È GIORNALISTA PROFESSIONISTA. È NATO A TARANTO NEL 1964. HA LAVORATO PER QUOTIDIANI, TV, RADIO E WEB. È CO-AUTORE DEL THRILLER A SFONDO ARCHEOLOGICO LE MANI DI PERSEFONE (BESA EDITORE) E DEL SAGGIO I GIORNI DI TARANTO (SCORPIONE EDITRICE) SULL’INCHIESTA “AMBIENTE SVENDUTO”. È APPASSIONATO DI FOTOGRAFIA: APPENA POSSIBILE OSSERVA LA REALTÀ DAL MIRINO DI UNA REFLEX IMMAGINANDO DI SCATTARE ISTANTANEE ETERNE. HA ALL’ATTIVO DUE PERSONALI: “CEMENTO” E “OBIETTIVO PAOLO VI” NELL’AMBITO DELLA RASSEGNA FOTOARTE. PRATICA NUOTO E AMA LE USCITE ALL’ARIA APERTA IN SELLA ALLA SUA MOUNTAIN BIKE.
L’infanzia a Taranto nel Ventennio, flash ripercorsi da una donna 93enne dallo spirito battagliero. Basta un niente, e un fiume di ricordi è pronto a tornare con prepotenza, travolgendola. Suo figlio la ascolta affascinato da quei racconti sempre nitidi. Fringuella è nato così: ascoltando la madre improvvisare “una delle sue solite scorribande a ritroso nel tempo”. Michele Tursi, giornalista, usando l’esperienza di chi con la cronaca si misura ogni giorno, ha fatto diventare romanzo la storia di una bimba che nel 1934 aveva sette anni.
ISBN
978-88-6960-124-8
9 788869 601248
€ 13,00
MICHELE TURSI FRINGUELLA
MICHELE TURSI
MICHELE TURSI
FRINGUELLA
FRINGUELLA CAMMINAVANO IN SILENZIO ACCOMPAGNATI DAI PASSI TRASCINATI SULLA STRADA SCONNESSA. FRINGUELLA FISSAVA LA PUNTA DEI PIEDI: DESTRO, SINISTRO, DESTRO, SINISTRO. ANCHE UN PAIO DI SCARPE VECCHIE, PULITE E BEN CONSERVATE, FACEVA FIGURA. QUESTO LE RIPETEVA SUA MAMMA. LA POVERTÀ O TI AMMAZZA O TI RINFORZA, DICEVA ZIA CATARÌ, MA ALLA GUERRA NON CI SI ABITUAVA MAI, DA POVERI E DA RICCHI. SULLA SOMMITÀ DEL PONTE DI PIETRA EBBERO CHIARA LA DIMENSIONE DEL DISASTRO. LA PRIMA SENSAZIONE FU DI STRANIAMENTO. I LORO SGUARDI POTEVANO VAGARE SENZA INCONTRARE OSTACOLI. NON C’ERANO MURI O EDIFICI A SBARRARE IL PERCORSO DEI LORO OCCHI E NEMMENO LE COSTRUZIONI FAMILIARI CHE FACEVANO DA RIFERIMENTO E TANTE VOLTE ERANO STATE UN PUNTO DI INCONTRO. SOLO MACERIE. CUMULI DI LATERIZI, TRAVI DI LEGNO, QUALCHE VECCHIO MOBILE. I BOMBARDAMENTI AVEVANO UCCISO E MUTILATO DECINE DI PERSONE E MUTATO LA GEOGRAFIA DEI LUOGHI RENDENDOLI IRRICONOSCIBILI AI LORO STESSI ABITANTI. PORTA NAPOLI E LA ZONA DEL VICINO CIMITERO ERANO STATE LE PIÙ MARTORIATE DALLE GRANATE. IL MULINO DE MATTEO, RASO AL SUOLO. LE TOMBE DEL SAN BRUNONE DIVELTE. I CUMULI DI TERRA SOLLEVATI DALLE BOMBE SEPPELLIVANO ORA NUOVI E VECCHI CADAVERI.
«Ehi mister, I want segnorina.» Jack veniva dalla California, parlava una lingua meticcia come quella dei suoi genitori arrivati dalla Calabria in cerca di lavoro e fortuna. Il lavoro lo trovarono, la fortuna sfilò beffarda davanti alle loro mani senza che riuscissero ad acciuffarla. Un 4 al posto di un 5. Un solo numero di differenza tra il biglietto vincente e quello comprato da papà Alfonso che ancora ricordava il tipo davanti a lui e le dita sporche di grasso che piegarono il tagliando da 500mila dollari. «A voi andrà meglio» ripeteva ai tre figli nati nel nuovo mondo. «Aiutare me, please. I pagare.» Jack accompagnava le parole con ampi gesti e con l’andatura incerta per il troppo vino. La divisa sgualcita strofinava contro le pareti di tufo del vicolo. Un randagio lo seguiva scodinzolando. Lo stretto budello sbucò in uno slargo. Rintanati vicino a un portone, alcuni giovani scherzavano tra di loro. La sagoma del militare apparve in controluce sotto un bagliore giallognolo. Erano in quattro intorno a una cassetta di legno. Posarono le carte da gioco e si girarono verso di lui. Jack avanzò allungando il braccio sinistro in segno di saluto. Sfoderò un bel sorriso ma al gruppetto non sfuggì l’altra mano sull’arma adagiata nella fondina. «Ehi paisà, drink?» disse uno sollevando il bicchiere. «No grazie, I want segnorina...», rispose Jack che ormai li aveva raggiunti. I quattro scoppiarono a ridere e uno di loro con la coppola nera fece segno a Jack di seguirlo. «Vieni con me» disse scomparendo nel buio della città vecchia. Nel settembre del ‘43 gli alleati sbarcarono a Taranto. Arrivarono via mare attraverso il Canale Navigabile senza sparare un colpo. La città fu requisita: il Museo, le fabbriche, gli alberghi, le ville divennero sedi dei comandi, degli ospedali, dei reparti militari. Le unità navali ormeggiate ai moli di Mar Piccolo, rifornivano la città vecchia di nuova umanità. Convivenza obbligata, non sempre facile. Marinai e soldati si insinuavano nelle tortuose stradine del centro storico. E qualcuno finiva sotto le lenzuola di donne pronte a concedersi per fame o solo per dimenticare. «Ti porto da beautiful signorina.» Mimmo camminava a passo svelto. Si muoveva con agilità tra gli spigoli dei palazzi. Jack lo seguiva distanziato di qualche metro trascinando gli anfibi sulle chianche scure. Dopo dieci minuti uscirono 14
dal dedalo di vicoli e arrivarono vicino al mare. Jack riconobbe, poco distante, il profilo dell’incrociatore su cui era imbarcato. La bandiera a stelle e strisce sventolava sul pennone, vicino al radar che non stava mai fermo. La sua California era lontana migliaia di chilometri, ma quella strada di cui fino al giorno prima ignorava l’esistenza, gli sembrò familiare come una via del suo quartiere. Urtò Mimmo che si era fermato ad attenderlo. «Oh paisà, stai attento», lo rimproverò. «Aspettami qui», disse agitando le braccia «mo’ torno». Jack lo guardò perplesso, lo vide allontanarsi e si appoggiò al muro. Seguì con lo sguardo l’italiano per una trentina di metri. Poi Mimmo girò a destra e scomparve nell’oscurità. Aveva più di un’ora prima di tornare a bordo. Si rallegrò perché da lì avrebbe raggiunto la sua nave in cinque minuti, o poco più. Così, avrebbe avuto più tempo da trascorrere con la segnorina. Si pregustò i piacevoli momenti che l’attendevano, tirò fuori una Camel dal pacchetto, l’accese inseguendo con gli occhi i nastri di fumo che si perdevano sopra la sua testa. Quando Mimmo fece ritorno, Jack guardava il mare. Si girò di scatto sentendo i passi dietro di lui. L’italiano sorrideva e con le mani disegnava le curve della donna che l’attendeva. Prima che il militare aprisse bocca, Mimmo gli spiegò dove andare. Avanzarono insieme di qualche metro. Si fermarono davanti a un cortile con un’aiuola ovale al centro. Mimmo gli indicò la finestra e il portone a cui bussare. «Ok, ok», rispose Jack ad alta voce. Mimmo gli fece segno di non gridare e prima di congedarsi gli porse la mano destra con il palmo rivolto verso l’alto. Jack fissò la mano senza capire. «Money, money», fece Mimmo agitando il palmo. Il marinaio sfilò dalla tasca una moneta da mezzo dollaro e gliela consegnò. Mimmo la strinse e la nascose nelle mutande prima di sparire come un fulmine verso via Di Mezzo. Jack restò da solo. In lontananza udiva alcune voci e qualcuno russare. Dalle navi proveniva un rombo sordo. Un cupo tappeto sonoro per quei giorni carichi di angoscia e di speranza. “Ok, let’s go… andiamo”, pensò tra sé. Si avvicinò alla finestra al piano terra. Dietro la tenda bianca vibrava la fiamma di una candela che rischiarava appena la camera. La stanza sembrava vuota. Jack scostò le persiane e alzò la tenda. Infilò la testa nella finestra per guardare meglio. 15
«Ehi segnorina» disse a bassa voce «segnorina io fare ammore». Un’ombra si mosse all’interno. Era una donna. Indossava una sottana nera sotto cui si intravedeva il seno generoso. Si avvicinò alla finestra e vide Jack. Anche Jack la guardò. “L’italiano non mentiva”, pensò, “big tits!”, sorrise. «I love you segnorina.» Jack ormai eccitato tentò di entrare dalla finestra. La donna lo bloccò e con una spinta lo fece ruzzolare per terra. Jack imprecò ad alta voce e appena riconquistò la posizione eretta si avventò come una furia sulla finestra che la donna nel frattempo aveva sbarrato. Battè con forza sulle persiane. «Segnorina, segnorina», gridò. A poco a poco il cortile riemerse dal torpore della notte. Jack ruppe ogni esitazione, entrò nel portone e cominciò a prendere a calci la porta. Cercò di sfondarla con la punta degli anfibi rinforzata col metallo. La donna urlò. «Gli alleati, vogliono entrare in casa mia. Aiuto, aiuto!» In breve il cortile si animò di voci, di occhi, di vetri spalancati e di case illuminate. Accorsero anche tre ragazzi che camminavano su via Di Mezzo. Alcuni di loro abitavano in zona e quella confusione non era normale. Si avviarono di corsa. In pochi minuti raggiunsero il portone. Jack scalciava come una furia. Alle sue spalle un uomo era uscito dalla casa di fronte. I ragazzi si avventarono su Jack, lo spinsero facendolo barcollare. L’americano, però, aveva un fisico roccioso e cominciò a tirare pugni a chiunque gli si parasse davanti. Un paio di ragazzi furono stesi da due destri potenti. Uno fu colpito allo stomaco, l’altro in pieno volto. Approfittando del momento favorevole Jack sfilò la pistola dalla fondina e la puntò contro i due finiti per terra. Parlava in inglese ma le sue parole risultarono ugualmente minacciose. Fu allora che l’uomo fece segno a un altro del gruppo rimasto defilato. Richiamò la sua attenzione con un gesto veloce e lo sguardo furtivo intriso di paura. Quando il giovane gli fu vicino, senza aprire bocca e continuando a fissare l’americano che avanzava verso i due per terra, gli allungò la paletta in ferro battuto usata per girare il carbone nel braciere. Il ragazzo afferrò il bastone con due mani. Lo sollevò e colpì con tutta la forza che aveva in corpo. L’estremità dell’attrezzo sfondò il cranio di Jack. Il marinaio americano spalancò gli occhi e si bloccò con le gambe leggermente divari16
cate e le ginocchia piegate. Il ragazzo lasciò il bastone ma la pala di ferro restò conficcata nella testa del militare. Dopo qualche istante, Jack alzò il braccio sinistro come per scacciare un insetto fastidioso che gli ronzava intorno, il corpo oscillò e la paletta cadde. Un rivolo di sangue scivolò lungo il collo tingendo di rosso la divisa. I due per terra si rialzarono in fretta e se la diedero a gambe. Anche l’altro uscì di corsa dal portone. «I want segnorina» ripeteva Jack che camminava trascinando gli anfibi. Era al centro del cortile, procedeva barcollando e dopo qualche passo cadde. «Ehi, fuck. I kill you» esclamò prima di rialzarsi. I suoi occhi brillavano nella notte. L’uomo era tornato in casa sprangando porta e finestre. La donna aveva smesso di urlare. I curiosi erano tornati a letto. Intorno a Jack c’era solo il silenzio interrotto dai suoi passi pesanti. Una scia di sangue segnò il cammino fino alla chiesa di San Giuseppe. Sul sagrato cadde per la terza volta sbattendo il volto. Aveva la bocca colma di terra e di sangue. Respirava a fatica. Chiuse gli occhi e d’un colpo fu abbagliato dal sole come quando da bambino sedeva in giardino e sua madre gli preparava il frullato. Poi fu di nuovo notte. Per sempre.
17
«Povere uagnone, che brutta fine e povera mamma. Il cuore si sarà spaccato. È brutto il dolore dei figli, fattelo dire da me che ne ho persi due, lo sai. Uno si chiamava come te, Michele. L’altra Caterina, come mia madre. Che poi manco in guerra era morto il figlio. Chissà cosa le hanno detto, chissà se le hanno detto la verità?» Mia mamma era seduta sulla poltroncina su cui trascorreva lunghe ore a guardare la TV. Notiziari, soprattutto. Da quando l’aveva scoperto, Rainews 24 era diventato il suo canale preferito. Sentiva poco, ormai, e più che ascoltare lo speaker leggeva le notizie che scorrevano nella parte bassa dello schermo. Quando andavo a casa sua la trovavo in cucina, con il volume del televisore quasi azzerato e la faccia incollata al video. Leggeva abbastanza velocemente per la sua età, ma i termini in inglese non li capiva. Così, spesso, toccava a me riepilogare le notizie del giorno. «… che poi dopo il fatto dell’americano, nel cortile avevamo tutti paura.» «E perché?» domandai. «La polizia militare venne a fare un sacco di domande.» «Immagino…» «Ma non era di quello che avevamo paura.» «E di cosa?» «Del fantasma.» «Vabbè» esclamai con un sorrisetto sulle labbra. Il tono di mia madre cambiò. La sua espressione era accigliata, quasi contrariata dal mio scetticismo. Stavamo entrando nel mondo di mezzo in cui fede, credenze popolari e superstizione danno forma a convinzioni solide e ben radicate. Più la loro origine è impalpabile e aleatoria, più assumono i connotati della solennità e di un misticismo confuso, ma assolutamente sincero. «Naaa ridi, ridi…» fece una pausa e si aggiustò lo scialle rosa che le copriva le spalle. «Dopo la morte di Jack, di notte nel cortile si sentivano i suoi passi e la sue grida.» «Non ci credo», dissi interrompendola. «Tum, tum, tum… il rumore era forte. La voce veniva dal Purgatorio. Segnorina, segnorina, diceva, mi avete ammazzato. Non si dormiva più nel cortile. La paura era assai. Mia madre e le altre donne dei portoni vicini, decisero di fare una veglia alla memoria di Jack. Un venerdì notte si riunirono a casa di Graziella, recitaro18
no il rosario e tutte le preghiere conosciute e sconosciute. La mattina dopo tutte le famiglie accesero una candela ciascuno sull’altare di San Giuseppe e fecero un pensiero buono per quel povero ragazzo. Anni dopo mia madre mi mostrò la tomba del marinaio americano e mi fece promettere che ogni tanto sarei andata a trovarlo…» «Quello non era il fantasma» intervenni «avevate la coscienza sporca perché nessuno aveva raccontato la verità. Chi l’aveva ucciso Jack?» Lo chiesi urlando e non solo per farmi sentire da mia madre. Lei mi fissò e inarcò il sopracciglio sinistro. Conoscevo quell’espressione. Significava cazziatone in arrivo, l’avevo vista altre volte: quando fui rimandato in Greco e Latino al liceo, oppure quando da ragazzino rientravo a casa più tardi del previsto. All’improvviso, però, il suo volto si distese. Il sopracciglio tornò in pari con l’altro, il tono si fece rassicurante. «Michè, Michè» disse «su ‘ste cose non si scherza. Che ne sai tu. La guerra è brutta. C’era fame e miseria pure dopo che sbarcarono gli alleati. E non ti dico sotto al fascismo. Con quelli non si poteva manco parlare…»
19
Anche quella domenica mattina la Gioventù Italiana del Littorio, si esibì nel cortile in via Garibaldi. A Fringuella piacevano le evoluzioni ginniche dei Balilla e delle Giovani italiane. Ma quel giorno la irritarono le chiome folte delle ragazze e le divise bianche e nere in fila per due. Le tornò in mente un episodio. Frequentava la seconda elementare. Entrarono in classe due uomini in camice bianco e uno con la divisa da fascista. La maestra spiegò che il Duce si preoccupava della loro salute, del decoro e dell’igiene personale. Dopo cinque minuti furono chiamati a uno a uno secondo l’ordine del registro di classe. Arrivò il suo turno. Fringuella si avvicinò ai due uomini col camice: il primo impugnava le forbici e le tagliò le trecce, l’altro le rasò la testa con una macchinetta che faceva il solletico. Tornò a casa silenziosa e con il muso lungo. Quando la vide entrare, la mamma quasi non la riconobbe. «Mado’» esclamò «che è successo?» Fringuella non disse nulla, con gli occhi tristi aprì la cartella di cartone e tirò fuori due trecce nere, ancora legate con i fiocchetti rossi alle estremità. Zia Catarì restò senza parole. La guerra ai pidocchi che popolavano le teste della città vecchia, non l’aveva risparmiata benché i suoi capelli fossero puliti e ben curati. Ne soffrì molto fino a quando i capelli non le ricrebbero. Quel ricordo, però, affiorava all’improvviso, come un fiume carsico che sgorga dalla roccia. Tra i discorsi dei gerarchi Fringuella sentiva ripetere la parola guerra. I volti assumevano un’aria severa e la conversazione diventava seria. Anche a casa, mamma Caterina discuteva con papà Nicola e pure lei parlava di guerra. Caterina si lamentava dei pochi soldi e spingeva il marito a fare qualcosa. «Iscriviti, che ti costa» gli diceva «così entri all’Arsenale o ai cantieri Tosi, che là c’è lavoro per tutti, bisogna costruire le navi che Hitler vuole fare la guerra». Nicola non aveva dimestichezza con la politica e i partiti, a lui piacevano il mare e un buon bicchiere di vino. Con il suo lavoro alla Regia Azienda, aveva entrambi. Però, era un padre di famiglia scrupoloso e sapeva che se fosse diventato operaio dell’Arsenale avrebbe garantito ai figli una vita migliore. Non che mancasse loro da mangiare ma qualche lira in più, inutile negarlo, avrebbe fatto comodo. Così ascoltò Caterina. Fece il grande passo e diventò fascista. 20
Il resto lo avrebbe fatto sua moglie attraverso una fitta rete di amicizie, fidando soprattutto su cumpà Mario che aveva battezzato Vincenzo, e che era ben inserito nel partito. Finita l’esibizione delle Giovani italiane, Fringuella si accarezzò i capelli che le cadevano sulle spalle e ritornò di buon umore. Il sole riscaldava la giornata anche se il cielo era lattiginoso e lo scirocco attaccava i vestiti sulla pelle. Il vento leggero trasportava il profumo del mare. Su via Garibaldi, e ancora più giù fino alla marina, c’era il consueto passeggio della domenica con le bancarelle e gli uomini seduti ai tavolini delle cantine a bere vino e a mangiare alici fritte e polpo alla luciana. La rada di Mar Grande custodiva le navi della Regia Marina. Gli scafi nazzicavano come perdoni della Settimana Santa sul mare azzurro. Il cielo era appena punteggiato di nuvole che all’orizzonte sfioravano l’acqua. Sul pennone del Castello Aragonese il Tricolore aspettava un alito di vento per dispiegarsi. Era il 10 giugno e il caldo già non dava tregua. Fringuella indossò una gonna blu e una camicetta bianca abbottonata fino in cima. Aveva 13 anni; la bambina paffuta era diventata una signorinella che già attirava gli sguardi quando camminava a passo svelto su via D’Aquino. Don Pasquale la salutò in maniera cordiale ed educata. Fu l’ultima ad arrivare ma non era in ritardo. Le ragazze parlavano tra di loro mentre indossavano il camice nero da lavoro. Raccontavano di come avevano trascorso la domenica e si lamentavano del caldo. Qualcuna era stata al mare da Meste Anielle e mostrava sul volto il rossore del sole. Alle 8.30 in punto don Pasquale comparve sulla porta del laboratorio. Indossava un abito grigio con il gilet a doppio petto nel quale sfiniva la cravatta di seta azzurra. Il pantalone, con il risvolto all’inglese, sfiorava le ghette che coprivano le scarpe lucide. Fece pochi passi facendo oscillare l’immancabile bastone. Si fermò davanti alla fila di macchine per cucire. Nella tasca destra della giacca aveva La Gazzetta del Mezzogiorno, ma nessuna ci fece caso perché il principale comprava il giornale tutte le mattine. «Oggi è un giorno che cambierà la vita di tutti» disse con l’aria severa e la voce graffiata dalle sigarette. 21
Tirò fuori il quotidiano e lo mostrò alle ragazze. Sulla prima pagina campeggiava una foto del Duce sotto il titolo “Tutti in piazza”. Le ragazze pensarono che don Pasquale si fosse alzato storto. Scandì ad alta voce le prime frasi dell’articolo e si fermò pronunciando le parole “dichiarazione di guerra”. Tra le ragazze si levò un brusio. Fringuella ripensò alle facce dei federali durante l’esibizione della Gioventù Italiana del Littorio. Era la più piccola del gruppo, la più sfacciata e probabilmente la più ingenua. La sua voce sovrastò le altre. «Che significa don Pasquale? Che dobbiamo fare?» «Niente Fringuella, non possiamo farci niente. Dobbiamo aspettare che passi e sperare che passi in fretta. Oggi chiudiamo prima. Chi vuole, può andare in Piazza della Vittoria ad ascoltare il discorso.» Don Pasquale abbassò la testa e si avviò verso il suo piccolo ufficio con la finestra che affacciava sul cortile interno da dove, ogni tanto, conversava con l’avvocato Mariani, uomo colto e di larghe vedute che per quel periodo era già tanto. Il negozio di don Pasquale era su via D’Aquino. Realizzava camicie su misura, colletti inamidati, ricambi per le divise, biancheria intima da uomo e aveva anche un servizio di lavanderia e stireria. Lo aiutava sua moglie, una donna elegante e innamorata di suo marito. Trascorreva le giornate in laboratorio, a volte se ne stava seduta in una nicchia tra la sala delle macchine per cucire e la stireria, proprio di fronte allo studiolo di don Pasquale. Sfogliava riviste di moda e controllava che tutto fosse a posto. Fringuella era la mascotte del negozio. Era arrivata due anni prima. Dopo la terza elementare Caterina l’aveva ritirata dalla scuola nonostante i buoni voti della bambina in matematica e in lettura. «Devi aiutarmi a casa» le disse. Ben presto se ne pentì. Luccia era vivace e in casa alimentava la confusione. Un giorno Francesca, che da piccola aveva appreso da zia Catarì l’arte del taglio e cucito, andò a casa della sua maestra per chiederle se le cuciva il vestito per il matrimonio di sua cugina. Zia Catarì non si fece pregare, però colse al balzo l’occasione. Sapeva che Francesca faceva la camiciaia in un avviato negozio di via D’Aquino. «Mado’ Francè» disse «il favore te lo faccio con tutto il cuore, ma ti devo chiedere una cosa». La ragazza la invitò a proseguire. 22
«Fringuella» continuò «mi fa impazzire, l’ho tolta dalla scuola per aiutarmi, ma quella a casa non può stare: è una rivoluzione. E allora ho pensato che poteva venire a bottega dove lavori tu, così io sto tranquilla e a’ piccenne, s’impara un bel mestiere come quello che fai tu... che dici?» Caterina parlò tutto d’un fiato, accompagnando con gesti delle mani e una vasta gamma di espressioni: accigliato per la vivacità di Fringuella, supplichevole per la richiesta finale. Anche il tono di voce variava in relazione al frammento di racconto. Quando parlava, zia Catarì recitava, era difficile dirle di no. Il giorno dopo Luccia indossò il suo abito migliore e le scarpe di vernice. Caterina le raccolse i capelli in una crocchia chiusa da un bel fiocco rosso. Francesca fu convincente. Si era preparata un bel discorsetto benché con le parole non era brava come zia Catarì. Fu sufficiente. Don Pasquale e sua moglie rimasero colpiti da quella bambina della città vecchia con gli occhi vispi, i modi garbati, vivace come un uccellino. Però era troppo piccola per stare in negozio, avrebbero potuto avere problemi con l’Ufficio del lavoro. Ci pensò donna Matilde a risolvere l’impiccio: «Diremo che è una parente». E così, per tutti diventò la nipote di don Pasquale che si divertiva a chiamarla Fringuella. Dopo il discorso sulla guerra, Fringuella si avvicinò a Beatrice, addetta alle rifiniture dei colletti. Beatrice aveva i capelli lisci e biondi. Era invidiata da tutte per il suo aspetto nordico, accentuato da una carnagione chiara e dagli occhi verdi. In effetti, nelle sue vene scorreva sangue settentrionale. Suo padre era di Monfalcone e faceva il saldatore. Fu chiamato a lavorare nei cantieri Tosi e si trasferì a Taranto. Sui viali ombreggiati della Villa Peripato, una sera di metà settembre, conobbe Anna. Dopo due anni di corteggiamento e di pranzi a casa dei futuri suoceri, la sposò. Beatrice nacque un anno dopo. Poi arrivarono Emanuele e Mario. «Beatrice, è brutta la guerra, vero?» bisbigliò Fringuella. La ragazza le strinse il braccio e sorrise. «La guerra trasforma tutto» rispose. Ma Fringuella non era soddisfatta: «Che significa? Non ho capito». 23
Beatrice l’afferrò più forte: «Ti faccio un esempio. Immagina la nostra vita di adesso come un foglio di carta bianco su cui puoi scrivere e disegnare quello che ti piace di più. E poi immagina un fiammifero che con la sua fiamma brucia quel foglio. Quel fiammifero è la guerra. Quando il fuoco si spegnerà e la guerra sarà finita, quel foglio non sarà più lo stesso. Sarà un sottile strato di cenere e per ricominciare bisognerà trovarne un altro». «Allora, conserverò un quaderno», rispose Fringuella abbozzando un sorriso. «Sei terribile» aggiunse Giovanna accarezzandole i capelli. Don Pasquale aveva abbassato la saracinesca a metà e attendeva che uscissero per chiudere il negozio. In strada la vita sembrava scorrere come tutti i giorni. Il sole illuminava le facciate decorate del Borgo umbertino, i ragazzini sciamavano dietro carrozze e tram. I tavolini dei caffè del centro erano affollati e le ragazze in età da marito arrossivano al passaggio degli ufficiali di Marina. Un’apparente normalità dietro la quale si celava un ben altro scenario. Nei mesi precedenti in città si era intensificata la presenza di alti funzionari del partito. Sul litorale erano state edificate casematte in cemento e postazioni antiaeree, gli uomini erano stati richiamati. Anche Nicola dovette lasciare la Regia Azienda per servire la Patria. Sua moglie Caterina interpretò la cosa a modo suo. «Hai visto» disse «dopo un po’ di addestramento, ti chiamano in Arsenale, me l’ha detto cumpà Mario». Nicola non discuteva quasi mai con sua moglie, ma quando accadeva si tiravano i piatti addosso. Poi usciva di casa e sbolliva la furia nel vino. Caterina, invece, per mezz’ora sbraitava dietro tutto ciò che le passava a tiro. I bambini lo sapevano e al primo bicchiere rotto si dileguavano. Dopo un po’ Nicola prendeva due bambini per mano e rientrava a casa a testa bassa. Scherzava con loro scrutando di nascosto l’espressione della moglie. Caterina faceva finta di niente. Gli passava davanti senza degnarlo di uno sguardo. Poi diceva ai bambini di andare a giocare nel cortile. Sempre senza guardarlo, gli chiedeva: «Che vuoi da mangiare?» E senza dargli tempo di rispondere aggiungeva: «Pesce, se lo vuoi sta qua». A quel punto Nicola alzava lo sguardo e incrociava gli occhi della moglie. Quell’istante era magico. Si stringevano la mano e si amavano più di prima. 24
Il sole caldo, il cielo azzurro appena striato di bianco. Gli edifici con le ombre scure, le insegne dei negozi, l’odore di cucina dalle imposte spalancate, le barche dei pescatori. Tutto sembrava scorrere con la solita calma, un fiume pigro che non ha fretta di tuffarsi in mare. Tuttavia non era una giornata come le altre. Lo si vedeva dalle facce. Occhi infossati, gonfi di ansie. Sguardi preoccupati e carichi di domande, oppure proiettati in un futuro di gloria, spalancati e trasognanti. Era diverso anche il modo di camminare: leggero e baldanzoso; trascinato e pesante. Con le spalle ingobbite; petto in fuori e mani in tasca. Mille sfumature, esistenze parallele incrociate da un destino comune che stava per compiersi. Spesso sono gli altri a decidere per noi. E anche quel giorno qualcuno aveva deciso per tutti. Piazza della Vittoria si animò. Da via D’Aquino arrivavano piccoli plotoni. Voci ridondanti accompagnavano l’incedere marziale. La gente confluiva a gruppi o alla spicciolata e tra la folla cercava un amico, un conoscente, qualcuno a cui chiedere: quanto manca? Gli uomini in camicia nera impartivano ordini e si curavano che gli altoparlanti Radiomarelli fossero a posto. Ogni tanto gracchiava una voce e subito la piazza si zittiva. Quando capivano che non era lui, il brusio pian piano risaliva. Poi scoccò l’ora delle decisioni irrevocabili. E fu il delirio.
25
«Cosa ricordi della guerra?» La mia voce si impastò con il promo di una fiction su Rai Uno e fu risucchiata dal vortice dell’aspiratore a velocità tre insieme al profumo del sugo che bolliva nella pentola. Mia madre seguiva da vicino la cottura. Non usava il cucchiaio di legno per girare la salsa di pomodoro in cui cuocevano le polpette. Afferrava il tegame con entrambe le mani, lo sollevava un po’ e lo scuoteva. «Così la carne non si rovina», spiegava a Daniela che l’accompagnava ai fornelli. «A’ uerr è na brutta cosa», rispose a scoppio ritardato mentre chattavo su WhatsApp. «Ce ne se tu, figghije mije. Le bombe, ‘a miserie, le piccinne accise... voi siete fortunati, sinde a ‘mme. Però a casa nostra non mancava mai da mangiare. ‘U nonne da mare portava ‘u bbene de Ddije: pesce, cozze, frutti di mare. Mia madre faceve mangià tutt’u cortile, casa nostra era sempre piena di gente, zia Catarì risolveva i problemi a tutti. Era brava mia madre, era istruita. Leggeva l’Unità insieme a zia Annina e dope d’a uerre sceve a tutte le manifestazziune. Sapeva fare tutto: cuciva, ricamava, cucinava. ‘Na vote, a tiembe de uerre, u nonne portò a casa tanta stoffa verde pesante. Dopo pochi giorni tutti i bambini del vicinato sciucavene nel cortile con i cappotti che aveva cucito la nonna.» La sua attenzione fu attratta dalle immagini di Trump in una cerimonia alla Casa Bianca. «Naaa» disse avvicinando lo sguardo al televisore «u’ presidente dell’America è uguale a zio Vincenzo. Era bell’ zio Vincenzo e quando andavamo insieme alle feste a ballare, eravamo chiù bravi di tutti. Pure papà era bravo a ballare. Però era mazze-mazze, nu’ spilacce. Quando venne a casa per la prima volta non lo pensai proprio. Ieve ‘nu uagnone, la divisa larga, scompariva sott’a zio Vincenzo che era alto e robusto». Mio padre e mio zio avevano fatto il militare insieme, imbarcati sul “Baionetta”, la corvetta della Marina Militare che il 10 settembre del ‘43 trasportò Vittorio Emanuele III e la famiglia reale da Ortona a Brindisi prima della fuga dall’Italia.
26