8 minute read

La comunicazione

La comunicazione al tempo della pandemia

No, non è andato tutto bene. La comunicazione di aziende e istituzioni durante la pandemia non è stata capace di mostrare coraggio, inventiva, prospettive. Si è attestata pigramente su una stereotipata narrazione patriottica, attingendo ai luoghi comuni sull’eroismo last-minute degli italiani e rappresentando un posticcio senso di unità nazionale. Un’occasione mancata che è il sintomo di una generale carenza di visione strategica nel mondo della comunicazione.

Advertisement

Testo Massimo Tafi Immagini Stefano Massei

Dichiarazione in forma di premessa

Commentare quel che è accaduto (e continua ad accadere) dal punto di vista della comunicazione durante il Covid-19 ha un paio di controindicazioni. La prima è che da troppi anni mi occupo di comunicazione per non sapere che ogni campagna è il frutto di un processo di elaborazione complicato, giocato sull’equilibrio e la complicità tra azienda committente e agenzia. Il risultato è il frutto di un compromesso, anzi di molti compromessi, a volte al rialzo, a volte al ribasso. Solo dall’interno si possono conoscere le strategie dell’azienda, i suoi veri obiettivi, i dati di mercato che guidano le scelte. Il giudizio di un esterno è per sua natura basato solo su valutazioni astratte e di principio; è, per cosí dire, puro.

La seconda controindicazione nasce dal fatto che il modo in cui un’azienda comunica è visibile attraverso le sue campagne pubblicitarie e le azioni sui social, mentre restano sottotraccia altre modalità comunicative – con i partner, con i fornitori, con le altre aziende, con i dipendenti e anche con i media – che sono piú difficili da valutare nella loro interezza.

Tenendo in mente queste limitazioni, e senza voler valutare la capacità creativa di agenzie e aziende, o la loro professionalità nell’intendere e nello sviluppare la comunicazione verso i pubblici di riferimento, si possono tuttavia impostare alcune osservazioni sulle politiche della comunicazione.

L’Italia sul Piave

Una cattiva, stucchevole – ma non necessariamente falsa – narrazione vuole l’Italia capace di mostrare il proprio valore solo quando si trova sull’orlo del precipizio e, data da tutti per spacciata, come per miracolo scopre lo spirito nazionale, attiva il genio italico, fa nascere eroi indomiti. Il popolo si affida – eccezionalmente senza

La comunicazione ha pensato di cavalcare quel patriottismo inatteso con l’idea che fosse socialmente utile dare un supporto psicologico agli italiani, far sentire loro la vicinanza del mondo della produzione.

remore – ai suoi condottieri e tutto finisce bene. È una narrazione che interessa gli ambiti piú diversi, dalla politica, alla guerra, al calcio. L’archetipo narrativo, naturalmente, è Caporetto, e il motto “Tutta l’Italia è sul Piave” che ricompattò il Paese fino a quel momento diviso tra interventisti di destra, interventisti di sinistra, interventisti per ragioni affaristiche, neutralisti pacifisti, neutralisti rivoluzionari, neutralisti per paura. Gli eroi indomiti in qual caso furono gli Arditi.

Attraverso la stessa narrazione ci siamo raccontati anche eventi meno nobili ma investiti di uguale pathos: le nazionali del ’70, dell’82 e del 2006, che non dovevano neppure superare le qualificazioni, tra litigi, rivalità, polemiche, Mazzola e Rivera, calciopoli, le scommesse. Poi invece arrivò la finale e, in due casi, persino la vittoria. Con i Tardelli, i Boninsegna, i Paolo Rossi, i Fabio Grosso pronti a diventare indomiti eroi per caso.

Era troppo sperare che l’emergenza sanitaria per una malattia di cui nessuno sapeva e capiva nulla generasse un paradigma comunicativo differente? Evidentemente sí, era troppo. La comunicazione commerciale – prodotta cioè da marchi e aziende il cui obiettivo finale è vendere – non si è sottratta alla banalità dell’“Italia è sul Piave”. Quindi, un profluvio di spot e paginate inneggianti al valore italico che si mette in mostra solo a un passo dal baratro, e tanta retorica su quanto siamo bravi, uniti, disciplinati nei momenti estremi. Il tutto naturalmente avvolto nel tricolore, dai palazzi illuminati ad hoc, ai loghi rivisitati in bianco rosso e verde, fino alle scie delle Frecce tricolore. Anche in questo caso gli eroi indomiti non sono mancati: medici, infermieri, volontari.

Era di questo che avevamo bisogno? In effetti, nella primissima fase della “chiusura” c’è stato il fenomeno spontaneo (alimentato dai media)

della gente sui balconi che cantava l’Inno di Mameli; la comunicazione ha pensato di cavalcare quel patriottismo inatteso con l’idea che fosse socialmente utile dare un supporto psicologico agli italiani, far sentire loro la vicinanza del mondo della produzione. Eppure, mentre il “popolo dei balconi” si è stancato presto di quell’esibizione di amor patrio, la comunicazione non ha trovato una forma migliore per esprimere la propria partecipazione al dramma collettivo. Incapacità, mancanza di creatività? No, non credo. Un noto pubblicitario mi ha fatto notare che la pubblicità (usiamo questa semplificazione) si basa sul gioco di parole, sul ribaltamento provocatorio del senso comune, sullo sberleffo, sull’esagerazione; tecniche che mal si conciliavano con il dramma che si stava vivendo. A parte il fatto che non vedo molta ironia né molta provocazione nelle campagne prima e dopo il Covid-19, penso che il problema debba essere ricondotto a una crisi piú generale della comunicazione. E se non a una crisi, almeno a un cambiamento piuttosto radicale nell’approccio alla comunicazione. La creatività ha spesso anticipato modi di vivere, costumi, atteggiamenti che solo con il tempo sarebbero diventati senso comune: basti pensare a una campagna brutta ma efficace come quella della “Milano da bere”. Nessuno prima di quella campagna aveva percepito e raccontato il cambiamento di Milano negli anni ottanta, c’era voluto uno spot per renderlo evidente. Allo stesso modo, in anni piú recenti, è stata la pubblicità a parlare precocemente di famiglie “non tradizionali”, di rapporti di coppia plurali, assai prima che si imponesse il politicamente corretto. Per non parlare dei primissimi anni sessanta, quando Carosello raccontava stili di vita che nelle case degli italiani non erano ancora arrivati. Oggi la forza anticipatrice, per certi aspetti visionaria, della comunicazione si è affievolita fino quasi a scomparire.

Ma anche in questo caso sarebbe sciocco ricondurre tutto alle minori capacità dei giovani crea-

Cosa si aspettavano gli italiani dal mondo della produzione? Patriottismo e mielosa solidarietà? Se si aspettavano questo, questo hanno avuto.

tivi. Ovviamente non è cosí. Come sempre nella comunicazione, il problema è di strategia e di contenuti. Quasi mai di esecuzione.

Covid-19 e strategia di comunicazione

Il nodo quindi è ciò che si vuol dire o che si è in grado di dire. Per tornare all’emergenza Covid-19: cosa si aspettavano gli italiani dal mondo della produzione? Patriottismo e mielosa solidarietà? Se si aspettavano questo, questo hanno avuto. Non hanno avuto invece prospettive, idee, soluzioni, chiarezza. Mentre da un lato in TV e sulle pagine dei giornali comparivano le campagne di cui si è detto, e rimbalzava ovunque il semplicistico slogan “andrà tutto bene”, nei luoghi delle decisioni le stesse aziende (o le loro rappresentanze) chiedevano libertà di licenziamento e sussidi, cioè denaro pubblico per sostenere l’impresa privata: non esattamente quello che potremmo definire un buon esempio di solidarietà, giuste o meno che fossero le richieste. Insomma, il mondo dell’impresa non è stato portatore di una visione coraggiosa, motore primo di una buona comunicazione. È questo, penso, il dato piú deludente: in un momento in cui il Paese aveva bisogno di propulsione, di spinta, di intelligenza non corporativa, le categorie sociali che questo sforzo dovrebbero esprimere di piú e meglio (non solo l’impresa, anche i sindacati, le associazioni, la tanto spesso invocata “società civile”) non hanno saputo liberarsi da una mediocre logica corporativa e questuante.

Insomma, il mondo dell’impresa – committente della comunicazione – non aveva molto da dire. Questa afasia diventa ancora piú evidente se ci si chiede quanto e cosa, con quanta chiarezza e senso di prospettiva, hanno comunicato le imprese italiane al proprio interno. Temo assai poco. Del resto, il tessuto imprenditoriale italiano è costituito in larghissima parte da medie e piccole imprese per le quali, si sa, la comunicazione interna si limita nella maggior parte dei casi a qualche ordine di servizio. Al contrario, se un insegnamento è venuto forte e chiaro da questo periodo difficile, riguarda proprio l’importanza della comunicazione interna: il lavoro da remoto – dove ognuno è una monade isolata – tende nel tempo a perdere senso ed energia. Spetterebbe proprio alla comunicazione ricostruire in virtuale il tessuto connettivo distrutto o indebolito dalla distanza fisica. Su questo credo ci sia necessità di lavorare parecchio, aziende e agenzie, perché buoni progetti di comunicazione interna non restino appannaggio di pochi grandi player ma diventino cultura diffusa delle imprese italiane.

Le istituzioni

Criticare il modo in cui le istituzioni locali e centrali hanno comunicato durante il Covid-19 è diventato uno dei piú praticati sport nazionali: confusione, drammaticità, mancanza di coordinamento le accuse piú blande. Tutte giuste. Ma anche in questo caso può valere la pena andare al di là del dato immediato. Confusione, certo: governo e regioni hanno spesso mandato messaggi reciprocamente contraddittori. Hanno organizzato conferenze stampa concomitanti, quasi a farsi concorrenza. Ma forse il problema in questo caso riguarda meno la comunicazione e piú la struttura di governo. Che le regioni abbiano una forte autonomia (e continuino a rivendicarne) è un fatto. Che tale autonomia sia quasi totale per quanto riguarda la sanità è un altro fatto. Come sarebbe stato possibile, quindi, immaginare un coordinamento unico della comunicazione? Quest’ultima non prescinde mai dalla struttura e dagli interessi di chi la attua. In fondo, dobbiamo rallegrarci di essere stati sommersi dalla comunicazione e dall’informazione, anche quando è stata sgradevole, confusa e drammatizzante: nel 1918 i quotidiani italiani diedero la prima notizia ufficiale sull’esistenza della Spagnola sei mesi dopo il suo arrivo, in concomitanza della seconda, tremenda, ondata.

Appello conclusivo

Anche il linguaggio conta: non solo cosa si dice, ma come lo si dice. Per fare un solo esempio: anziché parlare di “distanziamento sociale”, avremmo potuto adottare l’espressione “distanziamento sanitario”. La seconda indica con maggiore chiarezza una necessità specifica e momentanea. La prima ha invece un sapore totalizzante, indica una prospettiva di lungo periodo, una scelta di vita “a-sociale”, quindi autoritaria e definitiva. Le parole sono importanti. E chi meglio di noi che ci occupiamo di parole dovrebbe saperlo? ◊

This article is from: