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Kafka-Hag

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Ultimo tratto

Ultimo tratto

di Guido Vitiello

“se le dico irlanda, cosa le viene in mente? Mi elenchi quattro, cinque parole al massimo”. Ecco, a questa proprio non ero preparato. E dire che ne avevo fatte di congetture, anche delle piú azzardose. L’annuncio sulla pagina delle offerte di lavoro, del resto, era piuttosto criptico. “Centro Studi Aura”, c’era scritto – e io avrei pensato subito a qualche balordaggine parapsicologica, non fosse stato per quell’elenco incongruo di requisiti: laurea in lettere o filosofia, buona conoscenza del tedesco, talento nell’affabulazione e nella falsificazione. Quest’ultima, poi. Pensai a una burla, forse perché nella pagina a fronte c’era un articolo – l’ennesimo, in quell’estate del 1984 – sui falsi Modigliani di Livorno che stavano abbindolando fior di critici e storici dell’arte. Il tedesco a dire il vero lo sapevo poco e male, e mi ero fatto aiutare da un amico seminarista per decifrare quel tanto di Walter Benjamin che serviva alla mia tesi su certe avanguardie artistiche del secondo dopoguerra, tesi che per inciso non avevo terminato e, va da sé, neppure discusso. Insomma, a rigore i requisiti mi mancavano tutti, ma la parola “aura” mi era filosoficamente familiare, e tempo da perdere ne avevo, tanto piú che l’annuncio, a differenza degli altri che affollavano il taglio basso di quel giornale locale, ai perditempo non raccomandava di astenersi. Cosí presi un appuntamento e mi presentai nel luogo concordato, che avrebbe, questo sí, dovuto insospettirmi – una porticina ritagliata in una parete rugosa e abbacinata dal sole, davanti a uno spiazzo di terra battuta, in una periferia che non era ancora campagna ma di certo non era piú città.

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E cosí, eccomi davanti a quell’uomo in gilè e alla sua misteriosa domanda sull’Irlanda, che disarcionò tutte le mie congetture. Era dunque una seduta psicoanalitica? Un abboccamento di qualche scuola di self-help? L’avamposto di una nuova sezione provinciale di Scientology, di cui anche in Italia da qualche anno si era cominciato a parlare? E allora perché quegli strani requisiti? L’uomo in gilè sfilò dal taschino un grosso orologio a cipolla che pareva un cimelio del primo ottocento, e ricordo che il gesto mi stupí, perché al polso aveva uno Swatch trasparente che spuntava sotto le maniche arrotolate. Capii che il mio tempo era finito e che dovevo rispondere. Tra l’immediatezza e la voglia di far bella figura scelsi una via di mezzo che inclinava alla seconda, e attaccai cosí: “Shamrock, fiume Liffey, rognoni di castrato, Oscar Wilde, Flann O’ Brian” (misi l’accento su quest’ultimo, era il mio pezzo forte: all’epoca non era uno scrittore cosí noto). L’uomo in gilè non sembrò impressionato, si limitò a scribacchiare qualcosa. “E se le dico Spagna?”, rilanciò. “Vediamo…” (qui mi sentivo piú ferrato, e poi ci avevo preso gusto) “Escorial, Zurbarán, gazpacho, guerra civile, Siglo de Oro”, risposi spigliato. Mi fissò per qualche secondo con occhi vitrei, e un sorriso tra la commiserazione e la beffa. Ma in che razza di posto ero finito? Diede un nuovo sguardo all’orologio da tasca, posò i gomiti su un tavolaccio che sarebbe stato temerario chiamare scrivania, giunse le mani come per intimare il silenzio e cominciò un discorso che non avrei piú dimenticato. “Vede, per creare Aura mi sono dimesso dall’agenzia turistica che io stesso avevo fondato vent’anni fa, e che, le dirò, faceva buoni affari”. “Capisco”, lo interruppi con prematura familiarità, “il richiamo degli studi per alcuni è irresistibile, cova per anni, e poi…”. “No, aspetti, aspetti”. Capii che da lí in poi avrei fatto meglio a tacere. Da una cartellina sfilò alcuni fogli che parevano tavole parolibere futuriste. “Osservi questi diagrammi. Ho fatto per anni ai miei clienti le due stesse domande che ho fatto a lei; le parole segnate a caratteri piú grandi sono le risposte piú frequenti”. Intorno a Spagna lessi: passione, sole, paella, flamenco,

corrida; intorno a Irlanda: birra, pecore, maltempo, San Patrizio, Ira. “Per questa ragione le agenzie turistiche infarciscono i loro dépliant di cose del genere. La sanno piú lunga di quanto crede sulla natura umana. Sanno per esempio che alla nostra specie, salvo eccezioni, non piace affatto viaggiare, se non per ritrovare il noto nell’ignoto, e dunque uccidere nella culla ogni possibile esperienza. Sanno che l’essenza del turismo è il bovarismo, e che nulla commuove Madame Bovary piú delle lettere artefatte di Rodolphe. Lei è un ragazzo di buone letture, e penserà che questi diagrammi siano solo un guazzabuglio di cliché; scommetto che non spenderebbe mai una lira per un viaggio in Spagna in cui le rifilassero il flamenco e la paella. Le sembrerebbe – dico bene? – inautentico. Già, Jargon der Eigentlichkeit” (ammiccò, confidando nel mio millantato tedesco). “Insomma, un modo tortuoso e costoso per finire nel vecchio padiglione di un’esposizione universale, o in un casinò a tema di Las Vegas. Eppure – non se ne abbia a male – anche i suoi sono cliché; semplicemente, sono cliché di secondo grado. E a noi il suo profilo interessa, perché pensiamo che sia il profilo del turista futuro”. Pensiamo? Guardai la parete spoglia alle sue spalle: pensiamo chi, se era solo come un prete all’altare in quella specie di casa colonica scalcinata? “Negli ultimi anni i clienti, soprattutto i piú giovani, venivano in agenzia a chiedermi viaggi autentici, esperienze autentiche. Tutto, dicevano, ma non vogliamo ritrovarci nei posti dove vanno i turisti, mangiare nei ristoranti dove mangiano i turisti, sgomitare davanti alle attrazioni per turisti. Vogliamo andare dove va la gente del posto, fare la loro vita. Tradotto nei termini del nostro Benjamin: vogliamo l’aura – sí, proprio quel sigillo di autenticità e di unicità che è svaporato dal viaggio nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, che è poi l’altro nome del turismo. Ebbene, è proprio quest’aura che voglio produrre e vendere. Ma mi serve un socio. Il centro studi è solo la prima cellula di una futura agenzia dedicata ai turisti che disprezzano il turismo: saremo i loro smancerosi Rodolphe per un bovarismo meno grossolano di quello che vagheggia ballerine di flamenco e pub irlandesi. Le ho già detto che l’agente di viaggio la sa lunga sugli uomini, al pari del chierico piú devotamente cinico; ebbene, sappiamo che quell’aura che i nuovi Wanderer vanno cercando non esiste piú, anzi, che non è mai esistita; ma proprio come i chierici – la pia fraus, ricorda? – sappiamo anche che per il bene dell’uomo, per rendere la vita vivibile, dobbiamo proteggere questa chimera. La mia nuova agenzia allestirà, con tutti i mezzi teatrali e illusionistici del caso, esperienze autentiche contraffatte per viaggiatori che non vogliono piú confondersi con i turisti. E non sospetteranno nulla, creda a me. Li manderemo in Messico, e vedranno le facce indurite dei campesinos di Graham Greene. A Long Island avvertiranno quell’indefinibile sapore di Fitzgerald e di età del jazz. E cosí via. Ma saranno i nostri falsari – scenografi, comparse, attrezzisti – a fornirgliela segretamente, e a caro prezzo. Che ne dice, si arruola?”.

Per la prima e ultima volta in vita mia, fui io a congedarmi da un colloquio di lavoro con la frase: le faremo sapere. Ma non gli feci sapere un bel nulla. Diventare socio di un signore spiritato con due orologi di due secoli diversi sarebbe stato troppo temerario perfino per il ventenne sbalestrato che ero. Oggi, però, mentre pasteggio con i miei rognoni di castrato e una birra scura in una sperduta bettola dublinese, tra facce che avrebbero potuto popolare una giornata qualunque di Leopold Bloom, mi sorprendo a pensare che forse l’uomo in gilè, da qualche parte dietro le quinte, sta ridendo alle mie spalle.

Certo è che mi sento un cretino. ◊

Ennio Flaiano nominava Kafka-Hag gli imitatori decaffeinati di Kafka, ma i fondi del caffè restano sempre uno strumento prezioso per capire cosa accade attorno alla tazza, nell’universo.

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