Cinque anime

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CLASSE ’92, È NATO A MAGLIANO SABINA (RI). È AUTORE E LETTORE. SOGNATORE SIN DA BAMBINO, SI INTERESSA DA SUBITO AL FANTASY, AL CINEMA, ALLA RECITAZIONE E AI LIBRI. OGGI È EDITOR, SOGGETTISTA PER CORTOMETRAGGI AMATORIALI E GESTISCE ON WRITING, CANALE YOUTUBE A TEMA SCRITTURA. HA ESORDITO CON LA TRILOGIA FANTASY IL CICLO DELLA RINASCITA (PAGURO EDIZIONI), TRADOTTA ALL’ESTERO IN INGLESE E FRANCESE COL CONTRIBUTO DEL MINISTERO DEI BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI. DALLA SAGA È TRATTA UNA COLONNA SONORA RACCOLTA IN TRE DISCHI. SUBITO DOPO HA PUBBLICATO RESET (PUBME, COLLANA TULIPANI), ROMANZO BREVE DALLE SFUMATURE THRILLER E DARK FANTASY.

Resti umani avvolti in sai bianchi raffiguranti un pentacolo. Quattro date incise in una grotta. Per il commissario Matteo Iardi quel macabro ritrovamento potrebbe essere la svolta nel caso che gli ha sconvolto la vita, la sparizione della sorellina Sofia, quarant’anni prima, una scomparsa che ha frantumato una famiglia. È così che la vicenda personale del poliziotto si intreccia a quella di un serial killer che molto presto potrebbe colpire ancora. Con un ritmo serrato e uno stile impeccabile, tra magia nera e segreti sconvolgenti Francesco Leo in Cinque anime descrive una pericolosa e avvincente corsa contro il tempo.

ISBN

FRANCESCO LEO CINQUE ANIME

FRANCESCO LEO

978-88-6960-146-0

9 788869 601460

€ 18,00

FRANCESCO LEO

CINQUE ANIME

CINQUE ANIME NONOSTANTE IL FREDDO TAGLIENTE LUI RESTAVA FERMO NEL SUO COMPLETO ORMAI TRASANDATO QUANTO IL SUO SPIRITO, IMMOBILE A VAGARE IN LUOGHI SCONOSCIUTI DELLA MENTE. RIENTRÒ DOPO DIVERSI MINUTI, QUANDO IL GELO CHE NON AVEVA PERCEPITO FINO AD ALLORA GIUNSE A SCUOTERLO TUTTO D’UN COLPO. ACCESE IL CONDIZIONATORE NEL SOGGIORNO E SI DIRESSE NELLA SUA STANZA, DOVE SU UN MOBILE UNA FOTO DI SOFIA LO GUARDAVA. AVANZÒ FINO AL RITRATTO, E ACCAREZZÒ CON LE DITA I BORDI DELLA CORNICE IMPOLVERATA. «SPESSO MI SONO FERMATO A PENSARE SE SONO DAVVERO CIÒ CHE CREDEVI CHE DIVENTASSI. E COSÌ HO CAMBIATO FORMA PIÙ VOLTE, ALLA RICERCA DI QUELLA AFFINE AL MIO ESSERE. ALLA RICERCA DI ME STESSO. HO RISO, HO PIANTO E INFINE SONO CADUTO, MA L’HO FATTO CON LE MIE GAMBE E OGGI NON C’È ERRORE CHE NON RIPETEREI. PERCHÉ SE SONO ARRIVATO TANTO LONTANO È GRAZIE ALLE SCELTE INTRAPRESE, GIUSTE O SBAGLIATE CHE SIANO», SUSSURRÒ, I POLPASTRELLI SERRATI ATTORNO ALL’IMMAGINE. «CONTINUERÒ A OSARE, PRIMA CHE LA PAURA MI RENDA L’OMBRA DI CIÒ CHE AVREI VOLUTO ESSERE. E MAGARI CI RITROVEREMO UNITI ALLA FINE DEL VIAGGIO.»


1 VUOTO

6 ottobre 1980 Le iridi avevano lasciato il posto a un baratro. Unʼenorme fossa scavata dal dolore, ora tana delle tenebre più dense. Elena sedeva sul letto di una camera stretta e gettata nella penombra, le gambe incrociate e la testa riversa di lato sulla spalliera. Ticchettava con la nuca sulla parete, come se stesse scandendo il ritmo della pioggia che graffiava le finestre. A un tratto il suo incedere fu tale da sembrare di poter crepare le vetrate. «Arriveranno a breve», annunciò Marco, unʼombra stagliata sullʼuscio della camera. «Devi collaborare.» Lʼaltra continuava a fissare davanti a sé, mentre la mano sinistra stringeva la presa attorno a un vecchio orsacchiotto di pezza. «Amore, devi reagire. Sofia lo avrebbe voluto», il marito le si affiancò sedendosi sul bordo del materasso. «Devi farlo. Dobbiamo farlo.» Un lampo squarciò la notte e illuminò gli occhi dellʼuomo. Tremavano, come liquidi. «Faranno solo qualche domanda. Ancora alcune», soggiunse, le labbra sottili percorse da piccoli spasmi. Il boato del tuono riecheggiò lontano. Elena si voltò appena, osservando le narici del coniuge allargarsi. Voleva parlare, ma non ne aveva la forza, così lo fissò e Marco vide in lei tanto a fondo da scorgerne il dolore agitarsi, prendere forma e mutare in una bestia famelica. Scattò in piedi, terrorizzato. In quello sguardo colse un oceano di parole, tanto vasto da comprimergli la testa. Comprese il dolore, la rabbia, lʼodio. «Fallo per lei», ribadì, in lacrime. 5


Qualcosa, nellʼanimo di Elena, si era sgretolato. Una lastra di ghiaccio scossa da un vento troppo forte, una foglia secca calpestata dal temporale. «Ho perso una figlia. Non posso perdere anche te», continuò, portandosi le mani al viso. «Papà, che succede alla mamma?» Un bambino stava assistendo alla scena dal corridoio, immobile sul parquet consumato. «Mamma è solo preoccupata. Starà meglio», assicurò lui con voce rauca. «Andiamo di sotto.» «È per Sofia. Non è andata a giocare, vero?» «Ma certo. Deve solo aver cambiato luogo, e potrebbe avere bisogno di aiuto per ritrovare la strada», Marco accarezzò i capelli del piccolo, trattenendo le lacrime che stavano per annebbiargli la vista. «Manca da tre giorni. Piangi perché non sai se tornerà, non è vero?», il piccolo strinse i pugni. «È giusto che un padre si preoccupi per i figli: sono la cosa più importante che ha. Lei si è smarrita, e noi la ritroveremo. Vuoi aiutarmi?» «È quello che fanno i fratelli maggiori. Lo hai detto tu.» Marco annuì, e il viso mutò in una maschera blu lampeggiante. «È la polizia?» «Sì», disse, mentre scendeva le scale per il salone dʼingresso. «Cosa vogliono?» «Aiutarci. Faranno delle domande alla mamma.» «Ieri non ha parlato», dubitò il giovane. «Perché non dice più nulla?» «Perché è triste», Marco aprì la porta e una coppia dʼagenti entrò. «Buonasera, signor Iardi. Sua moglie dovʼè?», esordì il più alto dei due, la giacca della divisa segnata da gocce che puntavano ai bottoni. «Al piano di sopra, vi accompagno.» «De Micheli, resta col giovanotto», ordinò poi allʼaltro, che annuì serio. «Ha detto qualcosa?», chiese a Marco. «No. È ancora sotto shock. È quello che mi ha detto un medico, per lo meno. Elena si è rifiutata di fare degli accertamenti.» «Forse associa questo evento ad altro. Non lo sappiamo.» «O, più semplicemente, reagisce in maniera diversa rispetto a come ho fatto io o farebbe lei», constatò, incollando le pupille sullʼultimo arrivato. 6


«Lasci che faccia il mio lavoro, signor Iardi», ribatté il funzionario di giustizia approcciando alla camera in cui Elena era ancora immobile. Gli occhi della donna erano ancorati di fronte a lei, i muscoli del viso contratti in una superficie frastagliata e marmorea. Il pupazzo era rimasto nelle sue grinfie, e lo custodiva come fosse stato un blocco di diamante. «Signora, abbiamo bisogno di alcune risposte.» Lʼinterrogata non reagì. Non un battito di ciglia o un sospiro. «Non impiegheranno molto», tentò di tranquillizzare Marco, concentrandosi per gestire la respirazione. La situazione non era delle migliori, e temeva che il cuore gli giocasse un altro brutto scherzo. «Può tornare giù da suo figlio, se vuole.» «No, agente. Resterò con mia moglie finché non parlerà.» «Io non posso fare lo stesso, però. Purtroppo il tempo è tiranno, come si suol dire.» «Allora perché non inizia con le domande?» Controllare la calma in quelle circostanze e con quellʼuomo sarebbe stato più difficile del previsto. «Bene, allora», riprese lʼaltro, tornando su Elena. «Quando ha visto lʼultima volta sua figlia?» Silenzio. «Rispondi, diʼ qualcosa... diʼ qualcosa!», esclamò Marco. Sentiva di poter perdere le staffe in qualsiasi momento. Il poliziotto gli afferrò il polso, come a redarguirlo di non intromettersi. «Crede che possa essere andata in un posto in particolare?» Ancora nulla. Elena si limitava a scrutare lʼorizzonte, la testa altrove. I capelli scarmigliati vennero smossi da uno spiffero che aveva fatto irruzione tra le giunture degli infissi. «Ha idea di chi possa essere stato?» Elena alzò il capo, come riportata alla realtà dopo un lungo viaggio mentale. Puntò con lentezza lʼindice destro a una mensola addossata al muro e dilatò le pupille. Lʼagente guardò in su e tastò con una mano sulla parete per premere il pulsante della luce. «È fulminata», rivelò Marco, avanzando verso il piano di compensato per esaminarne un vaso esposto. 7


Non era molto grande, di terracotta. E raffigurava un volto demoniaco. Un volto simile a quello che Marco aveva scorto negli occhi della moglie. Elena non esisteva più. Tutto ciò che era stato in passato, giaceva ora sepolto nellʼoblio.

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2 RESTI

12 febbraio 2020 Le ruote della mountain bike macinavano le foglie rattrappite sul manto di terra umida. Il sentiero dissestato sʼinerpicava in alto, dove i faggi erano più fitti e il rumore del vento ululava con più forza. Il ragazzo strinse lʼimbottitura di gomma attorno al manubrio e spinse con maggiore vigore contro i pedali, scandendo ogni contrazione dei muscoli gettando aria dalla bocca. A un tratto perse il controllo, e il mondo si ribaltò. Rotolò lungo il fianco di una scarpata, tentando di prendere i ciuffi d'erba e le radici che spuntavano dal suolo per fermare la corsa. Infine batté contro un grosso arbusto dalla corteccia dipinta dalla resina. «Aiuto!», mugolò, in lacrime mentre si teneva con una mano il fianco. Aveva fitte dappertutto e a ogni respiro sentiva le costole sussultare e gemere, come sul punto di esplodere in frammenti. Allungò una mano per afferrare la fidata borraccia azzurra, che lo accompagnava in tutte le escursioni in montagna ed era motivo di gelosia tra i suoi amici. Dove questi ultimi fossero, però, non lo sapeva. Cʼera stato un momento in cui si era dedicato tanto alla corsa da non essersi accorto se gli altri fossero rimasti dietro o meno. Forse sono già in cima, alla fine della strada, pensò. Bevve un sorso dal contenitore con avidità, sforzandosi di non gridare quando alzò un braccio. Le labbra aride si serrarono sul beccuccio e poco a poco tornarono a inumidirsi. «Aiuto!», urlò ancora, forte di una voce rinvigorita dallʼacqua. Il vento rispose in uno sbuffo che gli scompi9


gliò i capelli ricci, facendolo voltare. Solo allora il giovane scorse una macchia più scura in un enorme masso perlaceo. «Cʼè qualcuno?», domandò, alzando il tono. Era solo. Eppure, quei rampicanti penzolanti che lasciavano intravedere il buio lo intimorivano. Temette che fosse lʼingresso alla tana di un animale più grande, o che avesse scoperto il covo segreto di un mostro. Spostò gli occhi sulla bicicletta, a pochi passi da lui. Era graffiata, ma i raggi delle ruote sembravano intatti. Posso tornare indietro e fuggire, rifletté. O andare lì dentro e raccontarlo agli altri, continuò, tornando a guardare verso lʼarea sconosciuta. Respirò a fondo sopportando altre fitte. Sotto la felpa scura dovevano essere apparsi diversi graffi perché quando si alzò dovette mordersi lʼinterno di una guancia per resistere. Affannato, avvertiva la curiosità prendere il sopravvento. Non seppe mai se fu solo quella a muoverlo verso la grotta o la possibilità di primeggiare sui suoi amici. Potevano anche essere entrambe le cose, ma questo rimase un dubbio nella sua testa. Zoppicò guardingo, i nervi tanto tesi da poter scattare al minimo rumore. Una foglia schiacciata dalle suole o il cinguettio di un uccello sarebbe bastato. «Davide!», esclamò qualcuno dallʼalto. Questi sobbalzò, facendo scattare le pupille in alto. Dalla cima della depressione lo stava raggiungendo uno dei membri del gruppo. «Gli altri dove sono?» «Avanti. Credo di essere stato lʼunico a sentirti gridare aiuto, che cosa è successo?» «Sono scivolato dalla bici, trascinandomela dietro mentre rotolavo fino a qui», Davide indicò un punto tra gli alberi. «E la tua mountain bike?» «È ancora intera. Cʼè solo qualche graffio.» Lʼaltro alzò lo sguardo alle spalle del compagno, adocchiando le ruote scure che si distinguevano sul manto verde e arancio del bosco. «Allora recuperala e andiamo via, ci aspettano. Perché ti dirigevi dallʼaltra parte?» Davide puntò lʼingresso buio nella pietra. «Non ti incuriosisce?» «Non ti spaventa?» 10


«Non quanto mi incuriosisce. Ci pensi? Potremmo dire agli altri di aver esplorato una grotta da soli!», chiosò euforico, deglutendo. «Se non ci vedono staranno in pensiero. Dobbiamo raggiungere il punto dʼarrivo, niente di più.» Davide inarcò un sopracciglio e scosse il capo. «E va bene, allora andrò da solo. E sarò io a prendermi il merito», asserì, continuando a dondolare verso i rampicanti. Erano come una tendina davanti allʼingresso di un balcone. «Stai zoppicando, rientriamo subito! Devi farti vedere!», lo redarguì lʼamico, avanzando con maggiore foga. Lo bloccò per un polso, ma lui si divincolò spingendolo a terra. «Vaffanculo, Daʼ, io là dentro non entro!», inveì, sollevando delle foglie mentre tornava in piedi. «Me ne vado», concluse, lapidario. Davide si voltò a guardarlo, mordendosi il labbro. Sentì un tremolio nervoso al braccio quando si rimise sui suoi passi. Lʼedera aveva artigliato la pietra, districandosi in unʼalta ragnatela verde che scendeva a cascata sullʼingresso. Mise una mano tra le trecce della pianta, scostandone un lembo per rivelarne lʼoscurità che vi si annidava dietro. Ora che aveva liberato un piccolo passaggio anche per la luce, il sole irrompeva nella grotta schiantandosi su una parete frastagliata. Davide si aggrappò allʼedera strappandola dal sostegno su cui aveva prosperato, e subito lʼantro si rischiarì. Era molto piccolo, distante dal pensiero che terrorizzava il giovane. Il ragazzo tirò un sospiro, a simboleggiare il sollievo e la delusione che provava al contempo. Il fatto che non fosse la grotta terrificante su cui aveva fantasticato attimi prima aveva distrutto lʼimmagine da eroe che avrebbe voluto vantare con i suoi amici, ma la consapevolezza di trovarsi in un posto sicuro lo acquietava. Si spinse oltre lʼingresso. Dentro faceva più freddo e si respirava lʼodore del terreno umido. Un profumo pungente, che pizzicava al naso e contrastava quello esterno. Mosse qualche passo quando sentì qualcosa sotto di lui infrangersi, un rumore secco e breve. Ai suoi piedi cʼera un piccolo mucchio di terra rialzata. Davide deglutì. Sotto quel malloppo scuro di pietre, foglie e fango essiccato, qualcuno poteva aver nascosto qualcosa. Un tesoro, magari. 11


Il giovane si abbassò, osservò sotto di lui poi controllò che fosse solo lanciando uno sguardo allʼingresso. La luce lo infastidì, si era abituato alla penombra. Distolse lʼattenzione dallʼapertura strizzando gli occhi poi, dapprima esitante, iniziò a scavare. La terra sʼannidò in pochi istanti sotto le unghie e sʼavvinghiò alla pelle. Nonostante il fresco, Davide sudava. La curiosità, lʼeuforia e la possibilità di farsi notare dagli amici per cui non era altro che una persona impacciata e goffa, troppo lenta da star loro dietro nelle gare in montagna, gli faceva battere il cuore. Avrebbe potuto riscattarsi, riuscendo a farsi vedere come lui voleva che lo vedessero. Poi le dita sfiorarono qualcosa di liscio e sussultò. Il giovane strinse lʼoggetto e lo riportò alla luce. Era una pietra piatta, scurita dalla terra in cui aveva riposato da tempo. Un minerale raro, forse. Poteva scavare ancora e rinvenirne altri: la sua vita sarebbe cambiata, e anche quella dei suoi genitori. Lʼespressione risoluta si dissipò quando avvicinò di più gli occhi alla sua scoperta: non era nulla di prezioso. Quello che stringeva tra le mani era un osso. Tremò, poi annaspò alla ricerca dʼaria mentre si sforzava di rialzarsi. La luce del sole era svanita, e tutto era mutato in un tunnel buio e senza uscita. Scivolò a terra con le pupille dilatate e sollevò lo sguardo, bianco in viso. Altri tre tumoli erano davanti a lui, a distanze uguali lʼuno dallʼaltro. Davide era in una tomba, e lʼentusiasmo venne soppiantato dallʼorrore.

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3 TELEFONATA

Tutto era al proprio posto, dai gingilli esposti sui ripiani dei mobili ai vasi di fiori. Matteo ricordava lʼossessione di suo padre quando si trattava di mantenere in ordine lʼappartamento. Metodico e rigido, Marco non aveva mai dimenticato qualcosa fuori posto. «Mi mancava», disse Matteo, passeggiando per il soggiorno. «Cosa?», lʼaltro corrucciò la fronte, alzando poi un bicchiere di brandy per indicare il divano. «Questʼassenza di naturalezza», il figlio colse lʼinvito, sedendosi e puntando gli occhi sullʼuomo. «Sembra la casa di un automa.» «Grazie per le belle parole.» «Davvero, guardati attorno. È sempre tutto così impeccabile, sembra che non ci viva.» «Ho molto tempo libero da quando sono da solo, dovevo pur impegnarlo. Oltre alla corsa, intendo.» «Un centometrista nostalgico», pungolò lʼaltro. «Posso tenermi in forma, perché non farlo? Alla mia età sono tutti derelitti, a trovarne come me.» «Corsa, ordine, pulizia e informazione. È uno schema che ripeti ogni giorno, come se non fossi umano. Potevi restare in compagnia. Della mamma, magari. Avere qualcuno al tuo fianco è una variabile che può rompere la routine e non sempre in negativo», Matteo sʼirrigidì di colpo e Marco fece lo stesso. «Sai che non era possibile.» «È possibile tutto ciò che vogliamo davvero», fu la risposta, il tono inflessibile. 13


«Puoi ripetertelo per giungere alla conclusione delle tue indagini, ma la realtà è diversa. Perché sei qui?» «Non cʼè un motivo esatto. Volevo solo vederti, forse. Ma ora me ne vado», Matteo si alzò, strappò il bicchiere di liquore dalla presa del padre e lo scolò, riponendolo poi su un tavolino di vetro. «Puoi parlarmi, lo sai.» Matteo si fermò sullʼuscio. «Non è niente, sul serio. Una sensazione: è stata solo quella a portarmi qui.» «Ho quasi ottantʼanni, magari temi che non arriverò ancora lontano», gli sorrise Marco, allargando le braccia. «Può darsi. Sì, sarà di certo quello.» «Stronzo», biascicò Marco, distogliendo lo sguardo dalla porta che si richiudeva. Matteo osservava la sigaretta consumarsi, con le dita infreddolite appoggiate sul davanzale della finestra aperta. Era come vedere la vita dissolversi e scivolare via. Qualcuno bussò alla porta, e lui sospirò. «Prego», disse, liberandosi del mozzicone in un vecchio posacenere scheggiato. Un uomo dai capelli brizzolati entrò, il passo veloce e i muscoli tesi. «Commissario Iardi», salutò con finta formalità. «Ispettore Cenci», ricambiò Matteo, fissandolo dalla sedia in ecopelle su cui si era lasciato sprofondare. «Cosʼè successo?» «Un ragazzino ha chiamato la centrale poco fa, dice di essere finito in una grotta durante unʼescursione con amici.» «Se ti ha chiamato ne è uscito salvo. Ottimo.» «Cʼè dellʼaltro, in verità», continuò lʼispettore, sporgendosi sulla scrivania. «Ha trovato dei resti umani, non lontano da dove vivevi tu.» «Credi che sia vero? Non ricordo di grotte nel bosco», il viso di Iardi era come sormontato da un filtro che lo scuriva. «Al telefono era molto scosso, ho parlato anche con i genitori. Forse dovremmo cercare quel posto, sarebbe più veloce se portassimo quel giovane con noi.» «Stefano, è traumatizzato. Non puoi chiedergli di seguirci.» «Insomma, andiamo o no?», alzò il tono lʼispettore, stringendo i pugni. «Se è tutto reale in quel luogo potrebbero esserci ciò che rimane di gente data per dispersa. Non credi che la faccenda meriti un minimo dʼattenzione? Non puoi continuare a tergiversare.» 14


«Non lo sto facendo», Matteo sʼavvicinò a una spanna dal volto dellʼaltro. «Ho solo detto che quel piccoletto non verrà con noi. O forse hai colto qualcosa in più rispetto alle mie parole?» Stefano sospirò. «So che non torni in quelle zone da un poʼ, e posso capire. Ma il passato non può influenzare il tuo lavoro.» «Questo lavoro è il risultato del mio trascorso, Steʼ. Credi che la scomparsa di una sorella e una madre impazzita siano facili da gestire? Pensi che non influenzino ogni aspetto della vita di un uomo?», gli occhi di Matteo dardeggiavano. «Se avessi vissuto la mia adolescenza, nemmeno tu saresti lʼuomo che sei oggi. Nessuno lo sarebbe. Quindi, prima di rivolgerti a me con questi modi, accendi quella cazzo di testa. O, in nome della nostra amicizia, giuro che te la spacco.» Cenci esitò, poi annuì. «Va bene, non è necessario che tu venga.» «Allora aspetterò tue notizie. Hai il mio consenso», concluse il commissario, seguendo con le pupille il compagno che si alzava dalla sedia per lasciare lʼufficio. Matteo si rilassò sulla sedia e piegò il capo allʼindietro, gli occhi chiusi e il respiro che tornava stabile. La luce delle sirene scavò nella sua mente, la pioggia che batteva contro i vetri e sua madre che fissava un punto nel vuoto. Tutto tornava allo stesso modo, con lo stesso potere distruttivo. E se tutto questo stesse accadendo per un motivo? Se non ho mai notato quella grotta, significa che non ho cercato a fondo. E Sofia potrebbe essere ancora lì, rifletté, schiavo del desiderio di ritrovare la sorella. Si mise in piedi aiutandosi con i braccioli, poi estrasse unʼaltra sigaretta dal pacchetto malandato e se la infilò in bocca. Aspirò mentre con una mano agitava un accendino davanti a sé per accenderla. Una nuvola di fumo si espanse nella stanza, e Matteo tornò a scrutare oltre la finestra del secondo piano. Vide lʼispettore Cenci accelerare il passo quando uscì dalla centrale e puntò lʼautomobile. Matteo ingoiò ancora catrame. «Cenci!», chiamò, venendo scosso da un colpo di tosse. Questi si voltò, poi alzò lo sguardo alla ricerca di quello del collega. «Sto scendendo.» «Per di qua», puntò lʼispettore, aggirando un ginepro. «Erano in bicicletta, quindi dovremmo seguire il sentiero.» 15


«Come ci è arrivato alla grotta?», interrogò Matteo, guardandosi attorno. «È scivolato in una scarpata e lʼha vista.» «Allora dovremmo continuare ancora un poʼ. Ci sono delle piccole depressioni nel terreno ai fianchi della strada, quando questa impenna verso la coltre di faggi.» Stefano annuì, ma non disse nulla. Pensò al tempo che il suo amico doveva aver trascorso lì, quando era impegnato nella ricerca della sorella. Matteo camminava con naturalezza, come se avesse calpestato tante volte quel terreno da conoscerne ogni pietra o acaro a memoria. Secondo Cenci, avrebbe potuto farlo anche da bendato. «Scusami per prima, in ufficio», disse poi questʼultimo. «Non ci stavo già più pensando», rispose lʼaltro, continuando a guardare davanti a sé. «So che per te è stato difficile. Non intendevo offenderti, se lʼhai intesa così.» «Lo hai fatto, non lʼho intesa io così», Iardi si fermò ancorando gli occhi in quelli del collega. «E comunque, ho detto che non ci sto pensando più.» «Non cʼè bisogno di scaldarti in questo modo. Siamo persone, puoi comunicare.» «Steʼ, che problema hai?», Matteo fremeva, colto da una rabbia di cui da anni era diventato vittima. «Ti comprendo, lavoriamo assieme da una vita e voglio starti accanto, ma a ogni mia frase trovi qualcosa che non va. Cʼè sempre un motivo per cui tu possa incazzarti: perché?» «Sai perché faccio questo lavoro? Te ne ho mai parlato?» Cenci batté le palpebre, poi scosse il capo e portò le mani ai fianchi. «No, non lo so.» «Per gestire questo fuoco che porto dentro da quarantʼanni. È questo che mi ha portato fin qui. Sono una mina pronta a esplodere, e lo riconosco», si fermò per tossire, poi si passò una mano tra i capelli. «Fosse stato per me, avrei lavorato da solo.» «Hai sempre avuto il mio sostegno. Dopo i momenti assieme, ho capito che cʼè più buono in te di quanto tu creda... ma se vuoi essere aiutato, devi permettere a chi ti sta accanto di farlo», Stefano fissò Matteo con espressione decisa. 16


Lʼaltro sorrise. «Il punto è che non voglio essere aiutato. Io non devo e non posso dipendere da nessuno. Se ho perso qualcosa, starà a me ritrovarlo.» «Cosa, Matteʼ? Cosa vuoi ritrovare?», lʼispettore sospirò, stremato. «Sofia?» «Non nominarla!», sbottò Iardi, afferrandolo per il bavero della camicia. Restarono immobili per diversi secondi, finché un suono riecheggiò tra i rami. Il commissario lasciò la presa e indietreggiò, estraendo la pistola e puntando in alto. Aveva il respiro pesante e il viso pallido solcato dal sudore. «Un uccello», lo calmò Cenci, sistemandosi i vestiti. «Solo quello.» Matteo aveva le braccia distese, tremante come se fosse stato incatenato in una cella frigorifera. «Scusami. Ma non torniamo più sullʼargomento», ripose lʼarma e si passò una mano sulla fronte per detergere il sudore. «Continuiamo. Non manca molto.» La coppia avanzò, tagliando tra gli alberi quando Matteo indicava quelle che sapeva essere scorciatoie. Intanto, il sole si faceva più basso. «Se non ci sbrighiamo arriveremo col buio», considerò Cenci, digrignando i denti. «Se ci sbrighiamo, invece, ci faremo solo il ritorno nellʼoscurità», sottolineò il commissario, sfiorando un alto ciuffo dʼerba con un palmo della mano. «Cosʼè, tanta fretta di venire e ora hai paura del tramonto?» «Dico solo che con la luce possiamo vedere meglio.» «Ottima considerazione, Cenci. Sei un buon ispettore», Iardi abbozzò un sorriso. «Non hai una torcia?» «Io sì. Sono sempre premunito, dovresti avere imparato a conoscermi.» «E chi lo dice?» «Sono la tua spalla da...» «Sì, lo so, risparmiati la tiritera. Il punto è che conoscere una persona è unʼattività che non può mai arrivare a conclusione.» «Dovresti essere più fiducioso nelle tue doti deduttive. Un commissario con tanta esperienza dovrebbe risolvere i problemi scovandone le soluzioni quasi col solo pensiero», ribatté Stefano. 17


«Non do nulla per scontato», Matteo arricciò il muso. «Daniel Boorstin sosteneva che il più grande nemico della conoscenza non è lʼignoranza, ma lʼillusione di sapere.» «E chi era questo Boorstin?» «Non lo so, ma doveva essere una persona molto convincente.»

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