DossierArte 2015

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NON ESISTE STRANIERO NELLA RAZZA UMANA La percezione dello straniero nella letteratura e nell’arte Risulta evidente che in ogni epoca ci sono persone totalmente libere da pregiudizi mentre altre che, prive di coraggio, non riescono ad andare oltre le apparenti diversità. Dal testo “La storia” di Elsa Morante è possibile comprendere il duplice approccio che traspare da ogni momento storico: il soldato sembra dimenticare la sua nazionalità, il suo colore politico e il suo stesso passato mentre la donna ha netti in mente i soprusi e l’orrore commessi dagli uomini sotto quella dimenticata uniforme che le appare chiara di fronte. Questo testo fa inevitabilmente pensare a ciò che sta accadendo in Italia negli ultimi anni e in Europa nei mesi appena passati. Il razzismo nei confronti degli stranieri si sta sempre più accentuando; i media e la politica, quelli italiani in particolare, fanno perno su questo punto nevralgico per suscitare consensi o generare malumori. Esattamente come nei totalitarismi del secolo scorso si è trovato nello straniero una sorta di capro espiatorio - prima lo furono gli ebrei, i disabili e gli appartenenti a partiti differenti ed ora lo sono i musulmani e i nordafricani - che diventano apparenti cause delle pessime condizioni economiche, sociali e politiche attuali. Lo straniero non è quindi rifiutato oppure odiato perché di diversa nazionalità, ma per-

ché è categorizzato nei comportamenti dei suoi peggiori compatrioti che compiono violenze, soprusi o atti illegali. La tendenza generale è quella di attribuire ad un dato gruppo di persone solo caratteristiche crudeli e subdole. Questa attitudine è chiara nel passo tratto da I Promessi Sposi nel quale Manzoni descrive la presenza di Renzo come minacciosa e pericolosa perché considerato portatore del morbo che, diffondendosi nella città, stava mietendo migliaia di vittime. In questo caso non vi è solo l’odio verso lo straniero, ma c’è anche il terrore per ciò che esso può fare o portare. Dall’Odissea di Omero e dalla novella Lontano di Pirandello traspare invece il lato positivo della fiducia nello straniero. Si possono notare due possibili reazioni che emergono nell’animo, dopo l’incontro con un forestiero: la prevalenza del timore e la voglia di fuggire oppure l’atto valoroso di mettere il cuore l’ardimento e togliere dalle membra la paura di affrontare il diverso. In entrambi i testi il coraggio è premiato dalla riconoscenza e dalla pura umanità dei due compagni di sventure. La scultura del Galata Morente (nella foto), che risale al I secolo a.C., esprime un altro aspetto della visione dello straniero: osservarlo nel suo atteggiamento per affrontare


l’atto più duro della sua vita che è la morte. L’opera appare il maestosa diventando quasi la celebrazione dell’uomo nella sua fisicità che, pur essendo forte e tonica, diventa debole del momento del ritorno alla sua originale natura. La statua diventa quindi emblema dell’uomo estrapolato dal suo contesto storico e culturale: non si riconosce la sua derivazione sociale, ma si comprende subito la sua natura umana. La differenza tra lui ed un uomo romano quindi è impercettibile. Risulta perciò chiaro che lo straniero non deve essere considerato diverso o denigrato perché, come affermato nel Deuteronomio, «ricorderai che sei stato schiavo in Egitto» ed essendo entrambi passati per la medesima condizione non ci si potrà permettere di etichettarlo come fosse il male. Baudelaire e Brown, infine, solo coloro che esprimono più completamente gli atteggiamenti da adottare in generale. Potrebbe apparire assurdo il modo in cui i due autori con pensieri così diversi possono completarsi però diventa ovvio pensando ai contenuti: il primo esprime il totale distacco dalle diversità che caratterizzano l’uomo e le varie etnie ricollegandosi all’appartenenza alla natura, fonte di vita che, come del utopistico mondo futuro di Walcott, ricongiungere gli uomini unendoli con il loro stesso amore. Nel racconto del secondo autore, invece, si nota una cruda differenza tra l’alieno e l’uomo: è scontato riconoscere l’appartenenza dei due a realtà e origini totalmente diverse; non si tratta più di scontri tra civili di uguale provenienza, ma è una sfida naturale tra razze che combattono per la darwiniana lotta per la sopravvivenza in cui la specie più forte ha il sopravvento sull’altra. L’uomo discende e fa parte di un unico ceppo etnico: la razza umana. La letteratura e l’arte sono diventate l’emblema dell’attenzione all’uomo in quanto tale, rappresentato però in rapporto al momento storico in cui è portato ad agire. L’unico elemento che genera la frantumazione di tale etnia è il male che sorge dalle differenze che ognuno non tollera dell’altro. Solo valorizzando il bene e amando gli aspetti giusti di ogni persona, nel mondo, potrà sorgere una conclusione positiva di tutti gli esseri umani che si uniranno per dare valore al cosmopolitismo che abbatte tutte le barriere territoriali e i pregiudizi sociali e culturali. Antonella De March - 5B

GIOVANNI FILARDO POETA Attraverso i ruvidi sentieri di Giovanni Filardo, guidati dal professor Pincin

Giovanni guarda, osserva, pensa, parla, scrive. Da qualche tempo irrompe in sala insegnanti come un torrente impetuoso che nessuna chiusa riesce a contenere e ti sommerge di poesie. A due passi dalla macchinetta del caffè, attendi che passi l’ondata di piena e riprenda placato il fluire: fogli ricchi di parole semplici o ricercate; di frasi corrette, cancellate e rigirate sulla base di ragioni a lui, comunque, misteriosamente chiare. Sembra che, complice il preludio della Pensione (sì, con la P maiuscola!), ormai siamo immersi in un inarrestabile sbocciare di poesie che, intense, mettono a dura, ma felice prova le nostre capacità ermeneutiche. Un giorno gli ho detto: “Giovanni, certe tue parole starebbero bene in bocca al profeta Elìa, od al Qoèlet, senza timore di banalizzare la Bibbia”. La sua risposta:”E perché non mi scrivi qualcosa in merito?”. Ecco quanto. Ad Elìa farei risalire alcune trame di versi secchi, impregnati di tristezza e sofferenza che l’autore “deve” portare, come pesante fardello di pellegrino che procede isolato e sferzato da intemperie inarrestabili. Il suo sguardo non può non guardare ciò che accade e, insieme al cuore ed alla mente, non può sottrarsi dallo scrutare. Il crollo definitivo sembra incipiente, eppure egli cerca an-


cora uno spiraglio di coraggio, di speranza, di confidenza con la propria coscienza e con l’Essere. L’autore deI I libro dei Re (cap. 19, passim) così scrive del profeta perseguitato ed in crisi: “Elia, impaurito, si alzò e se ne andò per salvarsi… Si inoltrò nel deserto… Camminò fino al monte di Dio, l’Oreb… Entrò in un caverna… Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco un sussurro di brezza leggera. Come l’udì Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Venne a lui una voce che gli diceva:-Che cosa fai qui, Elia?”. Qoèlet. Altrove Giovanni ricorre deliberatamente e quasi pigramente a stringate e disilluse narrazioni di relazioni e creature, atteggiamenti e sentimenti, percezioni e pensieri, colori e tratteggi. Il tutto condotto attraverso tocchi di rispettosa ironia, di disincantata contemplazione di ciò che è al tempo stesso intensamente vitale ed intensamente fragile. Ciò che assurge ad oggetto od a protagonista delle sue parole, è preso da due dinamiche uguali e contrarie: la pienezza di senso e la pienezza di non senso: “Havèl havalìm/Vanitas OSCILLAZIONI vanitatum/Non Tace il canto dentro la fustaia. senso all’ennesima potenza! (Qo. Silente il paesaggio si trasforma. 1,2 e 12,8)… AnStanchi i passi disegnano il cammino. che questo fatto ho visto sotto il Inabitata la via amplifica la corsa. sole e mi parve Brugo si ramifica il conflitto assai grave. C’eracemo che innerva la brughiera. ra una piccola città con pochi Goccia che dal gutto si disperde abitanti. Un pola tua presenza nella stanza cade. tente re mosse contro di essa Greppo che discende la montagna e l’assediò… Si la nostra vita cerca la pianura. trovava però in essa un uomo poBlesa la parola si confonde vero ma saggio, il franto il sogno si consuma. quale con la sua saggezza salvò la città; eppure nessuno si ricordò di quest’uomo povero” (Qo. 1,2 e 12,8; 9,13-15). Oggi, come un tempo, come in futuro, per quest’umanità

che si compiace di idolatrare il LA MIA SERA consumismo, lo spreco, la pauGluma che ingloba i miei pensieri ra, la vendetta, l’inquietudine nell’erba si confonde. l’inquinamento e l’autodistruzioSpecchio che riflette i miei sentieri ne e si vergogna il mio sguardo grifagno mi sorprende. della saggezza, Crespo il gesto che la parola incagna si leva una Misericordiosa Possila mia rabbia si tende come ragna bilità di cogliere Glomere nascosto sotto la sterpaglia e donare gioie semplici; attimi la mia solitudine dentro la gramaglia. di serenità, fiducia, confidenza; affettuosità feconde e scelte disincantate di riconciliazione. Vivessero oggi, anche Elìa e Qoèlet non disdegnerebbero qualche minuto di gratuita compagnia per un caffè e due versi. Leopoldo Pincin

UN POETA TRA ELIA E IL QOÈLET: GIOVANNI FILARDO Quel che accade nel rituale topico dell’Ecclesiaste, ovvero tutti riuniti intorno alla macchinetta del caffè dell’aula insegnanti, è presto detto: il professor Leopoldo Pincin richiede allo scrivente un’icona di Elia, quando fa risalire al profeta i versi del poeta quale è il professor Giovanni Filardo. Proposta intrigante, così lo scrivente tosto si mette a rovistare tra i repertori iconografici del profeta Elia. Rovista di qua sul Cherit, e di là sulla Trasfigurazione di Cristo con Mosè, poi ancora sulla sua ascesa al cielo sul carro di fuoco, per proseguire sulla caverna dell’Oreb, quando l’occhio cade su una curiosa immagine seicentesca che, a parere dello scrivente, ben esprime la poesia di Giovanni. Immagine ricca di figure simboliche, tanto che i versi di Filardo tradiscono la sua natura di artista, perché evocano momenti lieti e malinconici della vita, espressi con termini semplici e ricercati. Versi che alludono ad arcane simbologie di vitalità e di caducità dell’essere che ci riconducono al Qoelet e il suo contraddittorio tra il bene e il male, per approdare, come ha rilevato in questo numero de La Virgola il professor Pincin, alla


Vanitas vanitatum (dall’ebraico Havèl havalìm), soggetto questo della vanità, molto frequente nella pittura seicentesca nordica, in particolar modo in quella olandese, nel genere delle nature morte. L’immagine in questione è La natura come simbolo della Vanitas (nella foto) del pittore tedesco Abraham Mignon, per altro riproposta in più versioni, dove la natura morta è ambientata, insolitamente, in una caverna. Perché in una caverna? Che il pittore abbia voluto a riferirsi al profeta Elia quando salito al monte Oreb si rifugiò in una caverna? Non a caso la caverna è simbolo dell’inconscio e dei suoi pericoli, luogo negativo come porta per la discesa agli Inferi e dove si annidano i mostri, uno per tutti: Polifemo. La caverna, al contrario, e un simbolo positivo come luogo di rifugio e di protezione, del ritorno alla madre terra che ci riconduce all’utero materno della nascita e della rigenerazione. Così, la caverna ben si associa alla nostra biblioteca d’istituto, dove troviamo il professor Filardo intento a stendere i suoi versi prontamente offerti ai colleghi, per una prima lettura. Ritorniamo all’immagine dell’artista seicentesco, subito siamo colpiti dalla bellezza dei fiori LA PAUSA posti al centro Come brace d’inverno nel camino della composizione, poi scopriaadusto il mio confine si trasforma. mo che la grotta Accartocciati inaridiscono i sentieri è abitata da una natura animata, pause senza la scrittura. rana, ramarro, Oscuro anfratto il senso del cammino lucertola, chiocgruma sulle cose si distende. ciola, farfalle, insetti e infine con Il tempo dei contrasti asperge la follia la cinciallegra e amenza nel fossato si condensa. il suo nido dove sue uova rimanNell’agire l’inganno si nasconde dano al simbolo ragna nello sguardo si rapprende. dell’uovo coFrale si posa la speranza smico. In primo piano, al contracarezza che afferra la parola. rio, sono poste in controluce, le sagome di piante rinsecchite, monito della vacuità dei piaceri offerti dalla vita. Tutti questi elementi, espressione della vanità terrena, hanno certamente valenze simboliche che ricordano come la bellezza ha vita breve; ma la caverna è anche luogo di rina-

scita, ecco che il pittore pone, come abbiamo visto, la cinciallegra, uno dei vari uccelli simbolo della rinascita primaverile. Caverna, ricordiamolo, è il tòpos della nascita e della resurrezione di Gesù. Al Sacrificio del Salvatore, rimanda il papavero, spesso il rosolaccio lo troviamo scolpito nelle cattedrali medievali. Proprio al centro della composizione, vediamo una varietà dell’Alcea rosea o Malvone fiore che potrebbe ricondurci al profeta Elia. Questa pianta eliotropica orienta i suoi grandi fiori verso la luce del sole, proprio come Elia è trasportato da un carro di fuoco verso il cielo e la luce paradisiaca. Nel Rinascimento la malva era considerata un rimedio da tutti i mali, ma è anche simbolo dell’Amor materno con il suo potere salvifico che ritroviamo nei versi di Giovanni Filardo. Poi vediamo il myosotis, il celebre non-tiscordar-di-me, simbolo dell’Amore eterno, mentre più in alto è posto l’iris, simbolo di accompagnamento dell’anima femminile morente. Infine una delle erbe adoperate per l’Acqua di San Giovanni, venduta nel piazzale antistante la Basilica di San Giovanni a Roma, è la lavanda, essenza astrale del segno dell’Ariete tendente ad addolcire il carattere impulsivo e irruente, eliminando così i contrasti e allontanando i pericoli. Si potrebbe continuare con altri simboli tratti dalle figure di quest’opera seicentesca, ma lasciamo al lettore il piacere e l’emozione di scoprirli, come quando scaturiscono dai versi di Giovanni Filardo. Rodolfo Biaggioni


DENTRO ALL’OPERA Originali letture dell’opera d’arte PIETÀ, Giovanni Bellini Lettura dell’opera vista dalla figura di Cristo Chiudo gli occhi stanchi colmi di pianto e malinconia. Mi abbandono alla mia rassegnazione alla realtà che mi aspirerà la vita come l’aria porta via le foglie. Mi concedo gli ultimi istanti: ascolto. Alla mia destra un respiro affannoso e caldo mi avvolge la spalla, la scapola e pian piano diventa gelido. Una mano sorregge la mia, è umida, ghiacciata. Percepisco la tensione che fa vibrare l’aria secca intorno a me. A sinistra una mano tremante tocca il mio ventre contratto. Un silenzio assordante mi invade, mi porta con sè. Silvia Chiarini - 3A

CRISTO MORTO, Andrea Mantegna Lettura dell’opera vista dal vaso degli unguenti Tutto intorno a me è buio. La lastra dove appoggio è ghiacciata. Sono sommerso dall’oscurità. Vicino a me giace un corpo, in luce. E’ il corpo di Cristo, già cosparso dai miei oli profumati. Mi fa riflettere la posizione delle sue mani, non sembrano arrendersi alla morte. Il silenzio è interrotto dal pianto delle tre figure, alla sua destra. Il dolore traspare dai loro volti, come un suono acuto e stridulo che mi avvolge e mi fa tremare. Intravedo, dietro me, una piccola porta, quasi inesistente circondata dal buio, profondo. L’assenza di luce mi fa capire che i tre non lasceranno mai Cristo, non varcheranno mai quell’uscita. Sembra quasi che Maria, Maddalena e Giovanni non credano alla morte. Stanno aspettando qualcosa di più grande che avverrà in un futuro, vicino. Sara Bruseghin - 3A


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