Ultime voci dai fondali profondi

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ISBN: 978-88-31314-88-6 © 2021 Les Flâneurs Edizioni Les Flâneurs Edizioni è un marchio del Gruppo Editoriale Les Flâneurs Srl

Editing: Helena Paoli Correzione di bozze: Serena Vallarelli Progetto grafico: Mariano Argentieri Finito di stampare a maggio 2021 presso Creative 3.0 Srl • Reggio Calabria per conto di Les Flâneurs Edizioni


Pier Francesco Liguori Francesco Bucci

ULTIME VOCI DAI FONDALI PROFONDI la maledizione del travancore



Alla nostra Terra, che ancora serba in seno così tanti segreti



«Ora non trattenermi troppo, ho fretta d’andare. Il dono che mi offri, spinto da cuore amico, lo prenderò al ritorno per portarlo a casa. Sceglilo bello, che tu ne avrai uno pari». Odissea, i, 315-318 «Eternità, spalanca le tue braccia…». I Camaleonti, Eternità Festival di Sanremo, 1970


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Ultime voci dai fondali profondi

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PARTE I

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Capitolo I

Castro, domenica 7 marzo 1880, verso il tramonto Il dottor Ernesto De Vitis si asciugò le mani e gettò il canovaccio nel secchio della biancheria da bollire. Lo faceva ogni volta, prima e dopo aver visitato un paziente, nonostante le proteste di Nunziatina, la vecchia governante, che vedeva decuplicato il suo lavoro al servizio del dottore. Ma De Vitis era intransigente. Quando era ancora studente, aveva letto il lavoro di Semmelweis sulla febbre puerperale e aveva approfondito i testi di Pasteur: conosceva perciò l’importanza dell’asepsi in campo medico. Il dottore rabbrividì. Nel suo gabinetto faceva troppo freddo, sebbene la stufa a carbone venisse alimentata di continuo. Le pareti, quando d’inverno soffiava lo scirocco, trasudavano umidità salmastra. Non che le altre case di Castro fossero meno umide… Quelle di alcuni pescatori erano addirittura scavate nella roccia di fronte all’imboccatura del porto, vicino alla Grotta del Conte. Gettò nel secchio anche il camice e imboccò la ripida scala che collegava lo studio alla sua abitazione. A mano a mano 13


che saliva i gradini, udiva le voci dei suoi due figli, a cui Nunziatina stava facendo recitare l’ultima posta del rosario. Entrando in casa li vide tutti e tre nell’ampio vano della finestra, nel controluce violetto del tramonto. Marina, la più grande, aveva compiuto da qualche mese dodici anni, mentre Cristoforo ne avrebbe compiuti sei a maggio. Riuscì appena a trattenere la commozione: non riusciva ancora ad accettare la perdita di sua moglie Cristina, strappatagli due anni prima dalla polmonite. Il suocero ancora oggi gli rinfacciava di non aver lasciato che i bambini andassero ad abitare con i nonni materni, a Locri, in Calabria. Quelli paterni erano morti da tempo e i fratelli di De Vitis erano andati a vivere lontano: chi a Brindisi, chi addirittura a Roma, chi aveva seguito le orme degli avi e si era arruolato in Marina. Ernesto, invece, che si era laureato in Medicina a Napoli, che non avrebbe rinunciato mai, per nulla al mondo, né alla condotta nella città in cui era nato, né alla vicinanza dei suoi due bambini, si era fermamente opposto alla richiesta del suocero: c’era Nunziatina che avrebbe pensato a loro. Cristoforo, appena lo vide, gli corse incontro e gli si aggrappò alla vita. Il dottore lo sollevò per stampargli un bacio sulla guancia, con lo schiocco, come piaceva a lui, poi accarezzò teneramente Marina, che assomigliava sempre di più alla madre. Nunziatina li fece sedere a tavola, mentre il padre indossava la pesante giacca da camera. Quando anche il dottore si fu seduto, la governante servì la minestra e attese che i bambini facessero il segno della croce. De Vitis sbuffò, insofferente a tutte le forme di superstizione: il rosario, i segni, le preghiere rivolte all’angelo custode… «La scienza… Sarà la scienza che salverà l’uomo, Nunziatina, non i preti!», sentenziò l’uomo, aggiustandosi gli occhiali sulla punta del naso. 14


«E voi siete un massone senzadio, caro il mio dottore», ribatté l’altra, accompagnata dalle risatine soffocate dei due bambini, che ogni sera assistevano allo stesso battibecco. Nunziatina gli diede le spalle e tornò in cucina a preparare un fagotto con la pentola di coccio, che conteneva la minestra avanzata. Baciò i bambini sulla fronte, augurando loro la buonanotte, poi si avvolse nel suo grande scialle nero e uscì, alla volta della misera stanza prospicente il porto che divideva con i figli più giovani, entrambi pescatori. I ragazzi erano già in età da matrimonio, ma la governante aveva sempre declinato l’invito del dottore a trasferirsi nella casa sul promontorio. De Vitis si svegliò nel cuore della notte. Avvertì una vibrazione, seguita da uno scricchiolio cupo, come se la ruota cerchiata di ferro di un pesante carro avesse frantumato una lastra di vetro. Pochi minuti dopo, udì l’ululato della sirena di una nave e si drizzò a sedere nel mezzo di quel letto che ormai da tanto tempo non divideva con nessuno. Subito il suono si diffuse nuovamente nella notte, poi ancora e ancora, a intervalli regolari. Il medico cercò a tentoni gli zolfanelli e finalmente, dopo un paio di tentativi, accese la candela che teneva sul comodino. Rabbrividì posando i piedi a terra, nonostante il soffice tappeto steso accanto al letto e le calze di lana che indossava anche sotto le coltri. Presto, però, rinunciò a cercare le pantofole, che si erano infilate chissà dove. «Troppo vicina, troppo vicina!», esclamò mentre si affrettava verso la cucina. «Cosa succede, papà?». Marina, con Cristoforo abbarbicato alla camicia da notte, apparve sulla soglia della loro stanza. «Filate via!», intimò loro il padre. «Tornate a letto! Non vorrete prendervi un’infreddatura?». 15


I ragazzi non replicarono e rientrarono in camera obbedienti, mentre l’uomo spalancava la finestra della cucina. Si calò fino agli occhi il berretto da notte mentre si sporgeva fuori: l’aria era fredda e una spessa coltre di nebbia avvolgeva l’intera baia. Ernesto riuscì a individuare il profilo della costa solo grazie alla sua memoria e ai puntini luminosi che sembravano galleggiare dove doveva esserci il mare… «Forse sono le lampare» mormorò tra sé e sé il medico «è appena iniziata la stagione…». Ma l’ululato della sirena straziò ancora la notte, cancellando le sue ipotesi insieme ai richiami lontani dei marinai. Poi, nella baia, risuonarono i rintocchi a martello della campana grande dell’Annunziata. Finalmente De Vitis realizzò: «Cristo santo! Un naufragio!». «Voi non muovetevi!», aggiunse, passando davanti alla camera dei figli, certo che i due fossero dietro la porta chiusa, frementi di curiosità. Tornò in camera sua e si vestì di fretta, per poi passare nel gabinetto medico, al pianterreno. Agguantò la grossa borsa di pelle a soffietto e si gettò sulle spalle un pesante tabarro. Infine, si calcò in testa il cappellaccio di feltro e scese in strada. Dopo un paio di metri, ritornò sui suoi passi. «Guai a voi se mettete il naso fuori dalla porta!», minacciò i bambini attraverso l’uscio, tirandoselo dietro senza chiuderlo a chiave, come si usava in paese. Poi, si affrettò verso la mulattiera che scendeva giù al porto. Mentre stava per imboccarla, udì le urla di una donna e un piccolo drappello di pescatori, alla luce delle lampade a petrolio, emerse dall’oscurità del sentiero. «Cosa è successo?», chiese De Vitis a uno degli uomini, che reggevano una barella realizzata con due remi e una vecchia incerata. 16


«Una disgrazia, dottore!», spiegò l’altro, Luigi Piccinno. «La Valigia è finita dritta sugli scogli tra l’Acquaviva e Pizzo Mucurune». «Com’è stato possibile?». L’uomo si strinse nelle spalle e scosse il capo. «Forse la Lupa1 li ha colti all’improvviso», ipotizzò. Accennando poi alla barella, riferì che la donna era approdata a Castro alle prime luci dell’alba, a bordo di una delle scialuppe del vapore inglese, scortata dalle barche dei pescatori che, all’ora della disgrazia, erano ancora in porto, indecisi se uscire in mare per la pesca. Il medico della nave, che faceva la spola tra il vascello e l’approdo incuneato tra le rocce ai piedi del promontorio, assistendo i gruppi dei passeggeri intirizziti, l’aveva affidata a un brigadiere dei Reali Carabinieri, che sovrintendeva alle operazioni, perché si cercasse il medico del paese – se mai ce ne fosse stato uno in quel luogo – assicurando, in un pessimo italiano, che una volta sbarcato l’ultimo passeggero, l’avrebbe raggiunto per un consulto. Era stata improvvisata una portantina; Luigi e altri tre giovani pescatori l’avevano sollevata senza apparente fatica, per poi inerpicarsi scalzi lungo il sentiero scavato dagli zoccoli degli asini tra le rocce di Pizzo Mucurune. A metà del costone, però, la sconosciuta aveva manifestato segni d’insofferenza, dimenandosi e urlando in una lingua incomprensibile per quegli uomini, tanto che essi, temendo potesse farsi del male, erano stati costretti a legarla stretta con delle funi. Nome dato dai pescatori a un fenomeno meteorologico tipico di marzo-aprile in cui un banco di nebbia formatosi sul mare, scivola verso la terraferma e “si arrampica” sulla costa raggiungendo a volte l’entroterra (nebbia di avvezione).

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«Ci sono stati morti?», s’informò ancora il medico, mentre tentava invano di prendere il polso alla donna che si dimenava violentemente sulla portantina. «Ancora non si sa» rispose il giovane «la signora è sbarcata con la prima scialuppa. Gli altri pare stiano bene, ma lei sembra una pazza furiosa… Chissà, forse per lo spavento». «Forza, portatela in casa», tagliò corto il dottore, dubbioso. Altro che spavento. Quella donna aveva una febbre da cavallo. De Vitis intercettò uno scalpiccio al piano superiore, segno che i ragazzi gli avevano disubbidito e non erano rimasti nella loro stanza. Tuttavia, era troppo preso dalle condizioni di salute dell’inglese per arrabbiarsi. L’inglese… Dava per scontato – chissà perché poi – che la donna fosse cittadina britannica, come la nave su cui era imbarcata. Cristina, la sua povera moglie, lo avrebbe rimproverato per averla accolta nella loro dimora, pensò. «Sei un incosciente!», gli avrebbe gridato. «Che ne sai che questa non è infettiva? Con i bambini così piccoli, poi… Come ti è saltato in mente di portartela qua?». Ma il medico avrebbe obiettato che quando si erano sposati lei lo sapeva bene a quali rischi sarebbe andata incontro: lui, il dottor Ernesto De Vitis, aveva prestato giuramento… e poi a Castro non c’erano né ospedali né ricoveri per ammalati. Figurarsi se don Anselmo, il parroco, a ottant’anni suonati, avrebbe potuto ospitarla in canonica e occuparsene! «Piano, piano! Attenti alla testa!», gridò il padrone di casa, mentre i pescatori varcavano la porta della camera degli ospiti con il loro fardello. «Gesù, Giuseppe e Maria!», esclamò Nunziatina, comparendo all’improvviso nel vano della porta. «E tu adesso ti presenti, vecchia strega?», la rimproverò il dottore, vedendo la serva immobile, avvolta nello scialle che 18


la copriva dalla testa alle ginocchia. «Dove ti eri cacciata, disgraziata?». Subito, però, si rammaricò per averla maltrattata davanti a tutti: tra i pescatori che avevano portato su l’inglese c’era anche Angelo, il figlio più piccolo dell’anziana donna. «I begin to sing, of the Grey-eyed, the wise» gridò la paziente, con tutto il fiato che aveva nei polmoni, «her of the relentless heart, the maiden revered, the succour of cities, the strong Tritogeneia». De Vitis, seppur a fatica, riuscì a iniettarle una dose massiccia di sedativo e la signora, in un paio di minuti, si calmò. Solo allora le osservò con attenzione il viso e vide che pian piano i muscoli si rilassavano, trasformando quello che fino a poco prima sembrava il volto della Gorgone nel viso delicato di una figlia dell’alta borghesia britannica, se non addirittura di un’aristocratica. «Ora potete scioglierla», ordinò agli uomini. Poi, rivolto a Nunziatina, aggiunse: «Dovrebbero esserci delle camicie da notte da qualche parte. Chiamami quando hai finito. Io vado un momento dai bambini». L’altra annuì, senza parlare, e si accinse a sfilare alla giovane il pesante soprabito da viaggio direttamente indossato sulla camicia da notte, madida di sudore. La sostituì con una di quelle della povera signora Cristina, la defunta moglie del dottore, e notò che la taglia era suppergiù la stessa. Quando il medico tornò, pochi minuti dopo, la sua collaboratrice stava già applicando sulla fronte dell’inglese un panno che aveva bagnato nell’acqua fredda. «Ha la febbre molto alta», osservò l’anziana, senza alzare gli occhi dalla paziente. Ernesto si sistemò gli occhiali sul naso e si avvicinò per esaminarla. Mentre la auscultava con il lungo stetoscopio di legno d’ulivo, pregò Dio che non si trattasse di polmonite. Fu 19


accontentato. Il respiro era irregolare, ma pulito: che si trattasse di malaria? Proprio in quel momento, si sentì bussare alla porta, giù al pianterreno, e Nunziatina si precipitò ad accogliere il brigadiere dei Reali Carabinieri, che accompagnava l’ufficiale medico del vapore. Questi era un uomo giovane, poco più che trentenne, fasciato in un’elegante uniforme, sul cui bavero luccicavano due caducei d’oro, simbolo della professione medica. Anch’egli, come De Vitis, ostentava una bella barba, ma bionda, priva del bianco che screziava quella bruna del dottore. L’uomo, con il berretto sostenuto elegantemente dall’avanbraccio sinistro, accennò a un lieve inchino. «Good morning, Sir! My name is Robert Fairfax, I am the medical Officer of the p.&o. steamer Travancore…». Fin qui tutto bene. Il collega aveva capito che la prima parte della frase era stata un saluto e la seconda una presentazione, perciò si affrettò a fare lo stesso. Chinò leggermente il capo e si presentò a sua volta, in italiano. Poi, aggiunse: «Parlez vous français, Monsieur?». «Bien sûr», rispose il giovane medico, e De Vitis tirò un sospiro di sollievo. La donna, gli comunicò il collega, aveva manifestato i primi sintomi solo poche ore prima, verso le 2:30, mentre lo steamer si lasciava sulla sinistra il faro di Santa Maria di Leuca. Nel silenzio della notte, la signorina Dorothy Palmermoore – quello il suo nome – all’improvviso aveva lanciato un urlo straziante, così acuto da svegliare tutti gli altri cinquantasei passeggeri della nave. Il secondo ufficiale, il signor Blott, che era di guardia, si era immediatamente precipitato sottocoperta e aveva fatto chiamare Fairfax. Insieme erano entrati nella cabina della donna, che viaggiava da sola, e l’avevano trovata bocconi sul pavimento. 20


«Miss Palmermoore» raccontò Fairfax «ha iniziato una strana nenia che nessuno di noi era in grado di comprendere, e ha preso a battere violentemente i pugni sull’assito». Lo sguardo corrucciato del giovane medico sembrò perdersi per un attimo nel volto della ragazza, ma presto tornò a raccontare. «Ha cacciato un altro urlo» disse «se possibile ancora più raccapricciante del precedente, come mai ne avevo uditi, e le sue membra hanno iniziato a essere scosse da violenti spasmi». «Credete che si tratti di malaria?», chiese De Vitis. «È probabile», rispose l’altro. «La signorina raccontava di aver soggiornato molte settimane tra i canali del delta del Nilo, in compagnia di un’altra signora inglese amante delle antichità, prima di imbarcarsi venerdì scorso ad Alessandria». Poi si rabbuiò e scosse il capo: «In questo stato non so se riusciremo a trasportarla a Brindisi in tempo perché possa essere imbarcata sul Peninsular Express per Londra della prossima settimana…». «La signorina sarà gradita ospite in questa casa, caro collega» si offrì prontamente Ernesto «e così pure gli altri passeggeri che dovessero aver bisogno delle mie cure». «La Peninsular and Oriental Company ve ne sarà grata, dottore. Il nostro corrispondente a Brindisi provvederà per le spese del soggiorno e per il vostro onorario». Fairfax estrasse poi da una tasca interna due scatoline di cartone e un piccolo flacone di vetro scuro. «Vi lascio della morfina» disse «e del chinino per abbassare la febbre, sperando che basti». «Ho qualcosa anch’io nel mio gabinetto, collega, dovrebbe essere sufficiente». «Tornerò a visitare la paziente non appena saranno concluse le operazioni di sbarco degli altri passeggeri, allora. Con il vostro permesso…». 21


Fairfax accennò un impercettibile inchino e con fare militaresco uscì dalla stanza, fuori dalla quale lo attendeva il brigadiere dei Reali Carabinieri. «Povera ragazza», sospirò Nunziatina, che per tutto il tempo del colloquio si era tenuta in disparte. «Così bella…». «Continua con le pezze fredde e non divagare», la rimbrottò De Vitis. Sembrava che la vecchia gli avesse letto nel pensiero. «E se ti riesce falle bere un po’ di questo: le abbasserà la febbre», aggiunse, brusco. Versò alcune gocce dell’estratto di china in poca acqua e richiuse il tappo del flacone. Poi, gettatosi nuovamente il mantello sulle spalle, scese in giardino. Le prime luci del mattino faticavano a penetrare la spessa cortina di nebbia. Le lance dei pescatori, sotto lo sguardo curioso di un folto gruppo di abitanti, stavano per concludere il trasbordo a riva dei passeggeri del vapore, dei loro bagagli e delle cassette della posta. Le prime carrozze giunsero in capo a poche ore. Prima ancora che si provvedesse ai passeggeri, furono caricate le cassette della posta, la cosiddetta valigia, considerata il bene più prezioso di tutto il carico. Lo steamer collegava Bombay a Venezia via Suez e Alessandria d’Egitto, mentre la posta, sbarcata a Brindisi, attraversava l’Italia in treno, valicava le Alpi al Moncenisio e, dopo aver attraversato la Manica a Calais, raggiungeva Londra, sua destinazione finale. Mentre la valigia veniva con urgenza trasferita a Otranto e lì caricata sul treno della Ferrovia Adriatica con destinazione Brindisi, dove il corrispondente della p.&o. era stato già informato via telegrafo, i passeggeri sbarcati a Castro venivano invece rifocillati nella residenza di De Vitis, in cui gli steward 22


della Travancore avevano trasportato quei non pochi generi di conforto che erano riusciti a salvare dal naufragio. L’equipaggio, invece, aveva dovuto adattarsi alla sistemazione di fortuna offerta dai pescatori. Il mattino successivo, altre carrozze giunsero a Castro e i cinquantasei facoltosi passeggeri salutarono il loro anfitrione. Si congedarono tutti, a eccezione di Miss Dorothy Palmermoore, che avrebbe continuato a essere ospite del dottore per diverso tempo, al primo piano dell’austera casa di pietra. La malattia della giovane, infatti, ebbe uno strano decorso: dopo quattro giorni di febbre e di delirio, ne seguiva sempre uno di relativa tranquillità, tanto che il medico si convinse che l’inglese fosse affetta da febbre quartana. De Vitis, inoltre, era preoccupato non solo per la salute della ragazza, ma soprattutto per l’ormai perduta serenità dei figli, giacché i deliri di Miss Palmermoore, a volte, erano molto violenti. Una notte lui e Nunziatina l’avevano immobilizzata mentre, guadagnato l’uscio di casa, si dirigeva barcollando verso la torre di levante del vecchio castello aragonese. Gli occhi di Dorothy erano rivoltati all’indietro e dalla bocca bianca di schiuma si riversava un fiume inarrestabile di parole incomprensibili. Il medico era stato costretto a praticarle un’iniezione di morfina e attendere pazientemente che il farmaco sortisse il suo effetto. «Vieni qui, bambina», disse dolcemente Miss Palmermoore a Marina, che faceva capolino da dietro la porta socchiusa. La bimba, spaventata, si ritrasse. Era il 21 marzo. Tredici giorni erano ormai trascorsi dal naufragio e l’inglese era ancora ospite-degente in casa del dottor De Vitis in quel primo giorno di primavera. Due giorni prima la febbre era calata un po’ e la ragazza era riuscita a scambiare qualche parola in francese con il 23


medico per apprendere quel che le era accaduto e di cui non ricordava nulla. Rammentava la partenza da Alessandria, i compagni di viaggio, le isole greche che avevano costeggiato, fino alla notte di domenica. Poi, più nulla. No, non aveva mai sofferto in passato di febbri… Sì, aveva trascorso alcune settimane in barca tra i canali del delta del Nilo insieme a Miss Amelia Edwards. Avevano visitato insieme le rovine di molti templi nascosti tra i folti isolotti di papiri. Era stata un’esperienza davvero entusiasmante, tanto che Miss Edwards le aveva proposto di contribuire a fondare con lei una società per l’esplorazione dell’Egitto. L’uomo le aveva fatto bere ancora dell’estratto di china e la donna si era addormentata. «Vieni qui, piccola, non temere», ripeté Miss Palmermoore in francese. Marina, a cui la mamma aveva insegnato i rudimenti di quella lingua, si fece coraggio e si avvicinò al letto, sfiorando l’enorme baule che i marinai dello steamer avevano scaricato nella stanza e una borsa a soffietto di pelle con inserti di stoffa ricamata a grandi fiori colorati. «Io mi chiamo Dorothy» continuò la donna «e tu? Come ti chiami?». «Mi chiamo Marina, signorina», rispose la bimba educatamente, accennando una riverenza, così come la madre le aveva insegnato. «Vorrei che mi facessi un grande favore, Marina. Mi aiuteresti?». L’altra annuì. «Promettimi, però, di non dirlo a nessuno: sarà il nostro piccolo segreto. Lo faresti per me?». «Sì,» rispose la bimba «lo farò». Miss Palmermoore, allora, attrasse delicatamente a sé Marina e le sussurrò qualcosa nell’orecchio. 24


«Vai, ora», la congedò poi Dorothy. La piccola fuggì via dalla stanza dell’inglese. Mentre si richiudeva alle spalle la porta della propria camera, udì ancora la sua voce. «Ricorda sempre, Marina… Ricorda: che si portino in dono alla Dea le armi preziose!». Il giorno dopo Miss Palmermoore era di nuovo preda di una febbre altissima, ma il 23 marzo giunse a Castro una carrozza inviata dai parenti della donna tramite il corrispondente della p.&o. Contro il parere del dottor De Vitis, Dorothy e i suoi bagagli furono caricati sulla vettura, che imboccò in fretta la strada del ritorno per non mancare l’appuntamento col treno che l’avrebbe riportata in Inghilterra. Il lunedì successivo il medico apprese che la giovane aveva perso la vita in mare: era scivolata da una banchina del molo di Brindisi, sul quale, preda delle sue allucinazioni, si era recata, sfuggendo al controllo della dama di compagnia che la Peninsular and Oriental Company le aveva procurato.

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