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Un fiume di parole. Zone d’ombra

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Ultimo tratto

Ultimo tratto

Un fi ume di parole. Zone d’ombra della comunicazione pubblica.

Testo Stefano Rolando Immagini Fontanesi

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L’avventura dell’analisi nel magmatico e opaco dibattito pubblico

“Dibattito pubblico” è una nozione che si sta modificando. Il potere del web (velocità, interattività, sconfinamento) rispetto alle forme tradizionali della “discussione” sta producendo una radicale trasformazione della portata sociologica e culturale dei significati condivisi.

Le due sfere che un tempo separavano gli scambi nell’ambito delle élite – segnati da competenze che potevano conferire alle opinioni una funzione interpretativa con “valore aggiunto” di ordine cognitivo e critico – dagli scambi di massa – una fruizione di prevalente “scorrimento”, a pendolo tra il deposito immateriale dei mass media e i linguaggi di comunità (famiglia, lavoro, appartenenze) – oggi presentano geometrie qualitative piú ampie e piú articolate.

Resta che il sistema educativo e quello dell’informazione rappresentano ascensori importanti – in quanto “relazionali” – tra snodi diversi dei poli sociali di riferimento, fino ad aumentare e diminuire distanze sia in termini di alfabetizzazione sia di potere decisionale.

Tuttavia l’evoluzione in corso obbliga a tener conto di molte variabili. Tra le quali – proprio nel campo della comunicazione pubblica – il fatto che l’espressione “dibattito pubblico” ha avuto negli ultimi vent’anni sia un’accezione riduttiva, con riferimento alle forme disciplinate e normate di confronto di opinioni tra soggetti portatori di competenze e interesse soprattutto nella fase pre-decisionale connessa alla realizzazione di infrastrutture e opere pubbliche; sia un’accezione esondante che riporta alla questione decisiva della società “parzialmente ignorante”. Inquadrata già quarant’anni fa dal politologo Giovanni Sartori: “Lo stato di disattenzione, sotto-informazione, distorsione percettiva e, infine, totale ignoranza dei pubblici di massa è scoraggiante. Solo un 10-20 per cento della popolazione adulta merita la qualifica di informata”.

Nelle discussioni professionali che hanno preceduto l’uscita di questa pubblicazione si sono prodotte intuizioni che dimostrano che i professionisti coinvolti non hanno inteso sprecare l’occasione della pandemia.

Lo spaccato delle opinioni degli operatori della comunicazione e dell’informazione va assunto come un ambiente di percezione e ridistribuzione delle attività di uno di quegli ascensori che incide sui cambiamenti del dibattito pubblico inteso nella sua accezione piú ampia.

Fin dall’inizio della crisi globale provocata dal coronavirus si era intuito che vi erano piú settori – oltre a quello direttamente implicato dei medici e dei ricercatori, diversamente e a volte anche conflittualmente raggruppati nella “comunità scientifica” – che avrebbero potuto e dovuto lavorare sull’insorgente dibattito pubblico. Un confronto costruito subito su piú piani, provocato dal virus e sagomato con carattere locale e globale (immediata intuizione di Piero Bassetti), cioè due livelli tematici distinti e interagenti. Pur essendo evidente che la contabilità della pandemia avrebbe avuto un inquadramento nazionale, perché da essa dipendevano decisioni, norme e calcolo dei danni. In questo ambito chi scrive ha potuto avviare dalla fine di febbraio un monitoraggio quotidiano che ha riguardato l’evoluzione e le prospettive della “lezione sociale e civile della pandemia”.

I due emisferi della reattività sociale

Il rapporto tra addetti ai lavori e la società nel suo insieme ha assunto, da subito, un carattere bipolare, con forte distinzione nelle dinamiche reattive: da un lato una componente sociale informata e critica, dall’altro una componente sociale caratterizzata da ignoranza diffusa non tanto attorno agli eventi quanto attorno ai “processi”, e quindi identificata dai tratti del cosiddetto “analfabetismo funzionale”. Componente questa che ha mostrato la propria vulnerabilità agli effetti della infodemia, cioè della rapida crescita di un enorme volume di notizie ambigue sia nella sostanza che nella fonte.

Le due componenti formano un perimetro di ricaduta sociale (ma anche – attenzione! – di “nuova domanda” di informazione e comunicazione) in cui tutta la comunicazione finisce per rovesciarsi con esiti difformi. Perché in alcuni ambiti la condizione percettiva e reattiva della società si manifesta come sensibile, dialogabile, negoziabile. In altri ambiti essa appare molto

meno elastica, poco modificabile, in particolare a causa della mancata volontà dei poteri di favorirne l’evoluzione. Ora, infatti, mentre alcuni mesi di fiato sospeso su contagi, ricoveri, dimissioni e decessi stanno lasciando il posto a interrogativi di grave portata (redditi sfumati, produzione ridotta, occupazione sbriciolata, organizzazione sociale senza garanzia di ripresa, crisi individuali e collettive, debole rigenerazione della crescita, applicazione forzata di tecnologie che contengono rischi di deprivazione anche di diritti e di libertà ecc.) il punto di domanda ricorrente – “nulla sarà come prima?” – diventa obbligatorio. La risposta ottimistica, mostrare i nostri lati migliori a valle della crisi, non sparisce ma non si impone. Quella domanda resta ancora per i piú minacciosa anziché stimolante.

Detto in altri termini – cogliendo anche una fase del dibattito pubblico internazionale, che ha natura, riferimenti e criticità diverse, ma che contrappone generazioni, rappresentanze di genere e di etnia e altri soggetti conflittuali in modo piuttosto radicalizzato – si cerca di capire se sono già possibili valutazioni finali. Se cioè almeno nel medio periodo terremo la carreggiata e se, affrontando una questione cresciuta nella fase 2, quella post-sanitaria e quindi piú di carattere sociale, della crisi, i fattori di ritardo nelle dinamiche del ciclo “comprendere, partecipare, decidere” si presentino oggi come sistematici (dunque ritornanti in base a cause difformi) o sistemici (ossia connaturati cosí profondamente da non farci immaginare che siano facilmente scalfibili). Ergo, se finiremo fuori dalla carreggiata.

Malgrado le apparenze e le cose fin qui accennate, ci poniamo questa domanda con poco ottimismo. Anche qui per responsabilità che toccano la componente sociale decisiva, come ha spiegato Giovanni Belardelli: “In realtà la qualità della discussione pubblica dipende sí dal pubblico, dalla totalità dei cittadini, ma anche da un altro fattore: la presenza o meno di élite in grado di introdurre elementi virtuosi nella discussione cercando di orientarla positivamente, in termini di diffusione di dati reali, di messa a fuoco di questioni rilevanti, di critica delle realtà parallele costruite facendo appello alle reazioni piú emotive della gente”.

Già, la responsabilità di chi può e di chi sa. Vecchio cruccio, spesso confermato, non ancora estinto. Tramortito, va detto, dal lungo processo che – sommando crisi economica decennale e crisi sanitaria in atto – ha dimezzato la forza sociale del ceto medio, distruggendo (almeno in Italia) il baluardo politico riformistico e facendo sorgere, fino a dimensioni maggioritarie, il populismo.

È questo il chiaroscuro che accompagna le nostre discussioni fuori forse dal lockdown, ma non fuori dalle ambiguità delle condizioni, delle funzioni e persino delle consapevolezze.

Il dibattito davvero aperto riguarda i consolidati dualismi italiani, il nostro paradigma identitario (terroni-polentoni, cattolici-comunisti, montecchi-capuleti, attivi-passivi ecc.) che rapidamente polarizza quasi tutto, privo dei freni inibitori di un’identità nazionale che doveva essere rodata dalla storia dal momento in cui Massimo D’Azeglio annunciò, fatta l’unità d’Italia, la piú grande sfida possibile: “e adesso facciamo gli italiani!”.

Lo sguardo teso a riconoscere le zone d’ombra

Discussioni dunque sui media e soprattutto nella realtà. Su questioni sempre in bilico tra conoscenze limitate e decisioni difficili. Ogni nazione, ogni comunità locale, ogni borgo, ha affrontato la situazione con statistiche che misuravano da un lato vivi e morti (i capitoli piú penosi, da Bergamo alle rsa milanesi) e dall’altro, con dati

Da un lato una componente sociale informata e critica, dall’altro una componente sociale caratterizzata da ignoranza diffusa e identificata dai tratti dell’analfabetismo funzionale.

Le immagini in questo articolo sono tratte dal profilo anonimo Instagram fontanesi. Le sue immagini sono l’emblema dell’influenza esercitata da internet sulla realtà e viceversa, offrendo cortocircuiti visivi che stanno diventando una vera e propria forma d’arte.

spesso incerti, le capacità tecniche e politiche di proteggere la popolazione. Ovvero di fronteggiare l’imprevedibilità aggressiva del virus, mentre si apriva l’ennesimo conflitto (ancora acceso) sulla persistenza o al contrario sulla sparizione delle fonti di epidemia. Il perimetro di questo confronto si chiama “comunicazione pubblica”. Che, in Italia, ha avuto alterne sorti nel novecento: prima gli eccessi di potere del fascismo, poi la lunga sottotraccia democristiana (con deleghe variamente attribuite, tra l’altro anche alla Rai), poi un rilancio di ruolo nelle tensioni riformatrici degli anni ottanta e il lungo travaglio della “seconda Repubblica”, fino al ridimensionamento a favore del giornalismo e della comunicazione politica.

Come ha scritto Giuseppe De Rita: “La pandemia ha trovato un impressionante vuoto di comunicazione pubblica, un vuoto che non è stato coperto da saltuari episodi di enfatiche dichiarazioni governative, e in cui hanno fatto supplenza il variegato mondo dei social (piú opinioni che informazioni, naturalmente); e le pagine e i supplementi locali dei grandi quotidiani (in alcuni casi, per qualche pignolo disperato osservatore, anche l’elaborazione dei necrologi quotidiani)”.

Il vuoto della comunicazione pubblica di cui parla De Rita è prodotto da una serie di zone d’ombra, che vorrei discutere per punti.

– La statistica. Spina dorsale di ogni comunicazione pubblica, ma cenerentola di un sistema mediatico e politico che, in Italia (e non solo) preferisce i sondaggi, ovvero la percezione, all’accertamento della verità. L’idea che da noi la letalità potesse essere dieci volte quella dichiarata nel rito quotidiano della conferenza stampa ufficiale delle ore 17 è stata avanzata dal capo stesso della Protezione civile Angelo Borrelli, che da quel momento è stato messo alle strette dai capi dell’Istituto superiore di sanità e persino dalla vaghezza dei ministri di riferimento. Questione non solo italiana che, peraltro, in alcuni paesi del mondo ha avuto una gestione politica pesante, visti gli ingombranti danni di immagine che i dati potevano produrre. In Italia è stata notevole la difficoltà di monitorare i processi reali dei decessi non in ospedale, ovvero di tenere sotto controllo tutta la dimensione extra-ospedaliera. Come si vede nell’esplosione dei dati di molti paesi, le curve statistiche hanno seguito traiettorie stravaganti. Incrementando cosí la sfiducia crescente nei dati stessi, primo passo di un crollo del rispetto istituzionale che non avrebbe dovuto verificarsi. Il tutto nell’ambito dell’esplosione di un problema generale di Big data su cui, fatti salvi alcuni ammonimenti di Bankitalia, manca da noi un autorevole inquadramento pubblico di ciò che in questo campo oscilla sempre tra opportunità e minaccia. – Lo scontro tra “scienza” ed “economia”. Compito del governo e di tutte le istituzioni avrebbe dovuto essere quello di mediare costantemente le due prospettive, trovando sintesi creative fase per fase. Non agire a rimorchio ora degli uni e ora degli altri, con quell’effetto “pendolare” che deriva dal voler dare ragione a tutti anche nel momento di maggior conflitto, tanto di interesse quanto teorico. Sarebbe stato importante che il quadro politico-istituzionale avesse potuto maturare la sua posizione chiarendo la priorità data al rispetto per la salute e la prevenzione, ma senza perdere di vista la prospettiva produttiva e di lavoro, sbocco reattivo della società da perseguire con la forza e in un certo senso anche con la durezza delle grandi epopee ricostruttive. Ma se nella politica italiana prevaleva – come ha prevalso – l’atteggiamento assistenziale, era evidente che questa tensione non si percepiva e che molte altre cose conseguivano. Nel corso del nostro monitoraggio si sono registrate voci critiche circa questo punto civilmente e culturalmente essenziale. – Il sistema educativo. Nel tentativo convulso di dare risposte funzionali circa la gestione delle lezioni e degli esami (argomento non eludibile), è mancato un inquadramento del tema socialmente centralissimo del ruolo delle scuole e delle università nella crisi e per il dopo crisi, che mettesse a fuoco ispirazioni, argomentazioni e proposte al di là della velocizzazione intervenuta nei processi digitali. Non per sminuirne la portata. Ma anche per non accodarci all’idea che implementare questa funzionalità sia la piú importante delle modernizzazioni di quei sistemi. Qui il dibattito pubblico è stato duro, anche di qualità, ma periferico.

Non ha alzato molto la percezione dei problemi insoluti e ha lasciato che gli stessi media dilagassero sui centimetri del distanziamento dei banchi, senza cogliere l’opportunità di restituire all’educazione il ruolo di baricentro strategico e politico.

Su questo genere di discussioni le moltissime indicazioni prodotte da un monitoraggio accolgono di tutto. Anche la saggezza culturale del decano dei sociologi e dei pensatori educativi europei, Edgar Morin, che ha richiamato l’attenzione su molti punti del dibattito ancora troppo sopiti: “I video non possono sostituire permanentemente i film, i tablet non possono sostituire permanentemente le visite in libreria. Skype e Zoom non danno un contatto carnale, il tintinnio del vetro di un ‘brindisi’. Il cibo domestico, anche eccellente, non reprime il desiderio di un ristorante. I film documentari non reprimeranno il desiderio di andare lí per vedere paesaggi, città e musei, non mi toglieranno il desiderio di ritrovare l’Italia o la Spagna. La riduzione all’essenziale dà anche sete al superfluo. Spero che l’esperienza modererà i nervosi compulsivi, ridurrà l’evasione di una fuga a Bangkok per riportare ricordi da raccontare agli amici, spero che contribuirà a ridurre il consumismo, vale a dire l’intossicazione del consumatore”.

L’incerto potere della comunicazione

Portando a conclusione queste rapide falcate su una montagna di materiale, va detto che il punto di attenzione di una comunità professionale come quella che anima questa pubblicazione riguarda il potere, quello civile e quello culturale. Potere che la comunicazione, nel suo complesso e nella sua specificità “relazionale”, rigenera (oppure no), modifica (oppure no), rafforza (oppure indebolisce), a valle di una crisi sanitaria e sociale ancora in corso e quindi senza la possibilità di tirare vere e proprie somme. Ma non eludendo nemmeno la responsabilità di una valutazione tendenziale.

Le forze in campo del dibattito (scienziati, imprenditori, politici, comunicatori) sono state indotte dalle regole della “rappresentazione” a convergere e a divergere. I media hanno ovviamente una funzione di accompagnamento e di legittimazione e delegittimazione che è forte in ogni società libera. Ma la “comunicazione”, fatta di azioni di intermediazione per segmenti sociali, fatta di relazioni cognitive, fatta di completamento di sensibilità e di consolidamenti attenzionali, potrebbe collocarsi piú sul versante culturale che nella cassetta degli attrezzi decisionali. Dipende dai contesti, dipende dalla committenza, dipende dalle poste in gioco. Proprio i contesti di crisi e di emergenza hanno per lo piú rafforzato una tendenza alla strategicità e non al puro “confezionamento”. Tuttavia siamo in un’epoca in cui la parola “strategia” si spreca per tutto, senza che poi riesca a consistere proprio nei luoghi in cui dovrebbe essere custodita meglio.

La comunicazione pubblica è in fase di ripensamento di ruolo e di efficacia normativa. Qualcosa è in movimento. Ma è il contesto politico generale a non dare certezze sugli esiti di un (per ora) marginale interessamento. La comunicazione come contenitore generale – in tutte le sue articolazioni sociali, economiche, istituzionali e nel suo profondo coinvolgimento nella mutazione in atto dei processi digitali – riflette elementi di forza ed elementi di debolezza (tra cui il piú grave è costituito dalla incapacità di vedersi riconosciuta la propria autonomia disciplinare e quindi l’organizzazione di propri raggruppamenti).

Ecco dunque alcuni argomenti che fanno da cornice alle conclusioni del monitoraggio qui evocato. ◊

È mancato un inquadramento del tema socialmente centralissimo del ruolo delle scuole e delle università nella crisi e per il dopo crisi.

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