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Oltre l’innovazione
from Relazioni: #1
by ale-rel
Oltre lʼinnovazione
Il mondo rimodellato dalla crisi post-Covid-19 presenta, accanto ai dubbi, le paure e le incertezze, grandi opportunità: ridefinisce valori e priorità, sgombra il campo dalle illusioni, fa emergere le esperienze davvero rilevanti per la società e per l’economia. E promette di liberare il discorso sull’innovazione da eccessi, forzature e falsificazioni.
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Testo Luca Barbieri Immagini Putput
PUTPUT, progetto fondato nel 2011 da Stephan Friedli e Ulrik Martin Larsen, attualmente con sede a Copenhagen, è l’incontro visivo e concettuale di due menti. Tra input e output, PUTPUT indugia sull’incrocio sempre piú trafficato in cui si incontrano fotografia, scultura e design. Una fascinazione condivisa e profondamente radicata per le relazioni metafisiche che legano gli oggetti di uso quotidiano guida la loro visione, che trasfigura l’ordinario in straordinario. nel corso dell’ultimo decennio il mondo della stampa 3d, dei fablab e dei maker space – luoghi diffusi di fabbricazione digitale – è rimasto sospeso in una sorta di limbo, tra artigianato, amatorialità e retorica dell’innovazione; una destinazione esotica buona per esibire a giornalisti e decision maker strani esemplari di giovani che “fanno cose”. Come fosse uno zoo.
Cosí, mentre molte aziende scommettevano sulla prototipazione rapida, per gran parte dell’opinione pubblica le stampanti 3d sono ancora quelle cose che permettono di avere un “mini-me” sulla scrivania. I fablab e i maker space, anziché essere considerate fabbriche, sono “acquari” in cui ammirare macchine e programmatori: un po’ scuola, luogo d’incontro di saperi e generazioni, un po’ coworking. Carino, ma niente cui prestare veramente attenzione.
Poi, tra febbraio e marzo, il mondo è cambiato. Con il Covid-19 abbiamo scoperto che la globalizzazione del sistema produttivo è economica ma molto pericolosa: in emergenza, quando l’egoismo nazionale prevale sullo spirito di cooperazione internazionale e chiude i mercati, intere parti del globo rischiano di restare senza componenti fondamentali. Come mascherine e respiratori. Ed è qui che, usciti dal cilindro, tornano alla ribalta maker space e fablab. A Brescia, raccogliendo l’idea di un primario, Isinnova trasforma una maschera da snorkeling in un respiratore, producendo pezzi su misura con la stampa 3d. Il caso fa scuola e i fablab d’Italia iniziano a produrre visiere, componenti per respiratori, mascherine. Charlotte, la valvola disegnata da Isinnova, permette di riadattare oltre 150mila maschere in tutto il mondo. Il paese scopre di avere una risorsa manifatturiera in piú. Era sotto gli occhi di tutti, ma non la vedevamo. E non era l’unica cosa a sfuggirci.
Come è noto ogni crisi, ogni cambiamento, contiene delle opportunità, e ha i suoi vincitori e i suoi vinti: settori che declinano, nuovi protagonisti che riescono a mettere a frutto un’idea che era semplicemente in anticipo sui tempi, imprese che devono ridefinire in corsa strategie e politiche per evitare uno schianto a tutta velocità. Inoltre, questa non sembra affatto una crisi: è ragionevole pensare che il mondo attuale
rimarrà plasmato dal Covid-19 anche quando il Covid-19 non ci sarà piú. Perché l’attenzione e i valori delle persone e dei decisori sono cambiati, perché la durata e la vastità del fenomeno sono tali da ridefinire priorità e frame di riferimento. Il punto, nel vortice di questa accelerazione, è provare a capire se stiamo andando bene o male, se i vincitori siano, in massima parte, quelli giusti, se questa crisi sia un setaccio per l’oro o un generatore di fuffa. Propenderei per la prima ipotesi, quella positiva. D’altra parte, venendo da un decennio di fuffa e storytelling esasperato sull’innovazione, non è difficile accogliere con fiducia il cambiamento.
Quando parliamo di innovazione parliamo anche e soprattutto di comunicazione. L’hype dell’innovazione parte in Italia nel 2012: con il decreto Passera, il governo Monti “inventa” – letteralmente dal punto di vista giuridico – le startup. L’Italia è in crisi, e l’innovazione e le startup diventano un espediente psicologico e narrativo per dare speranza (e illusioni) a tanti giovani. È un trend che non si è ancora esaurito, ma si è profondamente evoluto: le startup sono oltre 11.000 e dentro ci si trova di tutto; nel mondo dell’informazione nascono testate di settore specificamente dedicate al tema, ma tutti i giornali mainstream parlano di innovazione e startup e, alla fine, quel che rimane è soprattutto un modo in piú per mettere in risalto l’economia che ce la fa. In un paese come il nostro, non è poco.
All’interno di questo microcosmo, piuttosto autoreferenziale, ci sono due criteri di valutazione fondamentali: le quotazioni e la crescita in termini finanziari, le notizie sugli investimenti e le operazioni che “certificano” l’appetibilità economica di una società innovativa; e un’analisi sull’innovazione di prodotto e di processo. Il sistema dei media predilige, almeno all’inizio, il primo criterio. Perché di fronte ai numeri si abbassa la guardia; perché si vogliono a tutti i costi storie positive di crescita; perché per valutare un’idea altrui bisogna studiare, avere intuito ed esperienza. E i giornalisti italiani in grado di farlo con contezza ci sono, ma non sono la maggioranza.
La mancanza di competenze spesso porta a prendere cantonate, come incoronare di volta in volta uno “Zuckerberg italiano”, che per prodotto e fatturato si rivela ben lontano dal fondare nuovi paradigmi economici e puntualmente finisce nell’oblio; o esaltare come innovativi (solo perché la piattaforma è digitale) business di consegna a domicilio salvo poi scoprire che – si tratti di ristoranti o fragole a chilometro zero – facilitano o nascondono forme di sfruttamento e caporalato. E poi ci sono esperti improvvisati, incubatori che invece di far soldi con le startup fanno soldi “sulle” startup (ma molto piú spesso non ne fanno proprio), investimenti azzardati. Cose da circo. Ma, fortunatamente, un circo in declino.
Nel frattempo, un po’ come capitato ai fablab e alla stampa 3d, molto di buono e valido è cresciuto e sta maturando: spinoff universitari molto promettenti con tecnologie già testate ma in cerca di business model; startup di impronta ingegneristica con avanzate competenze di robotica e automazione, tra i punti forti dell’innovazione italiana, cosí come lo sono biotecnologie e bio-medicale; l’università che, con i suoi tempi, ha prodotto molti Competence center dedicati a Industria 4.0. E non parliamo solo di hardware,
che resta il maggior potenziale di crescita: il digitale nel nostro paese ha fatto un balzo notevole e ha finalmente reso accessibili a tutti le possibilità della rete. Un solo nome: Bending Spoons, la società che ha realizzato la app anti-Covid Immuni, è una ex startup diventata un’azienda da 90 milioni di euro. Ed è solo uno dei pezzi di una nuova economia che lavora in armonia con le aziende piú dinamiche del Made in Italy.
La crisi ci aiuta a liberarci del “circo”, o – è spietato, mi rendo conto – di chi non aveva le capacità per continuare a correre. Impone a chi faceva startup per hobby scelte drastiche. Il momento dei giochi è finito per tutti. Anche dal punto di vista comunicativo, anche dal punto di vista degli eventi: avremo capienze limitate; possiamo permetterci di rivolgerci al pubblico sbagliato?
È ovvio che, d’ora in avanti, quel che rimane in gioco deve essere rilevante per tutti, dal punto di vista sociale ed economico. È la condizione necessaria, ma non sufficiente, per farcela. Bisogna anche consolidare un ecosistema in grado di selezionare e supportare i migliori connettendo tutti gli attori sani, senza esclusioni: i produttori di ricerca (università e centri privati); i produttori di tecnologia (pmi e startup); i facilitatori. Tutti insieme in un circuito che dia veramente vita al trasferimento tecnologico, dai laboratori al mercato, di cui abbiamo bisogno e sul quale l’Italia ha tanto da dare. Un sistema non necessariamente accentrato. L’Italia è piena di “periferie” naturali e deve valorizzare diversità e specificità.
Nel nuovo mondo dell’innovazione, una grossa opportunità per il paese, anche la comunicazione è chiamata a fare la sua parte. Innanzitutto presidiando i territori, andando a toccare con mano (e competenza) i fenomeni nascenti per fare da filtro dell’ecosistema, per eliminare pian piano il “rumore” (e la disillusione) di fondo che la comunicazione stessa ha contribuito a creare. E poi uscendo dalle maglie ansiogene del ritorno immediato nelle quali è sprofondata.
Se cosí non fosse, il rischio è quello di rimanere sempre in mezzo al guado. Come fosse marzo. E stare nel mezzo porta all’immobilità.
In troppi, anche comprensibilmente, hanno pensato al Covid-19 come a un terremoto. Un’emergenza cui rispondere, ma passeggera. Un’emergenza che vede, per l’appunto, da una parte gli eroi e dall’altra gli sciacalli. Ma il Covid-19 non è un terremoto, è un nuovo paradigma per affrontare il quale non servono eroi, servono sistemi e competenza. Attorno a questo nuovo paradigma cambiano i valori dell’economia e della società e con essi i “valori notizia”, i criteri di notiziabilità che sono da sempre espressione dell’interesse del pubblico. L’economia si sta riassestando: decidere se lo fa “sfruttando il Covid-19” oppure “contribuendo a risolvere la crisi” è questione di giudizio morale che al giornalismo e all’informazione non compete. Alla comunicazione resta il compito di capire chi sta cercando e offrendo soluzioni valide. Non si tratta di speculare sulle disgrazie, ma di raccontare come un pezzo di economia italiana ha saputo riadattarsi creando valore e lavoro, e aiutare a discernere ciò che vale da ciò che vale meno. È una grande opportunità, un appuntamento che non possiamo perdere. Se, come dice William Gibson, “il futuro è già qui, solo che non è equamente distribuito”, a noi spetta di fare il possibile perché questo futuro sia accessibile a tutti, nessuno escluso. ◊