Acerbo

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ISBN: 978-88-31314-91-6 © 2021 Les Flâneurs Edizioni Les Flâneurs Edizioni è un marchio del Gruppo Editoriale Les Flâneurs Srl

Editing: Serena Vallarelli Progetto grafico: Mariano Argentieri Copertina: © Adobe Stock - Mihail Finito di stampare a maggio 2021 presso Creative 3.0 Srl • Reggio Calabria per conto di Les Flâneurs Edizioni


Marco Di Pinto

ACERBO



«Hey! Wait! I got a new complaint». Heart-Shaped Box, Nirvana


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Acerbo

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Capitolo 1

Quell’anno la Roma aveva un attacco stratosferico, almeno io pensavo così. Dal Parma era tornato Branca dopo una stagione sensazionale, poi c’erano Balbo, autentica macchina da goal, e Fonseca. L’uruguagio dentone era decisamente il mio preferito, magari non segnava decine di reti ma col piede sinistro faceva quel che voleva. Infine c’era un ragazzo promettente, cui tutti pronosticavano il futuro leggendario che la Storia gli avrebbe regolarmente consegnato. Un certo Francesco Totti. Era una sera di settembre, l’aria cominciava a farsi fresca e le t-shirt a manica corta erano state rimpiazzate dalle colleghe che ti coprivano fino al polso. Pure il maglioncino di cotone serviva di tanto in tanto, specie se prendevi il motorino o se qualcuno ti dava un passaggio sul proprio. Avevo qualche amico, un motorino tutt’altro che glorioso, le maniglie dell’amore, tanta buona volontà. Non avevo mai amato particolarmente le uscite con i miei, ma quella domenica mi toccava. Mia madre mi ci aveva quasi costretto a seguirli per cena in pizzeria. C’era pure mia sorella maggiore, che condivideva il mio stesso entusiasmo per l’uscita familiare. 9


In camera sparsi le camicie sul letto, nel tentativo di farmi venire un’idea in merito agli stracci da portare addosso nella serata con i parents. Quella hawaiana l’avrei risparmiata, non ci stava di domenica sera e comunque non la mettevo più già da un pezzo. Quella nera sfiancata mi stava bene, nonostante le maniglie dell’amore. Forse, paradossalmente, le nascondeva pure. Io non l’avrei adoperata per un’uscita con i vecchi, tanto più che se l’avessi sporcata mia madre non l’avrebbe lavata e stirata in giornata e così avrei messo il capo fuori gioco per qualche tempo. Quella beige con i bottoncini sul colletto mi sembrava troppo seria. Alla fine la scelta cadde sulla nera, con l’impegno di preservarne al meglio possibile le condizioni igieniche. Infilai i soliti jeans e le immancabili Adidas consumate. Scartai, rovistando nel cassetto, i calzini bianchi di spugna che mi aveva comprato mia madre, optai per un paio a righe colorate che davano prevalentemente sul blu. Aprii l’anta dell’armadio e mi guardai nello specchio all’interno. Dopo una serie di tentativi in un senso e nell’altro, decisi che avrei sbottonato anche il secondo dei bottoni della camicia. Così si sarebbe vista meglio la collana tribale che avevo comprato dalle bancarelle, la sera della festa patronale. Andrea Latorre il gitano. In bagno infilai due dita nel barattolo bluastro del gel (quello da settecento litri-duemila lire), ne posai una noce con le stesse dita nel cavo dell’altra mano e cominciai le operazioni di definizione dei ciuffi. Presi la bottiglia del profumo di mio padre (quell’anno mia madre gliene aveva regalato finalmente uno decente, che non desse di reparto Geriatria, pertanto io me ne servivo ampiamente) e ne indirizzai uno spruzzo per ogni lato del collo, e uno sul petto tutt’altro che villoso. Dopo alcuni minuti l’aria cominciò a dare di un misto tra la corsia d’ospedale e il Baygon Mosche e Zanzare, e io convenni di aver esagerato. E che il profumo non fosse poi questo granché. Avevo solo sedici anni, quasi diciasset10


te, poco senso della misura. Mia sorella armeggiava nell’altra stanza con una specie di gonna, attraversando il corridoio la intravidi dalla porta semichiusa. Bussai con un tocco, aprii il resto della porta, mi affacciai. «Che fai?» chiesi. «Non lo vedi?» rispose e continuò a contorcersi e fare smorfie nel tentativo di osservarsi il fondoschiena nello specchio, poi continuò «Che vuoi?». «Ma… non lo so… è ’sta cosa di stasera, ma tu c’hai voglia?». «Di vedere quelle facce di mummia di gente coi soldi? Sapessi quanta. Mamma ci tiene così tanto, lei ha questa specie di “deformazione” per i ricchi». «Papà?». «Papà lo sai com’è. Lui è in continua “connessione con il creato”. Sarà in preghiera». «Bah, io comunque non ne ho voglia neanche un po’». «Io se è per questo ero già d’accordo con Francy, Grazia e Lory per andare a cinema. Ma anche fossi stata sola, me ne sarei piuttosto andata dai miei cuccioli, i miei tesori». «Chi è questa Lory?». «Una nuova, da quest’anno in classe con noi. Una tipa stranetta, ma stiamo cercando di darle un’aggiustata». «Tu e la tua cricca? Bell’affare». «Lascia stare che le diamo una svegliata. E intanto, stasera le altre la portano a cinema». «Che danno?». «Fantasia d’amore». Feci una smorfia come a voler testimoniare il frullato di parti intime che il solo pensiero di guardare un film simile mi trasmettesse. «Tu non sei contento se non ti spari una serie di squartamenti, teste e braccia mozzate». 11


Alzai le spalle come a dire “Che ci vuoi fare?”. «Sei proprio un bamboccione scemo» mi disse. «E tu una sognatrice sfigata». «Come mi sta?» fece indicandosi la gonna, che tirava un po’ sui fianchi. «Sembri una mongolfiera» replicai «dovresti dimagrire un po’». Lei mi fece le corna con la mano destra e io una smorfia, bofonchiando versi strani. Mia madre urlava dal salotto come al solito. Questa volta ce l’aveva con gli strisci neri sul pavimento del corridoio che – non sarebbe servito un rilievo della Scientifica – provenivano con certezza quasi matematica dai mocassini nuovi di mio padre. «Io ci passo le ore a sistemare questa casa, lo sai?» diceva sporgendosi dalla porta del salotto, in maniera tale che l’eco delle sue parole rimbombasse nel corridoio, fino a raggiungere mio padre che si sbarbava nel bagno in camera. Mio padre taceva continuando a fare movimenti circolari col pennello, le cui setole massaggiavano ora le guance, ora baffi e mento, cospargendoli di schiuma bianca. «E certo» continuò lei «tanto a casa abbiamo la serva. La serva pulisce il pavimento, cucina, lava, stira, rassetta…». Mio padre replicò «Guarda che le ho tolte subito le scarpe» con un tono quasi impercettibile, ma lei lo sentì. «Ma quale subito e subito! Ci sono strisci fino in camera da letto, vuoi che non ti conosca? Sei entrato e invece di sfilare le scarpe già nell’ingresso o di mettere le pattine (già, perché mettere le pattine?, in fondo lui è stanco), hai tirato dritto in camera da letto, per andare a spogliarti e te le sei tolte lì, le scarpe». «Ma se anche fosse?». «Se anche fosse! Se anche fosse! Ma allora tu non vuoi capire. Io non sono una ragazzina, ho quarantotto anni e la salute non è più quella di una volta». 12


Mio padre fece roteare il pennello nell’aria, annuendo scocciato col capo. Poi, mentre mia madre attaccava la sua litania in merito ai propri sacrifici, cominciò a passarsi il rasoio sulle guance producendo quel rumore simile all’attrito della cartavetro. Squillò il telefono, io detestavo andare a rispondere. Nella quasi totalità dei casi erano clienti o fornitori del negozio di mio padre. Allora mi spiegavano sommariamente la faccenda, io raggiungevo mio padre e gliela riferivo. Questi, nove volte su dieci, aveva bisogno di ulteriori dettagli, così mi rimandava al telefono per chiedere al caga-anima di turno i dati omessi nel primo resoconto. Allora quest’ultimo replicava e io facevo ancora una trentina di volte su e giù, che neanche una pallina da ping-pong. Certo, la logica avrebbe dovuto suggerire a mio padre quanto sarebbe stato più pratico che lui muovesse il rispettivo deretano in direzione telefono, così si intendeva meglio col caga-anima ed evitava in particolar modo di shakerare i marron glacé a me. Mio padre però, non sempre si identificava come un campione di logica, specie quando disponeva di un cretino da comandare a proprio piacimento. Finalmente si passò l’asciugamano sulla faccia, rimuovendo la schiuma bianca e mi raggiunse. Fui ben lieto di passargli la cornetta nella quale la voce squillante di tale signor Abascià continuò a gracchiare persino nel mentre del passaggio dal mio orecchio a quello peloso di mio padre. Me ne andai in camera, chiusi la porta, attaccai Viaggio senza vento dei Timoria allo stereo. Ad alto volume. Io sono sempre stato uno di quelli che non ha la pazienza di ascoltare per intero un disco, di qualunque cantante o gruppo. Difatti, a venire a guardare la mia colonnina dei cd, ti rendevi conto che possedessi solo raccolte, è ancora così in effetti. Almeno, se devo spendere un mucchio di soldi per sentire dodici canzoni, ascolto dodici successi e sono sicuro che mi piacciano. Che poi siamo sinceri, i cantanti quando fanno un cd, alla fine hanno bisogno di riempirlo ’sto benedetto album, devono pur 13


giustificare che il loro ultimo sforzo costi un patrimonio. E allora, alle tre o quattro canzoni buone ci aggiungono delle belle zavorre che chiederesti volentieri il rimborso di buona parte della spesa. Viaggio senza vento non è così. È magnifico, dall’inizio alla fine. Questo non significa che uno non assecondi i propri gusti e che io non avessi le mie preferenze. Quella sera, infatti, attaccai con la mia preferita. All’epoca di quell’album, andavano per la maggiore Senza vento oppure Piove, i singoli che passavano in radio. Non mi strappavo i capelli per nessuna delle due, non che non mi piacessero eccetera eccetera. Le sparavo eccome nello stereo, da farci traballare la vecchia bacucca che mi abitava di fianco. Però la più bella, la traccia che ti prendeva lo stomaco, era un’altra. La cura giusta. E io cominciavo sempre con quella. Trasmetteva l’immagine di un eroe solitario e ribelle, e a sedici anni è così che ti senti. E che ti piace sentirti. Ché tu già ce l’hai col mondo. E casomai non ce l’avessi, fai in modo di avercela. Ché così ti senti un grande. Strano trovarsi qui Questo cortile Occhi scuri intorno a me Ha un po’ paura Il peggio verrà da sé Anche questa sera E certo che il peggio sarebbe venuto. Specie se ti dovevi sparare due ore con gli amici dei tuoi. Se a quell’epoca poi, avessi saputo che il buon Francesco Renga, la cui voce ha scandito gli anni più indimenticabili della mia vita, si sarebbe successivamente trasformato in una specie di quinto Pooh e avrebbe campeggiato praticamente in ogni edizione del Festival di Sanremo, mi sarei diretto alla tazza del cesso, avrei calato due dita in gola e vomitato per manifestare il mio più totale dissenso.

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