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L’abisso americano

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Ultimo tratto

Ultimo tratto

Ho scelto di leggere soltanto maschi bianchi, perché l’abisso si racconti dal di dentro. Cormac McCarthy, John Steinbeck, Philip Roth e Jonathan Franzen. È una scelta certamente discutibile e so che qualcuno me la può rimproverare. Me la rimprovero io stesso, ma poi mi giustifico con una ragione molto personale: sono maschio bianco e senescente. So di cosa sto parlando. L’abisso americano

Testo Franco Berardi Bifo Immagini Laura Alandes

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Il disfarsi degli Stati Uniti

Il filo principale degli ultimi vent’anni della storia del mondo è la lenta disgregazione della potenza americana. L’undici settembre 2001 è il punto di partenza di questo processo. La forza militare di gran lunga piú potente di tutti i tempi appariva ed era indistruttibile. Il solo modo di distruggerla era spingere il gigante contro se stesso. Questa è la strategia che seguí Osama bin Laden. Sotto la direzione poco intelligente di George Bush e Dick Cheney il gigante entrò in un processo di autodistruzione. La disfatta afghana e quella irachena provocarono demoralizzazione e furia nel cervello bianco americano.

Salman Rushdie racconta questa furia autodistruttiva nel profetico romanzo Fury pubblicato nel 2001. Poi venne il collasso finanziario del 2008, e un presidente nero alla Casa Bianca. Barack Obama presidente fu uno shock per l’istinto suprematista radicato nella storia americana e nella psiche dell’uomo bianco. L’ascesa di Trump è la reazione della società bianca a una lunga lista di umiliazioni: disfatta nelle due guerre di Bush, impoverimento della classe media seguito alla crisi del 2008, e alla fine un elegante colto presidente nero. Quattro anni di trumpismo hanno fatto avanzare rapidamente il processo di disgregazione dello Stato, e il processo si avvicinava al compimento quando nel 2020 è esplosa la pandemia. Cosa accadrà dopo? Naturalmente non lo so, ma mi limito a osservare che dopo una serie di rovesci politici Trump appare sempre di piú come il leader del popolo del secondo emendamento, cioè dei bianchi armati, che non sono un’esigua minoranza, ma una quota decisiva della popolazione.

In maggio abbiamo assistito alla diffusione della rivolta nera in molte città, mentre un gruppo di trumpisti armati entrava dentro il palazzo del governo del Michigan. In un articolo di Roger Cohen intitolato The Masked versus the Unmasked, pubblicato dal “New York Times”, possiamo cogliere la percezione di un precipitare che si è fatto quasi inarrestabile: “Un vicino di casa in Colorado mi ha detto che per i liberali è giunto il momento di prendere le armi. Quelli sono armati e non si fermeranno davanti a niente. Cosa potremo dire ai nostri nipoti? Che abbiamo provato a resistere con le parole, ma che loro avevano i fucili?”.

Cohen aggiunge subito che non è d’accordo con il suo vicino, e che la democrazia americana non è come la democrazia ungherese. Ma io non sono tanto sicuro che il suo ottimismo sia fondato, anzi penso che la democrazia americana sia molto piú profondamente corrotta di quella ungherese, essendo l’espressione di processi storici che includono anche la tentazione genocida, la deportazione, la schiavitú, la violenza. La democrazia americana è stata un falso fin dal principio, fin da quando i proprietari di schiavi che scrissero la dichiarazione di indipendenza si fermarono a considerare la possibilità di scrivere qualcosa a proposito del problema della schiavitú, poi decisero di rimandare.

Non dovremmo credere che Trump sia una stranezza un po’ funky dello spirito americano, o l’eccezione in un paese di gente ragionevole: Trump è l’espressione dell’anima bianca il cui inconscio è infestato dal senso di colpa, e quindi dal desiderio di vendetta. Grazie alla sua ignoranza e alla sua abiezione morale Donald Trump rappresenta una delle anime piú profonde di un popolo che – nel passato – ha potuto tollerare i crimini contro le popolazioni native, gli abusi su milioni di neri, Hiroshima e Nagasaki, gli attacchi e le ingerenze nei confronti di Stati sovrani, soprattutto in America Latina. Non ci sono usa alternativi come pensammo negli anni sessanta e settanta. Ci sono milioni di donne e di uomini che hanno subito la violenza dell’America e a un certo punto, tra gli anni sessanta e settanta, tentarono di riformare il Paese. Fallirono, e i loro sforzi furono inghiottiti da un buco nero.

Osama bin Laden è riuscito nel suo progetto di spingere la piú grande potenza militare di tutti i tempi contro se stessa. La provocazione del 2001 costrinse il gigante a fare la guerra contro

La gloria della colonizzazione del West è raccontata qui come un vagabondaggio nebbioso tra violenza, paura e abiezione, un resoconto delle origini della storia americana

il caos, ma chiunque faccia la guerra al caos è destinato alla sconfitta perché il caos si alimenta della guerra. Bush e Cheney non lo sapevano e si infilarono nella trappola.

Grazie alla loro stupidità ora cominciamo a vedere che il crollo del gigante si profila all’orizzonte. Fin da quando nel 1992, al primo summit sul clima di Rio de Janeiro, George Bush senior disse che il tenore di vita degli americani non è oggetto di trattative fu chiaro che nel futuro del pianeta c’era una contraddizione insanabile: l’idea di sviluppo della quale gli Stati Uniti si facevano garanti rischiava di distruggere il pianeta.

Le tracce di questo futuro probabile le troviamo nella coscienza letteraria.

Avrei voluto parlare dei libri di Joyce Carol Oates, particolarmente di A Book of American Martyrs, o della straordinaria premonizione di Octavia Butler che negli anni ottanta del secolo passato, in Parable of the Sower, descrive una perfetta distopia in cui l’empatia col dolore dell’altro è considerata come una malattia.

Ho scelto invece di leggere soltanto maschi bianchi, perché l’abisso si racconti dal di dentro. Cormac McCarthy, John Steinbeck, Philip Roth e Jonathan Franzen. È una scelta certamente discutibile e so che qualcuno me la può rimproverare. Me la rimprovero io stesso, ma poi mi giustifico con una ragione molto personale: sono maschio bianco e senescente.

So di cosa sto parlando.

Il buio dentro

Il secondo romanzo di Cormac McCarthy, pubblicato nel 1968 col titolo Outer Dark, è un viaggio metaforico verso l’anima originaria dell’America bianca. Il tempo e il luogo della storia sono nebulosi: desolazione, assenza di ogni riferimento storico, senso pervasivo di un offuscamento mentale.

In qualche posto dalle parti dell’Appalachia, intorno al passaggio tra xix e xx secolo, una donna che si chiama Rinty partorisce il figlio di suo fratello. Il fratello, Culla, lascia il bambino senza nome nei boschi perché muoia, poi dice alla sorella che il bambino è morto per cause naturali. La donna non gli crede e va fuori, nel buio, alla ricerca del figlio.

“I bambini del Regno saranno lasciati nel buio là fuori: e ci saranno pianti e stridore di denti”, dice il Vangelo di Matteo. La presenza ossessiva del Dio biblico disegna ombre di colpa che ossessionano i personaggi del racconto, nessuna coscienza emerge dalle loro azioni né dalle loro parole.

Dopo aver abbandonato il bambino, Culla vaga ramingo, trova un lavoro e delle armi, uccide qualcuno, poi fugge, come in un incubo. L’episodio finale è il piú assurdo e il piú spaventoso. Culla cade in un fiume, si rompe una gamba, e quando esce dal fiume incontra tre uomini che lo

Laura Alandes è una fotografa originaria di Valencia che vive e lavora a New York.

hanno seguito. Portano con loro suo figlio, il bambino che Culla ha abbandonato nel bosco. Il bambino è orribilmente ferito, è privo di un occhio. I tre uomini accusano Culla di esserne il padre, poi uno dei tre uomini uccide il bambino.

La conclusione è circondata da una luce surrealista di follia: sopravvissuto alle sue avventure, Culla diviene amico di un cieco, lo vede camminare verso una palude dove può morire. Il romanzo si conclude con le parole che Culla dice fra sé: “Qualcuno dovrebbe dire a quel cieco dove sta andando”.

La gloria della colonizzazione del West è raccontata qui come un vagabondaggio nebbioso tra violenza, paura e abiezione, un resoconto delle origini della storia americana.

Furore

Dall’incubo alla realtà, dalla narrazione mitologica e allucinata di Cormac McCarthy alla narrazione storica di John Steinbeck. “Zerohedge” è una rivista nazional-operaista che esprime la visione del suprematismo antiglobalista della classe operaia bianca americana. Poiché sono un lettore assiduo di questa rivista ripugnante e utilissima mi ha colpito un articolo di Wayne Allensworth, dal titolo The Old America Is Dead: Three Scenarios for the Way Forward, che fa riferimento al film che nel 1939 John Ford trasse dal romanzo di Steinbeck The Grapes of Wrath, Furore nella traduzione italiana. Cacciato dalla terra che da tre generazioni appartiene alla sua famiglia, Muley affronta il bulldozer che viene a demolire la sua casa imbracciando un fucile. Sono gli anni della Depressione: in conseguenza del loro indebitamento e del contesto finanziario che non sono in grado di comprendere, una comunità di lavoratori agricoli dell’Oklahoma riceve la visita degli sgherri del padrone che li avvertono: dovete andarvene da questa terra. “Alcuni degli uomini del padrone erano gentili perché odiavano quel che stavano facendo, altri erano arrabbiati perché detestavano essere crudeli, ma tutti sapevano di essere presi in qualcosa piú grande di loro. Alcuni di loro odiavano la matematica che li aveva condotti lí, alcuni erano spaventati, alcuni invece adoravano quella matematica perché forniva un rifugio dal pensiero e dal sentimento. […] Quando il mostro smette di crescere, muore. Non può rimanere delle stesse dimensioni”, scrive Steinbeck.

La dolorosa impotenza dei lavoratori di fronte al mostro del capitalismo finanziario torna di attualità oggi mentre la pandemia riporta allo scenario della Depressione.

“Alla fine gli uomini del padrone vennero al punto: ‘Il sistema della mezzadria non funziona piú. Un uomo su un trattore può sostituire dodici o quattordici famiglie. Gli paghiamo un salario e produce tutto il raccolto. Siamo costretti a farlo. Non ci piace, ma il mostro è ammalato’.

I mezzadri siedono per terra mentre l’avvocato sta parlando e infine dice: ‘Ve ne dovete an-

dare dalla terra’. Gli uomini seduti si alzarono incazzandosi. ‘Mio nonno ha preso questa terra, ha dovuto uccidere gli indiani e cacciarli via di qui. Mio padre è nato qui, ha ucciso i serpenti e strappato le erbacce. Poi è venuto un anno cattivo e siamo stati costretti a prendere il denaro in prestito.Noi siamo nati qui. Papà ha dovuto prendere altro denaro in prestito. E a quel punto la banca aveva la proprietà della terra, ma noi stavamo qui e prendevamo una parte di quel che potevamo raccogliere’.

Ma gli uomini del padrone sono inflessibili, e il mezzadro gridò: ‘Mio nonno ha ucciso gli indiani, mio padre ha ucciso i serpenti, noi possiamo uccidere le banche, che sono peggio degli indiani e dei serpenti […]’.

Gli uomini del padrone si arrabbiano. ‘Dovete andarvene’.

‘Prenderemo le nostre carabine, come il nonno quando arrivarono gli indiani. E poi? E allora verrà prima lo sceriffo, poi verranno i soldati… il mostro non è umano, ma può fare quel che vuole degli esseri umani…’.”

Questo sentimento e questa mitologia spiegano cosa fa la forza di Trump: i bianchi che hanno conquistato la terra, e per colonizzarla hanno dovuto uccidere gli indiani, sono sotto minaccia per colpa del globalismo liberale. Trump è la loro arma contro la minaccia globalista. Il popolo del secondo emendamento ha ora l’ultima opportunità di salvare il proprio predominio sociale: questa opportunità è Trump, sostiene Wayne Allensworth. “Il nostro popolo, la nostra cultura, la nostra storia, tutto quel che abbiamo caro, oggi subisce l’attacco dei media mainstream, dei politici, degli attivisti e dei magistrati, aiutati e sostenuti dai nemici interni, che spesso sono nostri figli e nostri amici, ma hanno interiorizzato la calunnia sinistrorsa del sangue, la narrazione di un’America irrimediabilmente razzista che deve essere rasa al suolo. Fino a poco tempo fa il blob globalista non aveva fatto i conti con la Nazione Storica Americana che si è ora alzata in piedi. Poi è stato eletto presidente Donald Trump. Il blob fu scioccato. Usando il virus cinese e le rivolte come copertura, il blob e la sua ala militante, Antifa e Black Lives Matter, hanno portato a nuovi livelli l’anarco-tirannia”.

La mitologia suprematista sostenuta da un esercito di bianchi armati ha radici profonde. L’articolo si conclude poi con un incitamento aperto a preparare la guerra civile: “Se noi facciamo affidamento soltanto sulla politica elettorale perderemo, soprattutto perché si sta chiudendo il cerchio demografico, i vincitori non ci daranno tregua. La vita politica che abbiamo conosciuto in passato è finita. L’America in cui siamo cresciuti e che amavamo è morta. Le elezioni sono al piú un’azione di resistenza. Ma sembra improbabile che Trump, o chiunque altro, possa per esempio deportare e spingere all’autodeportazione decine di milioni di alieni illegali, anche se può desiderarlo”.

Trump non può fare da solo tutto il lavoro, dicono i suprematisti. Dobbiamo prendere le armi e fare il lavoro con lui: deportare decine di milioni di immigranti illegali. Lo abbiamo fatto quando massacrammo gli indiani. Dobbiamo farlo di nuovo. Follia? Certo, ma è proprio questo che i politologi non sono in grado di capire: che solo la follia può comprendere un mondo totalmente fuori controllo.

E che succede se Trump perde le elezioni di novembre?, si chiede Allensworth. La riposta è questa: “Se Trump perde, il blob trionfa. Ma poiché questa non è una nazione, adesso, ma solo un paese, privo di un senso comune, di una fede e di una lingua, solo uno stato di polizia può tenerlo insieme. Ma questo non potrà assicurare l’ordine nel caos della post-America, e il numero decrescente di bianchi non godrà certamente della protezione di quello Stato. I bianchi americani potranno trovarsi nella condizione dei bianchi sudafricani, costretti a temere continuamente per la loro vita.

Ma c’è una buona notizia: i bianchi hanno imparato come comportarsi quando i tumulti minacciano le loro case e la loro storia”.

Questo Paese è spaventoso Dagli anni della Depressione agli anni sessanta, alle rivolte nere e alla contestazione universitaria. In Pastorale americana Philip Roth mette in scena la tragedia di un uomo che è cresciuto come un sonnambulo credendo nei valori del sogno americano, fin quando è costretto a riconoscere la realtà: un crollo che colpisce la sua famiglia, il Paese e il mondo intero. Lo chiamano lo Svedese, ma è un giovane ebreo del New Jersey: un ragazzo modello, alto, bello, studioso, buon giocatore di baseball. Siamo negli anni cinquanta e la vita per lui si presenta gloriosa e felice. Sposa Miss New Jersey, hanno una figlia, Merry. Merry è affetta da una pronunciata forma di balbuzie. Non c’è modo di curare questo suo difetto, questa macchia angosciosa nella perfetta gioia della famiglia che si affaccia sul decennio sessanta. Poi Merry vede alla TV un monaco che si cosparge di benzina e si dà fuoco, rimanendo immobile in mezzo alla fiamma fin quando non cade come un pezzo di legno. È cosí che la realtà si apre un varco nel giardino incantato del sogno americano dello Svedese. Scoppiano le rivolte nere, Watts e Newark in fiamme. Lo Svedese protegge la sua fabbrica di guanti, tutto nel quartiere sta cambiando. Non è piú il giardino incantato, lindo come uno spot pubblicitario, c’è sangue, paura. E soprattutto Merry è come impazzita. Non torna a casa la sera, frequenta amici pericolosi, comunisti, anarchici.

Poi la tragedia esplode, e non ci sarà mai piú modo di rimediare.

Merry diventa un’assassina, Merry ha messo la bomba che ha ucciso un povero passante, un medico ben voluto in città, Merry è latitante, è fuggita, Merry non tornerà piú, sua madre ha un crollo nervoso. Merry si rifugia in un quartiere

Nessuno avrebbe immaginato che gli Stati Uniti sarebbero potuti finire come stanno finendo. L’America, malattia terminale del genere umano, si sta sbriciolando.

non lontano. Accetta di vedere lo Svedese. Merry è magrissima, sporca, rovinata. Merry è stata violentata. Il mondo dello Svedese è crollato, telefona al fratello, gli dice di Merry, gli dice che nulla è come aveva creduto.

“‘Tu non hai idea di cosa sia questo paese. (…) Questo paese è spaventoso’. (…) A quarantasei anni di età lo Svedese si accorse del fatto che siamo tutti alla mercede di qualcosa di demente. È solo questione di tempo…”

Ecco: credo proprio che il tempo è venuto.

Nessuno avrebbe immaginato che gli Stati Uniti sarebbero potuti finire come stanno finendo: il numero dei morti per coronavirus cresce ogni giorno, il sistema sanitario cura solo chi ha soldi. L’ennesimo omicidio per strangolamento, l’esplosione delle proteste, la nuova violenza poliziesca, e l’invio delle truppe a Portland. Gli appelli al popolo del secondo emendamento, e le file di cittadini che comprano armi al supermercato. L’America, malattia terminale del genere umano, si sta sbriciolando.

Marasma

“La follia del fronte freddo che attraversa una prateria d’autunno. Una raffica di disordine dopo l’altra […] l’intera nordica religione delle cose si avvicinava alla fine”.

È l’incipit del libro che segna il passaggio al secolo della rapida disintegrazione, prima di tutto disintegrazione del cervello umano: The Corrections, di Jonathan Franzen.

“Alfred mancava del cumquibus neurologico”.

Alfred Lambert è padre di tre figli che hanno tra i trenta e i quarant’anni, ed è il marito di Enid. Enid sull’orlo di una depressione scopre la magia degli antidepressivi chimici, mentre Alfred vacilla sull’orlo della demenza. Il mondo diviene sempre meno comprensibile, ogni oggetto si fa scivoloso e sempre piú difficile da afferrare, e le azioni si fanno confuse, gli oggetti perdono il loro senso, la loro connotazione funzionale. La realtà è diventata incomprensibile non soltanto per la degradazione neurochimica, ma anche per la trasformazione dell’ambiente circostante.

“Un uomo di colore fa un pompino a un uomo bianco, la telecamera gira intorno al fianco sinistro […] Scaricò l’immagine e la guardò ad alta risoluzione. […] E c’era una importante domanda cui voleva trovare risposta. Presto sarebbero arrivati i suoi figli. Gary e Denise e forse anche Chip, il suo figlio intellettuale. E forse Chip avrebbe potuto rispondere a quella importante domanda.

E la domanda era... la domanda era...”.

Il marasma è una condizione di estrema dissociazione del flusso cerebrale e dell’universo circostante: si verifica quando il sistema nervoso comincia a perdere l’integrazione necessaria per elaborare gli impulsi semiotici e quelli naturali. Molti segni nella situazione americana conducono verso una diagnosi politica: il cervello americano è in condizioni di marasma.

Un marasma politico ma soprattutto psichico. La percezione di una vertigine apocalittica, quindi, non nasce soltanto dalla resa dei conti con la lunga storia di violenza razziale e sessuale, di inquinamento industriale e psichico, e di supersfruttamento economico, ma anche dalla degradazione neurologica senile e dall’impotenza.

Nel film Nebraska di Alexander Payne (2013), un ufficiale di polizia scopre il vecchio Woody Grant che cammina lungo l’autostrada. Lo prende con sé e chiama il figlio David, cui il padre dice che vuole andare a Lincoln, Nebraska, per ricevere un milione di dollari che crede di avere vinto in una lotteria. Quando David vede il biglietto della presunta vincita capisce che si tratta di un messaggio pubblicitario per convincere qualche fesso a comprare qualcosa. È una storia struggente, ed è lo specchio di una popolazione (la maggioranza degli americani bianchi) cresciuta con false mitologie di superiorità e nutrita da un cibo orribile (in senso fisico e spirituale) e adesso, come nell’ultima scena di Outer Dark, sta camminando come un gruppo di ciechi sonnambuli verso le sabbie mobili, senza abbandonare la certezza della propria superiorità. ◊

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