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L’utopia dello spazio

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Ultimo tratto

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L’utopia dello spazio: ridefinire le relazioni

Dialogo con Stefan Kaegi a cura di Giacomo Pedini Immagini Rimini Protokoll

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Nei mesi reclusi in casa ci siamo tenuti in contatto attraverso decine di software. Eppure nei Pirenei, dove Relazioni: ha raggiunto Stefan Kaegi, il telefono fa cilecca. Per qualche giorno si è rifugiato lí, il regista e autore dei Rimini Protokoll che, con Helgard Kim Haug e Daniel Wetzel, inventa performance sorprendenti in giro per il mondo, da Berlino a Shanghai e ritorno (via Vancouver). Molti loro progetti teatrali sono senza “attori”: chi partecipa spesso attraversa luoghi, magari pezzi di città, ogni tanto con la guida di operatori di call-center, come in Call Cutta, ogni tanto seguendo le istruzioni di un software con voce umana, come in Remote x. Alcune istallazioni coinvolgono non solo lo spazio, ma anche la dimensione temporale, come nel recentissimo Bauprobe Beethoven, una raccolta di voci e percorsi della storia tedesca nel cuore della Beethovenhalle di Bonn. Neanche il Covid-19 li ha fermati: nel pieno del contagio hanno lanciato Call Cutta at Home, un viaggio condiviso su Zoom tra le pareti di casa propria.

Giacomo Pedini Stefan, il lavoro dei Rimini Protokoll colpisce perché ogni progetto, pur avendo una sua struttura, riesce sempre ad adattarsi ai luoghi ospitanti. Insomma lo spazio definisce le vostre creazioni: ma come li scegliete, cosa vi fa dire questo è il posto giusto? Stefan Kaegi Di certo molti nostri progetti vogliono far immergere il pubblico in uno spazio, sollecitarne i sensi, tenerli aperti in tutte le direzioni. È il contrario del cinema, dove il montaggio delle immagini dice via via cosa guardare. A teatro conta invece l’imprevisto. Prendiamo Remote x, dove cinquanta persone attraversano una città guidati da una voce digitale in cuffia: all’inizio noi lavoriamo sul tempo. È la materia prima attorno a cui organizziamo una struttura, cioè il modo in cui delle persone costruiranno relazioni. Solo dopo interviene lo spazio: può capitare, per esempio, di trovarsi a un certo punto del percorso in situazioni all’apparenza simili, ma piuttosto diverse. Magari siamo in un luogo preciso, ma a seconda del meteo o del giorno della settimana intorno a noi le cose cambiano: ora c’è una folla, ora il deserto. Nella versione italiana del progetto, Remote Milano, c’è un momento in cui si sta fermi davanti a una grande stazione ferroviaria, dove molte persone vengono a guardare gli orari dei treni: il nostro pubblico è lí che le osserva, come fossero parte di una pièce teatrale, commentata dalla voce in cuffia. Ora, può capitare che passi di lí una scolaresca: gli studenti non guardano gli orari dei treni, ma il nostro pubblico. Due pièce si specchiano fra loro, per un istante. Voglio dire: in uno spazio si sta sempre in una maniera unica. Noi cerchiamo di aiutare gli spettatori a scoprire ciò che è loro di uno spazio. Altro esempio: Cargo Sophia, o Cargo Losanna, perché ne esistono piú varianti. Di base tutte condividono certi aspetti: di notte si sta seduti nel retro di un furgone, che fa il suo giro di lavoro in città, e chi è dentro osserva l’esterno da una lunga finestra. Tutti gli spazi guardati sono sia reali sia finti, perché sono luoghi tanto messi in scena attraverso l’uso, per esempio, della musica, quanto visti da una finestra aperta sul mondo, lí dove agiscono delle forze materiali. Ciò che di solito si eviterebbe a teatro, noi lo inseguiamo: cerchiamo di portare il pubblico dentro posti che possono venire stravolti dall’imprevisto, dalla pioggia o da una manifestazione pubblica, o dal semplice fatto di rimanerci piú del previsto. Ci sono il traffico, i semafori rossi… Intervengono due fattori: per un verso met-

BELGRADE © SONJA ŽUGIĆ — REMOTE X

tiamo in piedi una specie di cinemascope, la finestra che ti fa guardare il mondo, ma d’altra parte ti esponiamo del tutto a ciò che la situazione reale impone. È cosí che si dà una connessione con l’argomento del lavoro: Cargo x parla dei trasporti globali attraverso l’esperienza particolare di chi guida i camion, con le loro reali biografie.

GP Dal tuo racconto è chiaro che nei vostri progetti il pubblico ha libertà di movimento: decide come rapportarsi ai luoghi toccati, pur dovendo rimanere dentro certe coordinate. Quali sono i limiti di questa libertà del pubblico e quanto è effettiva? SK Ci accusano spesso di creare progetti teatrali dittatoriali o manipolatori, solo perché diamo delle istruzioni al pubblico: cammina per di qui, vai piú piano, siediti… Sono solo istruzioni: ognuno può seguirle o meno. Sí, alla fine noi proviamo a manipolare, o meglio a indurre a fare. Ma l’esito dipende dal pubblico, non da noi. Tra l’altro mi domando: sedersi in un normale teatro non è qualcosa di manipolatorio? Non ti viene detto di startene al tuo posto, in silenzio, di non fare questo o quello, per esempio non andare alla toilette? Ci si può sentire a disagio. Invece a me fa piacere che in un teatro le persone siano costrette a spegnere il cellulare. Dunque la manipolazione dove sta? Di fondo noi creiamo dei format perché le persone stiano in relazione. Potrei anzi dire che inventiamo dei dispositivi di gioco, nel senso tedesco o inglese del termine, lingue in cui “recitare” e “giocare” si dicono allo stesso modo. Dire “dispositivo di gioco” significa parlare di un complesso di regole: qui si entra in una sfera utopica del teatro, in cui possiamo ridefinire le nostre pratiche dello stare insieme. Si va oltre la legge della chiacchiera, delle situazioni lavorative quotidiane, della massima produttività. Possiamo creare e praticare regole che ci aiutano ad allargare il campo della percezione e a ridimensionare le cose: una dote propria del teatro.

GP Quello che dici mi fa venire in mente Bertolt Brecht, quando pensava al teatro come a uno strumento capace di incidere sulla realtà, facendo attraversare al pubblico due momenti, uno di illusione e poi uno di presa di distanza, un effetto di straniamento dalle cose per rifletterci sopra. È cosí per voi? SK Prendiamo Remote x: è un format che spinge a fare qualcosa che di norma si evita, rinunciare alla propria libertà. In un primo momento, se ri-

Magari siamo in un luogo preciso, ma a seconda del meteo o del giorno della settimana intorno a noi le cose cambiano: ora c’è una folla, ora il deserto.

fletti a livello teorico sulla performance, pensi: in fondo mi sto facendo guidare da un telefono e una voce. Eppure è anche un atto liberatorio, perché rompe certe nostre costrizioni di tutti i giorni, quando dobbiamo scegliere tra diverse cose da fare, o tra prodotti, o tra argomenti. Invece dentro questa struttura guidata finiamo per dare piú risposte del solito o impiegare il tempo con piú attenzione. Va notata questa resa a un format temporale creato da qualcun altro. Sarebbe giusto quasi parlare di gameplay, ovvero di un processo di gioco, non nel senso del giocare contro qualcuno o per vincere qualcosa. È piú un giocare con altre persone, che poi non sono che gli altri attori/partecipanti di Remote x, i suoi utenti: solo che lo si capisce alla fine, quando non si è piú nel processo. Tutto questo è piú evidente in un altro nostro progetto, Situation Rooms. Funziona cosí: ogni sette minuti si deve impersonare qualcuno di diverso, seguendo con monitor e cuffie tutte le sue azioni, che hanno sempre a che fare con le armi: ora sei un soldato, poi una vittima, un soldato bambino, un medico da campo, un rifugiato ecc… Dico impersonare perché chi guarda è costretto a seguire le azioni filmate e l’audio di una persona reale. Può anche essere piacevole, ma richiede una certa energia e attenzione: si segue un tracciato e si agisce al suo interno. Fine. Magari, però, dopo qualche giorno, alcuni spettatori piangono: Situation Rooms riemerge in loro; hanno digerito lentamente l’esperienza digitale e immersiva. In questo senso si genera un vero e proprio secondo momento di riflessione.

GP Quindi è come se pensiero ed emozione si unissero nell’esperienza fisica. Quanto conta lo spazio? SK Molto. Poi lo spazio ci dà un privilegio. Se paragoni i nostri progetti a dei documentari o notiziari video, ti accorgi di una differenza fondamentale: il pubblico resta con noi per una, due o tre ore. Otteniamo una grande attenzione dalle persone, che possiamo estendere e utilizzare. Per la precisione possiamo spazializzarla, nel senso che ti facciamo muovere, agire dentro spazi che normalmente non conosci, ti immettiamo materialmente dentro processi decisionali o di gestione. Mettiamo le persone in ruoli in cui di norma non stanno, in luoghi che non abitano, da cui alla fine osservano pure se stessi: ecco il rapporto tra azione e riflessione.

GP E con la quarantena? SK Le cose si sono complicate, perché tanta gente è stata costretta a lavorare su Zoom. Allora ho iniziato a immaginare performance in cui non si condivide un unico spazio. E che finiscono col valorizzare paradossalmente proprio il fatto di stare in certi luoghi particolari. Per esempio, ora stiamo lavorando a un progetto su Beethoven e la Germania Ovest. Sarà nella Beethovenhalle, un sito in ricostruzione a Bonn. È un luogo particolare, perché avrebbe già dovuto essere rinnovato, ma i lavori non sono finiti. Camminandoci dentro, come farà il pubblico, ho pensato di far ascoltare le voci di persone che ci hanno lavorato in tempi diversi. Nonostante si percorra lo stesso spazio, questo finisce per sembrare altro: metà distrutto e metà rinnovato. È cosí che si rende visibile la sua particolare vicenda: la messa in scena della politica tedesca. Già perché in quel luogo per alcuni anni i partiti politici hanno votato i presidenti. Ora, facendoti camminare per la Beethovenhalle, ascoltando in ogni punto diverse persone che ne parlano, anche voci di gente scomparsa che parla di una politica ormai passata, si arriva a sentirne gli sguardi, i corpi, solo perché si è lí.

GP È come riuscire a colmare un’assenza, a far concentrare in un punto tante stratificazioni passate… SK L’assenza dei corpi è qualcosa di importante per noi, perché portiamo le persone in un luogo a seguire un protagonista che non c’è. Magari lo si può ascoltare, oppure vedere ciò che ha attorno, come in Situation Rooms. Addirittura si possono

WIN > < WIN © AGNESE SANVITO

toccare le stesse cose che lui o lei hanno toccato. Ma il protagonista manca. Ho appena lavorato a un progetto nei teatri di Losanna e Stoccarda, chiamato Black Box. Abbiamo preso dei classici spazi teatrali che, come sappiamo, sono rimasti chiusi per mesi. Nel momento in cui è stato possibile tornarci, lo abbiamo fatto con cuffie e registrazioni binaurali, cioè calibrate per ascoltare cose diverse dalle due orecchie. Si entra nel teatro, ci si muove e si ascoltano persone che sono state esattamente lí: si sente una registrazione, ma la percezione è che ti siano accanto. Per paradosso la loro assenza ne fa comprendere meglio le parole.

GP Quello che dici colpisce molto in Call Cutta at Home, che per via del Covid-19 è giocato sull’assenza, nel senso che i venti partecipanti sono a casa propria collegati via Zoom e guidati da due operatrici indiane, pure loro in due paesi diversi. Manca uno spazio, manca un protagonista, siamo tutti lontani, eppure per un’ora sembra di toccarsi… SK Sí, è un aspetto proprio di Call Cutta at Home. Perché non si è in un teatro, ma a casa, che di norma non è uno spazio pubblico. Anzi è il luogo dove ci si ritira. Ma il gioco è cambiato con il Covid-19: ci ha forzato a lavorare in delle case-ufficio. Nel Call Cutta originale la relazione era tra una persona in giro per una città e una dentro un call-center: il prototipo spaziale del call-center ha ora invaso il nostro vivere quotidiano. Improvvisamente quello che era privato è diventato casa-ufficio. Una necessità da un lato, ma pure un fatto sociale: si condivide il posto dei libri, della cucina, dei letti. Sei distante, vero, ma allo stesso tempo ti avvicini, costruisci un’intimità. È il prototipo del call-center ribaltato: un operatore di call-center si presume che parli con te e che sia dove sei tu, non tu dove è lui. Si presume che sia lí per te, che non abbia un corpo suo e un luogo dove stare. La casa-ufficio su Zoom, che abbiamo usato come base per Call Cutta at Home, crea invece uno spazio condiviso che è fatto delle cucine di tante persone riunite in un tempo. Call Cutta at Home si può fare con partecipanti che, nello stesso istante, sono in Brasile, a Filadelfia, in Israele, in Germania… All’improvviso ti trovi in uno spazio comune piuttosto strano, in cui molti non hanno neanche lo stesso fuso orario. Però si condivide un luogo, per il semplice e umanissimo fatto di avere tutti un letto e una cucina. Cosí si entra in relazione, si finisce per toccarsi. ◊

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