Tra le righe

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ISBN: 978-88-31314-93-0 © 2021 Les Flâneurs Edizioni Les Flâneurs Edizioni è un marchio del Gruppo Editoriale Les Flâneurs Srl

www.lesflaneursedizioni.it info@lesflaneursedizioni.it Editing: Arianna Caprioli Impaginazione e revisione: Alessio Rega Progetto grafico: Mariano Argentieri Copertina: © Roberto Leoni Finito di stampare a maggio 2021 presso Creative 3.0 Srl • Reggio Calabria per conto di Les Flâneurs Edizioni


Laura Mercuri

TRA LE RIGHE



«Che cosa succede se io bacio tutti i luoghi del tuo corpo che ti hanno insegnato ad odiare? Cosa succede se poso le mani su di te e le lascio così, abbastanza a lungo finché il mio calore aderisce al tuo e tu dimentichi che fra la mia pelle e la tua cʼè spazio? Che cosa succede se mi piace tutto ciò che ti hanno detto di detestare e passo le mie giornate a sporcare il tuo cervello ben lavato? Che succede se ti mostro nuove immagini di te stessa che hai accuratamente evitato di vedere allo specchio? E se ti dicessi che tutto quello che dicono è sbagliato e iniziassi a riempire le tue orecchie con parole vere in una lingua che conosci ma hai smesso di parlare? Che cosa succede se pianto nuovi fiori nei luoghi ispidi dentro di te e ti insegno i loro nomi e le stagioni della loro fioritura? Che cosa succede se ti chiedo di non reciderli e permettere che invadano le tue vie e decorino tutta la tua vita? Succede che non ti permetto di dimenticare mai che non sei altro che bellezza». Tyler Knott Gregson


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Tra le righe

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1.

Il romanzo dellʼanno. Già gli vede la fascetta intorno, dice. Appunto. Lo sanno tutti che le fascette sono fatte apposta per attirare lʼattenzione sui libri che non si vendono da soli. E poi l’autore è troppo giovane. I giovani non scrivono i romanzi dellʼanno. Non più, da almeno un secolo. Stanno così intrippati tra Facebook, WhatsApp e videogiochi che se trovano il tempo di leggersi i libri di scuola è tanto, e se non leggi non puoi scrivere, e basta. Vabbè, non è così giovane ma, insomma, oggi come oggi ventisei anni non sono niente, ci sono quarantenni che ancora si descrivono come ragazzi, pure con le tempie ingrigite, e il guaio è che si comportano davvero come se lo fossero. E perché ha pensato a me, che mi sono sempre occupata di narrativa femminile? «Ho pensato a te perché è un libro che ha qualcosa di femminile» spiega, allontanando la poltroncina dalla scrivania. La pancia del buongustaio incapace di contenersi straborda dalla cinta dei pantaloni troppo stretta. «Sono sicuro che tu e lui insieme fareste un gran lavoro». «Se già pensi che sarà il romanzo dellʼanno, perché dovrebbe servirgli il mio aiuto?». 9


«Qualsiasi libro ha bisogno dellʼaiuto di un bravo editor, e non serve certo che sia io a dirtelo. È un diamante grezzo, e con te il suo valore aumenterebbe moltissimo». «Non ho tempo di dedicarmici» insisto. «Ho un sacco di altri libri da editare e ho già contattato gli autori». «Per loro un editor vale lʼaltro, ma io ho bisogno di te per questo libro». Restiamo entrambi in silenzio, per qualche istante. «Tea, mi spieghi qual è il problema? Perché sei tanto contraria a occupartene? Non ti piace?». «Sì che mi piace, solo…». «Cosa?». «Non lavoro bene con i ragazzi. Io sto a mio agio con le donne, lo sai». «Ma se hai un figlio adolescente!». «Che cʼentra? Luca non è un ragazzo, è mio figlio! Con i ragazzi in generale non mi trovo bene, non so mai che dirgli, mi sembra che vivano in un mondo diverso da quello in cui vivo io». «Allora non è il libro il problema, ma lʼautore». «Tutti e due. E comunque il libro un poʼ mi ha infastidita. Cioè, se uno non sa chi lʼha scritto è perfetto, ma se poi vieni a sapere che lʼautore è un ragazzo cominci a trovare il romanzo troppo pretenzioso, pieno di riflessioni sul senso della vita. Roba che può permettersi di dire un cinquantenne, non uno così piccolo». «È un ragazzo molto maturo. Non lʼhai mai incontrato, vero?». «No, e preferisco non incontrarlo». «Invece dovrai farlo. Dovrai essere tu a dirgli che non ti occuperai del suo libro». «Perché mai? Il capo sei tu!». «E va bene… dovrai dirglielo tu perché Damiano Dionisi ha chiesto esplicitamente che fossi la sua editor». 10


Resto basita. «E non è tutto. Ha chiesto di poter lavorare insieme a te… di persona». «Per quale assurdo motivo avrebbe chiesto proprio me? Per lavorare di persona, poi!» chiedo, sempre più irritata nei confronti di questo ragazzino che neanche conosco. «Te lo dirà lui, se gli andrà. Ti sta aspettando in sala riunioni. Ora scusa» taglia corto «ma ho davvero un sacco di cose da fare ed è quasi ora di pranzo». E il pranzo, per Francesco Ossiani, è sacro. La sala riunioni ha una grossa vetrata che dà sul corridoio, quasi sempre con le veneziane tirate giù. Oggi però non le hanno abbassate del tutto, così mi guardo intorno e poi mi metto a sbirciare dentro la stanza. Si sono quasi tutti dileguati, scendendo al bar di sotto o mangiando un panino nella saletta dove sta il distributore del caffè: in corridoio non cʼè nessuno, e nessuno può vedermi. Il ragazzo è seduto su una delle sedie accanto al grande tavolo, non a uno dei capi ma sul fianco. Indossa i jeans, una T-shirt sotto una giacca chiara, stivaletti marroni. Ha la testa china su qualcosa e i capelli castani, né ricci né lisci, gli ricadono sulla faccia, così non riesco a vederla. Che cosa starà guardando? Il primo pensiero è che sia il suo smartphone. I ragazzi non stanno forse tutti sempre a fissare il proprio telefono? La cosa che ha davanti, però, è sicuramente più grande di un cellulare. Ah, certo, probabilmente è un tablet. Molto più comodo per postare l’ultimo selfie o twittare qualcosa che lo faccia sembrare più intelligente degli altri, no? Sospiro, pensando che lo lascerei volentieri ad aspettarmi mentre vado a mangiarmi i miei noodles precotti nella saletta, ché mi è giusto venuta una gran fame, ma poi il mio 11


senso del dovere ha il sopravvento. Metto la mano sulla maniglia della porta e faccio un altro sospiro mentre la spingo in giù e apro. Il ragazzo alza la testa a guardarmi e subito gli compare sulla faccia un gran sorriso. Oddio, sembra ancora più giovane dei suoi anni. Io accenno appena un sorriso di risposta, voglio sia chiaro sin da subito che non esiste alcuna possibilità di entrare in rapporti confidenziali, visto che non accetterò di occuparmi del suo libro. Lui si alza e io gli tendo la mano, che lui stringe. Una stretta decisa e breve, col palmo asciutto di quelli che non si agitano facilmente. «Tea Rovani». «Damiano» replica lui, senza aggiungere il cognome. Tipico. Gli indico la sedia che ha appena lasciato e ne scosto una dal tavolo per me. Ci sediamo entrambi e nel frattempo non smette un secondo di fissarmi. Ma a questi giovani nessuna mamma ha insegnato che non si fissano le persone? Per caso, noto sul tavolo quel che fino a un attimo fa guardava con lo stesso interesse: è un e-reader, non un tablet. Touché. «Ho letto il suo romanzo» dico, badando a sedere ben dritta sulla sedia. Mica penserà di intimidirmi, puntandomi addosso quegli occhi grigi? «E vorrei dirle che…». «Mi scusi» mi interrompe. Proprio male educato. «Potrebbe darmi del tu?». «Veramente» rispondo, già fin troppo indispettita, «preferisco dare del lei agli autori, se per lei non è un problema». «Allora, dʼaccordo» dice, abbassando un attimo la testa e cancellando allʼistante lʼaccenno di sorriso che aveva ancora sulle labbra. Quando torna a guardarmi sembra invecchiato allʼimprovviso di buoni cinque anni. Meglio così. 12


«Ho apprezzato il suo libro» continuo. «È ben scritto, scorrevole, la trama è interessante, lʼintreccio regge bene…». «Ma?». Ho capito. Con lui è impossibile riuscire a fare un discorso dallʼinizio alla fine. Gli lancio unʼocchiata stile professoressa di matematica, che spero gli faccia capire che non amo essere interrotta. «Dicevo che lʼintreccio regge bene, i personaggi sono ben delineati e anche lʼambientazione è originale e curata». Lui mi fissa, di nuovo, con unʼespressione che mi fa quasi tenerezza. Mi decido a dire: «Ma…» e qui i suoi occhi si aprono un poʼ di più, «non posso essere io a occuparmi dellʼediting, mi dispiace». «Perché?» esclama, stupito. Faccio un respiro profondo. Ecco perché non sopporto di avere a che fare coi giovani. Non hanno la minima idea di cosa significhi “conversazione formale”. Interrompono, prorompono, sbottano! Cʼè quasi furore, sul suo viso, e questo gli fa di nuovo dimostrare meno della sua età. Oddio, mi sento stringere il cuore perché dietro al furore si intravede la delusione, che mi intenerisce unʼaltra volta. Ma che diamine mi sta succedendo? Mi redarguisco da sola, irrigidisco le spalle e rispondo: «Perché ho già troppi incarichi, in questo periodo, troppi romanzi che ho già accettato di editare, quindi non ne avrei il tempo. Tutto qui». Il ragazzo deglutisce, fa un respiro a bocca aperta, come a cercare di calmarsi, e poi replica: «Posso aspettare. Non ho fretta di pubblicare il libro, ma voglio che sia lei a fare lʼediting. Mi metterò in fila, non importa». Per un attimo penso di aver capito male, ma è ovvio che invece ho capito benissimo. Un autore esordiente che preferisce aspettare a realizzare il sogno della sua vita pur di avere me ad aiutarlo. Impossibile. 13


«Signor Dionisi» dico, e lo vedo irrigidirsi «non sarebbe una mossa azzeccata. Lei è un esordiente assoluto, la Ossiani & Valenti vuole puntare su di lei, e chiedere loro di aspettare potrebbe far slittare lʼuscita del suo romanzo anche di un anno, se non due. Potrebbe addirittura provocare una totale caduta di interesse, mettendo in forse la pubblicazione stessa». «Se apprezzano davvero il mio libro, aspettare a pubblicarlo cosa cambierebbe?». «Mi creda, probabilmente lei è del tutto allʼoscuro delle logiche che muovono il mercato editoriale, ma si fidi di me, la prego: non faccia una cosa del genere». La sua espressione, mascella serrata e labbra strette, dice chiaramente cosa gli piacerebbe farci, con le logiche editoriali, e non posso dargli torto, ma conosco il mio lavoro e so di avergli dato il consiglio migliore. Tuttavia, Damiano Dionisi non ha lʼaria di uno che accetta consigli, e credo che non ne abbia mai chiesto uno, a dirla tutta. «Perché non prova a lavorare con uno degli altri editor? Sono tutti molto bravi, glielo garantisco». «Non ne dubito, ma io non voglio qualcuno che mi aiuti a rendere più vendibile il mio libro. Voglio qualcuno che mi aiuti a renderlo perfetto. Che faccia uscir fuori tutto quello che è rimasto dentro, perché sento che cʼè molto da tirar fuori, ancora». Resto zitta, un po’ smarrita e a corto di argomenti. «Voglio qualcuno come lei» continua lui, fissandomi. «Anzi, voglio lei. E solo lei». «Perché?» mi decido a chiedergli. È da quando Ossiani mi ha detto della sua richiesta che desidero questa risposta. «Perché proprio io?». Il ragazzo si drizza sulla sedia, come ad allontanarsi un poʼ da me. Esita. «Lʼanno scorso» dice infine «ho letto il suo 14


romanzo. Ho cominciato a scrivere il mio subito dopo e sono convinto che la sua scrittura abbia in qualche modo aperto una specie di porta, dentro di me. Lʼho trovato formidabile, sorprendente». Arrossisco. Alla mia età sono ormai venuta a patti con unʼavvenenza lontana nel tempo, appannata dagli anni e dallo stress, e quando qualcuno fa un complimento al mio aspetto al massimo mi sorprendo e di sicuro non arrossisco. Ma ho pubblicato un libro, uno solo dei tanti che ho scritto, credendoci come mai in nientʼaltro nella mia vita, e la delusione che la sua uscita nel mondo mi ha provocato ancora mi brucia. Ed ecco qui un giovane autore, il quale ha scritto qualcosa che mi è piaciuto moltissimo, pure se non lʼho detto né a lui né a Ossiani, che dice di aver trovato il mio libro “formidabile, sorprendente”. In un secondo mi sono ritrovata le guance in fiamme, e come la dissimuli una cosa del genere? Deglutisco, mi giro un po’ verso la porta sperando di catturare un angolo di penombra, ma mi rendo conto in fretta che tutte le mie manovre non servono, perché è Damiano a smettere di guardarmi e ad allontanare la sedia dal tavolo, alzandosi. Solo ora mi rendo conto che è molto più alto di me, al punto che devo sollevare la testa per riuscire a guardarlo negli occhi. «Comunque, è stato un piacere conoscerla. Penso che non ci sia molto altro da aggiungere, no? Lei mi ha detto che in questo momento non può aiutarmi e io non posso fare altro che comunicare allʼeditore che aspetterò fino a quando non potrà farlo». «Non decida così in fretta, la prego». Lui, inaspettatamente, sorride. «Grazie per lʼinteressamento che dimostra per il successo del mio libro» dice, e non riesco a valutare il genere di sorriso che ancora mi sta rivolgendo. «Anche se, dopotutto, se fosse davvero interessata rimanderebbe gli altri suoi impegni». 15


«Non posso proprio. Mi dispiace». Damiano Dionisi si stringe nelle spalle, e ci avviamo tutti e due verso la porta. È lui ad aprirla, invitandomi a precederlo. Prima mi interrompe, poi mi apre la porta: avevo ragione a tenermi lontana dai giovani, riescono a confonderti senza nemmeno rendersene conto. In corridoio, sto per tendergli la mano per congedarmi, quando lui mi anticipa: «Almeno posso offrirle un caffè?». Il mio stomaco brontola dalla fame, ma penso che almeno il tempo di un caffè glielo posso concedere, a questo estimatore del mio unico libro pubblicato a cui ho appena rifiutato il mio aiuto. «Va bene, ma lʼavverto: quello del distributore è bollente e sciapo». Lui accenna un sorriso. «Sciapo?». «Nel senso che non sa di niente. Acqua colorata di marrone». «Credo di non aver mai sentito questa parola». «Lei non è di Roma?». «No. Sono nato e cresciuto in Friuli, vicino Pordenone. Poi mio padre ha dovuto trasferirsi qui per lavoro e si è portato dietro tutta la famiglia». Per un attimo sono tentata di fargli altre domande, per sapere quanti anni aveva quando è venuto a vivere qui, se ha odiato suo padre per averlo trascinato con sé o magari è stato contento del cambiamento, ma per fortuna lui stesso blocca la mia insana curiosità. «Comunque intendevo se le andava di prendere un caffè al bar di sotto». «Dʼaccordo». Facciamo qualche passo, poi il ragazzo si ferma davanti allʼascensore e preme il pulsante di chiamata, mentre io sento il cuore accelerare. Che faccio? Invento una botta di salutismo 16


per convincerlo a fare le scale con me? Non ha certo bisogno di tenersi in forma, penso. È giovane, lui, e anche… beh, okay, scommetto che ha un corpo fantastico, neanche un grammo di ciccia addosso. Ma non posso nemmeno confessargli la mia claustrofobia. Cerco di calmarmi, mentre lui mi guarda con una specie di sorriso perplesso: devo essere impallidita. Sono solo quattro piani, in fondo, e questo ascensore non ha fama di essere bizzoso. Devo solo sforzarmi di restare calma per un minuto e ne uscirò fuori con la reputazione ancora intatta. Ce la posso fare. Lʼinfernale macchinario arriva, io lascio entrare Damiano Dionisi e poi, facendomi coraggio, entro anchʼio. Ed ecco qui: ancora prima che le porte si chiudano, sono paralizzata dalla paura. Lui spinge il pulsante del piano terra e io mi guardo i piedi, pur di non guardare le due porte metalliche che si uniscono e non accorgermi di quellʼistante in cui lʼascensore non è ancora partito ma è già diventato una scatola impenetrabile, e io sono in trappola. Sto sudando, sento la gola secca e un fastidioso ronzio nelle orecchie. «Tutto a posto?». Annuisco, senza parlare. Un piano, due piani… ci siamo quasi. Quando lʼascensore si ferma, per un attimo oso sperare che siamo arrivati e che tra un secondo le porte si apriranno, ma so che non è così. Non solo perché istintivamente ho calcolato il tempo che ci ha impiegato a percorrere la distanza tra un piano e lʼaltro, e so che questʼultimo tratto è stato troppo breve, ma anche perché me lo sentivo da quando mi sono alzata stamattina che qualcosa sarebbe andato storto, molto storto, oggi. Allʼistante il respiro mi si fa affannoso. Fisso il ragazzo. «Si è bloccato?!» gli chiedo, come se non fosse evidente. Lui esita un attimo, spinge di nuovo il pulsante del piano terra, ma non succede niente. «Mi sa di sì… capita». 17


«Come sarebbe, capita? Non è possibile!» esclamo, poi mi metto a battere a caso su tutti i pulsanti, fino a quando non vedo quello con lʼicona del campanello sopra e mi ci accanisco. Sbuffo come un mantice, perché ho il fiato corto e il cuore a duemila battiti al secondo, continuando a pestare sui tasti. Damiano Dionisi mi afferra le mani, fermandole. È una stretta gentile, ma ferma. «Calma, Tea. Calma» dice, guardandomi negli occhi. «Non aver paura, non è grave». Cerco di sfilare le mani dalle sue, ma non ci riesco. «Che stai dicendo?» grido, e al diavolo il mio proposito di mantenere la formalità. «Siamo intrappolati qui!». «Tranquilla… dai, cerca di respirare lentamente, dʼaccordo?». Si mette a fare respiri profondi, continuando a fissarmi e a tenermi le mani. Anchʼio ho gli occhi puntati nei suoi e alla fine, quasi senza rendermene conto, comincio a imitare il ritmo del suo respiro, e per miracolo mi calmo un poʼ. «Quando un ascensore si ferma vuol dire che è intervenuto un qualche sistema di sicurezza, magari perché cʼè stato un contatto elettrico anomalo. Bisogna solo avere pazienza e aspettare. Hai spinto il pulsante di allarme, vero?». Annuisco, continuando a sforzarmi di respirare lentamente. «Allora qualcuno sa di sicuro che siamo qui e verrà a tirarci fuori, vedrai». «Che ne sai, tu, di ascensori?». «Anni fa stavo scrivendo un racconto in cui cʼera un ascensore che si bloccava, così ho chiamato la ditta che aveva costruito quello del mio palazzo e sono andato a parlare con uno dei tecnici, e lui mi ha spiegato tutto. Mi piace sapere come funzionano le cose». «Mi manca lʼaria… puoi lasciarmi le mani?». 18


«Prometti che non ti metti a pestare sulla pulsantiera come una pazza?». Lo fulmino con unʼocchiata. Lui sorride appena e mi lascia le mani. «Di aria ce nʼè in abbondanza, è solo una tua impressione che manchi. Respira piano». Sono talmente agitata che non me ne importa niente della figuraccia che sto facendo davanti a questo ragazzino che mi parla come se quello di ventʼanni più grande fosse lui. «Comunque forse è meglio se ci sediamo» dice ancora, il vecchio saggio. «Non sappiamo quanto ci toccherà aspettare». «Stai scherzando? È sporchissimo!». «Come vuoi» replica, sedendosi per terra a gambe incrociate e poggiando la schiena alla parete. Io sbuffo, mi giro da una parte e dallʼaltra, poi spingo di nuovo il pulsante rosso dellʼallarme. Lui se ne sta fermo e tranquillo, le mani in grembo. Mi viene unʼidea. «Aspetta!» esclamo, tirando fuori il cellulare. Niente, non cʼè campo. Ringhio dalla frustrazione. «Il tuo prende?». Lui alza la testa. «Il mio che?». «Il tuo cellulare, cavolo!». «Io non ce lʼho un cellulare». «Stai scherzando?». «No». «E quando qualcuno ti cerca come fa?». «A parte il lavoro, sto quasi sempre a casa e ho un telefono fisso, lì. Il computer, Internet». «E quando esci?». «Quando esco non voglio essere cercato». «E se è importante, urgente?». «Niente è così importante da non poter aspettare un paio dʼore. Te lʼho detto: sto quasi sempre a casa». 19


Sospiro. Mio figlio non starebbe mai senza il suo smartphone, se potesse se lo farebbe cucire addosso. Hanno qualche anno di differenza, loro due, certo, ma penso che Luca continuerà a bramare lʼinterconnessione costante per tutta la vita. Questo ragazzo è ancora più impossibile da capire della maggioranza dei giovani. Sospiro ancora, spingo di nuovo il pulsante dellʼallarme e come se mi fossi dimenticata del panico, negli ultimi cinque minuti, ricomincio a iperventilare. «Vieni qui, dai». Prendo la mano che mi sta porgendo e mi rassegno a sedermi, ringraziando il caso che mi ha fatto propendere per la scelta dei jeans, stamattina. Lui punta gli occhi nei miei e ricomincia a mimare il respiro “giusto”, quello lento. Pian piano anche il mio respiro si accorda al suo e mi calmo un poʼ. Sfilo le mani dalle sue, perché comincio a sentirmi in imbarazzo. «Scusa se ho cominciato a darti del tu» dice. «Figurati. Non siamo più una editor e un giovane autore, ma due poveretti intrappolati in un incubo!». Si mette a ridere, una risata che, anche se mi sembra assurdo e impensabile, alla fine mi contagia, e rido pure io. Quando sto per ricominciare ad agitarmi, decido di cercare di distrarmi. «Davvero ti è piaciuto il mio libro?» gli chiedo. «Davvero. Moltissimo. Come mai non ne hai più scritti, dopo?». «Certo che ne ho scritti. Solo che non ho più nemmeno provato a pubblicarli». «Perché?». Faccio spallucce. Non ci tengo a raccontargli la mia delusione, il senso di umiliazione che ho provato quando, tre mesi dopo lʼuscita, lʼeditore mi ha chiamato per dirmi che le vendite erano state scarse e non prevedevano una ristampa. «Non lʼhanno capito molto, eh? Non era facile». «Che intendi?». 20


«È un libro denso, in cui ogni parola sembra pensata e ripensata, prima di essere scelta e messa dov’è. Ci vuole concentrazione per seguire la narrazione, è quasi faticoso. Non è un libro che si fa leggere facilmente. Ma se ci riesci… ti ricompensa dellʼimpegno». Per un attimo dimentico che sto seduta sul pavimento di un ascensore bloccato e nel mezzo di un attacco di panico. Guardo Damiano come se lo vedessi per la prima volta, come se non avessi passato lʼultima mezzʼora con lui. Chi è questo ragazzo che parla come se avesse il doppio dei miei anni? Il viso di un adolescente, quasi senza barba, le labbra rosse come ciliegie e la testa di un uomo? Ma figurati. Sto per replicare, non so ancora come, tanto mi hanno colpito le sue parole, quando lʼascensore con un piccolo sobbalzo riparte. Restiamo immobili, aspettando fino a che quello arriva al piano e… miracolo: si aprono le porte. Fuori, Ossiani e due ragazzi della manutenzione ci guardano. Il primo con le sopracciglia sollevate nella sua classica espressione perplessa, i pochi capelli che gli sono rimasti dritti sulla testa a testimoniare le tante volte che deve averci passato in mezzo la mano, gli altri due con un sorrisetto sulle labbra che somiglia tanto allo scherno. Damiano mi prende la mano per aiutarmi a rialzarmi, ma io mi affretto a lasciargliela appena torno in piedi, schizzando fuori dalla cabina. «Questo cavolo di ascensore si è bloccato!» dico a Ossiani, più arrabbiata per la figuraccia che per la disavventura. «Lo farò controllare, mi dispiace» risponde lui. «Damiano, tutto a posto?». «Sì, grazie. Succede». «State bene tutti e due?» insiste lui, mentre quelli della manutenzione se la ridono ancora sotto i baffi. «Sto benissimo, certo» rispondo, sperando che il sarcasmo trapeli da ogni sillaba. «E adesso me ne vado nella mia stanza». 21


Faccio qualche passo, impettita, verso la fine del corridoio, poi mi rendo conto che non ho nemmeno salutato Damiano, e mi volto. Lo vedo parlare con Ossiani e, dopo la mia uscita di scena così teatrale, non mi va di tornare indietro. Continuo a camminare ma non resisto, alla fine, e mi volto di nuovo. Damiano è rimasto solo, e mi guarda sorridendo. Alzo una mano aperta a moʼ di saluto e mimo un “grazie” sperando che riesca a leggermi le labbra. Anche lui alza la mano a salutarmi e si stringe nelle spalle come a dire “figurati”. Poi si volta e se ne va.

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