, dove compare una raffigurazione sicuramente medievale: a sinistra un ghepardo con collare, usato nella caccia, che sbrana un cervo; a destra un altro animale feroce, un leone dotato di un collare con catena. Al centro, un tondo con due Lamie, fantasiosi uccelli notturni avidi di sangue, con volto umano, corpo di avvoltoio e berretto frigio. Le Lamie erano geni mortiferi, spesso effigiati in monumenti funerari, simbolo di rapacità, cupidigia e distruzione. La scritta che corre nel tondo “D(omi)NA MAROTA UXOR BONIOMINIS GAUDENCI FEC IT OPERARE ISTA(s) TABULAS” è di grande interesse perché rivela con ogni probabilità il nome della committente Marota, moglie del “bonus homo Gaudencius”. I ‘boni homines’ erano magistrati scelti tra i ceti più elevati, secondo un istituto risalente all’epoca comunale (sec. XII-XIII). L’iscrizione attesta un contributo all’abbellimento della cattedrale da parte di un personaggio notabile della città, anzi della moglie che ne vuole esibire l’importanza e sceglie la raffigurazione di esseri demoniaci terrificanti come le Lamie, protagonisti di favole piene di paure. La superstizione è protettiva, con l’aiuto delle favole e dei portenti. Per quanto riguarda ‘domina Marota’, questo nome potrebbe essere marchigiano, e si collegherebbe a quello di Marone, santo di Civitanova,
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o a Maroto, protomartire piceno. (Trebbi 2005) Il tappeto con la nave troiana Nella navata centrale si trova una specchiatura tra le più suggestive per la stratificazione storica dimostrata dai rifacimenti. Incorniciata dal bordo a matassa, presenta due distinti brani musivi: un’ampia raffigurazione medievale e un tessuto geometrico a figure e rombi in cui si inseriscono immagini di pesci e fioroni. Uno dei quadrati è occupato dall’iscrizione E(st) HO(mo) N(on) TO/TUS MEDI/US SED PIS/CIS AB IMO (non è completamente uomo ma metà pesce dal basso) in riferimento alla doppia natura del tritone sottostante: l’uomo che con le braccia aperte regge due pesci, equivalente simbolico della sirena, oppure allusione a Cristo nella sua duplice natura umana e divina che cattura due anime simboleggiate dai pesci. Nella scritta e nella raffigurazione del tritone, di impianto medievale, sono evidenti alterazioni del tessuto musivo, ma il reticolo geometrico, pur ampiamente rifatto, appartiene nella sua idea informatrice alla stesura originaria del VI secolo. Emerge anche in questa decorazione la volontà di negare la continuità delle geometrie introducendo pesci che, pur nella grafica rappresentazione di linee d’acqua, mostrano una certa resa naturalistica nella colorazione. Un’ampia raffigurazione dalla complessa iconografia taglia la stesura geometrica: la nave bireme reca guerrieri e dame, è preceduta da un’alta figura maschile e da due donne che sembrano abbracciarsi: una di queste, velata, poggia sulla scaletta della bireme. In alto a sinistra sono par-
zialmente leggibili due leoni che si affrontano su di un fondo geometrico, probabilmente un emblema araldico; sotto si trovano un suonatore di arpa e una donna sul cui capo è la scritta IOHS DERNA (Iohannis Derna) indicante o il nome del suonatore poeta o l’offerente del riquadro. A destra una grande scacchiera con ai lati due guerrieri: l’inserto potrebbe dimostrare la diffusione di questo gioco in occidente avutasi tra XI e XII secolo, ma anche un probabile collegamento col sottostante episodio troiano (Ulisse e Palamede giocano a scacchi durante l’assedio di Troia). A prua sventola sul pennone della trireme lo stendardo con un’aquila, in riferimento o all’arma dei troiani o in relazione con l’arma gentilizia del committente del pannello. A sinistra in alto la scritta così integrata “(PARIS) RE(X) (TROIA)GE MENELAU(M) PRIVAD ELE-
Nelle pagine precedenti la figura delle Lamie, fantasiosi uccelli notturni avidi di sangue con volto umano e corpo da avvoltoio; particolare del tappeto musivo con la nave troiana e sotto una figura metà uomo e metà pesce; infine i pavoncelli; sopra particolari degli stessi animali simbolici
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NA P(ER) QUAM PERIT (GRAE)CIA L(A)ETA REDIT”. Si tratterebbe cioè o della raffigurazione di Elena dopo la distruzione di Troia, o del ratto di Elena unito al ‘topos’ della sua bellezza. La leggenda di Troia ebbe molta diffusione nel medioevo, soprattutto dopo il ‘Roman de Troie’ di Benoi de Sainte Maure, scritto attorno al 1160, o poemi del genere. Un episodio del ciclo troiano, legato ai poemi epici francesi, si trova nel pavimento della cattedrale di Brindisi, risalente al XII secolo. Nella parte inferiore del pannello ‘camminano’ cinque anatre, l’ultima delle quali attorniata da anatroccoli, che completano il particolare orientamento del grande riquadro, l’unico che non si offre direttamente alla vista di chi entra in chiesa , ma che sembra riservato ad osservatori posti perpendicolarmente al presbiterio, personalità dell’alto clero oppure i committenti del pannello stesso. (Trebbi 2005) Il pavone simbolo dell'immortalità
Particolari molto ben conservati del pavimento musivo inferiore (Le immagini dei mosaici sono su cencessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio delle Marche)
Il pannello quadrato, purtroppo lacunoso nella zona centrale e parzialmente rifatto negli spazi esterni, è un momento centrale nell’iconografia generale del pavimento musivo. Il bordo a matassa racchiude un clipeo definito da un motivo ‘a can corrente’; agli angoli esterni, quattro uccelli con fiori stilizzati. Nel clipeo è inscritto un ottagono stellare definito dall’intersezione di due quadrati, l’uno a strisce, l’altro con fascia interna a matassa.All’interno, su sfondo di tessere bianche campeggia un grandioso pavone, simbolo dell’immortalità dell’anima a cui si giunge tramite la Resurrezione. La collocazione centrata del
36 pavone nella zona che introduce al presbiterio trova riscontri nella cattedrale di Santa Reparata del IV-V secolo (attuale duomo di Santa Maria del Fiore)a Firenze e nella Basilica giustinianea di Sabratha in Libia. Si tratta dunque di un pannello appartenente all’impianto originario del VI secolo, particolarmente raffinato e significativo dal punto di vista concettuale e religioso, “Il pavimento superiore di Pesaro tra l’Oriente, l’Africa settentrionale, l’Europa”. Come si è detto lo stratega Ioahannis ricordato nel clipeo dedicatorio iniziale e citato anche in due lacunosi frammenti simmetrici, rimanda la datazione del pavimento superiore agli inizi della seconda metà del VI secolo. Dal 553, anno della fine del terribile conflitto tra Goti e Bizantini e della dominazione dei Goti, Pesaro restò alle dipendenze dell’esarca di Ravenna, rappresentante dell’Impero d’Oriente. Ma i bizantini vittoriosi dopo vent’anni di guerra, si trovavano a dominare su un territorio spopolato, invaso dai boschi e dalle acque che, non più irreggimentate, creavano vasti paludamenti nelle pianure delle basse valli, come quelle del Foglia, dove imperversava la malaria. La popolazione, stremata più dall’inedia e e dalle pestilenze che non dai colpi delle armi, aveva ormai abbandonato le pratiche agricole per dedicarsi ad attività di sopravvivenza con economia silvo-pastorale. Bisanzio e l’Impero d’Oriente non poterono godere a lungo di questa sofferta riconquista, perché nel 568 la popolazione germanica dei Longobardi scese in Italia e si impadronì di gran parte della penisola ad eccezione delle aree costiere interessate da città portuali. Queste zone marittime, con-
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trollate dalle flotte dell’esercito bizantino, erano organizzate nell’Esarcato, esteso all’incirca come l’attuale Romagna. Governato dall’Esarca, capo supremo di tutti i territori bizantini in Italia, l’Esarcato si articolava a sud in una circoscrizione costiera, costituita da un complesso di cinque città (in greco ‘pentapoli’). Le città della costa, sedi di diocesi, che facevano parte della pentapoli marittima, erano: Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona. Questo è il quadro sintetico della situazione che può servire a capire il periodo in cui è stato eseguito il mosaico superiore, sopraelevato di tre palmi, cioè mediamente di circa 70 cm rispetto al sottostante, appartenuto al precedente edificio paleocristiano, incendiato e distrutto. Alla seconda metà del VI secolo, dopo il ripristino dell’autorità di Costantinopoli (già Bisanzio, oggi Istanbul), in Italia, appartengono dunque le parti originarie dei pannelli musivi superiori. Maestranze ravennati o bizantine possono dunque avere diffusi modelli che hanno circolato non solo lungo la fascia adriatica, da Iesolo e Grado a San Leucio di Canosa, ma anche in quella mediterranea, fino a raggiungere l’isola di Cipro, Napoli, la Sicilia, la Sardegna, e la costa dell’Africa settentrionale. Allo stesso giro di anni, cioè dalla metà alla fine del VI secolo, appartiene un’altra eccezionale testimonianza conservata a Pesaro: la pisside eburnea (attualmente conservata nel Museo diocesano), proveniente forse da un’officina ravennate, dov’erano attivi artisti greco-costantinopolitani. A testimoniare ancora la stretta dipendenza di Pesaro da Ravenna, e indirettamente dalla corte di Bisanzio, rimane il sarcofago della
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chiesa dei santi Decenzio e Germano, già nella chiesa del Cimitero centrale, oggi nel Museo diocesano. I rifacimenti compiuti, come s’è detto, dal XII al XIII secolo, spostano la comprensione verso comuni radici cristiane europee, con testimonianze francesi, bretoni, germaniche. Davvero la conoscenza del pavimento di Pesaro rappresenta una sintesi preziosissima, forse unica, di
espressioni figurative che attraversano almeno sette secoli. Qui si può leggere, in un incredibile palinsesto costituito da tessere di marmi preziosi, pietre colorate e frammenti di cotto, la stratificazione della storia e le modificazioni della cultura tra l’Oriente, il Mediorente e l’Occidente, insomma dall’antica Bisanzio (con diramazioni in Africa settentrionale), all’Europa.
Sopra, una delle tavole planimetriche dell'architetto fermano Gianbattista Carducci, 1866 Nella pagina seguente una sirena simbolo di lussuria unita a degrado fisico che regge con le mani la coda biforcuta
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Un pavimento completamente trasparente in alternativa al distacco è l'ultima ipotesi allo studio
Poter vedere “tutto” il mosaico superiore significa potersi muovere nello spazio e percorrere il tempo, letteralmente, camminando sopra le varie fasi dei piccoli interventi e dei grandi rifacimenti, prolungati oltre la metà inoltrata del XIII secolo, prima che si procedesse alla radicale trasformazione romanico-gotica della Cattedrale. Come tanti altri edifici religiosi italiani, la Cattedrale diventerà il centro della vita
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avvicinati generalmente al ‘cantharus’ = fonte di vita eterna), oppure il pavone (=resurrezione, eternità) o ancora i pesci e di grappoli d’uva (riferimenti a Cristo e al sangue eucararistico). I tappeti musivi pesaresi del VI secolo li contenevano tutti, e dovevano portare alla comprensione ‘estatica’ attraverso la ripetitività geometrica, che favoriva il processo di spersonalizzazione e di annullamento in Dio. Le nuove figurazioni medievali dell’XI, XII, XIII secolo si possono comprendere, sintetizzando, attraverso un nuovo valore dato all’individuo che si esprimeva anche attraverso i pellegrinaggi. Pesaro sulla rotta dei pellegrinaggi
comunale: la costituzione in Comune avvenne a Pesaro alla fine del XII secolo. Gli animali simbolici saranno ben diversi da quelli metafisici del VI secolo ( colombe. anatre, cervi che equivalevano alle anime che si accostano al banchetto eucaristico,
Pesaro occupava una posizione mediana lungo la rotta dei pellegrinaggi verso il Gargano e verso Gerusalemme, essendo all’incrocio della fascia adriatica centrosettentrionale e “riveste un posto di primaria importanza nel campo dei mosaici pavimentali dell’XI e del XII secolo, tanto per esiti formali che per scelte iconografiche.”(Russo 1984). Ecco perché poter vedere interamente la superficie del pavimento, magari attraverso una totale copertura trasparente, rimane un auspicio più che mai condiviso, come si è concluso nel convegno sui mosaici organizzato dal Fai, presieduto da Fiammetta Malpassi, nell’ottobre 2016. E riparlarne ora da parte dell’associazione Le cento città vuol essere un contributo ulteriore a questa controversa valorizzazione ¤
Design|Il personaggio
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Gavina nelle Marche designer "sovversivo" DIECI ANNI FA SCOMPARIVA IL MAESTRO DELL'ITALIAN STYLE
P di Federica Facchini
Dalla metà degli anni Settanta ai primi anni 2000 lo si vedeva spesso a Calcinelli di Saltara e all'hotel Nettuno di Pesaro Lo stabilimento di Calcinelli di Saltara dove veniva spesso Dino Gavina
roprio in questi giorni di aprile ricorrono i 10 anni dalla scomparsa di un grande maestro del design italiano, precursore del Made in Italy e dell’Italian Style: Dino Gavina (San Giovanni in Persiceto, 1922 – Bologna, 2007). Un provocatore dalla carica eversiva e dalla capacità di affrontare percorsi innovativi in nome di un rinnovamento estetico del prodotto industriale, che ha segnato in maniera incisiva la storia del mobile italiano e non solo. Un imprenditore «sovversivo», come amava definirsi anche nel suo biglietto da visita, che con le Marche ebbe, tra l’altro, un rapporto molto stretto. Dalla metà degli anni Settanta ai primi anni 2000, lo si vedeva spesso tra lo stabilimento di Calcinelli di Saltara e l’Hotel Nettuno di Pesaro, per cui studiò tutti gli arredamenti e dove spesso alloggiava. Tra anni Ottanta e Novanta, la Simon Gavina è stata sicuramente un fiore all’occhiello del comparto mobiliero pesarese, esprimendo quella capacità imprenditoriale e creativa da segnare profondamente il distretto
produttivo della provincia, nonostante successivamente sia implosa in un lento degrado fino all’incendio dello scorso febbraio, che ne ha devastato irrimediabilmente interni ed esterni. Aveva molte amicizie Gavina nelle Marche, sicuramente le più longeve erano quella con Michele Provinciali - che fu un tramite fondamentale per la conoscenza del mondo della grafica - e con l’orafo Claudio Mariani. Lo ha ricordato divertito il designer pesarese Enrico Tonucci che dal 2004 al 2005 ha persino seguito la direzione artistica delle collezioni Simon e che già prima, oltre a svariati momenti conviviali, con Gavina ha condiviso diverse iniziative importanti come l’organizzazione della mostra al Salone Metaurense di Palazzo Ducale “Mobili e oggetti d’affezione. Un itinerario tra mobili e oggetti esemplari” (maggio-giugno 1988). Nell’ambito della stessa manifestazione, sempre Tonucci aveva diretto la rivista "Le Marche Regione Del Mobile", per la quale Gavina era coordinatore editoriale e
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Gavina ebbe un rapporto molto stretto con la nostra regione realizzando iniziative importanti insieme a Tonucci
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Vittorio Sgarbi curatore dei testi. Più che una rivista, ne risultò un testo vero e proprio, da tenere e consultare, su argomenti utili all'educazione e alla formazione di architetti, progettisti e imprenditori. Ancora di Tonucci nel luglio 2007, era stata la direzione artistica dell’evento “ID Design made in Pesaro” a Rocca Costanza dove mobili e oggetti in mostra, progettati da designer di fama internazionale, venivano prodotti in collaborazione con le aziende pesaresi. Un legame forte con il capoluogo pesarese
In alto da sinistra Michele Provinciali, Achille Castiglioni, Dino Gavina e Pier Giacomo Castiglioni nel portico di San Luca Nella pagina a fianco una foto famosa del designer
Un legame quello con Pesaro, ribadito anche dal “Premio Dino Gavina”, istituito da Fiera di Pesaro e Ghisamestieri a due anni dalla morte del maestro, non solo per ricordarne la figura ma per valorizzare i designer e le aziende italiane, soprattutto negli aspetti di sperimentazione e ricerca, e nella capacità di osare, tipica di Gavina.
Premio che purtroppo non è andato oltre alla prima edizione, nel settembre 2009. Leggere la storia di Gavina, dagli anni ’50 fino alla sua scomparsa, significa attraversare il percorso innovativo della storia del mobile italiano, che ha portato il nostro Paese a primeggiare, stagione dopo stagione, a livello mondiale. Per lo meno fino alle soglie della crisi economica. Appena trentenne e con un’esperienza da abile ed intraprendente tappezziere, nel 1953 venne indirizzato sulla strada del design dall'amico Lucio Fontana che lo condusse alla Triennale e gli presentò “i bravi architetti”: Carlo Mollino, Carlo De Carli e soprattutto Pier Giacomo Castiglioni, con cui inizierà una stretta e proficua collaborazione nella realizzazione di oggetti che ormai non hanno più bisogno di presentazioni. Grazie alla frequentazione dei fratelli Castiglioni (Pier Giacomo e Achille), Gavina coglie la grandezza del design anonimo, trasporta nel mobi-
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le la scoperta del ready-made di Duchamp e si predispone alla rilettura e all’interpretazione degli archetipi. Il cavalletto da falegname, ad esempio, viene prodotto in serie cambiando la sua funzione tradizionale per inserirsi nella vita quotidiana. Nel 1960 fonda la Gavina Spa, con sede a Foligno. Lo stabilimento è progettato dai fratelli Castiglioni che realizzano anche lo spazio espositivo a San Lazzaro di Savena mentre l’architetto veneziano Carlo Scarpa, chiamato alla presidenza, concepisce il negozio di rappresentanza della ditta in via Altabella, in pieno centro a Bologna. Nello stesso momento il figlio di Scarpa, Tobia, e l'architetto giapponese Kazuhide Takahama iniziano un’assidua collaborazione con l’azienda, disegnando diversi modelli. Grazie ad operazioni come la riedizione dei mobili disegnati da Marcel Breuer per il Bauhaus, la Gavina diviene un punto di riferimento per la storia del design in Italia e all'estero. Sempre nel 1960 nasce anche Flos che produce moderni apparecchi di illuminazione con il preciso intento di sopperire alla carenza di lampade da affiancare ai nuovi arredi. I modelli disegnati dai fratelli Castiglioni e da Tobia Scarpa, divenuti ben presto dei classici, lanciano in breve tempo l’azienda in campo internazionale. Opere e collezioni escalation internazionali Dopo la cessione della Gavina Spa alla Knoll con l’intenzione di unire finanza e idee, intraprese altri progetti altrettanto cruciali nella storia del design. Uno di questi fu la Simon International (1968) nata in virtù del forte sodalizio con Maria Simoncini che ne diventa amministratore delegato e
41 dalla quale prende il nome e dedicata alla produzione del mobile seriale e modulare con le operazioni/collezioni Ultrarazionale, Ultramobile (1971) e Metamobile (1974). Ultrarazionale, termine che esprimeva la volontà di an-
dare oltre il razionalismo, pur mantenendo le regole dell’industrializzazione, rivedendo forme e dimensioni, presentava i lavori di Carlo Scarpa frutto di estrema cura nella scelta dei materiali, nei dettagli e nelle lavorazioni. Ultramobile introduceva l’opera d’arte nella produzione in serie come vero e proprio oggetto di arredo, guardando al dialogo fra ricerca artistica e produzione per l’ambiente domestico con esiti ispirati e di forte impatto visivo. Oggetti tratti dalla poetica surrealista diventano mobili-opere d’arte dalle forti va-
Leggere la storia del designer dagli anni '50 fino alla sua scomparsa significa attraversare il percorso innovativo della storia del mobile
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Oggetti tratti dalla poetica surrealista diventano mobili opere d'arte dalle forti valenze simboliche
Qui sopra la rivista che ha visto Dino Gavina coordinatore editoriale Vittorio Sgarbi curatore dei testi ed Enrico Tonucci direttore
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lenze simboliche, rendendo omaggio ad artisti come René Magritte, Constantin Brancusi, Man Ray, Sebastian Matta e Meret Oppenheim. Le sedute pop di Matta, lo specchio Les grands Trans-Parents di Ray o il tavolino dorato con le zampe della Oppenheim sono riusciti a ritagliarsi, assieme all’attenzione critica, interessanti e in parte inaspettati spazi di mercato. Metamobile era una proposta di mobili semplici a basso prezzo autoprodotti, quali i progetti di Enzo Mari. A Milano, nell’aprile 1974, si inaugurava alla Galleria Milano la mostra di Enzo Mari “Proposta per un’autoprogettazione” che proponeva una serie di mobili fatti di semplici tavolette assemblate con chiodi, realizzabili direttamente dall’acquirente, frutto di un’ampia ricerca sui rapporti tra progettista, produttore e cliente finale, insomma una Ikea ante litteram. Gavina, insieme a Mari, presenterà ufficialmente l’operazione Metamobile nel nuovo stabilimento di Calcinelli di Fano, nell’ottobre dello stesso anno. Lo stabilimento progettato da Kazuhide Takahama, vide lo spostamento di una parte della produzione della Simon International, da Bologna a Fano. Gavina andava a Calcinelli una volta a settimana, a seguire lo sviluppo dei modelli, il lato tecnico, del design e dell’immagine. Maria Simoncini invece, direttore dello stabilimento, si occupava dell’aspetto commerciale, amministrativo e produttivo. Dopo l’abbandono dei fondatori per sopraggiunti limiti di età, l’azienda ha avuto vari passaggi di proprietà
fino alla chiusura avvenuta nell’anno 2011. Dapprima fu la pesarese Curvet Ambienti ad acquistarne il marchio per cederlo nel 2008 alla vicentina Estel di Alberto Stella. Questa a sua volta, nel 2013 vendette la proprietà del marchio al Gruppo Poltrona Frau, controllato dal Fondo d’investimento Charme. In questo modo gli arredi Simon sono entrati nel catalogo Cassina (storico marchio del design italiano, che insieme a Cappellini fa parte del gruppo) affiancandosi alla collezione dei Maestri dedicata ai grandi architetti internazionali, come Le Corbusier o Wright. Oggetti d'arredo custodi di valori attuali I luoghi di produzione e di commercializzazione che Gavina ha gestito in diverse città italiane, hanno ospitato eventi artistici, diventando luoghi di progettazione culturale: non si trattava solo di organizzare mostre di indubbia rilevanza (nel 1963 ha inaugurato i suoi spazi romani in via Condotti presentando per la prima volta nella capitale, l’opera di Marcel Duchamp) ma di introdurre nelle metodologie produttive del design, i nutrimenti visivi dell’arte. Oggi questi oggetti d’arredo, sinonimi di un’attività industriale che è stata capace di farsi veicolo di promozione culturale, rappresentano dei classici, perché custodi di valori sempre attuali a cui ispirarsi e attingere: qualità, perfezione, proporzione, poesia, ironia. Una risposta all’appiattimento del gusto e banalità impaludata che ci circonda nel quotidiano. ¤
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Dante Cecchi, grande studioso del Medioevo STORICO DELLE MARCHE E AUTORE DI PREZIOSE RICERCHE
S di Alberto Meriggi
Numerose le sue pubblicazioni dalle quali emerge in maniera preponderante la sua vocazione
abato 8 ottobre 2016, presso il teatro Lauro Rossi di Macerata, è stato presentato il volume Dante Cecchi. L’avventura di un intellettuale nelle Marche del Novecento, pubblicato nei “Quaderni del Consiglio regionale delle Marche” e del quale ho avuto l’onore di curare l’edizione. L’evento è stato promosso dal Centro Studi Storici Maceratesi, associazione fondata nel 1965 proprio dal prof. Dante Cecchi e dal suo amico prof. Pio Cartechini. Rappresentante della “miglior gioventù” maceratese del secondo dopoguerra e attento alle sollecitazioni storiografiche a lui contemporanee, Dante Cecchi è riuscito ad offrire una sintesi compiuta di impegno civile e cultura, tramite una produzione bibliografica rilevante e continua, e il magistero dell’insegnamento che ha esercitato con passione ed entusiasmo presso istituti scolastici e l’Università. Figura di primo piano nella vita culturale, politica e sociale della città di Macerata, della provincia e dell’intera regione marchigiana, dal secondo dopoguerra, nella sua qualità di consigliere comunale e assessore alla cultura nel Comune di Macerata fino agli anni Settanta, di professore, preside e docente di Diritto comune e di Storia dell’amministrazione pubblica all’Università di Macerata. Nella sua intensa attività di studioso ha particolarmente curato l’approfondimento di particolari temi di storia giuridica locale alla luce dei più solidi risultati della grande storia nazionale, utilizzando
nella ricerca la metodologia più aggiornata. È passato spesso da importanti indagini su aspetti specifici della regione a studi di raggio sempre più vasto su problemi nazionali, senza però mai perdere di vista i fatti della storia locale che costituiva l’ambito da lui più amato. I suoi scritti riferimento importante Oggi i suoi scritti segnano un riferimento importante della conoscenza storiografica del mondo medievale e moderno marchigiano e il suo magistero suscita ancora ricordi indelebili e il più vivo interesse fra coloro che hanno avuto la sorte di avvicinarlo come studenti, colleghi e collaboratori. La gamma degli interessi scientifici, e non, di Dante Cecchi ben si riflette nelle numerose pubblicazioni nelle quali emerge in maniera preponderante la sua vocazione di storico delle Marche con studi e ricerche che hanno abbracciato l’arco di tempo compreso tra l’Età romana e il Risorgimento. Ma di certo l’epoca storica che più lo appassionò fu il Medioevo in riferimento alla quale approfondì tematiche a livello regionale in rapporto con la storia nazionale, ma anche vicende storiche di diverse comunità locali del Maceratese. Per gran parte del XX secolo il Medioevo fu una specie di “palestra di apprendimento” per gli storici del diritto, una sorta di passaggio obbligato con cui confrontarsi per indagare i principi costitutivi delle istituzioni oggetto della loro indagine. E Dante Cecchi va annoverato fra gli storici
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Intellettuale poliedrico dedicò ricerche e studi appassionati alla sua Macerata di cui scrisse ben cinque volumi
Sopra, la copertina del libro "L'avventura di un intellettuale nelle Marche del Novecento" dedicato a Dante Cecchi A destra, una immagine dello studioso
del diritto. Dopo la laurea in Lettere e Filosofia presso l’Università Cattolica di Milano nel 1942, conseguì anche la laurea in Giurisprudenza nell’Ateneo maceratese nel 1945. Le competenze acquisite con il primo percorso di studi non possono essere disgiunte dalla formazione dello storico solido e profondo che si apprestava a divenire, ma certamente la seconda laurea dovette in qualche modo segnare in maniera più incisiva il suo futuro. In quegli anni a Macerata la cattedra di Storia del diritto italiano era ricoperta dal prof. Antonio Marongiu. Dante Cecchi incontrò Marongiu e con lui decise di laurearsi. Da quel fecondo incontro nacque la tesi di laurea intitola-
ta: Il Parlamento nella Marca di Ancona dal 1357 alla fine del secolo XVIII. Subito dopo la laurea Cecchi iniziò a prestare servizio come docente negli istituti scolastici, prima come supplente, poi di ruolo e infine come preside. Nel 1963, per l’interessamento di Marongiu e di Paolo Grossi, l’attuale presidente della Corte Costituzionale, docente a Macerata di Storia del diritto italiano dal 1963 al 1966, Dante Cecchi venne nominato assistente volontario presso la cattedra di Storia del diritto italiano nella Facoltà di Giurisprudenza. Iniziava così una brillantissima carriera di docente universitario che si concluse col ruolo di professore ordinario nel 1998, dopo 35 anni di insegnamento. Fin
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dall’inizio dell’impegno universitario mostrò interesse per l’istituto parlamentare che culminerà con una pubblicazione, nel 1965, di uno studio dal titolo: Il Parlamento e la Congregazione provinciale della Marca di Ancona, ospitato nella collana “Archivio della Fondazione italiana per la storia amministrativa”. Nella premessa Cecchi dichiarava di voler dare un contributo alla storia del Parlamento in Italia offrendo «un profilo storico analitico e documentato» dell’istituto parlamentare nella Marca di Ancona dal XIII fino agli inizi del XIX secolo, quando ormai da più di due secoli si era trasformato in Congregazione provinciale. Analisi e confronti su lunghi periodi Le linee guida di Cecchi miravano soprattutto a stabilire perché e come le assemblee parlamentari avessero assunto rilevanza politica tale da farle considerare organi inseriti nell’apparato statale. Lo studioso impostò l’analisi sul lungo periodo per cogliere modi e tempi dell’evoluzione dell’assemblea, sottolineando che i parlamenti dello Stato della Chiesa rispondevano a logiche differenti e sui generis per il carattere particolare della monarchia pontificia. I parlamentari convocati, infatti, partecipavano alle assemblee in base a quello che Cecchi chiama «dovere feudale di obbedienza verso il pontefice» e non con la coscienza di rappresentare la Provincia e di agire conseguentemente al suo mandato. Secondo il parere di Cecchi, solo più tardi, a partire dai primi anni del XVI secolo, quando il parlamentum si trasformerà in Congregazione provinciale, si potrà parlare di un vero e proprio antecedente degli organi amministrativi a noi più vicini. Un tema paradig-
45 matico del funzionamento dei parlamenti provinciali nella Marca è quello della tallia militum, che risulta uno degli argomenti più discussi nelle assemblee dei secoli XIII, XIV e XV. A tale questione Cecchi ha dedicato approfondimenti particolari con una chiave di lettura originale e in una prospettiva comparativa di tipo regionale. Numerosi saggi di Dante Cecchi sono incentrati sugli statuti marchigiani medievali, dei quali ha svolto una rassegna puntigliosa, a cominciare dal 1966 e con successivi apporti sugli aspetti della vita cittadina nella Valle del Fiastra, sulle norme statutarie circa l’urbanistica e l’edilizia nella Marca Anconitana, come anche su stranieri e forestieri e sull’istituto della pax et concordia negli statuti della Marca medievale. Cecchi iniziò ad interessarsi allo jus proprium delle città marchigiane in tempi “non sospetti” - ovvero quando l’interesse per gli statuti era stato derubricato a mera curiosità localistica e non considerato come una fonte ad ampio spettro storiografico - cogliendone tutte le potenzialità. Il primo approccio con questa tipologia di fonte documentaria si apre con la pubblicazione della descrizione e dell’elenco sommario delle rubriche de Gli Statuti di Apiro (1388 e 1528), Camporotondo (1475), Colmurano (1479), Fiastra (1436), statuti fino ad allora completamente inediti. I suoi lavori sugli statuti mettono in luce una caratteristica che rimarrà costante in tutta la sua produzione, cioè l’interesse per una fonte nella misura in cui questa sia declinabile nella realtà “viva” della storia: ne sono prova, nel caso della legislazione statutaria, le minute descrizioni delle norme su cui lo studioso indugia con partecipazione. Nel 2005 il Consiglio regionale
Figura di primo piano nella vita culturale politico e sociale paragonava le istituzioni delle comunità locali con quelle odierne
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Nella sua intensa attività di studioso ha curato soprattutto l'approfondimento di particolari temi di storia giuridica locale
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delle Marche e la Deputazione di Storia patria per le Marche pubblicarono il volume Istituzioni e statuti comunali nella Marca di Ancona. Dalle origini alla maturità (secoli XI- XIV), a cura di Virginio Villani, una pregevole sintesi sulle origini e l’evoluzione delle autonomie comunali. Il saggio di apertura, intitolato Gli statuti dei comuni delle Marche, fu opera di Dante Cecchi e fu anche, significativamente, una delle sue ultime pubblicazioni e certamente il suo ultimo contributo alla legislazione statutaria delle Marche. In quel saggio Cecchi spiegava il significato di statutum, nonché la sua origine. Appare sempre costante la preoccupazione di Cecchi di fare riferimento all’attualità, paragonando le istituzioni delle comunità medievali con quelle odierne e sottolineando come le consuetudini democratiche e le tradizioni di autogoverno abbiano inciso profondamente sulle doti di equilibrio, partecipazione e senso di responsabilità della popolazione marchigiana. Studi capaci di darci l’esatta dimensione della passione con cui Cecchi viveva il “suo” Medioevo. Lo storico Cecchi non poté esimersi dal dedicare ricerche appassionate alla sua città. Nel 1971 vide la luce il primo dei cinque volumi della Storia di Macerata. Le origini e le vicende politiche. Un progetto fortunato che condivise e portò a compimento con Aldo Adversi e Libero Paci. Inoltre per le “sue” Marche medievali trovò spazio per indagini sulle compagnie di ventura, sull’instrumentum
pacis e su numerose altre questioni istituzionali, politiche e di costume riguardanti quell’epoca. Trascritte opere classiche e Medievali Da appassionato della storia marchigiana ha dedicato, infine, attenzione anche alla trascrizione di opere classiche e medievali, come i tre frammenti del De Officiis di Cicerone, custoditi nell’Archivio comunale di Appignano, una ordinazione episcopale dei secolo X-XI su codice pergamenaceo redatto in scrittura beneventana, conservato nella biblioteca “Mozzi-Borgetti” di Macerata, i frammenti camerinesi di due codici con le Rime del Petrarca e il Trattatello in laude di Dante del Boccaccio, una lettera autografa di Annibal Caro, una raccolta di testi della Marca dei secoli XII-XIX sulla rappresentazione della Natività e della Passione e, infine, la trascrizione de Il pianto delle Marie, un testo del XIII secolo nel volgare del territorio marchigiano, trovato in un codice miscellaneo della Biblioteca dell’Università di Pavia. Un’opera di poesia della nostra letteratura di cui Cecchi curò l’edizione critica e la pubblicazione nel 2000. A tal proposito lo studioso scrisse: «Questo testo rappresenta il punto di arrivo di un lunghissimo processo che ha inizio appena qualche secolo dopo la morte di Gesù e che è un momento fondamentale nella storia della spiritualità dell’Europa […] ed ha tutte le caratteristiche della spiritualità medievale di cui è espressione viva e vitale». ¤
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Collezione d'arte passione e investimento IL FENOMENO NEL CORSO DELLA STORIA, IL CASO LUPERTI
R di Alberto Mazzacchera
Cabinet barocco in ebano, pietre dure pannelli in commesso e rilievi in bronzo dorato (Le immagini del servizio attengono ad una selezione della collezione Alessandro Rigi Luperti per gentile concessione dell'archivio Moreno Maggi - Roma)
agionare in termini di puro investimento quando si tratta di opere d'arte è largamente fuorviante. Non che non esistano forme strutturate che hanno un approccio meramente speculativo rispetto al mondo dell'arte visto che sono attivi a livello globale circa 80 Art Fund o Art Investment Fund, ossia fondi d'investimento i cui asset sono composti da opere e oggetti d'arte (in particolare dipinti), e che pertanto focalizzano i rispettivi profitti prioritariamente nel capital gain. L'arte, mutuando un concetto dall'ambiente della finanza, produce un dividendo che è puramente estetico. Perciò non solo è decisamente complesso calcolare il rendimento di un'opera d'arte intesa quale investimento ma se tale fosse l'unica impostazione si negherebbe all'arte, al pari della scienza, la sua capacità, nei singoli casi più o meno accentuata, di raccontare il mondo. Perché l'arte in fondo rappresenta un diverso modo di leggere la realtà e se, riprendendo un concetto di Braque, la scienza ancor più della religione rassicura l'animo laico contemporaneo dal canto suo l'arte mantiene fortunatamente ancora la forza di turbarlo, di scuoterlo. Aveva ben chiaro ciò Pier Paolo Pasolini quando nell'ottobre del 1975, da abile provocatore delle coscienze italiane troppo spesso avviluppate in un torpore culturalmente provinciale, affermava ad Antenne 2 in occasione della presentazione del suo ultimo e al tempo più destabilizzante film: "Io
penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista". C'è, infatti, una straordinaria e insopprimibile dimensione estetica ed emozionale che attiene l'arte e che non va mai sottovalutata anche quando si formulano considerazioni finanziarie, anche quando l'arte diviene obiettivamente una valida diversificazione d'investimento. Il mercato e la bolla degli Impressionisti Dal 2000 al 2008 sono cresciuti per quanto attiene l'arte occidentale le sezioni del dopoguerra e contemporanea mentre per l'arte orientale l'incremento ha riguardato l'arte moderna e del Novecento. Il mercato aveva subito in precedenza lo scoppio della bolla degli Impressionisti degli anni Novanta alimentata dalla spinta degli acquisti a cifre da record fatti da ricchi imprenditori e uomini d'affari giapponesi i cui capitali non sempre avevano, secondo i parametri attuali dell'antiriciclaggio, una cristallina provenienza. Da non dimenticare che, un secolo prima, la fortuna delle alte quotazioni degli Impressionisti si legano alle eccezionali acquisizioni che a partire in particolare dal 1880 i ricchissimi finanziari e industriali americani fanno in una Parigi che è caput mundi dell'arte europea ed ancor oggi metropoli molto amata oltreoceano. Dopo il 2008, l'anno in cui la crisi si appalesa il 15 set-
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Qui sopra, coppa barocca in argento dorato detta "ananasso" o anche a grappolo d'uva A fianco, chiocciola gigante di mare con coperchio in madreperla ad uso di porta polvere da sparo In alto a destra uovo di struzzo su montatura barocca in metallo dorato
48 tembre con il fallimento della banca d'affari Lehman Brothers, anche il mercato dell'arte subisce un forte raffreddamento per dare segni di ripresa nel 2011 e per tornare nel 2012 ai prezzi dei valori ante 2008; anche se ciò non ha interessato tutti i macrocomparti temporali dell'arte (antico, moderno, contemporaneo, etc.). Sono oggi, infatti, considerate blue chips dell'arte (termine borsistico che in genere indica un valore alto) la pittura impressionista fino ai capisaldi del Novecento che per l'Italia sono in particolare, ma ovviamente non solo, Morandi, Fontana e Burri. Attualmente, a differenza di ogni altro periodo storico, l'arte è considerata un asset reale alternativo e decorrelato da quelli finanziari contraddistinto inoltre da forte scambiabilità internazionale. Elemento quest'ultimo nodale in un mondo globalizzato che si traduce per il proprietario di opere d'arte nella piena libertà di vendere in ogni luogo del pianeta evitando così di subire gli andamenti regressivi delle economie locali a cui sono invece sottoposti ad esempio i beni immobili. Ma è altrettanto vero che l'indice di scambiabilità internazionale dell'opera d'arte ha quale enorme ostacolo le differenti legislazioni di tutela che i singoli Stati sono andati elaborando nel tempo. In Italia le norme di tutela del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio fanno ampio riferimento alla legge n. 1089 varata nel 1939 da Giuseppe Bottai ministro fascista dell'Educazione Nazionale. Si tratta di un sistema (con
indubbiamente lodevoli precedenti storici negli Stati preunitari) che ben si comprende nel clima illiberale del tempo di un'Italia rurale, povera e sotto scacco della dittatura, contrassegnata da ampie sacche di analfabetismo dove gli Italiani erano costretti ad emigrare in massa per sopravvivere. È per tale motivo che ancor oggi un'opera d'arte, indipendentemente dal suo valore purché realizzata da oltre cinquantanni da autore deceduto deve essere materialmente sottoposta al vaglio dei funzionari del MiBact presso i preposti uffici esportazione. È in larga parte ad arbitrio di una commissione di tre funzionari, in molti casi ma non sempre validi storici dell'arte, che un'opera potrà essere venduta o meno fuori dai confini italiani, senza alcun concreto distinguo per
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il mercato dell'Unione Europea. L'eventuale diniego non solo comporta l'impossibilità di esportare definitivamente l'opera ma in automatico ne impone l'assoggettamento ai gravami della dichiarazione di interesse culturale con anche la possibilità da parte dello Stato di procedere con l'acquisto coattivo. Un volta 'consolidata' la dichiarazione di interesse culturale, l'opera d'arte può essere venduta solo in Italia, con diritto di prelazione dello Stato o degli enti territoriali, allegando integralmente il contratto di vendita ed inoltre ogni futuro spostamento sul territorio deve essere reso noto con apposita denuncia preliminare al MiBact che esercita il suo controllo ai fini della conservazione. Questo meccanismo che peraltro non produce oggi gli effetti desiderati, e che mol-
49 to piace a chi attraverso la burocrazia vuole esercitare un pervasivo controllo sulla proprietà privata incidendo anche sulle sorti economiche dei singoli, risulta pernicioso per il mercato soprattutto per determinati comparti temporali tra i quali l'arte antica e moderna. Il tentativo di alleggerimento in discussione al Parlamento è attualmente oggetto di feroci critiche. Sotto tale profilo il mero criterio del valore economico (i dipinti sotto 140 mila euro ca. sarebbero liberi di circolare entro i confini Ue, con una sorta di autocertificazione) potrebbe a mio avviso essere stemperato dalla previsione di un diritto di prelazione a favore dello Stato da esercitarsi però in tempi brevi. Ciò sarebbe sufficiente da un lato a non comprimere la proprietà privata e dall'altro a tutelare le opere di artisti di contenute quotazioni mercantili ma che tuttavia hanno una valenza storica significativa per determinati territori. Al punitivo sistema vigente di tutela italiano, che genera nel mercato incertezza, si affianca una fiscalità molto pesante quando si tratta di compravendite di opere d'arte per il tramite di galleristi e mercanti. In questa situazione complessivamente sfavorevole agli scambi internazionali si è inevitabilmente registrata in Italia una forte riduzione delle vendite all'incanto tramite case d'asta per mancanza di capitali provenienti dall'estero. Perciò mentre a livello internazionale i principali mercati dell'arte sono quelli di Londra, New York e Hong Kong l'asfittico mercato italiano si contrassegna per es-
La scambiabilità internazionale dell'opera d'arte ha enormi ostacoli nelle differenti legislazioni esistenti nei singoli Stati
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50 sere un mercato inefficiente dove prevalgono le dinamiche private con decremento del valore economico delle opere. Le plusvalenze dell'opera d'arte
L'arte contemporanea ha più capacità di mercato rispetto al classico e moderno ma ha un maggior rischio di rendimento
Il collezionista italiano, quando si tratta di un privato non imprenditore, ha per fortuna dalla sua il vantaggio che la plusvalenza tra il prezzo di acquisto e quello di vendita di un'opera d'arte non è assoggettata ad alcuna tassazione a condizione che siano state rispettate determinate condizioni. Aspetto sul quale il Fisco sempre più occhiuto è certo attento e che ogni collezionista deve preliminarmente conoscere onde evitare l'assoggettamento della vendita a pesante tassazione. Accanto alla questione fiscale, il collezionista dovrebbe aver presente che i vari comparti temporali dell'arte hanno profili di rischio e rendimenti diversi con differenti capacità di reazione agli shock esogeni. Se da un lato l'arte contemporanea si è contraddistinta in questi ultimi decenni per la spiccata capacità di un recupero più veloce, è altrettanto vero che rimane caratterizzata da maggiore volatilità e dunque da un livello di rischio maggiore rispetto all'antico, il moderno e il dopoguerra. Da ciò discende la logica della diversificazione nei vari comparti dell'arte da parte dei Fondi d'Investimento che riducono così il rischio suddividendo l'impiego dei capitali reperiti.
Un metodo non facilmente applicabile da parte del singolo collezionista sia in termini di risorse e sia per la mancanza di una struttura ad hoc. D'altra parte è pur vero che una collezione d'arte omogenea ha più valore anche sotto il profilo economico. Il collezionista odierno deve saper valutare quella serie di elementi oggettivi che attengono da un lato l'autore (ruolo riconosciuto nella storia dell'arte, la sua fama internazionale, la presenza di opere di quell'autore in grandi collezioni e musei, etc.) e dall'altro l'opera (autenticità, stato di conservazione, provenienza, corredo espositivo, bibliografia, etc.). Ma soprattutto credo non dovrebbe mai dimenticare la dimensione estetica perché qualsiasi opera è destinata a permanere in collezione per un periodo di tempo non breve. D'altra parte il mercato dell'arte ha una regola non scritta: lo scambio troppo frequente di un'opera brucia il suo valore mentre un dipinto "fresco" moltiplica le sue quotazioni. Le valutazioni estetiche ed emozionali Ecco che alla fine il collezionista accanto alle considerazioni finanziarie che oggi appaiono imprescindibili, come è sempre accaduto anche in passato deve saper confrontarsi per l'appunto con le valutazioni estetiche ed emozionali. Ed è in quest'ultima chiave che si inserisce un caso degno di nota: quello della Collezione Alessandro Rigi Luperti che nel 2014 è divenuta patrimonio dell'omonima Fondazione marchigiana. È nella condivisione della cultura della logica delle Wunderkammer che tale Collezione è stata formata, seguendo dunque quel percorso che storicamente prende corpo a metà Cinquecento per
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poi svilupparsi nel Seicento e ricevere nel Settecento impulso dal vivo interesse per le curiosità scientifiche secondo i dettami dell'Illuminismo. Entro tale cornice storica si sviluppa, infatti, anche in Italia un collezionismo indirizzato verso oggetti considerati straordinari, provenienti dal mondo della natura o creati dall'uomo. I primi erano noti con il termine di naturalia e dovevano possedere un qualcosa di eccezionale per la loro forma, dimensione o rarità di provenienza. Così si collezionavano gli animali deformi a due teste, ma anche pesci, uccelli rari o sconosciuti, denti di pesci percepiti nella scansione di animali mitologici o favolosi, uova di straordinarie dimensioni come erano al tempo intese quelle di struzzo, oppure anche noci di cocco sconosciute alle genti europee. Altrettanto ambiti erano poi gli oggetti creati dall'uomo e che per tale motivo erano detti artificialia, che dovevano essere particolari per la loro originalità, unicità, costruiti con tecniche complesse o segrete e provenienti da lontane parti del globo. Il concetto di meraviglia Le stesse uova di struzzo venivano tagliate per farne ad esempio dei calici preziosi o dei reliquiari. Tuttavia per fare ciò, per trasformare beni della natura in oggetti capaci di contribuire allo splendore del rituale liturgico e regale, occorrevano abili artefici edotti in varie tecniche. A trasformare, dunque, tali rarità in vere e proprie opere d'arte è l'oreficeria. Il meraviglioso entrando nello spazio dell'arte trasforma oggetti e materiali "esotici" in splendidi capolavori nelle mani di valenti artigiani o anche in ornamenti simbolici
51 oggetto di rappresentazioni artistiche. Tale interesse si era manifestato già molto prima del Rinascimento incardinandosi proprio nel concetto del meraviglioso che caratterizza il Medioevo cristiano. Per tale motivo si conservavano nelle chiese romaniche italiane oggetti mai visti prima provenienti dall'Oriente e portati dai Crociati come coccodrilli imbalsamati o ossa di balena che erano associate a quella biblica di Giona. Lo stesso approccio portava a fare incetta di reliquie dal potere magico o taumaturgico. La raccolta di oggetti di natura molto diversa, di materiali rari e preziosi nelle chiese e nei santuari del Medioevo anticipa le raccolte d'arte e di meraviglie che caratterizzano il collezionismo pubblico e privato fino a tutto il Settecento e che ha nelle Wunderkammer la sua manifestazione più interessante. Il collezionismo, che prende le mosse nel Trecento nelle dimore di papi e sovrani, prosegue entrando infine negli studioli di corte quattrocenteschi per poi ampliarsi nelle Wunderkammer cinquecentesche fino al secolo dei Lumi, quando oramai i concetti di "meraviglia" e di "curiosità" inizieranno a declinare nella storia del collezionismo. È bene dunque rimarcare come lo studiolo sia stato il naturale approdo dei tesori medioevali per poi divenire nucleo iniziale della Wunderkammer, alla quale nel tempo si affianca la biblioteca e che risulta immersa in quell'atmosfera capace di abbracciare anche il laboratorio alchemico, il giardino-labirinto, il giardino all'italiana. D'altra parte taluni oggetti presenti nella stanza delle meraviglie avevano un valore magico-simbolico. Le lingue di San Paolo, ad esempio, che si scavavano a Malta erano i denti fossili degli squali
In alto a sinitra, grande croce barocca con crocifisso in avorio su fondo a traforo in rame dorato e smaltato In basso a sinistra, coppa barocca in cocco scolpita a fioroni e allegorie della musica Qui sopra, coppa in cristallo di rocca su gambo in avorio scolpito a forma di tronco d'albero con putti
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52 ai quali era dato un valore apotropaico essendo in particolare usati per prevenire l'azione dei veleni. Il collezionismo esprime anche il tentativo degli uomini del tempo di estendere la conoscenza a 360 gradi. La società di fine Cinquecento e del Seicento cerca di espandersi su tutto il sapere umano e d'accedere al mito dell'enciclopedismo. Le armi e le lettere sono per l'aristocrazia (la classe dirigente del tempo per diritto di nascita) i campi in cui mettersi alla prova per raggiungere la gloria. Il collezionismo trae forza da tali interessi. Studiando l'astrologia si collezionano mappamondi, sfere armillari, etc.; occupandosi di scienza di raccolgono strani animali imbalsamati importati da terre remote. Accanto a ciò erano ovviamente anche gli oggetti che avevano quale unico scopo quello di suscitare incanto e stupore e che rimarcavano anche lo stato sociale dei proprietari. Così, ad esempio, nascono pezzi in corallo e rame dorato, tempestati di pietre preziose e di pietre dure. Una stanza per ospitare oggetti rari e strani Tutti questi reperti (i naturalia e gli artificialia) dovevano dunque essere mirabilia, ossia oggetti che comprensibilmente destavano meraviglia negli uomini del tempo. Una stanza apposita era destinata ad ospitare tale mirabilia. Pareti rivestite di scaffali, si colmavano di ogni oggetto raro o sorprendente, dai contenitori in vetro con parti di corpo umano o feti, agli animali deformi fino a rocce o pietre rare, zanne di elefante, rami di corallo, piante sconosciute essiccate. Ma gli oggetti più piccoli o più preziosi venivano custoditi in appositi stipetti, cabinet
altrettanto raffinati nella loro fattura. Una miriade di cassetti accessibili o occultati da ingegnosi meccanismi segreti custodivano nei cabinet gioielli, oggetti preziosi e unici nel loro genere ottenuti magari con perle anomale o rami di corallo di colore o forma assai insolita. Negli spazi di queste camere delle meraviglie lasciati liberi dagli scaffali e dai cabinet, si disponevano animali essiccati come piccoli coccodrilli,
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oppure ossa e denti di pesci, uccelli e mammiferi, o grandi conchiglie. Nelle Wunderkammer entravano anche libri e stampe rare, raccolte di foglie essiccate, quadri, cammei, filigrane, collane di perle e coralli, vasi, reperti archeologici, monete antiche. È un tratto distintivo di quelle italiane l'avere accanto agli oggetti stravaganti, che fanno tradizionalmente parte delle stanze nordiche, anche i reperti archeologici e antiquariali. Dalla Sicilia, ad esempio, provengono molti oggetti che entrano nelle Wunderkammer e che vanno dalla lavorazione del corallo di Trapani alla fornitura di diaspri e di marmi pregiati. La stessa
53 aristocrazia siciliana d'altra parte è protagonista di questo fenomeno. Si pensi al duca di Terranova che inviato quale ambasciatore in Germania acquista e commissiona piatti d'argento a Norimberga e dopo aver visitato a Praga la straordinaria e vastissima Wunderkammer imperiale compera a Milano, durante i suoi anni di governo in Lombardia, numerosi cristalli di rocca. Ma se i naturalia e gli artificialia provenienti da paesi lontani impressionavano gli uomini del tempo e gli illustri viaggiatori e suscitavano la rivalità tra i collezionisti, gli ingenti costi limitavano la realizzazione delle Wunderkammer ai re e nobili di alto lignaggio, ad emeriti scienziati e uomini dotti e molto ricchi, e a taluni conventi e monasteri che accanto alle biblioteche avevano sviluppato camere atte a ricevere oggetti che diventavano argomento di studio. Nasce la necessità di ordinare e catalogare È solo in un secondo tempo che all'interno delle Wunderkammer si porta la logica di ordinare e catalogare le meraviglie, aprendole seppure con cautela al pubblico, dando così vita in alcuni casi a dei musei veri e propri. Inizialmente accessibili solo a cerchie ristrette nel Settecento diventano anche in Italia meta dei viaggiatori del Grand Tour. Famose sono le stanze delle meraviglie di Rodolfo II d'Asburgo a Praga, di Cristiano IV di Danimarca e di Ferdinando II nel Tirolo. Collezioni di cose meravigliose sono appartenute ai Farnese e ai Medici (buona parte delle raccolte del Museo degli argenti del Pitti proveniva
Le collezioni legate ai concetti di meraviglia e curiosità si sviluppano successivamente in musei veri e propri
A sinistra, dente di pesce raspa su drago ligneo intagliato Al centro, Nautilus con rilievi e montatura barocca in argento dorato con inserimenti di coralli Qui sopra, calice cerimoniale ricavato da un corno di cervo con bordo e base in argento dorato Nella pagina seguente in alto olio su tela del 1680 firmato Pins raffigurante una vanitas In basso altarolo in ebano pietre dure e semipreziose, bronzi dorati con nicchia in ametista contornata da lapislazzoli
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Attraverso la collezione si può capire la storia dell'aristocrazia durante il passaggio dallo Stato Pontificio all'Italia Risorgimentale
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dalla stanza delle meraviglie medicee). Tra coloro che avevano importanti stanze delle meraviglie è anche il celebre bolognese Ulisse Aldrovandi (1522 - 1605) che aveva vari contatti con le Marche ed in particolare con il naturalista Costanzo Felici (1525-1585). La vasta Collezione d'arte, abiti antichi, gioielli e arredi costituita nel corso di una vita da Alessandro Rigi Luperti prendendo le mosse da un originale corpus familiare esprime compiutamente la dimensione estetica ed emozionale dell'arte più volte richiamata. Nell'iniziale nucleo di questa Collezione si collocano ad esempio i preziosi ed elaborati abiti da cerimonia di corte turco-macedoni del Settecento che la contessina Clorinda Rigi Luperti fece acquistare nel XIX secolo per partecipare al fastoso carro di carnevale in Roma voluto dall'Ambasciatore di Francia. Attraverso la storia di un casato ed in particolare della vita di Clorinda,
magistralmente descritta in un romanzo che non a caso nel 1975 ebbe a destare il vivo interesse dello scrittore Giorgio Bassani (1916-2000), attraverso i loro oggetti e la Collezione che è stata sviluppata partendo da tale nucleo è possibile comprendere la storia più vasta dell'aristocrazia tra Otto e Novecento nel tempo della sua dissoluzione come classe dirigente e di potere, nel tempo del passaggio dallo Stato Pontificio alla nuova Italia risorgimentale. Ecco che una Collezione omogenea acquista la forza di narrare un territorio, ed ecco perché è meritevole l'intento di musealizzarla. Qui la passione ed il "furore creativo" del collezionista danno vita ad un insieme che non solo valorizza i singoli pezzi d'arte in esso racchiusi, ma li trasforma in tessere di una vibrante narrazione e dunque li rende capaci di concorrere alla fascinazione di un territorio vivificato da un passato non polveroso ma pulsante di storie. ¤
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Antonelli, inquieto poeta tra genio e follia FIGURA CONTROVERSA NEL PANORAMA LETTERARIO
D di Maurizio Cinelli
opo oltre centoventi anni – quanti ne sono trascorsi dalle precedenti edizioni ottocentesche –, è stato ripubblicato nel 2016, per i tipi di una giovane, ma ambiziosa ed emergente Casa editrice di Macerata, “Giometti e Antonello”, l’autobiografia del poeta marchigiano Giovanni Antonelli, “Il libro di un pazzo. Note autobiografiche e rime”. Nato a Sant’Elpidio a mare nel 1848 da famiglia borghese (il padre era avvocato) e morto nell’ospizio Vittorio Emanuele II di Ancona il 9 gennaio 1918, dopo una vita randagia e sfortunata, fatta di lunghe peregrinazioni, di indigenza, di emarginazione e di periodici ricoveri in ospedali e manicomi, ma anche di reclusione in patrie galere, Giovanni Antonelli è figura eccentrica e controversa, eppur significativa, nel panorama letterario italiano a cavallo tra 800 e 900. È presenza significativa – nonostante fosse un autodidatta –, tanto da suscitare l’interesse e l’apprezzamento fin dai primi del 900 di critici letterari come Pier Carlo Masini, Giuseppe Iannaccone, Filippo Maggiori, ed essere definito da Aldo Barilli “uno zingaro poeta, pieno di ingegno”; e tale da sollecitare anche più recenti rivisitazioni, come quella di Gianfrancesco Borioni nel 1997, o quella, incentrata, in particolar modo, sull’opera poetica, di Alberto Pellegrino, di qualche anno fa, o quella, ancor più recente, di Massimo Gezzi. A quest’ultimo si devono la prefazione al libro e, prima ancora, il poemetto “Uno di nessuno. Storia di Giovanni Antonelli poeta”, in
pubblicazione presso la Casa editrice svizzera Casagrande, e a lui dedicato, quasi a esorcizzare il torto dell’oblio, che sarebbe l’ultimo e irrimediabile tra i tanti subiti in vita dallo sfortunato marchigiano. Alle pagine del libro, scritte in parte durante uno dei ricoveri nel manicomio di Ancona, Antonelli – quale naufrago che, irreparabilmente confinato in un’isola deserta e inospitale, affida a bottiglia flottante l’ultima, disperata invocazione di soccorso – consegna, a futura memoria, la storia della sua vita. Una storia (come si riassume nella prefazione) fatta di innumerevoli “soprusi, umiliazioni, incarcerazioni, evasioni, agguati che lo costringono ad una vita di insubordinazione e anarchismo, a slanci ideali e poetici, perché il protagonista si sente soprattutto uno scrittore e un poeta, devoto ai suoi scartafacci continuamente perduti e ritrovati, nella sua infinita peregrinazione”. Una storia la cui sostanziale veridicità è confermata dalle ricerche di archivio, intraprese dallo stesso Prefatore “per il bisogno di dare un volto e una storia a questo bizzarro compagno”. Plausibili giustificazioni per le mende e le imprecisioni che sono riscontrabili nel libro, d’altra parte, le dà proprio lo stesso Antonelli. Precisamente, là dove, con accenti di trasparente melanconia – ma che rivelano anche i segni di un indomito orgoglio – ci avverte che, nel compilare il libro di memorie, “alquanto isolato, in un’altura del manicomio di Ancona, dalla cui sbarra posso godermi il sole, la marina prospiciente Falco-
Letteratura|Il personaggio
Una vita randagia e sfortunata fatta di lunghe peregrinazioni di indigenza emarginazioni e ricoveri in manicomi
nara e i colli deliziosi (…), non un appunto, non un libro ho davanti, esce tutto dalla mia povera testa sfasciata, perfino le date delle tragiche vicende”. Abbandonate in giovanissima età la casa paterna e la città natale, che evidentemente opprimevano la sua inquieta natura, per arruolarsi nella regia marina dello Stato appena unificato, Giovanni Antonelli durante il lungo servizio marittimo subisce (come lui stesso racconta) pesanti e ripetute violenze fisiche e morali, quali non erano infrequenti all’epoca, specie nei confronti di mozzi e marinai più giovani. Violenze destinate, con ogni verosimiglianza, a segnarlo per sempre, anche nelle condizioni di salute mentale. Fatto sta che, faticosamente ottenuto dopo svariati anni di servizio l’agognato congedo, da lì in poi per lui è stato tutto un irrequieto vagabondare: dalle Marche a Roma, a Firenze, a Napoli, e viceversa, in prevalenza a piedi, in un continuo, inesorabile va e vieni. Ma anche un susseguirsi di peripezie, di periodi di carcere – probabilmente, per vagabondaggio o per veri o presunti oltraggi ad autorità, certamente dovuti in gran parte alla sua irascibilità – o di ricovero in ospedali o manicomi vari. La prima scheda di ricovero in un manicomio – quella di Fermo – lo definisce (ce lo fa sapere il Prefatore) “irritabile, altero, intollerante, di temperamento sanguigno nervoso”, affetto da “follia malinconica, con tendenza al suicidio”, e con l’abitudine di “andare a zonzo, di non star mai fermo in un luogo”. E ci fa sapere anche che “la di lui occupazione più gradita, quando era fermo o obbligato a star recluso, erano lo scrivere sopra argomenti diversi e comporre poesie anche estemporaneamente”. Ci avverte, però, Antonelli,
56 nell’incipit del “libro”: “Ho intitolato il mio povero volume «Note autobiografiche e rime di un pazzo», non già perché raccolga la nomea che mi hanno affibbiata; ma perché trovo sacrosanta la sentenza di Erasmo di Rotterdam: «Una gabbia di matti è il mondo tutto». Io riconosco di non essere né più savio né più matto degli altri, ma più sventurato e meno cattivo”. Un incipit che non può non richiamare alla mente (come osserva il Prefatore) l’autorevole ammonimento di Michel Focault; e, cioè, che spesso la pazzia non è che l’etichetta che si appiccica ai diversi, a coloro che non riconoscono l’ordine costituito, o ad esso non si piegano. I metodi di cura nei manicomi d'epoca Ma ci induce, quell’incipit, anche a riflettere sulle condizioni e sui metodi di “cura” dei manicomi dell’epoca. E particolarmente significativa è, al proposito, la descrizione che Antonelli stesso di quei metodi e condizioni dà nel capitolo diciannovesimo. Non poche sono le pagine del libro dalle quali traspaiono la grande sensibilità – una sensibilità ferita – e la forte affettività dell’Antonelli: dal capitolo commovente (il dodicesimo), espressamente dedicato alla madre, alle pagine sparse, ove la nostalgia per il paese che lo ha accolto infante si fa lirica. Ma vivacissime sono anche le pagine nelle quali Antonelli pone a raffronto e giudica, con proprietà di accenti e indubbia arguzia, i frenologi che lo hanno avuto in cura. Innanzitutto, quell’autorevole Enrico Morselli (18521923), all’epoca direttore del manicomio di Macerata, che, per primo, ha saputo capirne e valorizzarne le capacità e la vena artistica, fornendogli in lettura libri importanti, e così
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dandogli la possibilità di formarsi su grandi modelli (Tasso, Leopardi, Giusti, Carducci), e, indi, di dare alle stampe i suoi scritti. E dell’autorevole medico psichiatra dà il seguente ritratto: “Egli è molto eccitabile ma di indole buonissima; è l’alienista più leale che io m’abbia conosciuto. Fatalità non ci fece andar d’accordo perché egli è troppo pieno di sé nella sua scienza. Io son troppo pieno della mia sventura. Potrei dire che Morselli fu il mio mecenate serio: mi fornì di libri e di consigli”. Ma Antonelli vuole ricordare anche quel Giacchi che lo ebbe in cura nel manicomio di Fermo: “Conobbi meglio il Giacchi, di cui ero già innamorato leggendo i suoi diari. Ei possiede una fantasia ardentissima, un gusto letterario raffinato; e secondo me, non ha scelto bene la sua carriera. Non intendo con ciò dire che ei non sia riuscito un bravissimo medico e frenologo; ma ha maggior disposizione, senza dubbio, alla letteratura che alla scienza. Egli ha la stoffa di un eccellente romanziere, e fors’anche di un poeta. Leggete le sue opere e vedrete come prevalgono agli scientifici i pregi letterari. Giacchi offre il rovescio di Morselli, il quale è troppo profondamente scienziato per essere grande letterato”. Cadono a proposito, a questo punto, come mi sembra, le riflessioni di un illustre psichiatra contemporaneo. “La follia non è qualcosa di estraneo alla vita: in alcuni fra noi essa si manifesta con grande intensità, e con un diapason fiammeggiante di angoscia e di tristezza, di disperazione e di dissociazione; ma la follia nella sua radice più profonda è una possibilità umana, che è in ciascuno di noi, con le sue ombre più o meno dolorose e le sue penombre, con le sue agostiniane inquietudini del cuore (...). La follia è fragile, nel senso che rinasce da una
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condizione umana non murata nelle sue emozioni e chiusa nelle emozioni altrui, ma solcata da una particolare vulnerabilità che la espone alle ferite dell’indifferenza e della trascuranza”: sono le parole
con le quali Eugenio Borgna (“La fragilità che è in noi”, Einaudi ed., 2014) ci richiama agli aspetti luminosi e oscuri di una condizione umana che ha molti volti, compreso talvolta quello della malattia psichica, e che nessuno risparmia. E la fragilità di Antonelli, in effetti, pienamente si rivela – e l’acume della sua intelligenza si colora dolorosamente di sarcasmo –, quando gli capita di avvertire che, intorno a lui, posta in discussione non è tanto la sua salute mentale, quanto la sua qualità di poeta e di scrittore.
"Io riconosco di non essere né più savio né più matto degli altri, ma più sventurato e meno cattivo"
Letteratura|Il personaggio
Antonelli giudica i direttori di manicomio Morselli "mecenate serio" assolve Giacchi "raffinato letterato" e ha parole al veleno contro Lombroso
Ne fa le spese, in parte, lo stesso Morselli, pur da lui così stimato e considerato con deferenza, a causa di quella diagnosi di “megalomania” e di “delirio di grandezza”, che lui assolutamente non si riconosce. Un giudizio che vorrebbe sostituito con la sua “autodiagnosi: uno strano miscuglio di timido e di fiero, con la smania di voler sembrare più fiero di quel che sono (...). Datemi un ambiente meno indegno di me, e mi troverete di gran lunga meno pazzo di altri”. Ma ne fa le spese, sopratutto, il celebre psichiatra e antropologo Cesare Lombroso (18351909), il quale, nel suo saggio “Genio e follia” del 1882, si occupa espressamente anche di lui (segnalatogli, ovviamente, da Morselli); ma anche per esprimere un giudizio non lusinghiero sia sui suoi versi sia sull’autobiografia, che, infatti, classifica “mediocri”. Antonelli gli risponde per le rime, con palese risentimento, ma anche con indiscutibile arguzia. “E se è vera la scala fabbricata dal prof. Lombroso e compagni, quella, cioè, che dall’anomalo, dall’esaltato, dall’originale, dall’eccentrico va sino al matto, Lombroso, che conosce così bene la materia, sarà per certo a capo di essa scala. Di fatti, egli, nel corso di sua vita, avrà voluto appagare molti suoi desideri bizzarri, sarà quindi «mattoide»; avrà avuto qualche momento di mestizia, sarà quindi «lipemaniaco»; avrà creduto che altri non riconosca i suoi meriti letterari e scientifici, sarà dunque «delirante di persecuzione»; vorrà scrivere sempre e non saranno i suoi scritti tutta farina del suo sacco, sarà dunque
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«kleptografomane»; crederà alla propria infallibilità nella sua qualità di pontefice della scuola psichiatrica, sarà dunque «megalomane»; sognerà pazzi dappertutto, ed eccolo anco «allucinato». Molte invettive taglienti e sfrenate Antonelli perde letteralmente il lume della ragione, invece, e le sue parole dolorosamente si tramutano in invettive taglienti e sfrenate, se non del tutto prive di senso, di fronte ai soprusi che subisce o ritiene di star subendo, alle prepotenze, alle manifestazioni di scarsa o nulla considerazione della sua persona, nelle occasioni in cui di esse venga fatto bersaglio. E la veemenza dell’invettiva si avvale del supporto di una grande capacità di improvvisare versi appropriati; e, dunque, anche per questo invettiva da immaginare tanto più aspra per i relativi, diretti destinatari, specie se depositari di qualche “autorità”. Invettiva, dunque, suscettibile di determinare tanto più gravose reazioni nei suoi confronti. Dall’ira alla commiserazione di sé. E la mente, duramente messa alla prova, si avviluppa allora su se stessa e lascia spazio ai fantasmi che essa stessa genera, nell’illusione che la realtà desiderata possa inverarsi. Come quando egli “ricorda” che, al termine della sua “autodifesa” nel processo davanti al tribunale penale di Macerata per alcuni fatti (di poco rilievo) accaduti in quel di Morrovalle, “stupefatto, commosso, il popolo applaudiva”. ¤
Storia delle Marche|Il treno
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Ferrovia, il Papa la volle e il re poi l’inaugurò
Illustrazione di Andrea Sufferini
ROMA-ANCONA-BOLOGNA, NEL 1861 IL BATTESIMO
L di Dante Trebbi
a mattina del 25 settembre 1825 la popolazione della cittadina inglese di Stockton fu chiamata a assistere alla inaugurazione della prima via ferrata al mondo, Stockton-Darlington. A volerla, era stata la società “Stokton and Darlington Railway Company”. Nel vedere partire la rumorosa “ locomotion” (locomotiva) lungo una via ferrata, molti dei presenti provarono simpatia e ammirazione per gli intrepidi passeggeri che seduti sui vagoni-carrello scoperti, erano in procinto di viaggiare alla “folle velocità di 15 chilometri all’ora” che era il doppio di quella delle carrozze trainate da cavalli. Consapevoli che questa nuova macchina avrebbe rivoluzionato i trasporti, ben presto molti Stati europei decisero di dotarsi di linee ferrate. Il primo in Italia fu il Regno di Napoli. E’, infatti, datato 19 giugno 1836, il decreto di Re Ferdinando II di Borbone, che autorizzava l’ingegnere francese Armando Bayard de le
Vingtrie a costruire la linea ferrata Napoli- Nocera di cui il primo tratto Napoli-Granatello di Portici fu inaugurato il 3 ottobre 1839. L’unico Stato che rimase indifferente, fu quello Pontificio. Dal suo soglio, Papa Gregorio XVI, ordinò ai suoi preti di “non dare l’assoluzione a coloro che rischiavano la vita salendo sulle carrozze trainate da locomotive a vapore che violavano le leggi sulla natura della velocità”. Di ben altro parere fu il suo successore Pio IX. A pochi mesi dalla sua elezione, dispose con la legge del 5 novembre 1846, il permesso di realizzare nel territorio alcune strade ferrate attraverso una costituenda “società pubblico-privata”, chiedendo ad ogni comune, compreso nel tracciato, di acquistare “un congruo numero di azioni”. La prima linea ferrata autorizzata fu, il 25 novembre 1848, la Roma- Napoli. A firmare in nome della appena costituita società “Pia Latina” erano presenti il ministro dei Lavori Pubblici
Storia delle Marche|Il treno
Pietro Sterbini, in rappresentanza del Vaticano e, per per la parte privata, i principi Domenico Orsini e Pietro Odescalchi. Il progetto, però, non si realizzò a causa degli eventi storici che coinvolsero
Prevista una società pubblico-privata con titoli negoziabili e interesse del 6% Solo Fano autorizzò la linea lungo il litorale, Pesaro no
lo Stato nei mesi successivi : la fuga di Pio IX a Gaeta (dicembre 1848), l’avvento della Repubblica Romana (febbraio 1849) e l’occupazione delle truppe austroungariche accorse in aiuto del Papa (giugno 1849. Nel 1850 la Società Pio Latina, grazie ad alcune agevolazioni statali, riuscì ad intraprendere i primi lavori del tronco Roma-Frascati, ma, ben presto, non potendo mantenere gli obblighi assunti, fu costretta a chiudere i battenti. Nel settembre 1852, il governo pontificio autorizzò importanti studi tecnici per la costruzione di una nuova strada ferrata, allo scopo di collegare Roma con Ancona, Bologna e Ferrara. Un editto della Segreteria di Stato del 17 febbraio 1853, invitava tutti i proprietari delle terre interessate “a cooperare con tutti i mezzi che erano in loro potere, per aiutare nel loro lavoro, i dodici giovani ingegneri pontifici, allievi della scuola tecnica romana, incaricati alle trivellazioni e ad altri studi geodetici alla
60 cui guida era stato nominato come direttore, l’ingegnere Signor Cavaliere Michel, affinché non trovino veruna opposizione nell’adempimento della loro missione”. Nell’aprile 1856 la “Società Casavaldes e Compagni “rappresentata dai signori Felice Valdes de Los- Rios, Marchese de Casavaldes e Luigi Maria Manzi richiese l’autorizzazione di potere eseguire ed esercitare, a tutte sue spese, rischio e pericolo con garanzia d’interesse per la parte del governo, la strada ferrata Roma – Civitavecchia e nel maggio estese le su richieste anche per la Roma, Ancona e Bologna. I capitali necessari all’impresa erano da costituirsi attraverso una società per azioni pubblico - privata con titoli negoziabili, con un interesse garantito del 6%. La Società prese il nome di “Società della Strade Ferrate Romane”. La linea Roma Civitavecchia prese il nome di Pio - Latina e, di Pio Centrale, la Roma-Ancona-Bologna. Il capitale della società era composto di 170.000 azioni da 510 franchi francesi e,” a dimostrazione della deferenza al governo della Santa Sede” vennero riservate agli abitanti dello Stato Pontificio 40.000 azioni ad un prezzo speciale di 500 franchi . Per facilitare la raccolta delle azioni, il 18 marzo 1857 una circolare ministeriale romana ricordava ai comuni delle Delegazioni, interessate al tracciato, che era giunto il momento della sottoscrizione e non poteva non vedersi conveniente che un buon numero di sudditi pontifici figurasse nell’albo degli azionisti dove per primo si leggeva il Venerato Nome di Sua Santità”. I lavori vennero divisi in tre sezioni: Roma – Foligno; Foligno fino al punto dì unione sulla strada ( Falconara) da Ancona per Bologna; Ancona - Bologna. Per la costruzione e l’armamento della
Storia delle Marche|Il treno
linea, fu stilato un contratto di appalto a cottimo con la società “Credito Mobiliare toscano”, rappresentata dal marchese Cosimo Ridolfi e dall’ingegnere Giulio Sarti. Ligi agli ordini ricevuti, tutti i comuni, interessati al progetto, si prodigarono all’acquisto delle azioni seguiti da molti privati che trovavano vantaggioso investire denaro al tasso del 6%. La Cassa di Risparmio di Pesaro, ad esempio, ne prenotò un discreto numero in quanto “non potendo ancora effettuare la restituzione del capitale sociale, intendeva gratificare i propri soci con un equo interesse”. Fin dall’inizio i lavori si rivelarono molto complessi e onerosi perché per attraversare l’Appennino, si dovevano costruire lunghe gallerie scavate su una “roccia particolarmente dura,” mentre per il primo tratto, fino a Pesaro, della AnconaBologna che correva lungo la costa era necessario proteggere la carreggiata dalle furie delle burrasche con muri e grossi scogli. Anche lo stesso tracciato, seppure già approvato e il collocamento delle stazioni, era divenuto un problema perché, per effettuare le opere, occorreva ottenere il permesso dei sindaci. Fano, ad esempio, autorizzò di “far percorrere la linea lungo il litorale, dal Metauro fino Porta Marina, come da progetto, ma pretese per l’attraversamento del porto la costruzione di un ponte girante perché, se costruita fra la città e l’entroterra, la Via Flaminia e tutte le strade comunali di campagna, sarebbero state chiuse”. Pesaro, invece, fu contraria. Anziché far passare la ferrovia lungo il mare fino alla Rocchetta (parcheggio del Curvone) e lungo l’attuale Via Mameli, optò per un “un andamento che, all’estremità dei Monti Ardizi, lasciasse il lido del mare, traversasse il Genica
e andasse ad incontrare la strada consorziale di Ginestreto ad oltre 200 metri da Porta Collina”. Questo tracciato, pur penalizzando gli scambi commerciali perché lontano dal porto, aveva il vantaggio di avere un argine da divenire “utile riparo alle inondazioni del Foglia che periodicamente invadevano la città”. Inoltre, “l’elevatezza del terreno comportava minore movimento di terra e, quindi, non necessitava aprire cave ampie e profonde che potevano nuocere alla salute pubblica”. Dai rapporti, inviati periodicamente a Roma dal Direttore dei Lavori Pubblici, si apprende che alla fine del 1859 i lavori sulla Ancona-Bologna, andavano molto a rilento. Da una relazione del 19 luglio1860, risulta: sul tratto AnconaSenigallia si intravvedevano soltanto alcuni “lavori di terra per la costante larghezza di due binari”. La prima parte della Senigallia-Fano risultava soltanto picchettata con qualche traccia di carreggiata; nella Fano - Pesaro non era stato eseguito alcun lavoro, ad eccezione del tunnel che portava a Cattolica. Poco tempo dopo (3 ottobre 1860), ad un mese dall’entrata dell’esercito piemontese nelle Marche, i rappresentanti della stessa “Società delle Strade Ferrate Romane” firmarono una convenzione, impegnandosi a terminare in breve tempo tutta la linea ferrata fino a Bologna. “Il 10 novembre 1861, si legge in una cronaca del tempo, giungeva a Pesaro per la via ferrata, il convoglio reale con Re Vittorio Emanuele II per l’inaugurazione della linea Ancona Bologna. Alla stazione erano presenti le autorità municipali, governative e l’intera guardia nazionale schierata in divisa da parata, ma i detti vagoni si fermarono senza che alcuno scendesse”. ¤
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Papa Gregorio XVI ordinò di non dare l'assoluzione a chi saliva sul treno Pio IX invece permise con legge le strade ferrate
Le pubblicazioni
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“Freschi di stampa” Cinque opere scelte L'OTTAVA EDIZIONE IN PROGAMMA A MACERATA IL 22 APRILE
S Anche in questa manifestazione come nell'anno precedente è stata riservata una “Finestra sull'editoria”
ono sorprendenti e, insieme, lusinghiere la ricchezza e la qualità di opere che annualmente vedono la luce nei settori di interesse della nostra Associazione: opere di autori marchigiani o di oggetto marchigiano, tanto in ambito letterario, quanto in ambito scientifico, storico, artistico, edite nell’anno precedente. Intuibile, dunque, quanto sia arduo il compito di prescegliere i volumi per l'ormai tradizionale evento maceratese di “Freschi di stampa” in programma il 22 aprile nella sala Castiglione della biblioteca Mozzi Borgetti. Quest’anno la selezione è caduta sulle seguenti cinque opere: Giorgio Mangani, Il vescovo e l’antiquario. Giuda Ciriaco, Ciriaco Pizzacolli e l’origine dell’identità adriatica anconetana, “Il lavoro editoriale”, storia dell’identità adriatica per il tramite delle vicende esistenziali di due personaggi emblematici della realtà anconetana, e non solo; Francesco Scarabicchi, Il prato bianco, “Einaudi editore”, raccolta di testi del poeta an-
conetano, uno tra i maggiori poeti italiani; Nicola Sbano, Lorenzo Lesti, patriota, il suo tempo e la “processura anconetana di più delitti”, “Il lavoro editoriale”, saggio di storia politica nazionale e regionale; Paola Ballesi (a cura di), Marginalia, il pensiero figurato di Magdalo Mussio, “Quodlibet”, silloge di saggi sul contributo artistico dello scenografo e docente dell’Accademia delle Belle arti di Macerata; Giovanni Antonelli, Il libro di un pazzo, “Giometti e Antonelli editori”, autobiografia del poeta marchigiano di fine ottocento. Opere presentate, nell’ordine, da Marco Belogi, Lucia Tancredi, Gilberto Piccinini, Paola Ballesi e Alberto Pellegrino. Anche in questa edizione di “Freschi di stampa”, così come in quella dell’anno precedente, è stata riservata una “Finestra sull’Editoria”, finestra, aperta, questa volta, su Liberilibri, la casa editrice maceratese, dall’ampio, rinomato catalogo, e di radicata rinomanza nazionale, presentata, per l’occasione, da Giancarlo Liuti. ¤
Tre protagonisti del design
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EDITO DA AIAP 324 PAGINE A cura di Roberto Pieracini con federica Facchini
uesto libro racconta una storia. Una piccola ma incisiva storia della vita culturale italiana. Siamo a Pesaro, tra gli anni Sessanta e Novanta, nella provincia che cresce sull'onda dell'economia dei distretti. Tre attori – due pesaresi, Bucci e Dolcini e un milanese, Sassi – si incontrano e mettono in comune in modo diretto e coinvolgente, gli universi paralleli e complementari di quanto hanno fatto per l'arte, la comunicazione, il design e la grafica. La storia inizia in due scuole, l’Istituto d’arte Ferruccio Mengaroni di Pesaro e l’Isia di Urbino. Qui si sono formati Franco Bucci, raffinato artigiano/artista che con la sua produzione di oggetti d’uso portò alta qualità nel quotidiano e Massimo Dolcini, dirompente e avvincente personaggio che fece della sua grafica, facile e colta, lo strumento perfetto per parlare e coinvolgere i cittadini. ¤
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Le Cento CittĂ , n. 56
Federica Facchini Romano Folicaldi Alberto Meriggi Alberto Mazzacchera Maurizio Cinelli Dante Trebbi
Sped. in a.p. - 70% - Filiale di Ancona
Rivista di divulgazione culturale e artistica del territorio marchigiano
ARTE | STORIA | ARCHEOLOGIA | LETTERATURA | SOCIETĂ€ | MUSICA | SCIENZE
NUMERO 58 | 2017
58|2017
Marco Belogi Fabio Brisighelli Paola Cimarelli Franco De Marco Nando Cecini Grazia Calegari
Marco Belogi Fabio Brisighelli Paola Cimarelli Franco De Marco
Nando Cecini Grazia Calegari Federica Facchini Romano Folicaldi NUMERO
58|2017
Alberto Meriggi Alberto Mazzacchera Maurizio Cinelli Dante Trebbi