Al crocevia

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Il “filo rosso” che lega nel tempo e nella varieta dei temi le prese di posizione dell’Autore E invariabilmente dato dai grandi valori di fondo della vita civile che nutrono il suo pensiero e lo guidano nel giudicare fatti e atteggiamenti. I diritti umani universali, l’importanza delle garanzie, che non devono perO essere piegate a “manipolazioni abusive per ottenere l’impunitA”... l’attenzione, sempre, alla persona e alla sua dignitA...

Valerio Onida

Merito di queste pagine e anche quello di avere sottratto il diritto alle sempre possibili astrattezze dei giuristi. alla fine, pero, il diritto e sempre presente e anche pagine di cronaca apparentemente banali od opache rivelano questa ricorrente emergenza.

Giorgio Campanini

MARIO CHIAVARIO

AL CROCEVIA Quarant’anni (e più) di “opinioni“

MARIO CHIAVARIO AL CROCEVIA

Più di ottanta articoli selezionati da un materiale cinque volte più ampio, per la maggior parte costituito da editoriali pubblicati su quotidiani a larga diffusione nazionale. Nella scelta si è guardato soprattutto a ciò che poteva evocare realtà e problemi tuttora attuali, messi in evidenza anche dalle premesse a parecchi degli scritti riprodotti e soprattutto dalle chiose che li seguono. Volutamente allusivo il titolo, che vuol riflettere una costante della mentalità dell’autore, intendendosi il crocevia come fattore d’incontro fra percorsi, culturali e pratici, originati da punti di partenza anche assai lontani tra loro ma aperti al dialogo nel rispetto reciproco.

PREFAZIONE

VALERIO ONIDA

ISBN 978-88-6960-093-7 ISBN

POSTFAZIONE

GIORGIO CAMPANINI

978-88-6960-093-7

9 788869 600937

€ 23,00

Allievo di Giovanni Conso, Mario Chiavario (Torino, 1939) è stato professore di ruolo in vari Atenei a partire dal 1971 e ha presieduto, dal 2002 al 2008, l’Associazione “Gian Domenico Pisapia” che riunisce i docenti italiani di diritto processuale penale, divenendo poi, per tale disciplina, professore emerito dell’Università di Torino. Tra i redattori del vigente codice in materia, ha altresì fondato, e diretto per oltre trent’anni, la rivista “La legislazione penale”. Spiccata, comunque, nell’insegnamento come nelle pubblicazioni, la sua propensione per le tematiche di più ampio respiro, attinenti alla giustizia costituzionale, alle libertà civili, ai diritti dell’uomo.


PREFAZIONE Mario Chiavario è ben conosciuto fra gli “addetti ai lavori”, accademici e legali, come giurista, fine studioso del diritto e del processo penale. Gli scritti raccolti in questo volume rivelano a loro e al pubblico un altro volto di lui, frutto di quella che egli stesso confessa come una “antica passione”, il giornalismo. Il volto di un opinionista, collaboratore non occasionale di grandi quotidiani nazionali come La Stampa, Avvenire e Il Sole 24 Ore, e di diversi periodici del mondo cattolico, che commenta in modo sempre chiaro e denso di contenuti fatti e questioni di attualità. Gli scritti qui riprodotti, integralmente o talora solo in parte, (e che a loro volta sono evidentemente solo una parte della produzione dell’”opinionista” Chiavario) coprono un arco temporale amplissimo, dal 1976 fino al 2019, con una frequenza variabile, da uno solo a undici articoli per uno stesso anno (sono in tutto un centinaio, di cui una settantina risalenti agli ultimi vent’anni); e non sono ripubblicati in ordine cronologico, ma raggruppati per grandi argomenti. Naturalmente la giustizia, e in particolare la giustizia penale, trova largo spazio in questi scritti, ma sempre con un “taglio” che non è freddamente tecnico-giuridico, bensì ancorato ai grandi valori umani e morali implicati, e quindi sempre di grande interesse per il pubblico dei lettori. Scorrendo la raccolta ci si può imbattere in scritti che evocano e commentano fasi ed eventi significativi della nostra epoca, dal terrorismo degli anni Settanta e Ottanta alla “Tangentopoli” degli anni Novanta, alle controversie su politica e giustizia all’epoca dei Governi di Berlusconi degli anni Duemila, al processo a Saddam Hussein del 2003 (la cui condanna capitale Chiavario, fermamente avverso alla pena di morte, con coerenza depreca). 9


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Il “filo rosso” che lega nel tempo e nella varietà dei temi le prese di posizione dell’Autore è invariabilmente dato dai grandi valori di fondo della vita civile che nutrono il suo pensiero e lo guidano nel giudicare fatti e atteggiamenti. I diritti umani universali, l’importanza delle garanzie, che non devono però essere piegate a “manipolazioni abusive per ottenere l’impunità” (si vedano ad esempio le sue riflessioni in tema di prescrizione dei reati), l’attenzione, sempre, alla persona e alla sua dignità (si veda il modo in cui commenta la condanna dell’Italia per un uso improprio del cosiddetto “carcere duro” disciplinato dall’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario). Accanto ai temi della giustizia si trovano quelli più generali, dove si manifesta chiaramente anche il Mario Chiavario uomo di fede: una fede, come scrive egli stesso, “vissuta senza intolleranze”, e tradotta in un pensiero in cui il “valore davvero universale della libertà di coscienza” e la laicità positiva sono affermate con nettezza, e insieme sono criticate senza ambiguità posizioni di estremismo intollerante, da una parte e dall’altra delle barricate in cui spesso viene trasformato il dibattito su soluzioni legislative concernenti temi “di confine”, come l’aborto o il fine vita. Poche, ma significative, le sue “incursioni” su argomenti di politica generale delle istituzioni, come i referendum o le riforme costituzionali: da cittadino, egli dice, mai partecipe di poteri decisionali in quelle che chiama le più autentiche “stanze dei bottoni” (ma non si può dimenticare, ad esempio, il suo apporto al lavoro preparatorio del vigente codice di procedura penale). In esse Chiavario non manca di ribadire come la sua concezione della politica democratica sia fondata sul perseguimento del bene comune e non di interessi di parte, sull’ascolto delle “realtà umane” presenti nella società e specie dei più deboli, sulla capacità di vedere nell’avversario politico non un “nemico” ma un interlocutore con cui confrontarsi “senza escludere punti di incontro di alto profilo” (si veda l’introduzione alla sezione “Istituzioni della nostra democrazia”). Il pensiero dell’Autore, su questi e su altri temi, si distingue sempre per la ricerca di quell’equilibrio, che nella giurisprudenza costituzionale prende spesso il nome di “ragionevolezza”, e di cui sono presupposti essenziali la capacità di ascoltare e di comprendere le ragioni dell’altro e di evitare furori ideologici. Così, per esempio, 10


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quando rigetta posizioni repressive in materia penale come quelle di chi vorrebbe “buttare la chiave”, insieme non manca di criticare atteggiamenti che sembrano trascurare l’esigenza di capire le “paure” che emergono nella società e di combattere effettivamente i fenomeni che le alimentano (si vedano le riflessioni dell’Autore sul fenomeno della microcriminalità e sull’uso delle statistiche penali). Ma in realtà questa non è una semplice raccolta di scritti già pubblicati. È un’opera originale, perché gli scritti raccolti non sono semplicemente riprodotti, in tutto o in parte, ma sono preceduti e seguiti da note dell’Autore, spesso assai dense, che rievocano il contesto in cui essi furono pubblicati, richiamano le motivazioni delle posizioni sostenute, aggiornano i riferimenti di fatto e di diritto, e aggiungono ulteriori commenti. Al lettore si offre dunque non solo una documentazione sul pensiero “passato” di Mario Chiavario, ma la testimonianza di una sua riflessione che continua sugli stessi temi. Il che spiega fra l’altro perché gli articoli non sono riprodotti con il loro titolo originale, ma con titoli nuovi (si sa del resto che i titoli degli articoli di giornale non li scrivono di solito gli autori), e talora il testo originario è suddiviso fra diverse sezioni della raccolta, per ragioni che vengono spiegate nelle note. Essi non offrono dunque solo né prevalentemente una lettura “storica”, ma contengono una esposizione stimolante, coinvolgente e interamente attuale del pensiero dell’Autore, sempre nelle forme comprensibili a tutti e piacevolmente leggibili dell’articolo di giornale. Naturale, per il lettore, non solo mettere a confronto le opinioni espresse sullo stesso argomento o su argomenti affini, anche se a partire da fatti o circostanze diverse, negli articoli pubblicati a distanza spesso di molti anni (e accostati gli uni agli altri a prescindere da questa distanza temporale), ma anche riflettere sugli elementi di continuità e di discontinuità, sulle affinità e sulle differenze, emergenti da questa rilettura. E si deve dire che, giunti al termine della lettura, il lettore ne ricava la percezione non solo di una perfetta coerenza, ma di una straordinaria continuità di pensiero oltre che di stile espositivo. Non solo Chiavario “non ha cambiato idea” sui valori e sulle cose essenziali, nei lunghi e fecondi anni della sua vita di 11


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giurista e di “opinionista”: ma dimostra quella continuità e altezza di ispirazione che nasce da un pensiero “forte” e dall’adesione ad un sistema di valori ben saldo e immutato. Spesso è lo stesso Autore a misurare la corrispondenza fra ciò che aveva scritto anni fa e ciò che del tema pensa oggi: per lo più riconoscendone la coerenza, ma talvolta richiamando l’attenzione del lettore non solo sugli elementi di continuità (come quando dice che “riscriverebbe oggi interamente quell’articolo”), ma sulle riflessioni ulteriori che il tema gli suscita, anche in relazione ai contesti mutati, e perfino, qualche volta, esprimendo “rammarico” per non aver adottato a suo tempo una posizione più decisa (sulla vicenda del pool antimafia di Palermo) o prendendo le distanze da un termine allora usato, non certo nel senso proprio di certe odierne fobie (“invasione” degli stranieri), o attestando la permanenza di dubbi già allora affiorati ( nel dibattito sulle misure di repressione del terrorismo interno nella Germania degli anni Settanta). Un buon “manuale”, dunque, per chi, negli odierni tempi e contesti che potrebbero indurre allo smarrimento, vuole continuare a pensare e ad agire in conformità a principi irrinunciabili come quelli scolpiti nella Costituzione. Valerio Onida

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I Radici LIBERTÀ DI COSCIENZA, CLERICALISMO, LAICITÀ Non sono, questi, temi su cui io possa vantare una “competenza” specifica. Sono, però, tra quelli da cui più mi sono sempre sentito fortemente coinvolto: come credente e insieme come cittadino di uno Stato laico e democratico. La Croce in aula Originato da una tra le tante polemiche sull’esposizione del Crocifisso in luoghi pubblici (e in particolare nelle scuole), l’articolo intitolato “La Croce in aula”, pubblicato da “La Voce del popolo” (settimanale della Diocesi torinese) 1 il 3 febbraio 2002. Abbiamo assistito nelle scorse settimane al riesplodere delle polemiche sul Crocifisso nelle scuole e in altri luoghi pubblici. Quanta nostalgia mi viene per un paio di ricordi… Da un lato, le parole di un “laico” come Piero Calamandrei, che proponeva di porre il simbolo di Gesù in croce non alle spalle dei giudici, ma davanti

Recentemente, la testata si è fusa con quella di un altro settimanale - “Il nostro tempo” sorto e attivo, a sua volta, nella diocesi di Torino ma avente anche redazioni a Milano e a Roma. Ha così preso vita “La voce e il tempo”.

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a loro, affinché capissero tutta la drammatica importanza del giudicare e tutta la tragedia dell’innocente condannato; dall’altro, quelle di un magistrato, cristiano di grande e autentica fede, come Rodolfo Venditti, là dove racconta dell’imbarazzo in cui ebbe a trovarsi, in particolare di fronte a un testimone di religione ebraica, chiamato a deporre (e, prima, a giurare) di fronte al Crocifisso. Mutatis mutandis, questi sentimenti possono albergare entrambi, e convivere, anche nel l’insegnante, che da un lato ha nel Crocifisso il più formidabile stimolo per far individuare dai suoi allievi – siano essi bambini o adolescenti, o giovani quasi adulti – certi problemi e certi valori, il cui oblìo è esiziale per la vita collettiva e per quella individuale di ciascuno, e che dall’altro può trovarsi – anche, e forse specialmente, se credente – in un disagio analogo a quello di Venditti. E, questo, per una sorta di caduta di universalità che di fatto la presenza pubblica di quel simbolo ha dovuto subire, per essere percepito, o come un semplice segno coreografico, o, peggio, come una “presenza” imposta anche a chi non ci crede. Oggi, le convergenze del “politicamente corretto” di marca laicista e quelle degli oltranzisti musulmani sembrano riecheggiare, molto spesso, quasi soltanto un atteggiamento di mero rifiuto o di volontà di rimozione di quello che viene definito, se non peggio, come il simbolo di una volontà prevaricatrice. Ma non dobbiamo domandarci, intanto, se non siamo stati noi per primi – noi cristiani e in particolare noi cattolici – a imbastardire, per così dire, quel simbolo? E non mi riferisco tanto o soltanto alla croce divenuta ornamento del petto, generosamente mostrato, di una bella donna… Dovrebbe essere l’espressione di uno degli aspetti cruciali della nostra fede nel Dio-uomo, morto e risorto, e insieme la denuncia dell’abiezione cui può giungere la prevaricazione congiunta del potere politico e di quello religioso. Ma, se è divenuto, per molti, qualcosa da rimuovere non è anche perché se n’è fatto essenzialmente un’espressione della “presenza maggioritaria” di una confessione? E mi sconcerta che in larga parte delle “risposte” se ne faccia essenzialmente una questione di “nostre tradizioni” da salvare contro l’arrembaggio convergente della scristianizzazione e del fondamentalismo islamico… 16


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Per carità, c’è davvero più di un motivo per preoccuparsi per le intolleranze iconoclastiche di casa nostra e per quelle religiose di nuova importazione: le une e le altre, da non confondere con la laicità rispettosa della fede altrui né con la fede in un “Dio diverso” propria della maggior parte dei nostri fratelli agnostici o musulmani. E capisco che, oltre che della grande Tradizione, la fede cristiana vissuta sia fatta anche di più piccole tradizioni: con le loro luci e le loro ombre, come tutte le vicende umane, ma non per questo da considerare come mero retaggio di un passato di cui vergognarsi e da cancellare, possibilmente al più presto, dal nostro “vissuto” collettivo. Per carità, rivendico con forza che i nostri bambini possano continuare a cantare le nenie natalizie e fare il presepio anche nelle scuole pubbliche. E riconosco che il «non posiamo non dirci cristiani» che Benedetto Croce riferiva a se stesso, agnostico ma italiano ed europeo, non è soltanto un motto suggestivo, ma riflette la coscienza di una storia e di un travaso di valori in una cultura e in una civiltà che sono tali anche perché si sono imbevute di cristianesimo. Però, capisco anche chi vi si ribella, vuoi perché vi scorge una pretesa di assimilazione che egli rifiuta, vuoi perché sa – e io condivido questa convinzione – che le ragioni del suo essere cristiano vanno al di là dell’appartenenza a un popolo determinato. Mi ha fatto riflettere su tutto ciò anche un recente dibattito parlamentare, quello sul contributo finanziario per una moschea a Napoli. Mi interessa meno il problema specifico (da affrontare, credo, senza demagogia né in un senso né nell’altro, guardando alle risorse che ci sono e a criteri distributivi che tengano conto – questi sì – di certe proporzioni numeriche, più o meno come per l’8 per mille). Mi ha sconcertato il modo con cui si gridava allo scandalo in nome, appunto, delle nostre “tradizioni cattoliche”: e non è forse un caso che a farsene i più accesi paladini fossero esponenti di quel movimento politico che qualche anno fa celebrava la religione pagana del Po e degli elfi… Credevo fosse finita l’epoca dell’identificazione della Chiesa con una cultura, per quanto possa capire che ci siano certe manifestazioni cultuali pubbliche in qualche modo condizionate anche dal “peso” che l’una o l’altra confessione hanno avuto e hanno nello sviluppo di 17


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una collettività civile. Ma i più essenziali fra i rapporti tra le confessioni religiose non possono essere regolati altrimenti che dalle regole fondamentali di tutela dei diritti umani, quali riconosciuti su scala universale in convenzioni faticosamente elaborate dalla coscienza giuridica soprattutto nell’ultimo secolo (e tra cui occupa un posto primario il riconoscimento della libertà di coscienza in tutte le sue esplicazioni, comprese quella di professare una determinata religione e quella di non professarne alcuna). È in nome dei diritti umani che possiamo e dobbiamo rifiutare il trapianto di pratiche come l’infibulazione o di istituzioni giuridiche come la poligamia. È in nome dei diritti umani – non di un semplice, e malinteso, diritto di reciprocità – che dobbiamo pretendere rispetto e libertà per i cristiani (ma non solo per loro…) nei Paesi musulmani. E non vorrei che ci si dimenticasse mai, nei fatti, che “cattolico” vuol dire universale. O sbaglio a pensare che la più autentica identità del cristiano sia proprio quella di non avere un’identità di appartenenza che escluda gli altri, e che la Chiesa esiste non per dare tessere di garanzia per la salvezza di chi è “dentro”, ma per essere testimone di un Dio-uomo morto per la redenzione di tutti? Se non è così, forse aveva ragione Mussolini, che, subito dopo aver firmato il Concordato, sprezzantemente dichiarava che il Cristianesimo sarebbe stato soltanto una piccola setta giudaica se non fosse approdato a Roma… 2002, si diceva. Ma che dire, adesso, di fronte al dilagare di manifestazioni, spesso aggressive (quantomeno verbalmente), nelle quali il simbolo dell’estremo sacrificio di Gesù Cristo – non meno di oggetti religiosi, quale la corona del rosario – è ridotto ad accessorio “identitario” ed escludente, come nel cartello su cui si leggeva “Se non vuoi il Crocifisso torna al tuo paese”? Posso aggiungere che nel rileggere questo scritto provo sentimenti particolari, anche perché è l’ultimo che qui in terra ha potuto nascere da un dialogo e da un forte “idem sentire”, praticamente su tutto ciò che conta nella vita, con mia moglie Dina? 18


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Semi gettati dal Concilio Di poco anteriore è lo scritto parzialmente riprodotto qui sotto, un articolo uscito a sua volta su “La Voce del popolo” alla data del 27 agosto 2000, con il titolo “Il diritto di credere”: nell’ambito di una riflessione a più voci sui principali documenti del Concilio Vaticano Secondo a trentacinque anni dalla sua chiusura, guardava specificamente alla Dichiarazione “Dignitatis humanae” (qui, sono stati omessi i brani di mera ricapitolazione dell’impianto del documento). Spero che ne possa emergere quantomeno qualcuno degli essenziali spunti positivi che quella Dichiarazione ha fornito a molti, e a me personalmente, per lo sviluppo di una fede vissuta senza nascondimenti ma anche senza intolleranze od ostentazioni strumentali. Nel panorama complessivo dei documenti conciliari, la “Dignitatis humanae”, pur non rivestendo la forma solenne dei quattro documenti cui venne conferito il carattere di “Costituzioni”, ricopre indubbiamente un ruolo di primo piano: e, questo, più ancora che per il tenore delle sue affermazioni, per il sol fatto di esser stata proposta all’attenzione del Vaticano II e per essere stata, in quella sede, fortemente voluta come espressione del valore che la Chiesa universale, dopo un lungo cammino, è venuta ad annettere alla libertà religiosa. Non è un mistero che, nella sua genesi, la Dichiarazione sia stata tra i bersagli preferiti di quell’agguerrita minoranza conservatrice di Padri conciliari, ai quali la stessa convocazione dell’assemblea di cui facevano parte era parsa un attentato alla solidità della compagine ecclesiale. E, comunque, non erano in pochi a guardare con preoccupazione a un testo imperniato su un’idea – quella, appunto, di “libertà religiosa” – che nei secoli precedenti era spesso divenuta l’emblema di rivendicazioni e violente polemiche anticlericali e nei cui confronti, d’altronde, una censura apparentemente senza remissione e senza appello era stata lanciata, nel 1864, dal “Sillabo” di Pio IX. […] A quasi quarant’anni di distanza, non si può sfuggire alla domanda sul se e quanto il testo possa risultare “invecchiato”. 19


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