Testimonianze di pietra

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Testimonianze di pietra Identità e memoria della città di Salerno

Lo spirito che ha informato il ciclo di conferenze, di cui pubblichiamo di seguito gli atti, è stato improntato alla riflessione sulla necessità di coltivare la memoria dei luoghi che permette di rintracciare l‟identità propria dei territori, così come essa si è costituita nel tempo, sedimentata negli anni in cui l‟azione delle popolazioni che in essi hanno vissuto si è stratificata nelle forme riscontrabili nelle testimonianze materiali. Queste testimonianze possono essere riscoperte con azioni culturali dalla valenza poliedrica e multidirezionale che, oltre a costituire un‟operazione di riconoscimento delle proprie radici di civiltà, può coinvolgere aspetti anche pratici di una comunità, come sono quelli rivolti alla crescita della ricchezza locale e, più genericamente, allo sviluppo del territorio nel suo insieme. Operazione, questa, tanto più meritoria in quanto la ricerca della propria storia identitaria può portare all‟individuazione di importanti punti di riferimento, anche nei casi non propriamente positivi, in momenti di profondi mutamenti dei paradigmi culturali e socio-economici che comportano nella comunità, in specie nella sua componente giovanile, un forte senso di disorientamento che inibisce la costruzione del futuro. La proposta di ricerca di tale identità per la città di Salerno è stata concepita dall‟Associazione Culturale ADOREA che l‟ha avviata, come opera di scavo nella memoria attraverso la visitazione e il racconto di alcune testimonianze scolpite nella pietra dei monumenti, palazzi, chiese, edifici religiosi e laici, ma anche nei giardini, nelle strade e negli spazi interstiziali della città. In tale ottica ADOREA, costituita da alcuni amici legati da affinità intellettuali con curiosità storiche, artistiche ed economico-sociali, è stata mossa dalla convinzione che l‟identità cittadina è un valore in sé, di cui i cittadini devono riappropriarsi, nonostante la fatica di rimuovere la chiusura all‟antico senza preoccuparsi di conoscerlo o, peggio, lasciando che le residue memorie degli isolati studiosi di storia locale si estinguano e con esse si estingua la memoria dei luoghi, dei suoli e degli edifici, perfino nella toponomastica, ormai dimentica dei riferimenti a quegli attori e agli eventi di cui furono protagonisti, nello scorrere del

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tempo storico della città. Ricercare ed individuare questa identità necessita dunque di una riflessione su chi siamo stati ed è quanto abbiamo provato a fare con la lettura dei monumenti scelti, nel corso di una serie di incontri associativi di alcuni mesi orsono, realizzati allo scopo di riannodare il filo della storia che ci ha condotto come comunità, più o meno originaria dopo innesti e migrazioni, a quello che siamo ora e che può contribuire, con rinnovata consapevolezza, a spingerci in avanti. Le “testimonianze di pietra” che descriveremo, tutte localizzate nel centro antico della città di Salerno, sono state oggetto di importante restauro a partire dagli anni settanta del Novecento, sull‟onda di un rinnovato interesse verso le proprie radici storiche che ha coinvolto le città italiane nel volgere del secolo scorso. Anche a Salerno, dunque, nel ritrovato interesse per la città come contenitore di storia, di radici e di vita dei residenti sono stati possibili interventi finalmente consapevoli dell‟importanza delle tracce edificatorie che ci restituiscono un‟identità sul cui valore non avevamo sufficientemente riflettuto. Non solo per la ricchezza apportata in termini di rifacimenti edilizi, di ricerca sulle fonti, di affinamento di tecniche restaurative, di tecnologie e di materiali impiegati, ma anche per ciò che il restauro ha significato in quanto a numerosità delle maestranze coinvolte, di mestieri riscoperti o di nuovi profili professionali adottati. Tutta l’economia cittadina è stata rivitalizzata e intorno alla ricerca delle sue origini sono andati ricostruendosi i fili culturali e materiali della città di Salerno e il coltivarne la memoria si è imposto non solo come dovere civile di una cultura “alta”, ma anche come ricostruzione di un tessuto di attività con potenzialità di crescita economica e di occasione di sviluppo integrale, rintracciando i nessi che hanno legato Salerno ad altri luoghi e ad altre storie in Italia, in Europa e nell‟area mediterranea. I monumenti che esamineremo, e che non sono quelli più noti già ripetutamente raccontati quali la Cattedrale, il Castello d‟Arechi o il complesso di San Pietro a Corte, ci parlano di una storia materiale, quotidiana della città e, correttamente letti, ci narrano di un percorso a tratti glorioso, che va ricordato accanto agli indubbi periodi di decadenza e di sconfitta per le tante catastrofi naturali ed umane da cui è stata colpita, come tante altre, la città di Salerno nella sua lunga storia.


Identità e memoria della città di Salerno

Racconteremo allora la città di Salerno a partire da illustri testimonianze di pietra costruite a partire dai suoi secoli migliori e più proficui, quelli dello splendore longobardo e normanno, della potenza alto-medievale della sua scuola medica, di cui subì l‟arresto scientifico alla fine del Quattrocento, esaurito in effimero rinascimento umanistico alla corte dei principi Sanseverino. Nei primi secoli del secondo millennio furono caratteristiche importanti della città quelle relative alla Scuola Medica Salernitana, centro di scambi scientifici e di filosofia naturale e botanica all‟avanguardia del tempo (fig.1), così come quelle della Fiera di San Matteo, dove fiorivano commerci e affluivano mercanti da tutte le regioni del Mediterraneo e dell‟Europa meridionale. Altrettanto importanti furono le raffiFig.1 La Scuola Medica Salernitana nate lavorazioni artigiane di sellerie e Canone di Avicenna, ms. 2197, Bologna Biblioteca Universitaria. tessuti di seta, dei procedimenti tintorii e dei pellami, dell‟artigianato di laterizi e delle maioliche, nonché l‟arte delle decorazioni edili e di arredi sacri ed imperiali con scambi di maestranze fra Salerno e Palermo ai tempi dei re normanni Roberto il Guiscardo, Ruggero I e II e dei re Guglielmo I e II, e anche degli ultimi Svevi con Manfredi e il suo cancelliere Giovanni da Procida. Va ricordata la pietas dei suoi Arcivescovi più insigni, da Alfano I a Romualdo II Guarna e Niccolò D‟Ajello, che comportò grandi interventi in ospedali per la cura e sollievo ai sofferenti e feriti. A tal riguardo, nell‟orientamento deciso dello studio della scuola salernitana verso la cura della salute e lo sviluppo delle scienze naturali può aver avuto una qualche più o meno forte influenza la vicinanza geografica di scuole filosofiche naturaliste come quella eleatica, che ha donato connotazioni speculative scientifiche, oltre che umanistiche, al genius loci di Salerno. Successivamente, lo sviluppo dei commerci e delle manifatture assunse diffusione e livelli produttivi notevoli, in cui si distinse il dinamismo imprenditoriale dei giudei, presenti a Salerno a partire dal XII e perlomeno fino al XVII secolo. La caratterizzazione delle attività di cambiavalute e, in genere, finanziarie che

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apparteneva alle colonie di ebrei nel Medioevo europeo interessò anche quella salernitana e fu spinta dalle note limitazioni religiose cristiane, come il divieto di usura, al finanziamento di capitali ad imprese e governi per alimentare commerci, guerre di espansione territoriale ed altre avventure talvolta rischiose. Favoriva queste attività la presenza della Zecca che a Salerno battè moneta propria fino alla fine del XII secolo (fig.2).

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Fig.2 Follaro (avanti /retro) coniato dalla Zecca di Salerno nel periodo di Roberto il Guiscardo: 1059-1085.

Altrettanto rilevante a Salerno fu il dinamismo imprenditoriale dei secoli medievali dimostrato dagli esponenti della Chiesa nei monasteri, i quali dettero impulso all‟agricoltura oltre che agli studi storici e scientifici, così come stimolò le attività economiche locali l‟aspirazione alla gloria e al potere di membri delle grandi famiglie come quelle dei Pinto, dei Ruggi d‟Aragona, dei Sanseverino. Successivamente, la decadenza seicentesca del lungo periodo del vicereame spagnolo, sostenuto dal Clero, fece registrare a Salerno non pochi casi di impoverimento del ceto aristocratico, che tuttavia rimase arroccato nella conservazione dei privilegi e delle prebende e, perciò, legato alla Corte. Ciò non impedì, anzi aprì spazi all‟emersione di una nuova classe di notabili, provenienti dalle professioni liberali, medici, farmacisti, avvocati e notai, con l‟affermarsi di un nutrito gruppo di famiglie di lignaggio, per così dire “borghese”, accanto a quelle di antica nobiltà guerriera di ascendenze longobarde e normanne. In particolare, la professione di notaio aveva assunto notevole rilievo e dovizia di ricchezza già a partire dal Quattrocento, quando questa particolare figura di intermediario di servizi giuridici e amministrativi compariva in atti rilevanti della trasmissione della ricchezza, dalle compravendite di immobili e fondi ai contratti


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di affari commerciali, nelle successioni familiari come nella prestazione di garanzie finanziarie e nella stipula di rogiti matrimoniali, che regolavano importanti relazioni tra le principali famiglie salernitane e del Regno di Napoli. Prototipo di questo ceto è quel Notar Petruccio Pisano di cui sono noti i registri di rogiti patrimoniali e di contratti commerciali stipulati nel Quattrocento durante la Fiera di Salerno, che vividamente ci hanno rivelato le tipologie merceologiche degli scambi fieristici, tramandando usi, misure e consuetudini della pratica commerciale svolta in quel ricco e irripetibile secolo nella città di Salerno. In tal modo e progressivamente, ciò contribuì all’affermazione di un ceto prevalentemente dedito ad attività di intermediazione commerciale, finanziaria, amministrativa, il quale si rivelò, nel corso del tempo, restio ad affrontare i rischi di espansione territoriale e di innovazioni che oggi diremmo tecnologiche. L’oligarchia formata dalle grandi famiglie salernitane maggiorenti fu prevalentemente lontana da ogni avventura e novità che potesse minare i privilegi faticosamente conquistati dai loro esponenti al servizio e a contatto delle Corti e del sistema di potere dominante, di cui essi stessi ambivano a far parte, conservandone poi le posizioni raggiunte. Orientato alla minimizzazione del rischio questo ceto, che andò ingrossandosi nei secoli dal Cinquecento al Settecento, non intraprese, ad esempio, l‟attività di navigazione, come ci si sarebbe aspettato in una città di mare qual‟era Salerno, né si dedicò alla costruzione di una forte marineria, ma si attenne allo sfruttamento della posizione geografica di Salerno, quale cerniera di passaggio fra il Sud e il Nord del Paese e limitò il suo campo di attività ad assistere il transito delle merci e delle truppe, a cui offrire i frutti delle sue produzioni prevalentemente agricole e manifatturiere e fornire i suoi servizi artigianali. Città sul mare ma non di mare, come l’ha definita Francesco D’Episcopo, Salerno non svolse nei secoli dal Medioevo al Settecento una significativa attività marittima, ma si limitò a praticare il cabotaggio fra i porti tirrenici, spiazzata dal dinamismo della vicina Amalfi e dei porti di Livorno, Gaeta e soprattutto Napoli, la quale, come capitale del Regno, era porto di riferimento del Mezzogiorno d‟Italia, in tempi di frequente successione di invasioni e di dominazioni di monarchie europee. Nella “Città Assente” di Aurelio Musi viene a tal proposito delineata una forte critica alle classi dirigenti salernitane nell‟età moderna, come di tutte quelle del

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Sud, in ciò seguendo il Croce che le stigmatizzò come inadeguate a farsi espressione di mutamento e sviluppo socio-economico. Ruggero Moscati ha rimediato in parte a tali negativi giudizi, incolpando il carattere retrivo e oppressivo della Chiesa della Controriforma, la sua onnipresenza ed invadenza nelle cose economiche e giuridiche del Mezzogiorno e nella collusione fra le potenti famiglie ed il Clero, che assecondò il forte e lungo ristagno delle condizioni di vita delle popolazioni e l‟assenza di dinamismo nella società meridionale. La stessa influenza ecclesiale, di concerto con la pressione conservatrice delle grandi famiglie, peraltro in lotta fra di loro per l‟accaparramento delle prebende e dei ricchi incarichi nell‟ordinamento economico e amministrativo cittadino, ebbe grande ruolo nell‟orientare le caratteristiche antropologiche delle popolazioni locali, rendendole talvolta troppo acquiescenti alle prepotenze e arroganze aristocratiche e clericali, pervicaci nel rifiuto delle novità e del rischio, spesso segnate da ignoranza superstiziosa che le inclinava all‟accettazione passiva dei dominatori di turno, pur esplodendo talvolta in sporadiche, improvvisate e inconcludenti rivolte. Fu così che nella prima metà del Seicento si svilupparono a Salerno i moti di Ippolito di Pastina che, seguendo il Masaniello di Napoli, attuò una forte ribellione di popolo poi repressa dalle truppe spagnole capitanate da Giovanni d‟Austria, che sconfissero le truppe francesi del duca di Guisa, arrivate in appoggio dei rivoltosi. È pur vero che non mancarono nel corso del Seicento e del Settecento petizioni ed esposti di contadini e mercanti salernitani al re e alle istituzioni locali e del Regno, rivolte a contenere lo strapotere dell‟aristocrazia e del Clero - la Curia Arcivescovile in testa - nonché la paralizzante loro invadenza nelle cariche cittadine, amministrative e mercantili, ruotanti principalmente intorno ai momenti fieristici e alle concessioni e/o trasferimenti di feudi e grandi proprietà immobiliari. Tali azioni, tuttavia, mancarono il più delle volte di preparazione e coordinamento strategico, con assenza di apertura al mondo esterno e alle sue innovazioni, le quali avrebbero potuto allargare gli orizzonti conoscitivi e consentire interessanti esplorazioni territoriali. Nondimeno, in quegli anni all’alba della modernità, modeste iniziative imprenditoriali apparvero anche a Salerno in campo tecnico, manifatturiero, creditizio, marittimo, assicurativo, senza che esse pervenissero al massimo sfruttamento delle potenzialità ivi presenti, magari ricercando forme di collaborazione societa-


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ria nel finanziamento dei rischi d‟impresa, come contemporaneamente avveniva altrove, anche all‟ombra delle Corti, da parte di intraprendenti oligarchie imprenditoriali. A partire dalla fine del Cinquecento, dunque, a Salerno parve esaurirsi la spinta propulsiva di cui la città aveva goduto nei primi secoli del secondo Millennio, quando, essendo capitale di principati autonomi, essa aveva raggiunto il suo più grande fulgore politico ed economico. In quei primi secoli la sua apertura agli scambi, la tensione verso i mercati dell‟area mediterranea, il talento artigianale e creativo dei suoi abitanti, avevano caratterizzato eccellentemente la città e il suo hinterland e avevano sviluppato in essa una cultura del “Fare” nelle arti e nelle professioni, distinta dalla cultura cortigiana della Guerra, allora altrove prevalente. Alla fine della lunga stagione vicereale spagnola, nemmeno le scosse del periodo napoleonico, giunte in periodo borbonico nella vicina Napoli con l‟eco della grande rivoluzione francese, scalfirono di molto il torpore di Salerno e della sua provincia, che pure non mancò di dare figli alla rivoluzione napoletana del 1799, ma non approfittò dell’aria nuova che rinnovò totalmente i metodi e i pilastri dell‟ordinamento amministrativo, industriale e militare, dell‟istruzione e del commercio dell‟ancien régime. Si dovette aspettare l’Unità d’Italia per iniziare, con le spinte propulsive degli stranieri e dei loro capitali, prevalentemente svizzeri e tedeschi con qualche aggiunta inglese, un processo di modernizzazione dell‟economia e del lavoro coinvolgente i ceti e la popolazione di Salerno. Nell’Ottocento, l’insediamento e la diffusione delle manifatture tessili, di quelle meccaniche di supporto e l‟avvio della trasformazione industriale conserviera dei prodotti agricoli consentirono l‟innesco del primo ciclo di modernizzazione economico-sociale di Salerno e del suo hinterland più vicino. Ma questa è storia del successivo secolo del Novecento a Salerno, che merita di un‟approfondita riflessione, diversa dagli scopi qui proposti e rivolti al recupero della memoria dei tempi più antichi, raccontando la storia dei suoi monumenti religiosi, delle prestigiose dimore dei tempi andati, delle strade, dei giardini e delle case “palazziate”. Ne è scaturita un’opera di ricomposizione del quadro storico in cui si sono svolti gli eventi significativi della vita della città di Salerno, recuperandone la memoria che ha consentito l‟individuazione di alcuni tratti salienti dell‟identità

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salernitana, maturati nei fondamentali secoli dal XI al XIX del secondo Millennio. In primo luogo ci sia consentito ricordare gli interessi scientifici, come derivazione dalla filosofia della Magna Grecia, riandando alle speculazioni dei medici-filosofi di Elea, alle loro ricerche sulla natura e sulle erbe e agli studi circa la loro applicazione in campo medico presente nella Scuola Medica Salernitana, praticati e divulgati nei secoli attraverso la medicina Scolastica. Carattere del pari autentico della tradizione salernitana è da intendersi la vocazione mercantile della città che, se pur con diversità temporali e carenze di dinamismo settoriale, ha comunque fatto registrare evidenze imprenditoriali di tutto rispetto da parte di un ristretto ceto, di derivazione prevalentemente nobiliare e professionale, dedito ad attività di intermediazione economica e burocratica nei confronti della committenza pubblica e governativa, a scapito di quelle più innovative rivolte al miglioramento delle condizioni materiali del territorio meridionale. Tale “vocazione” prettamente commerciale e rivolta principalmente ai poteri costituiti, ha sottratto in buona parte la popolazione salernitana e le sue classi dirigenti alla pratica di ambiziose attività di ampliamento territoriale, anche con aggressive conquiste militari. Inoltre, l’essere stata Salerno e il suo Principato Citra prevalentemente periferia autonoma delle Corti che si sono succedute a Napoli, ha permesso lo sviluppo di manifatture originali nell‟alimentare, nel tessile, nelle ceramica, nonché commerci autonomi con porti mediterranei e nordafricani, traendone conoscenze tecniche non mediate dal centro e coltivando una cultura del fare nelle arti e nelle professioni diversa dalla cultura militare coltivata a Corte. In quest’opera di ricerca delle radici identitarie della città attraverso la lettura delle sue testimonianze di pietra, usate come prova fattuale della sua storia, si è tentata la mediazione fra le tesi dei vari studiosi che si sono cimentati con successo nello studio della storia di Salerno, nel quadro del Mezzogiorno d‟Italia. Divisi fra i cantori della storia di Salerno, che hanno celebrato le grandi istituzioni della Fiera di San Matteo, della Scuola Medica, dei giardini e delle Erbe, nonché dei suoi protagonisti re, medici, arcivescovi e mercanti, quali il Mazza, il Pinto, il De Renzi, il Carucci da una parte, e i suoi critici, talora molto, quali il Musi e la sua scuola storica, ma anche il Dente, il Cosimato, il Cirillo, che hanno segnalato l‟incompiuta parabola di successo della storia cittadina, soprattutto in


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età moderna quando Salerno ha rinunciato a continuare ad esprimere al meglio le sue potenzialità, ci si è rivolti all‟indagine sui monumenti ancora esistenti e valorizzati da restauri recenti che documentano una ricchezza, un‟abilità, una conoscenza professionale, nonché relazioni nazionali ed internazionali ed attrazioni commerciali che solo poche altre piccole città dal passato medievale illustre, come Salerno, possono vantare. E da questa riscoperta dell’identità cittadina ci sembra necessario ripartire, con la consapevolezza di evitare altre occasioni di spreco di opportunità, con l‟osservazione attenta delle esperienze fatte e dei risultati raggiunti, magari attingendo alle “migliori pratiche” esistenti qui e altrove. In conclusione, potremmo in tal modo riepilogare le motivazioni e gli obiettivi della ricerca condotta con illustri studiosi della storia locale e con gli architetti autori dei restauri dei monumenti indagati, che ci hanno guidato fra i cortili dei Palazzi nobiliari, nei monasteri e nelle chiese della città antica, nei giardini e nei chiostri delle abbazie, attraversando le vie animate da fiere e mercati frequentati da maestranze e mercanti delle terre europee e del Mediterraneo. Ci hanno condotto nei quartieri occidentali di antico insediamento longobardo e amalfitano, nel quartiere delle Fornelle delimitato dal Palazzo oggi detto Pedace, l‟architetto Mario dell‟Acqua, che ne ha raccontato l‟antica costruzione voluta da importanti personaggi della famiglia D‟Ajello, e l‟esperto autore di tanti studi sull‟arte delle chiese e dei palazzi salernitani Antonio Braca, che ha anche messo in luce i tesori d‟arte della chiesa di San Giorgio e di Palazzo Pinto. Della straordinaria storia di questo Palazzo e di ciò che esso ha significato per molti secoli a Salerno, l‟architetto suo restauratore Ruggiero Bignardi ha illustrato i fasti della nobile famiglia Fig.3 Stemma della famiglia Pinto sul Pinto che l‟ha posseduto nei secoli, portandone portale d'ingresso del Palazzo in Via alla luce preziosi ambienti che hanno restituito Mercanti a Salerno. (Foto: V. Bonani) l‟atmosfera aristocratica e potente del tempo (fig.3). Dei monasteri e dell’importanza monastica delle abbazie fin dal tempo longo-

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bardo ci ha parlato e scritto il dott. Giuseppe Lauriello, esperto cultore della storia della Scuola Medica Salernitana, alla quale, in un più ampio e moderno senso, egli stesso appartiene, illustrando il Monastero di San Benedetto, importante centro della cultura e della spiritualità operativa dei benedettini nel Mezzogiorno d‟Italia, come lo fu l‟altro notevole convento di Santa Sofia, anch‟esso presente, con il complesso di San Giorgio, nelle letture architettoniche realizzate nel corso del progetto. Narratrice di risaputa sapienza, e in buona parte scopritrice di alcuni protagonisti della grandezza e della successiva decadenza di Salerno nei secoli da metà Quattrocento a tutto il Seicento, Maria Antonietta Del Grosso ha raccontato di una famiglia, quella dei Ruggi D‟Aragona, che si può considerare l‟archetipo del ruolo e della potenza della nobiltà salernitana attraverso i Secoli, mentre la storica dell‟arte Rosa Carafa ha illustrato da par suo la struttura, la posizione e l‟estensione del Palazzo di famiglia, oggi prestigiosa sede della Sovraintendenza dei Beni Artistici e Culturali di Salerno. Ci piace iniziare il racconto di questo itinerario storico, architettonico e artistico attraverso le strade della città di Salerno, salendo gli antichi gradini che portano al magnifico giardino della Minerva, recuperato alla memoria dei cittadini, e dei tanti forestieri che vengono a visitarlo fra le principali attrazioni della città, dal suo appassionato restauratore Luciano Mauro, che con l‟archeologa Paola Valitutti, ha ricreato l‟impianto antico del giardino e la sua funzione di supporto all‟esercizio dell‟arte della salute, da parte dei protagonisti della prima Scuola di Medicina dell‟Europa medievale. Si potranno, infine, ascoltare i rumori, le grida e le risate, i suoni e le meraviglie di un mercato medievale, raccontando i luoghi della Fiera di San Matteo, altra protagonista della storia di Salerno e di ciò che essa ha rappresentato nelle attività economiche, e non solo, della città per lunghi secoli, dagli inizi entusiasmanti nella seconda metà del Duecento, nel fervore dei mercati dell‟Europa Medievale, fino al languori estenuati dei primi del Novecento.


Veduta di Salerno dal mare in una stampa del 1763 - University of Jerusalem.


La scalea con pergola di vite del giardino della Minerva a Salerno. In alto a destra , particolare del monastero di San Nicola della Palma. (Foto: G. Rosi)


Momenti di gloria La Scuola Medica Salernitana e il giardino della Minerva Luciano Mauro

Salerno fu, nel passato, città di orti e giardini. Ciò grazie al suo clima mite, all‟abbondanza di acque sorgive e alla fertilità dei suoli. Il giardino della Minerva è, tra questi antichi spazi verdi, forse il più nobile e, sicuramente, quello meglio conservato1. Il giardino si trova a ridosso delle antiche mura della città di Salerno, su di un asse ideale che dall‟ottocentesca Villa Comunale sale verso il Castello Medievale. Ciò che oggi appare evidente al visitatore è un‟interessante serie di elementi architettonici di tipo sei-settecentesco. Tra questi è da segnalare la lunga scalea, che collega tutti i terrazzi del giardino, con i pilastri a pianta cruciforme che sorreggono una pergola di vite. Il giardino della Minerva si giova della cospicua disponibilità di sorgenti acquifere e di terrazzamenti che sfruttano i pochi spazi del ripido versante collinare, creando anfratti colmati da acque che vanno a formare peschiere (vasche per l‟allevamento di pesci), ma soprattutto cisterne di raccolta per l‟irrigazione dell‟orto (fig.1). Il sistema di distribuzione dell’acqua, composto di vasche, fontane e canalizzazioni a pelo libero, ha, infatti, garantito nei secoli il mantenimento a coltura dei numerosi appezzamenti. Il sito è dotato, inoltre, di un particolare microclima, favorito dalla scarsa incidenza dei venti di tramontana e dalla esposizione verso sud, che ancora oggi permette la coltivazione e la propagazione spontanea di specie vegetali esigenti in fatto di umidità e calore. Proprietaria di questi luoghi fu, fin dal XII secolo, la famiglia Silvatico2, di cui un componente, Matteo, tra il XIII e il XIV secolo, si distinse come insigne medico della Scuola salernitana e profondo conoscitore di piante per la produzione di medicamenti. In effetti, a seguito di un’attenta consultazione delle fonti di documentazione storica è stata chiaramente dimostrata l‟esistenza di un giardino dei semplici, istituito nel primo ventennio del XIV secolo dal medico e botanico salernitano Mat-

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teo Silvatico, al servizio dei maestri della Scuola Medica. In questo luogo egli fondò il primo giardino dei semplici della storia delle scienze mediche dedicato alla sperimentazione e alla didattica. Un sito, quindi, di straordinaria importanza per la storia delle scienze botaniche.

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Fig.1 Vasca con fontana con zampillo e piante di Colocasia. (Foto: B. Altieri)

Da cosa deriva questo primato? Dal fatto che i primi Orti botanici al mondo erano luoghi dedicati alla didattica, nati nelle scuole di medicina al fine di poter insegnare agli studenti l‟identificazione delle piante officinali (ostensio simplicium). Non è un caso se schiere di grandi botanici del rinascimento si formarono nelle scuole di medicina come cultori dell‟arte del riconoscimento botanico. Il giardino di Matteo Silvatico fu utilizzato esattamente per questo scopo: di conseguenza essendo un hortus sanitatis dedicato alla didattica, al servizio della prima Scuola di medicina del mondo, il giardino della Minerva può essere considerato l‟antesignano di tutti gli orti botanici che nei secoli sono stati via via istituiti. Matteo Silvatico, vissuto tra la fine del 1200 e la prima metà del 1300, fu me-


La Scuola Medica Salernitana e il Giardino della Minerva

dico alla corte napoletana del Re Roberto d‟Angiò e dal Giardino trasse ispirazione per le sue osservazioni sulla qualità dei rimedi vegetali, attraverso le specie lì coltivate. La Scuola Medica Salernitana codificò e perfezionò il principio del “contraria contrariis curantur” inteso nel senso di usare prodotti terapeutici “semplici” di origine animale, vegetale o minerale, con qualità (freddo, caldo, umido, secco) opposte a quelle della patologia che si voleva curare, ipotizzando un meccanismo di “contrappeso e bilanciamento” rispetto al disequilibrio nel malato. Tale era la più importante tra le dottrine terapeutiche vigenti presso la scuola. Essa basava le sue fondamenta su alcuni concetti filosofici che si erano chiariti già in epoca antica. È con Pitagora di Samo e i suoi seguaci della scuola di Crotone che si perfeziona, verso la metà del VI secolo a.C., la dottrina collegata al concetto di “armonia” che regge e governa la composizione della materia. Per loro la vita è costituita da quattro elementi: terra, aria, fuoco e acqua, cui corrispondono quattro qualità: secco, freddo, caldo e umido. Gli umori, sangue, bile nera, bile gialla e flegma, corrispondono ai quattro elementi: aria, terra, fuoco e acqua, e possiedono le stesse caratteristiche. Gli umori e, quindi, gli elementi sono poi in rapporto diretto con le cosiddette “qualità primarie” da loro possedute: caldo, freddo, umido, secco. «[…] Quattro sono gli umori del corpo: sangue, flegma, bile gialla e bile nera. Il sangue è umido e caldo, il flegma freddo e umido, la bile gialla calda e secca, la bile nera secca e fredda […]» . La combinazione di questi quattro umori determina il “temperamento” dell‟individuo, le sue qualità mentali e il suo stato di salute. È la teoria degli umori, che dal 500 a.C. dominerà pressoché incontrastata sino alla rivoluzione di Rudolf Virchow (1821-1902) della metà del 19° secolo. Il corpo umano è quindi governato dalla presenza di questi quattro umori ed un loro disequilibrio genera nel paziente lo stato patologico. La malattia, intesa come abbondanza di un umore nei confronti degli altri, deve quindi essere contrastata e curata usando un prodotto, sia esso “semplice” o “composto”, di carattere opposto all‟umore in surplus. Da ciò deriva l„importanza di classificare i “semplici” vegetali con questo criterio. Ci saranno perciò piante calde e umide, calde e secche, fredde e umide e fredde e secche. Ma, accanto a questa prima suddivisione, se ne sovrappone una seconda di uguale importanza, che, attraverso la “gradazione”, ne precisa la potenza d„azione fisiologica. Il “grado” è, tra l‟altro, il criterio di classificazione principale dei semplici utilizzato nel Graduum simplicium, detto anche De simplici medi-

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camine, di Costantino Africano († 1085). Si tratta «[...] della quantità in cui la medicina è calda, fredda, secca o umida. Vi sono quattro gradi. Il quarto è quello in cui la medicina è così calda che non si può più [agire] senza uccidere. Essa ucciderebbe chi ne facesse uso in grande quantità. [...]»

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Fig.2 Il parterre delle “complessioni e delle gradazioni" al Giardino della Minerva. (Foto: L. Mauro)

Una classificazione “terapeutica” delle piante che durerà nei secoli, soppiantata quattro secoli dopo dal nuovo criterio linneiano basato sulla morfologia del fiore. Questo modello di classificazione “terapeutico” è esposto nel Giardino in tutte le targhette botaniche presenti e nel “parterre delle complessioni e gradazioni”, presso il primo grande terrazzamento di base, a guidare il visitatore nella comprensione delle teorie dei maestri dell‟antica Scuola Medica Salernitana (fig.2). Nel giardino della Minerva si può, con molta verosimiglianza, assumere che Matteo Silvatico coltivasse il suo viridario e in esso tenesse le lezioni di riconoscimento delle specie vegetali tramite l‟ostensio simplicium. Anche Salvatore De Renzi indica più volte il giardino salernitano come un vero e proprio orto medico3. I medici semplicisti appartenenti alla Scuola Medica Salernitana praticavano nell‟insegnamento delle arti terapeutiche non solo l‟ostensio simplicium, che consisteva nel mostrare la pianta, ma anche la lectura simplicium (fig.3) nella quale si descriveva l‟uso delle varie erbe man mano che il primo medico ne mostrava la forma.


La Scuola Medica Salernitana e il Giardino della Minerva

Fig.3 Lectura Simplicium dal frontespizio dell’Opus pandectarum medicinae di Matteo Silvatico, in un edizione del 1526.

La materia medica, definita come il filone delle conoscenze collegate alle arti terapeutiche, classificava i materiali da poter essere utilizzati per la cura del paziente ammalato, come semplici o composti, a seconda che la composizione del farmaco derivasse da un‟unica fonte (vegetale, animale o minerale) o fosse la sommatoria di più elementi “semplici” combinati in dosi ben ponderate e unite assieme da leganti di varia natura (zuccherina, oleosa, alcolica, acquosa ecc.). Il “semplice” era distinto dalla preparazione composta ed era sostanzialmente il medicamento integro, così come è raccolto in natura4. Per orientarsi in questa scienza terapeutica, poteva essere necessario possedere un Erbario, cioè un prontuario illustrato di piante mediche, in genere composto per ogni specie descritta, dei seguenti argomenti: indice dei nomi in latino, greco e arabo, descrizione del semplice, sua natura e gradazione, suo utilizzo ed eventualmente possibili soluzioni alternative. Un Erbario illustrato non è quindi un’opera d’arte ma un libro di scienza e una delle informazioni da trarne è sapere se le piante sono più calde, più secche, più umide o più fredde (“la natura del semplice”) e poi a che grado di forza appartengono (primo, secondo, terzo o quarto) proprio perché così se ne potrà poi stabilire l‟efficacia al fine di sconfiggere la malattia del paziente. Si capisce, quindi, quale fu l’importanza delle conoscenze di Matteo Silvatico,

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nell‟ambito dell‟applicazione delle dottrine terapeutiche vigenti presso la Scuola, che egli trasse anche dalle osservazioni delle erbe officinali coltivate nel suo Viridario e codificò nell’Opus Pandectarum Medicinae, che tanto successo ebbe in Europa fino alla metà del Cinquecento. L‟opera, un lessico dei semplici per lo più di origine vegetale, fu completata nel 1317 e dedicata al re di Napoli Roberto d‟Angiò. Il giardino della Minerva così come pervenuto a noi è stato storicamente coltivato con molte specie di alberi da frutta, fra cui emergono ancora oggi le viti e gli agrumi, specie quest‟ultima che, introdotta nel Sud d‟Italia proprio nel medioevo, influenzò molto nei secoli successivi l‟idea del “giardino mediterraneo”. A nostro avviso non c’è, però, miglior modo di raccontare questo luogo, ricco di un potente e originale genius loci, se non visitandolo, varcando cioè il portone di via Ferrante Sanseverino che apre su di una armoniosa scena composta di architetture verdi e scorci panoramici sulla città e sul suo mare; dove i profumi delle siepi di lavanda e gelsomini ravvivano l‟aria e l‟acqua scorre nei canali, come in un giardino segreto, che improvvisamente lascia intravvedere spazi di verde inimmaginabili al di fuori del muro di confine5. Questo è il giardino della Minerva: una miscela equilibrata di bellezze paesaggistiche con una giusta dose di Storia della Botanica e della Medicina, testimone e custode dei saperi dell‟antica Scuola medica salernitana.

Note bibliografiche 1

L. MAURO, P. VALITUTTI (a cura di), Gli orti e i giardini di Salerno, in Il giardino della Minerva, Edizioni 10/17, Salerno, 2011, pp. 37-49. 2 Ivi, pp. 19-36. 3 S. DE RENZI, Storia Documentata della Scuola Medica Salernitana, [Ripostes], Salerno, 2000. 4 L. MAURO (a cura di), La dottrina terapeutica umorale, in Il giardino, cit., pp. 57-67. 5 ID., Entrare nel giardino, in Il giardino, cit., pp. 7-8.


Frontespizio di un‟edizione del “Regimen Sanitatis Salerni” - Villanova ed il suo cane. Esemplare finito di stampare a Parigi il 24 luglio 1506 “per Iohannem Barbier pro Magistro Petro Baquelier”. Collezione B. Altieri


P. Bruegel il vecchio - Proverbi fiamminghi 1559 - Berlino Staatliche Museen (Simbologia della fiera medievale).


La Fiera di Salerno Mariapina Giudice

La fiera venne istituita nel 1259 dal re Manfredi, figlio di Federico II di Svevia, su sollecitazione del suo gran cancelliere, il nobile medico Giovanni da Procida, che già aveva avuto cura di adoperarsi per la costruzione di un porto che potesse sostituire l‟approdo antico non sufficiente all‟atteso incremento dei traffici da e per la città1. Del resto il potere regio aveva tutta la convenienza ad accrescere, e i cittadini ad utilizzare, i vantaggi delle attività di scambi e trasporti, assicurando una ricchezza che un‟economia basata soltanto sull‟agricoltura non bastava a garantire. Era quella del Duecento e del Trecento un’epoca di mercanti e viaggiatori. In Europa, fiere erano tenute in quasi tutti i borghi dove più vivaci erano i punti di incontro per lo scambio di prodotti agricoli e forestali, della caccia e della pesca, dell‟allevamento del bestiame, ma anche dei manufatti tessili, del cuoio, del ferro e dei metalli. Celebri erano le fiere della Champagne e di Lione, ma anche quelle nel nord d‟Italia, dove l‟affermazione dei Comuni aveva dinamicizzato un‟economia di trasformazione agricola ed industriale e di scambi, particolarmente in quelli situati sulle vie dei pellegrinaggi in Terra Santa e verso il medio Oriente2. Salerno era in posizione privilegiata per la sua collocazione geografica e per il suo essere aperta sul mare, avvantaggiata dalla vicinanza di Amalfi e della sua grande esperienza marinara e di commercio, ma godeva anche di un vasto hinterland dalla fiorente agricoltura, nonchè di una notevole, per i tempi, rete viaria con i principali centri dell‟Italia Meridionale, prima fra tutti Napoli. Il governo longobardo aveva già assicurato a Salerno anni di prestigio e potere che si erano accompagnati a notevoli successi in campo economico, più specificatamente commerciale, tanto da essere dotata di una zecca per battere moneta propria, voluta da Siconolfo nell‟839 e potenziata da Gisulfo II come testimoniato da documenti del 1012. I tarì della zecca longobarda, su base aurea e poi argentea, erano stati successivamente sostituiti dal Follaro in rame, che riprendeva il nome di un‟antica moneta bizantina in uso in loco nei secoli precedenti e che

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scomparve in seguito, in epoca sveva, insieme al suo istituto di emissione3. Dunque, Salerno nel XIII secolo godeva già di una florida attività di commercio, ben assecondata dal porto e dalle attività marinare, e frequentemente vi si svolgevano nundinae (mercati) per lo scambio di prodotti agricoli e di prima trasformazione artigianale di materiali tessili, panni e tessuti di lana, prodotti caseari, granaglie e cereali, di provenienza sostanzialmente locale, dai casali cittadini, dall‟agro nocerino, dalla piana del Sele e dal Cilento. Erano mercati settimanali, con cadenza del venerdì, di cui ancora oggi si trovano tracce nella consuetudine mercatale dei cosiddetti venerdì di marzo (fig.1).

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Fig.1 Rievocazione in costume d‟epoca dell‟antica Fiera di Salerno.

All’epoca dell’istituzione della fiera, nella seconda metà del XIII secolo, la popolazione di Salerno raggiungeva i 900 fuochi, (per circa 5/6000 abitanti) contro i 1000 di Napoli, i 362 di Cava e i 262 di Amalfi . La città si estendeva ai piedi del monte Bonadies, formando un triangolo ideale con al vertice il Castello, la parte occidentale abitata già dal periodo longobardo da marinai e mercanti di Amalfi e altra popolazione di costaioli, nel luogo detto delle “Fornelle” forse per la presenza di piccoli forni per il pane e compren-


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dente l‟antico Ospedale, dopo il suo trasferimento dalla zona marina. La città si spingeva poi verso oriente attraverso la Via dei sarti e tessitori: “Rua Drapperia” a Nord dell‟antica corte, vera piazza centrale, proseguendo per Via degli Speziali, dietro il complesso di San Pietro a Corte, e Via dei Notai. Più ad Oriente si estendeva la strada degli Scoppettieri o Fucilieri che continuava poi con la via degli Orefici coincidenti con l‟odierna via dei Mercanti, mentre adiacente alle mura meridionali della città correva la via Judaica, testimonianza della notevole presenza di ebrei già da tempo insediatisi a Salerno proprio in quel luogo dove sorge la chiesa di Santa Lucia e, in seguito, incrementata dal flusso dei fuoriusciti della diaspora spagnola. Ortogonalmente scendeva Via dei Canali che giungeva fino a Porta di Mare, nei pressi della quale si trovava l‟antico arsenale, in seguito ampliato lungo la marina verso Porta dell‟Angelo, per assicurare più ampio movimento al transito delle merci scaricate dalle navi arrivate in porto4. Per questo quando, all’inizio della seconda metà del Duecento, Giovanni da Procida perorò la concessione reale della Fiera Franca di Salerno, re Manfredi nell‟istituirla riconobbe a pieno merito l‟importanza della città come centro commerciale, peraltro anche in certo dispetto in confronto all‟ostilità che gli aveva manifestato Napoli dopo la morte del padre Federico II di Svevia, e concesse volentieri i privilegi di “franchigia doganale” alla Fiera, il che ampliò sostanzialmente gli scambi e li aprì all‟esterno del ristretto mercato locale (fig.2).

Fig.2 Incoronazione di Manfredi a Re di Sicilia (1258) - miniatura da “Cronica nuova” di G. Villani in Codice Chigi LVIII 296 (XIII secolo) - Bibl. Apostolica Vaticana.

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Insieme all’ampliamento del porto e con l’istituzione della Fiera, il re Manfredi e, dopo di lui, i re angioini e aragonesi compresero perfettamente l‟importanza della funzione di queste “infrastrutture di servizio”, come definiamo oggi i mercati e i porti, sia per essere queste stimolo all‟attività di produzione agricola e di trasformazione industriale, sia per procacciare finanziamenti alle loro dispendiose guerre di conquista. Del resto era consuetudine del tempo che gli atti di politica economica del sovrano feudale fossero motivati dall‟interesse di coniugare l‟elevazione del benessere generale, con gli evidenti vantaggi sulle imposte, tributi e tasse che arricchivano le casse del re, con i non meno benefici effetti sulla tenuta del controllo feudale e sociale, al di là dei fini dei singoli mercanti partecipanti, che vedevano nelle fiere e mercati solo occasione di profitti e di immediate entrate finanziarie. In seguito, particolarmente ai fini politici di sovranità e di potere finanziario, il re Carlo II d‟Angiò estese il periodo in cui si teneva la fiera dagli iniziali otto a dieci giorni nel mese di settembre, in occasione delle celebrazioni religiose per l‟ Apostolo Matteo patrono della città e al cui nome la fiera era intitolata, e nel mese di maggio, in ricordo del ritrovamento delle reliquie del Santo sulla costa di Paestum nell‟anno 950, reliquie traslate a Salerno da Gisulfo e sepolte nel terreno su cui fu poi costruita la Cattedrale5. Re Roberto d’Angiò, in seguito, nel 1330 concesse ai mercanti forestieri che frequentavano la Fiera di San Matteo di portare (estrarre) fuori da Salerno in denaro contante il ricavato delle loro vendite6. Questo importante privilegio, in un’epoca di difficile circolazione monetaria e di notevole proliferazione di monete battute da diversi regni e principati, creava la necessità della presenza nel mercato della figura del cambiavalute, nonché assecondava la “nascente tendenza” alla ricchezza costituita da capitali in denaro, il che avrebbe posto le basi dell‟espansione in Europa di quel capitalismo finanziario che nei secoli successivi fu potenziato dall‟oro delle colonie americane, diffondendo il mercantilismo con effetti nefasti sulla svalutazione della moneta e la confusione dei prezzi e delle finanze sulle piazze italiane ed europee (fig.3). Ma furono Alfonso e, poi, Ferrante D’Aragona che dopo il 1443 permisero addirittura di godere dei privilegi dei residenti ai mercanti forestieri che avessero preso casa e /o moglie a Salerno. La fiera di Salerno fu da subito uno dei mercati franchi più noti del regno e in essa confluivano mercanti d‟ogni parte di Europa con i prodotti più svariati dell‟industria e dell‟agricoltura del tempo.


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Fig. 3 Cambiavalute e finanzieri nelle fiere medievali in “Trattato dei sette vizi capitali” di Cocarelli - Genova 1340.

In più di sei secoli di vita, la fiera di San Matteo percorse una parabola importante nel panorama economico della città, che, crescente nei primi tre secoli, iniziò il tratto discendente nella seconda metà del Cinquecento, evidenziando progressivamente la subordinazione economica della città a Napoli, sempre più centro direzionale del viceregno spagnolo e poi del regno borbonico, fino al suo esaurimento nel periodo successivo all‟Unità d‟Italia. La Fiera di Salerno venne a caratterizzarsi come la manifestazione culminante di un‟attività commerciale che si poneva al centro dei traffici e della produzione agricola del Salernitano, con potenti stimoli alla trasformazione industriale allora rivolta principalmente ai prodotti alimentari, derivati dall‟allevamento del bestiame, carne secca e formaggi ma anche grano e altri cereali, nonché olii e vini. Le lavorazioni di materiali tessili, primi fra tutti lana e seta, costituivano l‟altro settore portante che agiva da volano alle manifatture locali, stimolando la produzione di panni di lana e tessuti che, contando su di una consolidata domanda, avevano una buona circolazione nelle aree meridionali7. Le stesse merceologie prevalevano negli scambi dei prodotti importati, i quali contribuivano ad innalzare il valore aggiunto delle merci introdotte nel mercato cittadino in quanto portatori, specie per i metalli e le materie tessili, di innovazioni tecniche che consentivano la crescita delle conoscenze in loco e la loro diffu-

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sione nell‟economia cittadina. Questi aspetti furono molto rilevanti, ad esempio, per i procedimenti tintorii dei tessuti e dei pellami e nella conservazione, a base di spezie e sale, di prodotti alimentari (fig.4). Con l’intensificarsi degli scambi, divenne necessario attrezzarsi con altre figure professionali, data l‟esigenza nel periodo della Fiera, e anche nella ordinaria pratica commerciale, di disporre di cambiavalute, di operatori nella gestione dei crediti e delle obbligazioni mercantili assunte, di garanzie prestate e di ogni altra funzione che la cultura finanziaria del tempo iniziava a perfezionare. Fig.4 Artigianato della pelle alla Fiera Tali attività si diffusero rapidamente a di Salerno - Rievocazione storica. Salerno e nelle province del Regno, con particolare riguardo a Napoli, guidate da mercanti fiorentini e genovesi che delle banche e delle tecniche finanziarie e creditizie erano esperti praticanti, soprattutto nei riguardi di sovrani e potenti feudatari impegnati in continue guerre e, perciò stesso, sempre alla ricerca di cospicui finanziamenti. La maggior parte dei pagamenti relativi alle merci scambiate era regolata con lettere di credito, cambiali tratte e promesse di consegna nonché impegni di permute, da onorare in un momento successivo all‟avvenuto scambio. Così ad ogni ricorrenza della fiera di settembre venivano regolate le obbligazioni relative agli acquisti o vendite dell‟anno precedente, secondo registrazioni contabili rogate da notai che operavano in Fiera8. Proprio dal repertorio dei rogiti curati da uno di questi notai nel 1478, il napoletano Petruccio Pisano, siamo venuti a conoscenza della realtà effettuale della vita commerciale che si svolgeva nella piazza di Salerno in occasione della Fiera di San Matteo9. Negli atti del notaio Petruccio Pisano in fiera dal 18 al 24 settembre 1478, si legge di rogiti relativi a scambi di merci (stoffe in generale), cambi, noli, cessioni e obbligazioni creditizie. Ma dello stesso tempo e dell‟importanza della fiera di Salerno ci informano anche altre fonti, questa volta letterarie, ad esempio le novelle di Giovanni Boccaccio, quelle di Masuccio Salernitano (Tommaso Guarda-


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ti), nonché i racconti di Nicola Maria Salerno nel Seicento10 (fig.5). Il regesto di Petruccio Pisano, portato alla luce dallo studioso salernitano Alfonso Silvestri, consta di ben 102 contratti redatti fra mercanti qui giunti, catalani, francesi, fiorentini, genovesi, siciliani e riguardano merci che vanno dalle stoffe importate da Catalogna, Provenza, Linguadoca, Fiandre, Londra, ad altri materiali naturali, derrate alimentari e noli di trasporti marittimi. Particolarmente pregiate fra i tessuti importati erano le stoffe di seta dei mercanti ed artigiani fiorentini ed Fig.5 Stemma sul portale d‟ingresso del Palazzo attribuito alla famiglia Guardati in via Tasso aretini, questi ultimi attivi anche a Salerno. (Foto: B. Altieri) nell‟oreficeria e nella lavorazione dei metalli nobili, mentre notevole era la qualità e la quantità dei cuoi e materiali di pelle arrivati dalla Sardegna. Dal lato delle merci avviate all’esterno, emergevano i panni di lana dell’area salernitana e campana in genere, le tavole di legno d‟abete di Santa Eufemia e i tessuti di seta calabresi, mentre notevoli quantità di vino locale e di olio venivano avviate verso le zone del centro-nord d‟Italia e d‟Europa. Spazi importanti negli scambi da e verso Salerno si ritagliavano le materie prime per l‟arte tintoria - il guado, la robbia, la mortella - molto usate per la concia delle pelli e per la lavorazione delle stoffe e dei tessuti di lana, seta e cotone. Dall’importante documento notarile quattrocentesco si evidenzia la prevalenza dell‟origine meridionale dei mercanti in Fiera di Salerno, i quali in quell‟anno dei 286 frequentatori totali erano presenti in 211, provenendo i restanti 75 dal di fuori di questa area. Molti dei mercanti forestieri usavano farsi rappresentare nei commerci in Fiera da loro procuratori operanti in loco, che gestivano gli affari in loro nome ed interesse11. Queste figure si affiancavano a quelle di altri borghesi che andavano emergendo grazie alla fiorente attività commerciale svolta in città, anche al di fuori dei periodi della Fiera, ma che durante il suo svolgimento raggiungeva l‟apice

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delle contrattazioni, agevolate dalle “franchigie” tariffarie che incrementavano molto gli scambi delle merci. Emerse, dunque, in questo clima intensamente commerciale un nuovo ceto mercantile, affrancato da tributi e vincoli feudali, che gestiva esattorie per conto delle autorità reali e amministrative, prestava denaro attraverso sportelli di banche genovesi e fiorentine localizzate a Napoli e intorno alla Corte, stipulava ed esigeva contratti di noli per trasporti marittimi e terrestri. Ma soprattutto riceveva concessioni e appalti da re, feudatari ed esponenti di antica nobiltà proprietaria di vasti terreni nel contado e di palazzi cittadini. Questi ultimi, peraltro, gestivano in gran parte i loro possedimenti e con diffusa conflittualità con le stesse famiglie emergenti, le quali richiedevano spazi sempre crescenti nella produzione di ricchezza e nelle relazioni con il potere a corte12. Ma questo stesso ceto, che oggi chiameremmo borghese, si occupava anche della nascente attività industriale inizialmente spinta dalla lavorazione tessile, nelle gualchiere e tintorie impiantate nelle immediate vicinanze della città e poi spostate verso la valle dell‟Irno e dei Picentini. Le famiglie che si occupavano di queste lavorazioni raggiunsero con gli anni notevoli consistenze patrimoniali, che alimentavano a loro volta il flusso commerciale e dei traffici marittimi che ne scaturiva, senza però indirizzarli ad investimenti diretti ad innalzare i livelli di innovazione industriale e di intermediazione finanziaria, come contemporaneamente molti ricchi mercanti realizzavano in altre parti di Italia e ancor più in Europa. Tali famiglie, ad esempio quelle dei Coppola di Sarno e di Antonello Dardano di Salerno, scontavano peraltro una forte conflittualità e concorrenza con le famiglie nobili vicine alla Curia, la quale gestiva la Fiera e possedeva, tramite i tanti Monasteri dei vari ordini religiosi sparsi in città, la maggior parte dei vasti appezzamenti di terreni e edifici esistenti in città. Queste famiglie nobili godevano di appalti e concessioni di ricche attività connesse con le attività commerciali sia in periodo di Fiera sia nel resto dell‟anno. Amministravano i fondaci, magazzini-depositi di merci e derrate agricole, riscuotendone i relativi affitti e gabelle sulle merci ivi introdotte dai mercanti locali e forestieri. Specialmente nel corso del Seicento, queste attività, tipiche del ceto professionale-commerciale, erano state “riappropriate” dall‟aristocrazia cittadina che accentuò, in quel secolo di decadenza economica e sociale di gran parte dell‟Italia, i


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suoi tratti di chiusura oligarchica e conservatrice, la quale, in gran parte, contribuirà ad inibire alla città importanti sviluppi socio-economici13. Occorrerà attendere i tempi nuovi risorgimentali e poi unitari perché una classe mercantile e imprenditoriale di origine forestiera, svizzera e tedesca prevalentemente, apportasse innovazioni produttive e tecnico-organizzative all‟economia locale, così come già preannunciate nel breve periodo napoleonico-murattiano. Nel Seicento, dunque, esponenti delle famiglie nobili salernitane, contro corrispettivo di canoni commisurati agli introiti, prendevano in appalto, riscuotendone i relativi dazi regii, le tre dogane esistenti in città, quella del grano e delle derrate alimentari, quella del sale e quella del ferro, acciaio e altri metalli. Esigevano tasse e tributi sull‟utilizzo di strumenti di misura e peso delle merci, sempre per conto dell‟autorità amministrativa regia e comunale. Le concessioni di privilegi feudali, trasmissibili agli eredi, traevano origine da particolari, importanti prestazioni fornite da alcuni preminenti e validi personaggi salernitani, quali giureconsulti e diplomatici. Questi, che avevano risolto via via importanti controversie relative ai re angioini, aragonesi e in seguito anche alla corte spagnola nell‟affermazione della loro sovranità, così erano stati compensati, emergendo come capostipiti di famiglie che avrebbero contato molto negli affari cittadini, e non solo, e partecipato all‟accumulazione di notevoli ricchezze patrimoniali, crescendo in potere finanziario, amministrativo e relazionale. Le famiglie di Matteo Della Porta, prima e dei Cioffi e dei Pinto poi, dal 1300 a metà 1400 videro rinnovati dai vari re succedutisi nel Regno di Napoli tutti i privilegi concessori non solo relativi alla gestione della Fiera di San Matteo, con relative facoltà di costruire e affittare baracche e fondaci, di riscuotere diritti di transito sugli sbarchi mercantili nel porto e così via, ma anche di quelli di esattoria di tasse e gabelle nei mercati extra Fiera, nel corso dell‟anno, di appalti delle Dogane, di Portolaneria per le operazioni portuali, nonchè di molte delle cariche amministrative che il potere regio permetteva di gestire a Salerno Fra queste, la carica di Maestro di Fiera, appannaggio per molti anni della famiglia Ruggi, era la più importante e assommava una mole di incarichi e ricche prebende che destarono molte controversie e ricorsi, nonché rivalità cittadine anche da parte di ecclesiastici, della Curia e di molti monasteri, nonché delle autorità comunali cittadine, che se ne vedevano defraudati. Nel periodo della Fiera, poi, tasse e tributi extra franchigia erano esatti anche sulle attività di divertimento e di spettacolo che fiorivano durante il periodo di

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suo svolgimento e i tentativi di imporre imposte non dovute, data la generale concessione feriale di franchigie, causavano frequenti ricorsi di mercanti e della popolazione al re e alle autorità. Figura importante, come già detto, era quella del Maestro di Fiera, che ricopriva un ruolo di primo piano nella sovraintendenza degli aspetti concessori, di sicurezza e di giustizia amministrativa nelle liti eventualmente sorgenti nello svolgimento fieristico. A lui era dedicata una sede centrale nei vasti spazi in cui l‟evento fieristico si svolgeva. L‟importanza della figura venne a ridimensionarsi negli ultimi secoli della manifestazione ma non scomparve mai del tutto fino alla fine. Inizialmente, la fiera era tenuta negli spazi che si allargavano in località San Lorenzo de Strata, oggi localizzabili intorno alle Chiese del Carmine e San Francesco, ma le botteghe e i fondaci, locali di deposito delle merci, si estendevano nel vasto raggio che delimitava questo pianoro, allargandosi verso sud, fino a raggiungere la zona chiamata dell‟Hortus magnus e fino a Porta Elina (fig.6). 38

Fig. 6 Luogo della fiera e giostre, J. Callot, 1620.

Successivamente, per il grande impulso evidenziato dalla Fiera, una seconda zona si aggiunse nei pressi di Portanova, dove la vicinanza al mare consentiva


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più comodi transiti, dopo l‟approdo, alle merci introdotte per essere scambiate14. Intorno alle zone di mercato sorgevano gli alloggi dei mercanti forestieri e le loro botteghe e fondaci per il riparo delle merci giunte in città. La costruzione e gestione di questi edifici, provvisori molti ma anche in muratura alcuni, erano appannaggio della Mensa Arcivescovile, cui il re Carlo II d‟Angiò aveva concesso il diritto di impedire ad altri la costruzione e l‟affitto di botteghe e depositi, concessione che fu poi confermata dai sovrani aragonesi e dai governatori vicereali, anche in presenza di aspre contestazioni dei mercanti locali e forestieri nonché della popolazione locale che si sentiva esclusa da questa ricca fonte di guadagno. La dura resistenza della Curia non potè alla lunga impedire lo sviluppo dell‟altra area mercatale con annesse botteghe e fondaci, più a sud verso la marina, nella zona di Portanova, zona in cui già erano cresciuti intensi commerci al di fuori della Fiera di San Matteo. In particolare il commercio del grano e dei cereali era accentrato nelle vicinanze della costa, dove la presenza del porto permetteva l‟agile carico e scarico delle granaglie e il prevalente terreno pianeggiante favoriva il trasporto delle pesanti derrate fino ai depositi e alle botteghe presenti nel mercato. Questa zona si sviluppò in seguito molto, tanto che già nel Cinquecento ospitava nel periodo della Fiera di San Matteo la maggior parte delle botteghe e dei magazzini dedicati ai crescenti traffici dovuti all‟ampliarsi del volume degli scambi da e verso aree sempre più vaste. Non mancarono nei secoli di vita della Fiera di Salerno eventi nefasti quali frequenti guerre, rivoluzioni ed episodi anche violenti di brigantaggio, per cui si rivelava essenziale la funzione Regia di regolazione della sicurezza e della viabiltà per gli accessi agli spazi fieristici. Per lo più gli incarichi relativi a queste funzioni erano delegati ad esponenti delle stesse famiglie maggiorenti che già gestivano le principali funzioni commerciali e finanziarie della manifestazione. Ciò comportò un’aspra e lunga stagione di controversie che durò per tutto il Seicento e per la prima parte del Settecento, nonostante che guerre, successione di dinastie regnanti, brigantaggio, carestie e pestilenze, avessero danneggiato più volte la manifestazione fieristica che fu sospesa per due anni nel 1647 e nel 1648, per gli eventi rivoluzionari che a Napoli fecero capo al circolo di Masaniello e a Salerno furono guidati da Polito Pastina (Ippolito di Pastena). L’interruzione causò notevoli danni economici alle attività commerciali e alla

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vita economica dei salernitani, così come quelle successive dovute a pestilenza e disordini politici e sociali che, data la dilagante miseria e la decadenza dell‟economia dei territori meridionali, agitarono frequentemente gli anni del secolo XVII e della prima parte del seguente. La lunga e dura vertenza che oppose alcune ricche e potenti famiglie nobili della città alla comunità dei mercanti, al popolo e alle autorità cittadine civili e religiose, finì per indebolire fortemente i privilegi delle prime. In particolare si ricorda la strenua difesa dei propri privilegi da parte della famiglia Ruggi (fig.7), contro vaste categorie di cittadini coalizzati contro di essa allo scopo di riportare un minimo di concorrenza e di ripartizione delle occasioni di guadagno e reddito, consentite in primo luogo dalla Fiera di San Matteo nel mese di settembre.

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Fig.7 Portale d‟ingresso del Palazzo Ruggi d‟Aragona in Via Tasso a Salerno. (Foto: B. Altieri)

L’inevitabile soccombenza della famiglia Ruggi nei confronti dei suoi oppositori, che culminò nell‟accordo del 1732 ratificato anche dal potere regio, comportò l‟inizio della fine della potenza economica dei Ruggi, che dovettero rinunciare a tutte le più redditizie funzioni di esattoria, gestione, amministrazione di imposte, gabelle, fitti e diritti edificatori di botteghe e fondaci, cumulate nel tempo e subire una decadenza che rapidamente la portò al fallimento, travolta da una montagna di debiti. La vicenda della famiglia, simile a quella di altre casate arricchitesi con i privilegi feudali loro concessi nei secoli, fa luce anche sullo svolgimento dell‟attività commerciale e della sua gestione amministrativa, fiscale, finanziaria nella città di Salerno, nonché sulle condizioni generali di sicurezza e della composizione delle controversie commerciali effettuate in città. La manifestazione fieristica autunnale e ristretta ai dieci giorni intorno alla


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festività in ricordo dell‟Apostolo Patrono, era franca di tasse e gabelle sullo scambio delle merci, il che aveva fatto la fortuna delle Fiera, attirando un così gran numero di interessati mercanti. Essa si svolgeva in spazi propri appena fuori dalla città e dalle vie proprie del commercio cittadino, in cui le normali attività commerciali si svolgevano nel corso dell‟anno ed erano soggette alla variegata fiscalità del tempo. Solo in quel periodo ristretto la notevole circolazione di denaro, la presenza di occasioni di svago e la grande mobilità di persone e cose permettevano l‟arricchimento o il solo ampliamento di modeste finanze a tutta la cittadinanza. In periodo fieristico si regolavano crediti e debiti, si onoravano obbligazioni di ogni natura e fluiva il denaro, solitamente assente dall‟esangue economia del territorio meridionale nel Seicento e Settecento. Ma la fiera vivificava altresì la città di Salerno nel resto dell’anno, indicandola come città commerciale primaria, dove anche i più modesti scambi locali avevano luogo con profitto per i produttori e mercanti regionali, in particolare quelli napoletani i quali vi accorrevano per lunga consuetudine commerciale in ogni occasione mercatale e particolarmente in quella del venerdì settimanale, tanto più che gli sportelli delle loro istituzioni bancarie monopolizzavano tutte le funzioni finanziarie necessarie al commercio cittadino. All’inizio dell’Ottocento il vento napoleonico spazzò via i privilegi feudali ed ecclesiastici e portò ad un rinnovamento sostanziale dell‟organizzazione statuale, in primo luogo di quella fiscale. L‟abolizione delle Franchigie della Fiera di Salerno ebbe un deciso impatto negativo sulla sua attività. Nel 1809 Gioacchino Murat decretò la fine della fiera di Salerno come zona franca e ciò comportò una notevole diminuzione dell‟interesse dei frequentatori, che ne ravvisavano la decrescente convenienza a parteciparvi. Tuttavia, la fiera di Salerno non perse del tutto il carattere di focus di incontri e di occasioni di conoscenza del territorio salernitano e delle sue potenzialità. Fu in uno di questi momenti di incontro che David Vonwiller, commerciante svizzero domiciliato a Napoli dall‟epoca murattiana, ebbe l‟occasione di apprezzare l‟hinterland di Salerno, per installarvi la prima filanda di cotone nella valle dell‟Irno, a Ponte delle Fratte. In questa attività di scouting l’imprenditore svizzero seguì le orme del suo connazionale, fondatore dell‟industria cotoniera meridionale, Giangiacomo Egg che, su concessione della Regina Carolina Murat del 1812, impiantò a Piedimon-

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te d‟Alife la prima grande fabbrica industriale tessile, all‟uso inglese, guidando un‟epica migrazione attraverso le Alpi di 1000 operai dal Cantone originario di San Gallo, i quali vennero a fornire i primi rudimenti dell‟industria tessile svizzera a dei contadini di quella parte del Regno di Napoli. L’industria tessile che s’insediò nella Valle dell’Irno dopo la scoperta- rivelazione di Vonwiller del nostro territorio alla Fiera di Salerno, si allargò dall‟originaria località di Fratte ai territori di Baronissi e Pellezzano, ampliando l‟attività dalla filanda alla tessitura fino al tinteggio e alla stampatura del cotone, in parte coltivato in loco, da quando il blocco continentale, decretato da Napoleone, aveva tagliato i contatti commerciali con Manchester e l‟allora dominante industria tessile inglese. Vennero costruite filande e tessiture ad Angri e Scafati e nacque la “fabbrica” anche nel salernitano, con la dotazione di impianti idraulici moderni per fornire l‟energia necessaria alle macchine, soppiantati poi dall‟introduzione della macchina a vapore che lanciò l‟industria salernitana nel circuito economico del Regno di Napoli, seguendone le alterne fortune dominate dagli eventi geopolitici della tarda prima metà dell‟Ottocento, fino all‟unità d‟Italia. La prevalente committenza pubblica degli ultimi Borbone contribuì all‟estinzione della fortuna dell‟industria tessile meridionale, che resse molto male la fine del reame napoletano e l‟impatto con il Regno d‟Italia. La concorrenza spietata dell’industria nazionale ed estera mise fuori gioco la produzione cotoniera campana, cui si erano aggiunte quella laniera, del lino e della canapa dei Vonwiller, degli Schlaepfer e dei Wenner che si erano succeduti nella proprietà degli stabilimenti delle Valli dell‟Irno e nocerina. Non bastarono, infatti, i cospicui investimenti riversati da questi imprenditori svizzeri nelle loro aziende per tentare di rilanciarne la redditività, attraverso innovazioni e ammodernamento degli impianti. Non ressero alla concorrenza con il Nord d‟Italia e contro l‟ostilità locale, mai veramente sopita nel reame borbonico e oltre, verso i “capitani d‟industria” di origine svizzera e tedesca e comunque straniera, dal momento che anche il capitale inglese era presente nella grande industria tessile meridionale, nonchè prevalentemente di religione e cultura protestante. Nel 1918 gli svizzeri abbandonarono le imprese tessili salernitane, che furono rilevate da un gruppo di finanzieri italiani rappresentati dalla Banca Italiana di Sconto, appoggiata dal Governo di allora, la quale assorbì la totalità delle azioni svizzere delle MCM e dei Cotonieri Riuniti di Salerno, come raccontato da Gio-


La Fiera di Salerno

vanni Wenner, uno degli epigoni dei fondatori dell‟industria cotoniera salernitana, in un suo documentato e memorabile saggio15. La Fiera di Salerno cessò la sua importanza ben prima degli eventi da ultimo raccontati, ridotta a manifestazione locale già all‟alba del Regno d‟Italia, con il passaggio dal protezionismo borbonico al liberismo nazionale e continentale, con l‟emergere di nuove modalità produttivo-tecniche ed economiche e con l‟affermarsi di nuove rotte del commercio mondiale e dei mercati di sbocco.

Note bibliografiche 1

A. SINNO, La fiera di Salerno, con una premessa di Luigi De Rosa, [s.l.: s.n], 1958 (Salerno: Tipografia Jovane), ried. in V. D‟ARIENZO (a cura di), Mercanti in fiera, Laveglia, Tip. Jovane, Salerno, 1991, p.87 e nota a piè pagina e segg. da C. CARUCCI, Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII, vol.I, 1201-1281, Salerno durante la dominazione Sveva e quella del primo angioino, Premiata tipografia dei monasteri, Subiaco, 1931. 2 A. SAPORI, Una fiera in Italia alla fine del Quattrocento. La fiera di Salerno del 1478, in «Bollettino dell‟Archivio Storico del Banco di Napoli», VIII, (1954), 51-84, e in «Il Picentino», III, (1959), 2, ried. in V. D’ARIENZO (a cura di), Mercanti in fiera, cit., p. 60. 3 G. LIBERO MANGIERI, La monetazione medievale di Salerno nella Collezione Figliolia, I, Da Siconolfo a Roberto il Guiscardo, 840-1085, Laveglia Ed., Salerno, 1991. 4 Rist. del saggio di A. SINNO, in V. D’ARIENZO (a cura di), Mercanti in fiera, cit., p. 93 e in nota, e p. 113. 5 M. A. DEL GROSSO, Salerno nel Seicento, II. 2, Le attività economiche, Edisud, Salerno, 1993. 6 A. SILVESTRI, Il commercio a Salerno nella seconda metà del Quattrocento, Salernitana storia patria - Camera di Commercio - Salerno 1952, ried. in V. D‟ARIENZO (a cura di), Mercanti in fiera, cit. 7 Ibidem. Cfr. ristampa del saggio di A. SAPORI. 8 Ibidem. 9 Ibidem. 10 Ivi, A. SINNO, pag. 130. 11 M. A. DEL GROSSO, Salerno nel Seicento, cit. 12 Rist. del saggio di A. SINNO, in V. D’ARIENZO (a cura di), Mercanti in fiera, cit. 13 A. MUSI, La città assente. Salerno nella «provincializzazione» del Mezzogiorno spagnolo, in «Rassegna storica salernitana», n.s. (giu. 1988), 9. 14 Rist. del saggio di A. SINNO, in V. D’ARIENZO (a cura di), Mercanti in fiera, cit. 15 G. WENNER, L’industria tessile salernitana dal 1824 al 1918, Camera di Commercio, Salerno, 1953. Fonti documentarie tratte dagli Archivi di Stato di Salerno, di Zurigo e di San Gallo e dall‟Archivio di famiglia dei fratelli Wenner a Fratte di Salerno.

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"Plaium Montis" Salerno - Monasteri di San Nicola della Palma e San Lorenzo F. de Mercey del. Eug. Ciceri lith. Imp. Lemercier- Paris 1856.

“Plaium Montis� Salerno Oggi - Monastero di San Lorenzo - Via S. De Renzi. (Foto: V. Bonani)


La città di Dio Monachesimo e Monasteri Lo sviluppo urbano della città di Salerno nell’Alto Medio Evo è stato fortemente influenzato dall‟insediamento di conventi e monasteri che hanno avuto un ruolo determinante nella società del tempo, dal VIII secolo in poi, dietro la spinta propulsiva della fondazione degli ordini religiosi e la diffusione del monachesimo che contraddistinse i secoli “bui” delle invasioni barbariche, del decadimento degli ordinamenti romani nonché dell‟involuzione dell‟economia, ristretta a forme di sussistenza prevalentemente rurale, dove tuttavia non scomparvero del tutto gli scambi commerciali e furono anzi frequenti gli spostamenti di truppe e di pellegrini. Importanti punti di aggregazione furono i conventi, intorno ai quali si organizzavano centri abitati, in cui i monaci ivi insediati svolgevano attività assistenziali e caritative insieme alla predicazione e la cura della fede delle popolazioni locali. A Salerno, come riportato da Daniela Cannella nell’ampio saggio dedicato ai Conventi cittadini nel volume 2009/2010 “Visitiamo la città” edito dal Comune di Salerno, la disposizione sul territorio degli edifici religiosi avvenne all‟interno delle mura storiche secondo i lati di un triangolo che dal monte Bonadies faceva discendere il Plaium Montis a ridosso del Castello di Arechi, a Nord, il Casale Palearia a Nord est, l’Orto Magno a Sud est, la Curtis Dominica (i Barbuti) a Sud e il Locus Veterensium (le Fornelle ) a Sud Ovest . Tra questi è soprattutto il Plaium Montis a potersi definire una vera cittadella conventuale ricca di insulae monastiche: una città “sacra” di monaci ai confini della città degli uomini comuni, sulle cui attività essa domina e vigila dall‟alto. Fra i molti conventi e monasteri femminili, governati soprattutto dall’Ordine benedettino, che in seguito si suddivise in molti altri ordini collaterali a seconda delle tipicità sviluppate nel corso del tempo, assursero a importanza e potenza maggiore quello più antico di San Benedetto, in Orto Magno, quello di San Giorgio, lungo le mura meridionali della città, e il complesso conventuale di Santa Sofia che si dispone ancora oggi imponente alla base del Plaium Montis. Nel cuore della Salerno Medievale, l’Abbazia di San Benedetto divenne, con la città, simbolo della Gens langobardorum e suo rifugio e strumento di libertà,

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quando, sul finire dell‟ottavo secolo, si avviava al tramonto del proprio Regno culminato con la battaglia di Pavia nel 774 d.C, persa contro i Franchi trionfanti (fig.1).

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Fig.1 Facciata della Chiesa di San Benedetto. (Foto: V. Bonani)

Sebbene la prima menzione scritta dell’868, in un documento del principe di Salerno Guaiferio, faccia fede dell‟esistenza del convento e del suo Abate, la sua fondazione e la crescita della sua importanza si fa risalire all‟epoca compresa fra il settimo e il nono secolo, quando si afferma la sua centralità fra i monasteri benedettini diffusi a Sud di Montecassino e in diretto contatto con quello celebre di San Vincenzo al Volturno. La preziosa biblioteca, lo scriptorium tra i cui tavoli lavorarono illustri monaci, storici, biografi e medici, i granai, la cucina e il refettorio, la sala capitolare e la foresteria, l‟hortus dei semplici e l‟infermeria, tutto questo racchiudeva l‟area coperta dal complesso monastico di San Benedetto in Salerno. Dopo secoli di trasformazioni, riusi e mutilazioni delle sue strutture, oggi dell‟importante abbazia rimangono comunque superbe testimonianze d‟epoca nella splendida chiesa e nei residui edifici circostanti, che permettono di respirare


La città di Dio. Monachesimo e Monasteri

ancora l‟atmosfera di una Salerno longobarda all‟apice della sua potenza. L’antico monastero femminile di San Giorgio, nato con la donazione longobarda a monache benedettine nel 719, come documenta una fonte più tarda e risalente al 1073, racconta la sua storia di religiosità, prosperità economica e splendore artistico, vissuta nei circa tredici secoli di sua esistenza. Monastero di fanciulle delle famiglie maggiorenti della città, che le ricoprivano di ricche doti dal Medioevo fino all‟imposizione della clausura in piena Controriforma, quando in esso vennero riunite le monache appartenenti ai molti monasteri femminili dell‟epoca, San Giorgio venne “rifondato” da energiche Badesse che, dall‟ultimo quarto del XVII secolo fino agli inizi del 1700, chiamarono i più grandi artisti del tempo per ricostruire il complesso monumentale del quale ci rimane la magnifica chiesa, gioiello del barocco napoletano a Salerno (fig.2).

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Fig.2 La volta affrescata della navata centrale della Chiesa di San Giorgio. (Foto: V. Bonani)

Il Convento di Santa Sofia, nato anch’esso come monastero di monache benedettine intorno all‟anno 1000, passò nei primi anni del 1100 alle dipendenze della potente Badia di Cava. Fu antica sede del Collegio dei gesuiti, giunti a Salerno nell‟ultimo decennio del Cinquecento, per i quali la municipalità l‟acquistò per


2.200 ducati dalle monache che erano state trasferite nel monastero di San Giorgio. Chiamati da illuminati esponenti della municipalità cittadina, qui i Gesuiti istituirono scuole per i giovani salernitani e condussero per secoli l‟insegnamento aperto ai figli delle classi più umili, unito alla cura e all‟assistenza delle persone, oltre ad esercitare dotto ministero nell‟annessa chiesa dell‟Addolorata, la cui facciata settecentesca con l‟avvolgente duplice scala adorna piazza Abate Conforti, antico Foro della Salerno romana (fig.3).

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Fig. 3 (sulla destra) Facciata della ex Chiesa dell‟Addolorata dell‟ex Convento di Santa Sofia. (Foto: V. Bonani)



Particolare del chiostro del Monastero di San Benedetto, attuale cortile dâ€&#x;ingresso del Museo Archeologico Provinciale di Salerno. (Foto: R. Bignardi)


Il monastero di San Benedetto Giuseppe Lauriello

Con la caduta dell’impero romano nel 476 d.C., crolla anche l’organizzazione amministrativa dello Stato. Inizia un„epoca tristissima di decadimento. Si assiste a carestie terribili, guerre sanguinose, assedi reiterati e prolungati, saccheggi e devastazioni quotidiane. Le biblioteche sono distrutte, le Scuole mediche scompaiono, la ricerca scientifica si arresta. Il bagaglio culturale del mondo antico è demolito. Avanza la predicazione del Cristianesimo con nuovi valori e nuovi obiettivi sociali. La parola del Vangelo porta un messaggio nuovo, rivolto con slancio solidaristico all‟indifeso, all‟emarginato, al povero, al pellegrino, al diseredato, all‟oppresso, al malato. Il malato, alla luce del Vangelo, non è più un peccatore che deve scontare la sua pena, ma un prediletto del Signore, un privilegiato degno della carità cristiana. Nella sofferenza del malato è la sofferenza del Cristo posto sulla croce. Matteo ricorda le parole di Gesù alle Nazioni: “…ero malato e venisti a visitarmi”. Ed ancora: “Quanto avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, l’avete fatto a me” (Matteo 25, 35-40). La medicina si rifugia nei monasteri. Interprete del messaggio evangelico della carità cristiana è San Benedetto, che nel 529 fonda l‟Abbazia di Montecassino. Fine primario dei benedettini è servire Dio con la preghiera e con il soccorso all‟umanità sofferente: “Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima con tutte le tue forze. Ama il prossimo tuo come te stesso”. Nella Regola monastica dei benedettini per la prima volta è introdotto il precetto: “La cura dei malati deve essere avanti tutto e sopra tutto, affinchè si serva ad essi come veramente a Cristo”. Da Montecassino i benedettini si spandono per l’Italia e per tutta Europa e con loro nascono numerosi monasteri. In ogni monastero è presente un‟infermeria per i malati non solo monaci, ma anche per i forestieri bisognosi. Ogni infermeria prevede un “monaco infirmario”, un “orto dei semplici” (orto delle piante medicinali), un “armarium pigmentorum” (spezieria ante litteram per conservare i farmaci confezionati con le erbe).

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Anche a Salerno nel 794 in contrada Ortomagno nasce un monastero: il monastero di San Benedetto1. È fondato da Guibaldo nobile longobardo, monaco del cenobio di Santa Sofia in Benevento, su autorizzazione di Grimoaldo III, figlio di Arechi2. Secondo il Mazza, invece, nasce nel 694 per volere di Cesario Console, patrizio romano3. La prima citazione del monastero è in un documento dell’868: “monasterio sancti Benedicti, qui situs est intus anc salernitanam civitatem ad hortum magnum” (CDC, II, 293). Al convento sono assegnate dal sovrano numerose proprietà in agro di Cava, Tusciano, Eboli e Capaccio. Nell’868 il principe Guaiferio crea un ospizio-ospedale presso la chiesa di San Massimo, ospedale che viene in epoca successiva aggregato a San Benedetto. Questo xenodochio potrebbe rappresentare una delle prime remote origini della Scuola medica salernitana. Il monastero entra così di diritto nella storia della Scuola. L’intera costruzione all’epoca viene a trovarsi a ridosso delle mura della città con a sud est porta Elina, a nord est l‟Orto Magno e, in epoca successiva, a sud ovest Castel Tarracena e a nord ovest il Duomo. Negli anni 942-943 l’abate Giovanni di Salerno, biografo di Oddone di Cluny, vi trascrive la Storia Lausiaca di Palladio, modello di ascetismo per i cluniacensi4. All'abate Baldovino di Montecassino e a Giovanni, biografo di Oddone si fanno risalire i primi contatti tra l'abbazia cassinense ed il monastero di San Benedetto di Salerno. Nel 946, con bolla papale di Agapito II, San Benedetto passa sotto la protezione apostolica diretta della Santa Sede. Si vuole che intorno al 990 vi sia stato scritto il Chronicon salernitanum, una cronaca anonima dei principati di Benevento e Salerno riguardanti vicende dal VIII al X secolo5. Si racconta ancora che lo stesso Grimoaldo, venuto a Salerno da Benevento nel 798, abbia preferito soggiornare nel monastero e non nel palazzo del padre Arechi6. Il cenobio, inizialmente prepositura (parrocchia), nel 998 è innalzato al rango di Abbazia indipendente insieme a molti privilegi con bolla d‟oro dell‟imperatore di Bisanzio, Costantino VIII. Nello stesso anno Adelperto, abate di Montecassino, anche per volere di Guaimario passa il monastero alle dirette dipendenze della badia cassinense e lo mette a capo di tutti i conventi del Principato e delle Calabrie7 . Nel 1011 un monaco cluniacense, Alferio, lascia il monastero per darsi alla


Il monastero di San Benedetto

vita anacoretica tra i monti di Cava. Raggiunto però da altri confratelli, con essi inaugura un nuovo convento, quello che sarà poi la Badia della SS. Trinità8. In anni imprecisati della prima metà dell’XI secolo accoglie come oblato e poi come monaco Pietro, futuro vescovo di Anagni, che vi riceve una formazione giuridica ed ecclesiastica9. Si vuole che tra il 1011 e il 1023 il monastero diventi abitazione privata dei nipoti di Guaimario III: Guaiferio, Maione e Maginolfo, che vi conducono una vita dissoluta e dispendiosa. Nel 1023 Guaimario III riporta il monastero nella sua precedente condizione, insediandovi come abate il monaco Basilio. San Benedetto diventa un centro importante di studi per gli stretti contatti mantenuti con Montecassino, nonché un centro di medicina per la presenza di una ragguardevole infermeria e di valenti monaci medici10. È probabile che intorno alla metà dell‟XI secolo abbia ospitato Garioponto, magister della Scuola medica di Salerno e che vi abbia scritto il Passionarius, un testo di medicina (fig.1).

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Fig.1 Il giardino del monastero di San Benedetto. con vasca e colonna rovesciata. (Foto: V. Bonani)


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In questo periodo è accolto Desiderio, monaco del convento di Santa Sofia a Benevento, gravemente ammalato ed è curato da Alfano I, all‟epoca semplice monaco, ma colto e competente nell‟arte sanitaria. Nel 1057, per volere di Gisulfo II, Alfano è nominato abate del monastero, diventato centro religioso e di cultura il più fiorente e autorevole del Meridione11. Nel 1058, con la nomina di Alfano ad arcivescovo di Salerno, Desiderio assume la guida del cenobio, per poi essere nominato abate di Montecassino ed infine eletto papa col nome di Vittore III12. Nel 1084 l’Abbazia accoglie Gregorio VII, vecchio e malato, portato a Salerno da Roberto il Guiscardo e curato amorevolmente da Alfano. Vi muore il 25 maggio dello stesso anno. Con la costruzione del Duomo e di Castel Tarracena, la chiesa dell’abbazia, rovinata nel corso degli anni, viene restaurata e riconsacrata dallo stesso Gregorio VII. È la seconda per grandezza dopo il Duomo, in stile paleo cristiano romanico, a tre navate, abside centrale e un quadriportico all‟ingresso. Sul lato destro s‟innalza un campanile, che sarà abbattuto nel XIX secolo13. Il monastero in questo periodo è costituito da un chiostro centrale a pianterreno, sul cui lato settentrionale sono disposti la cucina, il cellario, il refettorio, mentre a sud si allineano la sagrestia, la sala capitolare, la biblioteca, la foresteria per ospiti di riguardo e l‟infermeria. Al piano superiore sono le celle dei monaci. In un angolo del chiostro è una fontana che riceve l‟acqua dagli acquedotti provenienti da una sorgente sotto il castello di Arechi, detta di San Leo. L’acqua serve anche le vasche per il bagno dei malati e per innaffiare l‟orto che circonda l‟edificio ed occupa tutto Fig.2 Gli archi dell‟acquedotto medievale l‟altopiano della Torretta (fig.2). in via Velia a Salerno. (Foto: V. Bonani) Nei secoli successivi il complesso subisce vari rimaneggiamenti e restauri, per cui perde la fisionomia originaria, rimanendo pur sempre come cittadella pronta a resistere ad assalti e ad assedi con


Il monastero di San Benedetto

le sue risorse e con la sua organizzazione interna. Nel XII secolo nella chiesa di San Benedetto si vuole sia avvenuto il miracolo del Crocifisso con il perdono del mago Pietro Barliario, che, con le sue pratiche negromantiche, aveva involontariamente causato la morte dei nipotini. Si vuole ancora che, dopo tale episodio, Barliario si sia fatto frate e sia morto e sepolto nel monastero il 25 marzo 1149. Nel XVII secolo era ancora presente una lapide sul luogo della sepoltura all‟interno della chiesa. Riferisce infatti il Mazza che ancora ai suoi tempi esisteva la lapide sepolcrale su cui era scritto: “Hoc est sepulcrum M(agni) Magistri Petri Barliari”14. Nel 1177 avvenne un fatto di sangue: l‟assassinio dell‟abate Matteo. Re Guglielmo II punisce i colpevoli, tra i cui responsabili risultano anche alcuni monaci dell‟abbazia15. Nel XII secolo con il susseguirsi dei divieti conciliari ai monaci di praticare la medicina e con l‟emanazione, nel 1231, delle leggi di Federico II che prevedono regole formali per la cura della salute, anche nel monastero di San Benedetto la medicina cessa di esistere. Scompare così come centro di studi e di sapere. Tra i secoli XII e XIII l’Ordine dei Benedettini va incontro ad una serie di riforme, suddividendosi in varie diramazioni, che si diversificheranno secondo il rigore applicato alla Regola originaria e secondo le finalità adottate: Cluniacensi (915), Vallombrosani (1015), Camaldolesi (1113): Eremiti, Cenobiti, Cistercensi: (1115): Foglianti - Trappisti, Silvestrini (1247) Olivetani (1313). Nel XV secolo il monastero viene abbellito e arricchito di marmi e colonne (fig.3), ma nel XVI sotto la dominazione spagnola decade rovinosamente. Il governo dell‟istituzione passa nelle mani di varie congregazioni. L’edificio, in gran parte diruto Fig.3 Capitello decorativo nel chiostro del e abbandonato, è declassato in Monastero di San Benedetto (oggi Museo Archeologico Provinciale). commenda e le ristrutturazioni si (Foto: R. Bignardi) limitano alla chiesa, alle celle del dormitorio dei monaci ed agli ambienti necessari alla vita quotidiana. Nel 1581 papa Gregorio XIII lo affida alla Congregazione dei Benedettini Olivetani, affinché provvedano al servizio della Chiesa, al culto ed alla venera-

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zione del SS. Crocifisso, oggetto del miracolo. Tra i secoli XVII e XVIII il cenobio appare in piena decadenza: “abituro di pochi cialtroni”. In questo periodo lo si vuole dimora dell‟abate, di tre padri sacerdoti e di un laico professo16. Seguendo l’esempio delle leggi napoleoniche applicate sul territorio francese, Giuseppe Bonaparte con Regio Decreto del 13 febbraio 1807 ne decreta la soppressione, costringendo gli ultimi frati ad abbandonarlo. L‟11 novembre 1811 la chiesa è concessa al Municipio di Salerno, perché sia destinata a pubblici divertimenti. Si decide di trasformarla in Teatro cittadino, cui è dato il nome del Murat, nuovo sovrano delle Due Sicilie: “Teatro San Gioacchino”17. Nello stesso anno l‟intero monastero viene trasformato in caserma dell‟esercito. Scomparsi i Napoleonidi e tornati sul trono i Borbone, il Teatro cambia nome ed è intitolato al Patrono della città: Real Teatro San Matteo. Nel corso di questi anni chiesa e monastero sono orribilmente deturpati con perdita dei primitivi profili e costruzione di superfetazioni. Il campanile adiacente alla chiesa è abbattuto. “Le vetuste mura del cenobio, sorte per il silenzio e la preghiera, risuonano di strepiti d‟armi e voci marziali, mentre le ombre di Alfano e di Gregorio VII sembrano aggirarsi sdegnate tra le colonne del chiostro, cercando invano la pace e la meditazione irrimediabilmente perdute”18. Tornato sul trono, Ferdinando I, già Ferdinando IV, con circolare del 1815 dispone che in tutti i luoghi sacri vengano aboliti gli usi indecenti e si interrompa l‟ulteriore profanazione. Ferdinando II, dando seguito alla disposizione del suo predecessore, anche perché vivamente pregato dall‟Arcivescovo di Salerno Marino Paglia, ingiunge al Comune di restituire al culto la chiesa dei Benedettini. La chiesa viene consegnata al sacerdote Francesco Paolo Lettieri, delegato dell‟arcivescovo, il 27 marzo 1845. Iniziano i lavori di restauro curati dall‟architetto Giovanni Rosalba. Nel 1854 la chiesa viene elevata a parrocchia, chiamata “del SS. Crocifisso” (in ricordo del miracolo) ed affidata al parroco Matteo d‟Amato. Nel 1868 il sindaco Matteo Luciani toglie di autorità la chiesa al nuovo parroco Giannattasio, per farne alloggio ai comandanti militari e alle truppe risiedenti o di passaggio in città. Il parroco reagisce violentemente e, visti i reiterati dinieghi del Comune alla restituzione, si rivolge al Tribunale. Dopo una serie di burrascose vicende la Corte di Appello, nel 1878, ordina la riconsegna della chiesa, nel frattempo orribilmente mutilata dalle soldataglie avvicendatesi in quegli anni. Il Comune per evitare più gravi conseguenze, si accorda con il parroco, consenten-


Il monastero di San Benedetto

dogli, in surroga della chiesa dei benedettini, il godimento della chiesa dell‟ex convento di Santa Maria della Pietà in via dei Mercanti, cui viene trasferito il titolo del SS. Crocifisso. Dal 1868 il monastero, già requisito dall’Autorità militare e profondamente trasformato, è adibito a Distretto Militare e Circolo Ufficiali. La chiesa è ritornata in possesso della Curia solo nel 1963.

Note bibliografiche M. FIORE, Il Monastero e la Chiesa di San Lorenzo del Monte, in «Rassegna Storica Salernitana», V (1944), p. 84-88. 2 G. PAESANO, Memorie per servire alla storia della Chiesa salernitana, da torchi di Vincenzo Manfredi, Napoli, 1846-1852, 2 t.. leg. in 1 v. 3 A. MAZZA, Historarium epitome de rebus Salernitatis, in quibus origo, situs, ubertas, repubblica, primatus…ac aliae res ad Salernitanam urbem spectantes dilucidantura doctore Antonio Mazza, Neapoli, ex typographia Jo. Francisci Paci, 1681. 4 M. OLDONI, Il Medioevo latino e Dag Norberg, La Nuova Italia, Firenze, 1974. Estr. da: Manuale di latino medievale. 5 Ibidem. 6 G. PAESANO, Memorie, cit. 7 Ivi. 8 Cfr. il Chronicon Vulturnense nell‟edizione di Ludovico Antonio Muratori. 9 L. CAPPELLETTI, A. MOLLE, Pietro da Salerno (+ 1105). Monaco benedettino e vescovo di Anagni, EVA, Venafro, 2006. 10 A. SINNO, (a cura di E. VENAFRO), Regimen sanitatis, Flos medicinae Scolae Salerni, presentazione di Sabato Visco, xilografie di P. Lavia, Salerno, Ente provinciale per il turismo, 1941. 11 M. SCHIPA, Alfano I arcivescovo di Salerno. Studio storico letterario, Stab. Tip. nazionale, Salerno, 1880. 12 C. COLOTTO, Enciclopedia dei Papi, Roma, Istituto della enciclopedia italiana, [2000], 3 voll. 13 A. SCHIAVO, L’abbazia salernitana di San Benedetto, [s. l.: s.n.], 1939, Estr. dal 4° Convegno Nazionale di Storia dell’Architettura, Milano, giugno 1939. 14 A. MAZZA, Historiarum Epitome, cit.; A. GIARDULLO, Pietro Barliario. Un mago salernitano tra storia e leggenda, Laveglia, Salerno, [2005]. 15 Cfr. Florio da Camerota, nobile del principato di Salerno ricordato per la prima volta alla metà del sec. XII, in Dizionario geografico degli italiani, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, 1997, vol. 48, s.v. 16 G. CARUCCI, Il Masaniello salernitano nella rivoluzione di Salerno e del Salernitano del 164748, preceduto da un breve cenno storico di Salerno dalla sua origine sino alla fine del secolo 16, Stab. Tipografico del commercio cav. Antonio Volpe e c., Salerno, 1908. 17 M. FIORE, L’abbazia e la Chiesa di San Benedetto, in «Rassegna storica salernitana», V, (1944), 3-4, pp. 241-248. 18 Ibidem. 1

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