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Ultimo tratto

Ultimo tratto

di Paolo Gervasi

una bustina vuota di fiammiferi, in una storia raccontata da Carlo Emilio Gadda, non viene gettata via, ma “immantinenti estromessa dai confini dell’Io”. Non è difficile, quindi, immaginargli sul volto un ghigno beffardo mentre, nel 1953, da redattore della Rai, Gadda compila le Norme per la redazione di un testo radiofonico, uno scrupoloso elenco di regole di scrittura destinato ai collaboratori del Terzo programma. Per rendere un testo accessibile, scrive Gadda, servono chiarezza, semplicità, ritmo. Occorre essere fluidi e concisi, evitare di sopraffare chi ascolta (o legge) con esibizioni erudite, dissimulare il sapere, usare immagini vive e concrete, evitare toni paternalistici o pedagogici: “L’eguale deve parlare all’eguale, il libero cittadino al libero cittadino, il cervello opinante al cervello opinante”.

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Proprio Gadda, lo scrittore che vede nella realtà un inestricabile “gomitolo di concause”, in cui la trama delle relazioni è talmente fitta da rendere necessaria una lingua difficile, complessa, tortuosa, vertiginosa come una prospettiva barocca, si fa teorico della lingua democratica. La contraddizione è solo apparente: ogni contesto ha la sua scrittura, ogni messaggio la sua specifica forma comunicativa. In letteratura, Gadda aveva bisogno di una lingua densa e inaudita per raccontare l’oscurità della psiche novecentesca, e per sabotare la retorica tronfia del fascismo. “Resosi defunto anche Gabriele d’Annunzio, la ‘orazione’ è alquanto decaduta nel gusto del pubblico”, scrive nelle Norme. Superare la società che si è lasciata abbindolare dalla lingua falsa delle orazioni significa per prima cosa creare una lingua diretta, orizzontale, transitiva. In cui la scelta delle parole è guidata da un principio di reciprocità, di attenzione per chi sta all’altro capo dell’atto comunicativo. Dall’elaborazione di una scrittura nuova scaturiranno le forme nuove del pensare e del vivere insieme.

Oggi ci troviamo in una situazione molto simile: in un contesto saturo di comunicazione, sopraffatti da discorsi stereotipati e gergali che sono la forma contemporanea dell’oratoria, assediati da storie fasulle scritte in una lingua logorata dall’uso, frastornati dall’imprecisione delle parole, sentiamo il bisogno di trovare il segno esatto, univoco e necessario della chiarezza. Non si tratta naturalmente di imporre a tutti uno stile telegrafico: la brevità compulsiva dei social molto spesso non è concentrazione ma dissoluzione della lingua, perché appiattisce la scrittura sul parlato e comprime il tempo dell’elaborazione. Si tratta però di trovare la trasparenza necessaria a raggiungere l’altro al di là della cortina fumogena della comunicazione permanente. Un gesto che è il contrario dell’immediatezza: richiede tempo, e attenzione. Gadda non ha mai smesso di “estromettere dall’Io” le sue frasi spiraliformi, ma era consapevole che la lingua della relazione ha il dovere politico di trovare la forma aerodinamica che le consenta di andare “da cervello a cervello”.

Nelle sue lezioni sulla tecnica dello scrivere Giuseppe Pontiggia citava spesso, come modello di efficacia comunicativa opposto alla retorica vuota e sensazionalistica dei media, una frase dell’alpinista Reinhold Messner. Al giornalista che gli chiede, sperando di estorcergli qualche banalità pseudo-spirituale, di descrivere le emozioni provate arrivando in cima all’Everest, Messner risponde: “Ero molto stanco, volevo tornare a casa”. Il giornalista, deluso, prova a incalzarlo, ma Messner ha già detto tutto: ha concentrato il senso di un’esperienza estrema nell’essenzialità di una sensazione fisica assoluta, eludendo tutti i possibili luoghi comuni. La lingua che dobbiamo ancora scoprire, la scrittura di domani, ha la stessa fame di ossigeno dell’alpinista. Abbiamo molto da imparare dalla sua stanchezza. ◊

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