Lei. Storie di donne da tutti i mondi possibili

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MONICA SERRA

UN SUO RACCONTO È STATO PUBBLICATO NELL’ANTOLOGIA ROSA SANGUE (ALTRIMEDIA). SOCIA EWWA E WORLD SF ITALIA, SERRA HA DECISO DI DEVOLVERE I PROVENTI DELLA VENDITA DEL LIBRO ALLA ORGANIZZAZIONE SUSAN G. KOMEN ITALIA ATTIVA DA ANNI NELLA LOTTA AI TUMORI DEL SENO.

Il fantastico rimane la cornice che delimita queste storie originali ambientate in “altri mondi” che, spesso, di simile al nostro hanno solo i sentimenti. E proprio i sentimenti sono alla base di “Lei” che, prendendo spunto dalla grinta delle sue eroine, si propone come ambasciatrice di un percorso essenziale nella vita di ogni donna, quello della prevenzione: i proventi della vendita saranno devoluti ai progetti della organizzazione Susan G. Komen Italia per la lotta ai tumori del seno.

€ 15,00 ISBN 978-88-6960-034-0

9 788869 600340

QUESTO VOLUME RIENTRA NEL PROGETTO “ALTRIMEDIA EDIZIONI PER IL SOCIALE” E SOSTIENE L’ORGANIZZAZIONE SUSAN G. KOMEN ITALIA NELLA LOTTA AI TUMORI DEL SENO.

Lei

Sono combattive, passionali, vulnerabili, vendicatrici, materne; in una parola: donne. Donne sospese tra passato e futuro in affascinanti sequenze spazio temporali, le resilienti protagoniste di “Lei”, brevi e profondi ritratti di figure femminili provenienti da tutti i mondi possibili. Ci sono il fantasy classico e la fantascienza, vicende ambientate sulla Terra, su altri pianeti o in mondi alternativi, squarci sul fantastico, incursioni nelle favole, ghost stories, suggestioni prese in prestito da opere d’arte o echi di accadimenti storici. Leggendo oltre le righe, si scoprono metafore sottili nei racconti di MONICA SERRA, intuizioni di una finezza stilistica fuori dal comune.

MONICA SERRA

MONICA SERRA, nata nel 1968, calabrese di nascita e formellese di adozione, nella vita di tutti i giorni lavora, è madre di due figli e di due gatti, collabora con alcuni blog letterari. Dietro questa “copertura”, però, si nasconde un vero agente segreto della fantasia: ha scritto un fantasy, racconti di ogni genere (tra cui la serie sci-fi Sangue alieno) e i romanzi brevi Ali del futuro (EVE editrice) e Il Duca di ferro (Astro Edizioni).


CAPITOLIUM Area letale “Non credo che la scienza possa proporsi altro scopo che quello di alleviare la fatica dell’esistenza umana. Se gli uomini di scienza non reagiscono all’intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà che fonte di nuovi triboli per l’uomo. E quando, coll’andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità.” [Vita di Galileo, B. Brecht]

Non era mai stato facile stabilire con precisione quali fossero i limiti della città. Capitolium era come un organismo dotato di vita propria; divorava lo spazio che la circondava quasi fosse una belva affamata, senza tregua e in modo progressivo: si espandeva e inglobava, attraeva e colmava distanze. C’era stato un tempo in cui i confini erano indicati da appositi cartelli. Poi anche quelli erano stati superati e la città aveva continuato imperterrita a crescere, per chilometri, oltre i limiti che si era posta, arrivando a contenerli per superarli ancora. Come pianeti disordinati attorno alla loro stella, i sobborghi si popolarono di gente sfollata dai vecchi quartieri in cui si faceva posto alle nuove architetture. Prima del disastro, Capitolium si presentava a chi venisse da fuori come un coacervo di destini intrecciati e sovrapposti, una sconnessa stratificazione in cui la storia collettiva e le 13


vicende personali si fondevano in modo chiassoso, un’ardita mescolanza tra vita reale e sogni. Quel che ne restava dopo l’esplosione era un triste mélange di vita e incubi. La città era vuota, avvolta da un silenzio inquietante, in preda alle ombre crudeli e disperate che scivolavano tra le vie deserte sotto il cupo mezzo sole che da quel giorno illuminava il cielo senza più sorgere né tramontare. Un solo edificio era rimasto in piedi, integro in mezzo a quella desolazione di cadaveri di cemento e acciaio che parevano sventrati da una furia sovrumana. Il Tempio, con la sua Cupola color ardesia dal profilo perfetto, svettava su quei resti simile a una tetra sentinella, a vegliare sulle mute rovine della città. Il fall out si era lasciato dietro pochi sopravvissuti. Tutti gli altri, centinaia di migliaia di vite, erano stati spazzati via nell’arco di un secondo. Restavano soltanto macerie, a memoria di un antico fasto, che si espandevano dal cuore della città come satelliti deserti. Intorno a questi agglomerati urbani, il nulla. La violenza aleggiava come una promessa su quel che rimaneva di Capitolium. Un vago ricordo che si nutriva dell’incubo nascosto oltre le recinzioni innalzate dai sopravvissuti. Lyl si preparò, il turno di guardia toccava a lei. La città sembrava un enorme gigante di pietra. Grigia, senza luci, muta. Dopo la distruzione, i superstiti avevano una sola fonte energetica, i fuochi alimentati dalle carcasse degli alberi carbonizzati provenienti dal parco, che venivano accesi con moderazione, poiché il legno malato, bruciando, sprigionava vapori letali. Era solo uno dei tanti effetti dell’esplosione. Il disastro si era lasciato alle spalle mutazioni genetiche, mostruosità viventi, scheletri di alberi che uccidevano ardendo, strade deserte invase da relitti meccanici inutilizzabili, pochi, disperati sopravvissuti. Non c’era più posto per la speranza, ormai. Sopravvivere era un pensiero tanto ingombrante da non lasciare spazio ad altro. Tutte le specie viventi, per adattarsi alle nuove condizioni climatiche generate dalle radiazioni, avevano sviluppato ca14


ratteristiche particolari. Poiché il sole aveva assunto il colore di un cupo tramonto, e in caso di esposizione prolungata i suoi raggi aggressivi provocavano gravi lesioni anatomiche, i superstiti erano costretti a rifugiarsi in luoghi chiusi per la maggior parte del tempo. La loro pelle, obbligata a quella notte senza fine, aveva assunto un colorito pallido, quasi opalescente; i capelli erano ingrigiti dalla mancanza di luce e le pupille, per poter tollerare il crepuscolo eterno, avevano sviluppato iridi rosse, in grado di vedere nell’oscurità. Lyl pensò ai suoi compagni, che in quel momento erano di sentinella in altri punti della città. I pochi abitanti di Capitolium che non si erano dissolti nella violenza dell’esplosione si erano riuniti in gruppo. Ognuno di loro recava impresso il marchio dell’olocausto nucleare nella mente e nel corpo. Lasciò che lo sguardo esplorasse la piana colma di nulla e un brivido le scivolò, gelido, lungo la schiena. Con la punta delle dita andò alla ricerca della barra metallica conficcata nel terreno a pochi centimetri da lei, bisognosa di un appiglio che le infondesse coraggio. Sbarre di ferro, pezzi di muri, fili metallici: erano quelle le armi con cui i sopravvissuti si difendevano da ciò che la zona letale vomitava oltre le barriere innalzate attorno alla metropoli ormai priva di ogni funzione vitale. Gli arsenali erano andati distrutti e non si trovava in tutta Capitolium una sola munizione. Quindi, i vivi avevano dovuto adattarsi. Percorse con gli occhi la linea dell’orizzonte, palpabile confine tra la realtà e una dimensione aliena e irraggiungibile, lungo la quale l’involucro gassoso che sovrastava ogni cosa pareva fondersi con il vasto niente che circondava la città. Come un cupo presagio, il sole sospeso tra cielo e terra tingeva ogni cosa del colore del sangue. Fu l’odore a metterla in allarme. Un tanfo selvatico e intenso. Poi un brontolio minaccioso strisciò fra le macerie e la cosa emerse dall’oscurità di una via laterale. Dopo la pioggia radioattiva seguita al Non ritorno – il nome con cui i superstiti chiamavano l’esplosione – dalla zona proibita giungevano mostruosità e abomini: si trattava di animali, mutati in grotte15


sche imitazioni di ciò che erano stati un tempo a causa di codici genetici stravolti dall’esposizione alle sostanze radioattive. La bestia che fronteggiava Lyl in quel momento somigliava vagamente a un lupo, ma le sue dimensioni erano colossali. Il muso, deformato da una bocca con due file di zanne affilate, era irto di corna, laterali, superiori, disseminate ovunque. Aveva un occhio solo, di un disgustoso colore verdastro, sgranato in un’espressione in bilico tra furia e terrore. Lyl afferrò con una mano la spranga e con l’altra estrasse dalla cintura un coltello da caccia. La belva diede una zampata, che raggiunse la manica e vi aprì uno squarcio, e gli artigli penetrarono la carne. Il fiato le si mozzò in gola e il dolore le riempì gli occhi di lacrime. Qualcuno sopraggiunse dalla parte opposta a quella da cui proveniva l’animale e si parò al suo fianco. Il granitico Mur era il suo compagno di ronde; assunse la posizione di difesa e si lasciò sfuggire un’imprecazione. La bestia ringhiò, preparandosi a un nuovo attacco. Prima che potesse spiccare il salto, un lampo di luce la attraversò e costrinse i due umani a ripararsi gli occhi. L’animale ricadde al suolo con un tonfo sordo. Stecchito. Ancora accecata, Lyl intravide un’ombra dileguarsi tra i vicoli. «Prendiamolo!» gridò Mur e si lanciò all’inseguimento. Lyl gettò uno sguardo al cadavere. Un orrendo foro dai contorni slabbrati e fumanti trapassava il cranio del mostro da una parte all’altra. I denti erano ancora snudati e una bava verdastra colava dalla bocca, allargandosi in una pozza viscida sull’asfalto. Lyl deglutì e sentì in bocca un sapore metallico. Del sangue stillava da una ferita sulla guancia, della quale non si era neanche accorta. Si pulì con il dorso della mano, sferrò un calcio alla carcassa della belva e corse dietro al suo compagno. Pochi isolati più in là, l’individuo in fuga scomparve oltre la porta sconnessa di un palazzo. La costruzione era gigantesca. Grigia e silenziosa. Disabitata e semidistrutta, come ogni edificio in quella parte della 16


città. Mur si guardò attorno e strinse la spranga tra le mani, pronto a colpire qualsiasi cosa fosse emersa dalle viscere di cemento. «Non c’è nessuno» sussurrò Lyl. «Non ne sarei così sicuro» rispose Mur nello stesso tono e le fece cenno di andare dalla parte opposta a quella in cui si muoveva lui. La donna preparò l’arma e obbedì. Alex non riusciva a controllare i tremiti. L’adrenalina scorreva rapida e la paura gli attanagliava le budella. Cercò di tenere ferme le mani e rinfoderò la pistola. Era riuscito a portarla con sé, ma gli restavano pochissime munizioni. Doveva usarle con parsimonia. Alzò gli occhi e un nuovo brivido lo raggelò. Il cielo sfumava in tinte rossastre e il sole si mostrava a metà sulla linea dell’orizzonte. Non sarebbe mai sorto del tutto, era come cristallizzato in un’aurora senza fine. O forse era un perpetuo crepuscolo. Lo sguardo si spinse oltre i recinti, laddove si estendeva una terra sfregiata e annerita, satura di morte. Satura di morte… A quel pensiero la rabbia coprì ogni altra emozione. Riuscì a recuperare la calma solo dopo qualche profondo respiro, retaggio di vecchie esperienze di meditazione. Non avrebbe perdonato chi aveva intrappolato quella gente in un inesistente attimo sospeso per sempre tra il giorno e la notte. Era lì per liberare le vittime. Poi, si sarebbe occupato dei carnefici. Nel silenzio mortale, un rumore gli procurò una scossa. Caricò il colpo e puntò l’arma contro la figura che gli si parò davanti. Capelli corti e spettinati, grigi. Un volto pallido che si stagliava contro il cupo crepuscolo. E gli occhi… Di un inquietante color amaranto. Eppure, erano proprio i suoi occhi. Non dubitò neanche per un istante che si trattasse di lei; ma gli sguardi si incontrarono e Alex lesse in quelle iridi aliene la totale indifferenza. Seppe allora di essere stato “cancellato”: non esisteva più, per lei. Non era mai esistito. Le sue labbra si mossero senza che ne uscisse alcun suono; si schiarì la gola, ma prima che potesse parlare qualcosa lo colpì con forza alle spalle. E tutto svanì. 17


«Che accidenti è?» Lyl parlò piano, come se avesse timore di essere udita. Fu scossa da un brivido nel ripensare alle pupille scure dell’uomo e a quando si erano bloccate nelle sue. Aveva occhi che parevano catturare e trattenere la luce, la pelle di un inquietante colore rosato. E qualche cosa di non visibile che la metteva a disagio. Mur scosse il capo, il volto teso, la voce incerta: «Non lo so». La sagoma si mosse. «E non sono sicuro di volerlo sapere». «Portiamolo alla base». Dopo gli anni del caos, le città erano tutte un cantiere. Tra i quartieri buttati giù per fare spazio al nuovo spuntavano costruzioni mai viste prima. Era il minimo che potesse accadere, per restituire al mondo la sua dignità. In pochi anni, il Consiglio dei Sette ormai controllava ogni cosa: cancellati Stati e governi, aveva costituito un unico sistema basato su alleanze economiche, interconnessioni telematiche e sinergie culturali, in cui le guerre non esistevano più e i crimini venivano gestiti in modo “alternativo”. Una delle sperimentazioni più originali e apprezzate dal Consiglio era frutto di un’idea di Liliana Masi, sua moglie. Quel pensiero gli strinse il cuore in una morsa e per ricacciarlo indietro Alessandro fece correre lo sguardo sui colli oltre i palazzi rossi della periferia. Gli piaceva vivere lì, dove si percepiva meno il cambiamento. C’era un’aria d’altri tempi nel quartiere, la si respirava nel profumo del pane appena sfornato che la mattina presto scivolava tra i vicoli, la si leggeva nello sguardo pigro dei gatti randagi che dormicchiavano al sole. Alessandro era sicuro che non ci fossero più randagi, nelle zone centrali. Persone indaffarate si incrociavano senza guardarsi negli occhi, le minivetture avevano sostituito ogni altro mezzo di trasporto e scorrevano silenziose su ruote gommate, giardini artificiali ovunque tentavano di dare un aspetto ordinato e pulito alle zone riservate ai turisti. Non si riconosceva più in quella città spersonalizzata, più bella forse, meno caotica, ma priva ormai di ogni identità. Per quello aveva deciso di trasferirsi in periferia, dove le re18


gole erano meno stringenti e il progresso più discreto. Dove poteva sentire sul viso la carezza tiepida del ponentino: quello, almeno non aveva mai smesso di soffiare, nonostante tutti i cambiamenti. Anche a Liliana piaceva il ponentino… Il tintinnio dell’acchiappasogni che si muoveva nel vento sul terrazzo si fece largo tra le nebbie dense del malessere che gli offuscava i pensieri, catturando la sua attenzione. Alessandro si versò una tazza di caffè e sedette sul divano, in una sequenza di gesti che ormai era diventata un rituale in cui non riponeva più alcuna speranza. «Forse dovrei cambiargli nome», pensò. Altro che catturare sogni: da quando Liliana era scomparsa, quell’arnese che ondeggiava nella brezza aveva catturato soltanto incubi. Lyl non riusciva a staccare lo sguardo dall’uomo. «Sembra innocuo» disse Mur. «È proprio del suo aspetto inoffensivo che non dobbiamo fidarci» mormorò lei, studiando il prigioniero attraverso il vetro di quella che un tempo era stata una sala operatoria. I sopravvissuti all’olocausto nucleare avevano scelto di stabilire il loro rifugio nell’ospedale di Capitolium. Sorgeva in un punto rialzato della città, da cui era possibile osservare anche la zona morta. Vista da lì, la piana sabbiosa pareva estendersi all’infinito. «Non esistono più esseri umani con quelle caratteristiche fisiche.» Una nota di tensione si annidava tra le parole di Mur. «Non dopo il fall out.» «Che pensate di fare?» chiese Jule, staccandosi dalla finestra. Era il più robusto tra loro e l’unico che sapeva fare nodi impossibili da sciogliere. Era toccato a lui immobilizzare il prigioniero con del filo da sutura. «Magari ci sono altri superstiti, oltre l’area proibita.» «Non lo so» rispose Mur. «Ci ha salvato la vita. Aveva una pistola e qualche munizione. Forse dovremmo capire cosa ci fa a Capitolium e da dove diavolo viene.» Lyl gli lanciò un’occhiata nervosa; afferrò una spranga da un mucchio di ferraglia accatastato nell’angolo, poi si avvicinò alla porta. 19


«Cercherò di scoprire chi è e da dove viene» disse. «Siate pronti a intervenire, se ce ne sarà bisogno.» Per un attimo, le parve di scorgere un lampo di preoccupazione nelle pupille dei due, ma la porta si chiuse prima che potesse esserne certa. Un tonfo metallico la precipitò nel buio del deposito malandato e maleodorante. I suoi occhi erano abituati alla penombra che permeava il mondo dopo l’esplosione, perciò non ci misero molto a individuare la sagoma appiattita contro la parete scrostata. Tenne l’uomo sotto la minaccia della sbarra, nonostante egli avesse i polsi legati. «Chi sei?» Si avvicinò con cautela, pensando che lui non riuscisse a vederla in quel buio ovattato. «Perché sei qui?» Lo straniero non rispose subito. La studiò, con un’espressione sofferente, e Lyl pensò che non avesse compreso le sue parole. Forse non capiva la sua lingua. Ma poi l’uomo parlò. «Sono venuto a riprenderti.» Lei lo fissò, sorpresa da quelle parole e all’improvviso indecisa sul da farsi. Al suono di quella voce, qualcosa affiorò dalle profondità dell’anima e, con un peso inaspettato, le fece dolere il petto. Arrivò come una carezza, le sfiorò il cuore e un attimo dopo lo stritolò in una morsa di ferro. Era come un’ombra acquattata fra le memorie, di cui non riusciva ad afferrare i contorni, e pareva volesse indicarle con urgenza qualcosa di importante che doveva ricordare. Adesso. Guardò meglio il prigioniero e un flusso di immagini le inondò la mente. Vide se stessa. Piangeva – quasi sentì in bocca il retrogusto amaro delle lacrime – ma qualcuno la cullò dolcemente, cancellando la tristezza. Subito dopo, rideva felice, sotto un tetto di rami verdi ricoperti di fiori e un tocco leggero le sfiorava i capelli, che brillavano del colore delle castagne d’autunno. Lyl si riscosse con un brivido. Lei non aveva capelli castani. Non ricordava più cosa fosse un autunno. E non aveva mai visto quell’uomo. Lui disse qualcosa. Allora, all’improvviso, la tenebra nebbiosa che avvolgeva la memoria si lacerò. La spranga cadde 20


in terra. Il grido del metallo rimbalzò sulle pareti mentre lei stringeva le tempie fra le mani, dilaniata dal dolore. «Liliana.» Un ricordo. Così potente da esploderle dentro in un turbinio di suoni, luce, energia. Il ricordo di un nome. Liliana. Il suo. «Non me ne andrò senza di te.» Lyl non voleva ascoltare le parole di quell’uomo. Voleva che fossero come polvere. Vuote, sbagliate. E che come la polvere volassero via. Invece qualcosa nel profondo di lei sapeva che erano cariche di verità. «Chi sei, tu?» «Alex.» Rimasero a guardarsi, nell’eco di respiri spezzati, ansiosi e atterriti, confusi e disperati. Alex. Aveva un suono familiare. Lyl sentì qualcosa gonfiarsi nel petto. Di nuovo, una luce si fece largo nei meandri della sua mente, e lei lo vide. Era lui, solo più giovane, gli stessi occhi scuri e profondi. Turbata, col cuore che prendeva a martellate le costole, si sforzò di trattenere il ricordo. Vi si aggrappò, ma quello scivolò via come fosse acqua. Un sapore salato la riportò alla realtà. Lacrime. Si chinò a cercare nel buio e raccolse la sbarra, evitando lo sguardo dell’uomo. «Chi sei?» ripeté. «Da dove vieni?» «So che non ricordi nulla. Mi hanno cancellato dalla tua memoria, ma non sono riusciti a fermarmi. Per quello, avrebbero dovuto uccidermi. Io non ti lascerò qui.» Suonò quasi come una minaccia. «Sono venuto per riportarti a casa.» Lei lo guardò, come se fosse pazzo. «Io non ti conosco» replicò. Fece un gesto con la mano, a indicare intorno. «E questo è ciò che resta della mia casa. Dove hai preso la pistola?» 21


«Liberami.» Tese i polsi legati verso di lei. «Sono qui per aiutarti. Per aiutare tutti voi.» Lyl ignorò la richiesta; tenendosi a distanza di sicurezza, si accucciò di fronte a lui e lo scrutò con attenzione. Gli occhi erano così neri che le parve di venirne risucchiata, come in un baratro di cui non riusciva a scorgere il fondo. La pelle, i capelli, i vestiti erano ricoperti dalla polvere della zona proibita. Si rialzò con un brivido e gli diede le spalle. «Devi lavare via quella sabbia, prima che ti avveleni» disse. «Il deserto è morto ma, nonostante questo, uccide. Ti libererò affinché tu possa ripulirti, ma devi darmi la tua parola che non cercherai di scappare.» Qualcosa cambiò nel ritmo con cui l’uomo respirava. Come se stesse ridendo. «La polvere non mi farà nulla.» Lyl si volse e lo vide sorridere. «Quel deserto è un’illusione.» «Probabilmente sei sopravvissuto senza subire mutazioni visibili» replicò lei, brusca. «Ma il Non ritorno deve averti bruciato il cervello. Sei totalmente pazzo.» «Mi dispiace.» L’uomo ora aveva una luce stanca e addolorata nello sguardo. «Ti spiegherò ogni cosa, ma non abbiamo molto tempo.» «Abbiamo tutto il tempo che vuoi.» Fu lei a ridere, stavolta. «Un giorno qui dura per sempre. O è una notte, se preferisci. Hai visto il nostro sole? Sospeso in eterno tra luci e ombre!» «Anche quel sole è un’allucinazione. Qualcuno vuole che siate convinti di vivere in questo posto. Che siate convinti di essere chi non siete.» Parlò in fretta e la guardò dritto negli occhi. «Posso spiegarvi tutto. Ti prego, Liliana.» Ancora quel nome. Ancora quella sensazione che il cuore volesse ritrarsi nel punto più profondo del suo essere, per non ascoltare, per non sapere. «Alex». Lui rabbrividì nel sentirle pronunciare il proprio nome a voce bassa ma controllata, come se le fosse del tutto estraneo. «Sembri proprio convinto di quel che dici.» «Lo sono. Perché è la verità.» «Puoi dimostrarlo?» «Fammi parlare con gli altri.» 22


Ci fu una pausa di silenzio. Poi Lyl si avvicinò alla porta e vi batté due pugni, senza interrompere il contatto visivo con il prigioniero. L’eco metallica si interruppe nel momento in cui l’anta si aprì. Una lama di luce tagliò il buio della stanza. Lei si fece da parte e lasciò entrare un uomo massiccio che costrinse Alex a mettersi in piedi, lo strattonò verso la porta e lo introdusse in quella che pareva una sala d’aspetto. Un gruppo di persone si teneva a distanza. Una decina, tra uomini e donne. Volti dai lineamenti duri, terribilmente magri, di un inumano pallore, capelli ingrigiti dal crepuscolo senza fine. Ma la cosa che fece ad Alex l’effetto di un pugno nello stomaco furono i loro occhi, colmi di vuota disperazione. La rabbia tornò a montare, come una tempesta che si prepara a esplodere. «C’è qualcuno tra voi che ha dei ricordi che non riesce a spiegarsi?» Parlò a voce alta, affinché tutti lo sentissero. «Qualcuno in grado di ricordare il suo vero nome?» Li fissò, a uno a uno. «Care Hostin!» chiamò. E poi: «Stean Lomax!» E ancora: «Remus Dakar!» E ancora, e ancora, finché tutti i nomi non furono pronunciati. Rimasero a guardarlo; sembravano riluttanti. Qualcuno abbassò gli occhi, poi uno si fece avanti. «Io!» dichiarò. Alex riconobbe l’uomo che era in compagnia di Lyl quando la bestia venuta dall’area desertica li aveva aggrediti. «Qui tutti mi chiamano Mur» disse, avanzando fino a lui. «Ma io ricordo.» Un mormorio percorse i compagni. «Il mio vero nome è Remus Dakar.» Tirò fuori un coltello e liberò i polsi del prigioniero, prima che qualcuno potesse impedirlo. «Non ho altre memorie. Ma un nome può fare la differenza e impedire di arrendersi a questo inferno.» Alex gli mise una mano sulla spalla, e Mur non si ritrasse al contatto: «Tu mi credi, dunque?» La luce che scintillò negli occhi dell’uomo valeva ogni pericolo che aveva affrontato per arrivare fin là. Si rivolse agli altri, soffermando di nuovo lo sguardo su ognuno di loro. «Andrà tutto bene, sono venuto a tirarvi fuori da questo posto.» 23


Lyl aveva assistito incredula alla scena, tenendosi ai margini del gruppo. Mur era suo compagno di perlustrazione, trascorrevano assieme moltissimo tempo, condividevano il cibo e le insidie, eppure non le aveva mai detto nulla. Io ricordo. Cosa ricordava, Mur? E gli altri? Qualcun altro fra loro aveva reminiscenze di un’altra vita? Doveva fidarsi anche lei e credere che quell’uomo sbucato dal nulla appartenesse davvero al suo passato? Un passato di cui non aveva memoria? Troppe domande senza risposta. Osservò in silenzio ciò che accadeva a qualche passo da lei. A poco a poco, vincendo le esitazioni, i sopravvissuti si erano avvicinati e ora ascoltavano con attenzione quello che lo straniero aveva da dire: l’uomo parlava con fervore, toccando una spalla, stringendo una mano, ricambiando un sorriso. Solo Kat era rimasta in disparte. Lyl la raggiunse e le passò la pistola che aveva requisito all’intruso. «Voglio che sia tu a custodirla» disse. «Sei quella di cui mi fido di più.» Kat prese l’arma e la rigirò tra le mani. «Gli credi?» chiese, senza alzare lo sguardo su di lei. Lyl scosse il capo: «Non so cosa credere, Kat. E tu?» I loro occhi si incontrarono. «Tu gli credi?» La donna si passò intorno al collo la striscia di cuoio che reggeva l’arma. «Forse.» Senza aggiungere altro, si allontanò e scomparve in fondo a un lungo corridoio. Quando Jule affrontò il suo turno di guardia, una folla di pensieri confusi e contrastanti gli fece compagnia. I suoi passi risuonarono cupi sui binari della ferrovia sopraelevata. Era il luogo che preferiva, per controllare i dintorni. Da lì sopra si dominava l’intera città e l’occhio spaziava fino alla zona letale senza ostacoli. Qualunque cosa fosse uscita da quel deserto maledetto, lui l’avrebbe avvistata per tempo. Giunse fino al punto in cui le rotaie s’interrompevano; di esse non restavano che moncherini di ferro deformi, protesi su un baratro, laddove la strada era crollata. 24


Saltò oltre i resti di un muro e calpestò un’insegna semicancellata. Staz... n... Sa... Pie... o La allontanò con un calcio e avanzò con circospezione tra macerie e vetri rotti. Sedette sul ciglio dell’abisso e lasciò penzolare le gambe nel vuoto. Un buio – un quasi buio, stemperato nell’alone scarlatto del sole malato – immobile e muto, occhieggiava sotto di lui. Da quel punto aveva una visuale completa dell’area che circondava il Tempio, quella a cui nessuno osava avvicinarsi, proprio al centro di Capitolium. La Cupola torreggiava su una piazza immensa e vuota. Tutt’intorno, resti di edifici moderni stridevano con la vetusta integrità di un colonnato in marmo che si snodava come un abbraccio mortale verso la città disabitata. Jule si costrinse a distogliere lo sguardo. Era nato in quella città, ricordava com’era prima del disastro e la vista dei palazzi ridotti a una massa scura e minacciosa gli procurava dolore e un’angoscia sottile. Non riusciva a liberarsi dalla sensazione claustrofobica né dai presagi nefasti. Pensò alle vite cancellate in un istante dal fuoco nucleare. Poi a quelli che erano sopravvissuti, come lui, e alla loro impossibilità di sfuggire al silenzio mortale e al fetore del vuoto. Gli altri facevano ronda in coppia, nell’eventualità che dalla zona morta sorgesse qualche nuova mostruosità, pronti a difendersi come meglio potevano. Lui no. Lui si muoveva da solo. Esplorava i resti di Capitolium come se ancora sperasse di trovare superstiti. Non riusciva ad accettare il fatto che un’intera popolazione si fosse semplicemente dissolta nella vampata dell’esplosione che aveva devastato la città. Seguiva i binari della ferrovia. Scivolava senza far rumore tra le case abbandonate, i negozi dalle vetrine infrante, le strade deserte e polverose, aggirando rottami metallici, scavalcando voragini nell’asfalto. Tutto questo senza mai avvicinarsi al Tempio. Un fischio riecheggiò nel vuoto rossastro sotto di lui e gli annunciò la fine del turno di guardia. 25


Jule si mise in piedi, spaziando un’ultima volta con lo sguardo fino al punto in cui l’area proibita si confondeva con l’orizzonte. Poteva mai essere vero che ci fosse qualcosa, laggiù? Una realtà diversa dal vuoto di quella città fantasma? Per la prima volta le parole dell’uomo che Mur e Lyl avevano catturato gli instillarono un dubbio. O forse era una speranza. S’incamminò lungo le rotaie, valutando cos’avesse da perdere, a fidarsi di lui. Nella peggiore delle ipotesi, si rispose, morirei. La spiegazione di Alex sembrava assurda, eppure riuscì a convincere i superstiti. Con molte probabilità, fu il desiderio di fuggire da quella città in decomposizione a indurli a credere in lui. Le persone rifugiate nell’ospedale raccolsero le poche cose dalle quali non volevano separarsi e si prepararono a muoversi secondo il piano dell’uomo venuto da chissà dove. Non tutti avevano compreso bene la sua storia, ma il fatto che avesse superato incolume i miasmi mefitici della zona morta aveva piantato nei loro cuori il seme di una nuova speranza. Ci sarebbe stato tempo poi, per riflettere sul resto. Mur assunse il comando del gruppo che avrebbe attraversato per primo il deserto e si diresse a nord, nel punto in cui le reti metalliche poste a protezione della città erano state ridotte a brandelli dagli abomini che si muovevano nella zona proibita. Il piano prevedeva che Alex e Lyl si introducessero nel Tempio e innescassero il sistema di autodistruzione di quella che l’uomo continuava a definire un’illusione, per poi seguire gli altri e fuggire attraverso la piana. Lacerando il velo cinereo di pulviscolo che aleggiava perennemente sulla città, i superstiti si lasciarono alle spalle la carcassa silente dell’ospedale muovendosi piano, come se quello fosse il loro ultimo viaggio. Dopo aver superato il parco, Lyl e Alex si fermarono per osservare l’edificio davanti al quale il sentiero terminava. Si 26


ergeva solido e imponente oltre il giardino di rami distorti e anneriti, al di là di una piazza dalla forma perfettamente ellittica, circondata da un colonnato composto da quattro file di colonne. Era l’unica costruzione rimasta integra in tutta Capitolium. A lato del propileo, sorgeva un palazzo. La facciata era spoglia, di un colore azzurrognolo che sfumava nel tetro grigio che predominava ovunque. Un lungo e tortuoso recinto metallico, con in cima del filo spinato, circondava il piazzale, simile in modo inquietante alla recinzione che separava la città dalla zona morta. La struttura in cemento non aveva finestre, se non al piano terreno, e sul tetto un simbolo si stagliava contro il cielo scarlatto. Per un istante, Lyl ebbe l’impressione che quel luogo le fosse familiare, ma la sensazione svanì immediatamente. «Non mi ero mai avvicinata tanto al Tempio» disse a bassa voce. «Loro non vogliono che nessuno si avvicini a questo posto» replicò cupo Alex. «Per questo tutti voi associate l’edificio a un pericolo e ve ne tenete alla larga.» Lei lo guardò, dubbiosa. «Credi davvero in quello che dici» constatò. «Eppure, questo mondo è reale. La città distrutta dall’esplosione atomica è reale. Le bestie che vengono dal deserto sono reali». Ebbe una lieve esitazione, che durò il tempo di un respiro. «Questo è reale!» concluse, avvicinando la mano pallida a quella di Alex, come per sottolineare la differenza. Il contrasto della pelle risaltò al riverbero sanguigno del sole incompleto di Capitolium. Alex non disse nulla. Coprì la mano di Lyl con la sua e spostò lo sguardo a studiare la recinzione. «Cosa facciamo?» chiese lei dopo un po’. «Il nostro obiettivo è il palazzo a fianco del colonnato.» Si augurò di essere riuscito a disattivare tutte le telecamere. «Non si aspettano che qualcuno tenti di entrare là dentro. Dovremmo avere un buon margine di tempo, prima che ci scoprano.» La sua sicurezza parve aumentare i dubbi di Lyl. «Ne sei sicuro?» 27


In tutta risposta, Alex fece un passo verso di lei. Vicino, sempre più vicino, fino a sfiorarla. Era di poco più alto di lei. Lyl respirò il suo profumo, così diverso dall’afrore che aleggiava sulla città. Il mondo intero prese a vorticarle attorno, le immagini passarono in rapida successione nella sua mente, senza che riuscisse ad afferrarle. Un istante prima che le labbra si unissero, Lyl vide le stelle. Stelle che non esistevano nel suo mondo fatto di nebbie atomiche e di deserti nucleari, di palazzi abbandonati e di silenzi mortali. Ogni cosa si sciolse in quelle ombre sconosciute e familiari, poi il suo universo scomparve negli occhi scuri di Alex. Quando si separarono, a Lyl servì più di qualche istante per tornare alla realtà. Cercò di riprendersi spostando l’attenzione sul Tempio e poi sull’edificio vicino. Come un’orrenda ferita sulla facciata del palazzo, una porta girevole si apriva su un cunicolo scuro e maleodorante. Poteva sentirne il tanfo fin laggiù. Puzzava di vuoto. E di morte. «Andiamo» ordinò Alex e lei lo seguì. Con un coltello dalla lama seghettata, l’uomo aprì un varco nella recinzione metallica. Evitarono la piazza, percorsero parte del colonnato e giunsero davanti all’entrata. Oltrepassarono l’enorme ruota, che si mosse con un sinistro cigolio e continuò finché non varcarono la soglia. Finito il giro, la porta si richiuse alle loro spalle, tagliandoli fuori dall’esterno; il rumore cessò e una tenebra silenziosa ammantò il locale in cui erano penetrati. Alex era come cieco, nel buio colloso che li circondava, ma gli occhi di Lyl erano fatti per l’oscurità. «Dove andiamo?» chiese, aggrappandosi alla parte razionale di sé. L’altra le urlava di voltarsi e fuggire via. Alex rifletté per qualche istante. «Dovrebbe esserci un corridoio di fronte a noi.» Sembrava conoscere a memoria la pianta dell’edificio. «E in fondo, una porta.» Lyl vide la porta. Gli afferrò la mano e lo guidò attraverso l’androne immenso. C’erano banchi da lavoro am28


massati alle pareti e pezzi di macchinari sparsi ovunque. Non aveva affatto l’aspetto di un tempio, pareva più un laboratorio. O un cimitero di rottami. A poco a poco, gli occhi di Alex si abituarono alle tenebre. A giudicare dai contorni che cominciava a distinguere, stavano camminando lungo un corridoio. La prima cosa che notò, quando fu di nuovo padrone della sua vista, fu un fitto strato di polvere sul pavimento, come se quel passaggio non venisse percorso da anni. I farabutti che controllavano quel posto avevano studiato ogni particolare affinché i prigionieri credessero davvero di trovarsi in quella realtà. Per l’ennesima volta, li maledisse. «Vieni.» Ormai poteva vedere a sufficienza. Prese il comando e tirò Lyl verso la porta d’acciaio che finalmente riusciva a scorgere in fondo al cunicolo. Non c’era tempo da perdere, se voleva salvare quella gente. Bastò poggiarvi la mano, e la porta si aprì. Furono inghiottiti da una stanza enorme. C’erano tubature ovunque; i resti di una scala metallica e una sfilza di macchinari ricoprivano le pareti. Il cuore di Alex saltò un battito nel momento in cui ebbe la certezza di aver trovato la strumentazione che cercava. Aveva imparato a memoria la planimetria di quel posto, ma fino all’ultimo era rimasto nel dubbio. Invece, eccoli là: lo schermo e, davanti a esso, il rigido supporto metallico che terminava con una sorta di guanto meccanico. Raggiunse il pannello e fece segno a Lyl di avvicinarsi. Tirò fuori dalla tasca una piccola scheda e gliela mostrò: «Questa ci porterà via da qui.» «Mur avrebbe dovuto perquisirti con più attenzione» commentò lei con una sfumatura contrariata nella voce. Il sorriso di Alex fu più simile a una smorfia: «Vi hanno cancellato la memoria. Non sapreste cosa farvene di questo badge.» Le lasciò andare la mano e si piegò verso lo schermo. «Io, invece, lo so benissimo.» Tastò la superficie del tavolo e trovò quello che cercava: davanti al video spento c’era una fessura delle stesse dimensioni 29


della tessera che aveva in mano. Infilò la scheda nell’alloggiamento; lo schermo sfrigolò, poi si accese. Lyl fece un passo indietro e si lasciò sfuggire un’esclamazione tra la sorpresa e la paura. Le apparecchiature elettroniche non funzionavano più da… Non avrebbe saputo dire da quanto! Alex le fece segno di avvicinarsi al guanto e di infilarvi la mano. Stavolta l’incertezza di Lyl durò meno di un secondo. Obbedì. Una specie di scarica elettrica divampò dal palmo lungo il braccio, fino a trafiggerle il cuore. E nello stesso istante tutte le luci si accesero, accecandola. Non ebbe il tempo di chiedersi cosa avesse attivato il generatore, perché, all’improvviso, la fredda sala d’acciaio scomparve. Lyl è seduta sull’erba verde, circondata da antiche vestigia. Una cupola rivestita in lastre di piombo. Una fila di colonne di marmo candido. La brezza increspa le acque limpide e gorgoglianti di una fontana. Nell’aria aleggiano eterei profumi e il cielo, di un azzurro puro, è striato di impalpabili sfilacce biancastre. Una voce alle sue spalle. La riconosce. «Alessandro… Mio marito.» Si volge. Occhi luccicanti di stelle sprofondano nei suoi e labbra vellutate le rubano il respiro. Con uno schiocco secco, il suo mondo tornò. Grigio, silenzioso e freddo. Reale. Lyl respirava a fatica, incapace di darsi una spiegazione. Guardò Alex, scrutando negli impenetrabili occhi neri in cui iride e pupilla si fondevano in un ritaglio di notte. Alex… Era il nome con cui preferiva chiamarlo. Alessandro! Sfilò la mano dal guanto e, così com’era arrivata, la memoria svanì. «Non può essere vero» ansimò. «E invece lo è, qualsiasi cosa tu abbia visto» disse lui. «Non so cosa tu stia ricordando, ma devi credermi se ti dico che è 30


quella la realtà. Prima di essere gettati in questo inferno, tu e i tuoi compagni siete stati sottoposti a sperimentazioni genetiche: questo spiega la pelle, gli occhi, i capelli. Poi vi hanno cancellato la memoria, iniettandovi una sostanza sintetica che agisce direttamente sul sistema nervoso e sui neuroni» spiegò. «Tutte le esperienze catalogate nella mente, quella roba le cancella.» «E i miei ricordi? Quelli che ho adesso, intendo. Da dove vengono?» «Tu ricordi ciò che loro vogliono farti ricordare. Era un altro dei protocolli sperimentali: creare memorie inesistenti. Siete sepolti qui, in un mondo artificiale, fatto di ricordi mai esistiti». Fu come se del ghiaccio liquido le colasse lungo la spina dorsale. «Esperimenti senza un passato. Ma soprattutto, senza un futuro.» Lyl capiva ben poco di quello che lui stava dicendo. Non osava soffermarsi su quelle parole, come se temesse ciò che potevano significare, così si concentrò sull’immediato: «Cos’è questo posto?» «Una sala di controllo.» «Che intendi fare?» «Niente di facile.» Qualcosa nella voce di Alex la turbò. Ha paura, pensò con improvviso stupore, e lei stessa provò spavento. «Dobbiamo distruggere Capitolium prima che scoprano cosa stiamo facendo. Daremo a Mur il tempo di portare fuori gli altri. Poi potremo andarcene anche noi.» Fuori. Lyl non riusciva ancora a credere che ci fosse un “fuori”. Ma ciò che lui le aveva mostrato e le pallide schegge di ricordi che riaffioravano a tratti non potevano essere negati. E poi c’era Mur, che ricordava di chiamarsi con un altro nome. E Kat, che forse credeva a quell’uomo. «Voglio sapere cos’è questo posto, e perché nessuno di noi ha mai osato avvicinarsi al Tempio. Voglio sapere perché siamo qui.» 31


Alex sembrò preso alla sprovvista dalla domanda; per una manciata di secondi annaspò, come se fosse alla ricerca delle parole adatte per rispondere. «Capitolium era un tuo progetto» sospirò infine. Lyl s’irrigidì, mentre qualcosa le annodava le viscere e le annebbiava la vista. Lui le lanciò una rapida occhiata e continuò a trafficare con bottoni e manopole, inserendo sequenze alfa numeriche e sbloccando i vari livelli di sicurezza. «Carcere di Massima Sicurezza.» Lyl lo guardò senza capire. «Questo luogo voleva essere un carcere di massima sicurezza diverso da tutti gli altri» spiegò Alex. «Avevi pensato a Capitolium come alternativa alla condanna a morte. L’azienda per cui curavi il progetto cercava i detenuti in tutti i paesi che contemplano la pena capitale. Li convinceva ad accettare di essere utilizzati per ricerche scientifiche e li immetteva in un sistema che simulasse un mondo post-atomico, dopo averne azzerato e sostituito la memoria. Veniva data loro una lingua comune e costruito un passato fatto di falsi ricordi su una città gloriosa, distrutta da una tragedia nucleare. Il Non Ritorno non è mai accaduto.» Assorta nel tentativo di dare un senso a quella storia, Lyl posò lo sguardo sulla fila di numeri che scorrevano sullo schermo tridimensionale. Un pensiero le venne da lontano. «Una morte vale l’altra» mormorò. Alex s’immobilizzò per un lungo istante e la scrutò, pensoso. Lei notò l’espressione turbata. «Che hai da guardarmi in quel modo?» L’uomo abbassò gli occhi e tornò a concentrarsi sull’elaboratore elettronico. «È esattamente quello che dicesti al Consiglio dei Sette, per convincerli a rilasciarti il permesso di costruire questo posto» disse dopo un po’. «Detenuti condannati a morte… Ma io? Perché io sono qui?» Lyl portò una mano alla tempia. Aveva la sensazione che la testa potesse esploderle da un istante all’altro. «A un certo punto, qualcuno non si accontentò più di fare semplici ricerche biologiche. Si accorsero che si poteva gua32


dagnare molto di più, facendo esperimenti genetici e simulazioni in condizioni di vita sempre più avverse e aliene. Così immisero nel sistema animali con strutture geniche modificate. Nessuno si preoccupò di cosa potesse significare per i prigionieri. Due di loro morirono dilaniati da quegli ibridi mostruosi. Quando vedesti cosa stava diventando il progetto, ti ribellasti. E il tuo capo, preoccupato per il suo profitto, decise di tagliarti fuori. Quale posto migliore di questo, per farti sparire senza commettere alcun delitto?» Lyl trasse un respiro profondo. Doveva fidarsi. Non si sentiva pronta, ma il tempo che avevano a disposizione era poco. «Gli altri?» Alex spostò una manopola e spinse un bottone. Un’immagine si materializzò al di sopra del pannello. «Cosa vuoi sapere?» chiese, senza guardarla. «Perché si trovano a Capitolium?» Strinse le braccia attorno al corpo e si avvicinò allo schermo. Forse aveva lavorato lei stessa su quel computer, in un’altra vita. Prima di essere gettata in quell’incubo. O prima del fall out. O di qualunque cosa si trattasse. «Mur. Kat. Jule. E tutti gli altri.» Alex le fece spazio e le indicò l’immagine tridimensionale. Era una foto di Mur. Solo che lui era… diverso. I capelli erano come d’oro e gli occhi di un blu acceso. L’incarnato di un rosa così delicato che Lyl sentì le lacrime pungerle gli occhi. Le ricacciò indietro e guardò scorrere tutte le fotografie. Jule, massiccio più che mai, la pelle d’ebano e i capelli nerissimi. Kat, minuta e con una lunga chioma color mogano. Stan, così biondo e dalla pelle dorata. Horst, Kari, Ran… Riconobbe ciascuno di loro. «Per lo più si tratta di reati di spionaggio e alto tradimento. Tutti quelli che sono qui sono stati condannati alla pena capitale nel paese da cui provengono. Il Consiglio istituì un accordo internazionale, secondo cui ciascuna nazione poteva scegliere i detenuti a cui offrire un’opportunità. E loro – i condannati – hanno accettato Capitolium perché qualsiasi cosa è meglio della morte, Liliana. In teoria, anche questo posto». Alex spinse un tasto e l’immagine scomparve. Sul video, milioni di numeri tornarono a rincorrersi, in rapida successione. 33


«L’unica del gruppo colpevole di omicidio è Catherine Jones, l’americana». Lei lo guardò con aria interrogativa. «Kat?» Lyl era incredula. La dolce Kat, quella che si era scelta come rifugio un appartamento in cui erano vissuti dei bambini, quella che dormiva abbracciata a un vecchio orso di peluche recuperato fra i rottami dopo la distruzione? Alex continuò a digitare codici. «Sì, Kat. Il marito la picchiava, le ha fatto perdere un figlio per le percosse. E lei lo ha ucciso. Ventisei coltellate. Quando li hanno trovati, quel che restava di lui era un ammasso informe di carne e sangue. E Kat lo cullava, cantandogli una ninna nanna.» Lyl non ebbe tempo di fare proprio quell’orrore. Alex spinse un bottone. Un boato vicinissimo fece tremare i muri e il pavimento e dal soffitto caddero detriti. «Vieni.» Le afferrò la mano e la trascinò fuori di là. «Professore, qualcosa non va.» Il dottor Mancini, addetto alla videosorveglianza di Capitolium, manovrò con gesti nervosi pulsanti e manopole, senza perdere d’occhio lo schermo, vuoto e muto come un buco nero. «Non arrivano più immagini dal Tempio.» Un camice bianco svolazzò rapido attraverso il laboratorio e si arrestò dinanzi al monitor. Apparentemente impassibili, occhi circondati da un intricato reticolo di rughe fissarono per alcuni istanti quel nulla. «Attiva la telecamera interna» ordinò infine l’uomo, con voce bassa e vibrante. L’altro fece un cenno di diniego: «Persa. Non c’è più una telecamera che funzioni là dentro.» «Cazzo!» Tutti i presenti nella sala si voltarono a fissare con evidente sorpresa il professore. Era la prima volta che lo sentivano imprecare. Giorgio Longari, illustre luminare della ricerca genetica, era un distinto signore di mezza età che della compostezza aveva fatto la sua arma vincente. «Maledetto impiccione» bofonchiò l’uomo, ignorando la reazione dei collaboratori. «Avrei dovuto cancellare anche lui!» 34


Ognuno tornò a svolgere il proprio lavoro, mentre Longari si piegava sui comandi e aggrediva con furia la tastiera. L’uomo addetto al controllo di Capitolium si fece da parte, scivolando qualche metro più in là sulle rotelle silenziose della sedia ergonomica. Il professore era in preda a un’ira minacciosa. Alessandro Loi. Il marito inconsolabile – e dannatamente testardo – di quell’altra ficcanaso che aveva osato tradire tutte le sue aspettative… Non aveva alcun dubbio che fosse stato lui a manomettere la videosorveglianza sul carcere. Glielo aveva giurato che avrebbe ritrovato sua moglie, e lui lo aveva sottovalutato. Il monitor restò vuoto e silenzioso. Longari diede un pugno al pannello di controllo e si allontanò, rosso in volto. Percorse avanti e indietro la sala, mentre i suoi assistenti si scambiavano occhiate di sconcerto. Si fermò solo quando ebbe recuperato una parvenza di calma. «Me ne occuperò personalmente» decise. Si volse in direzione di Mancini, che aveva ripreso posizione davanti al monitor. «Ho bisogno di cinque ore. Se allo scadere di questo tempo non sarò rientrato, lei attiverà i protocolli d’emergenza e farà sparire ogni traccia di Capitolium.» «Professore?» L’uomo si era girato a guardarlo stupefatto, come se non avesse ben compreso le sue parole. «Cancelli ogni file.» Longari si sfilò il camice, ripiegandolo con gesti lenti e precisi. Pareva aver recuperato l’autocontrollo. «Faccia in modo che non sia mai esistito un progetto con quel nome.» «È proprio sicuro? Devo innescare il sistema di autodistruzione?» «Sì» tagliò corto Longari. Se prima non ci avrà pensato quel pazzo di Loi. «Non c’è altro. Cinque ore.» Un silenzio grave accompagnò la sua uscita. Nessuno dei collaboratori osò commentare. Le mura grigie e altissime si snodavano per chilometri alla periferia della città scomparendo nella notte. Pochi lampioni illuminavano un enorme cancello metallico. Longari scese 35


dalla macchina e si soffermò a osservare l’immensa cupola che sormontava la zona recintata. Era una lastra ricurva, trasparente come vetro eppure impenetrabile alla vista. Ogni cosa, lì dentro, era un trucco. Longari andava fiero di quell’esperimento. Non avrebbe permesso ad Alessandro Loi di mettergli i bastoni fra le ruote, come non lo aveva permesso alla sua emotiva mogliettina. L’idea di Liliana Masi, in verità, gli era apparsa subito geniale. Lui aveva capito immediatamente che Capitolium poteva fornire cavie per le sue ricerche genetiche, cavie umane, senza che nessuno avesse da contestare. Aveva sposato il progetto e fatto le cose in grande, dando il suo autorevole sostegno alla giovane ricercatrice. Capitolium era divenuto il laboratorio perfetto. Il suo laboratorio. Un poco alla volta si era impossessato dell’idea. L’aveva fatta sua, aveva sperimentato ciò che ancora la scienza lasciava inesplorato a causa di assurdi problemi etici o morali. In fondo, quella gente era già morta agli occhi del mondo. Perché limitarsi a usarla per sperimentazioni farmaceutiche e stupide indagini statistiche? La sua personale visione lo faceva agire con fredda lucidità, convinto che solo volontà e determinazione gli avrebbero consegnato la chiave della conoscenza assoluta. Il suo obiettivo era quello di creare un essere in grado di resistere a situazioni estreme, individuando le caratteristiche genetiche che avrebbero reso l’umanità capace di vivere in ogni circostanza. La questione morale non era contemplata. Almeno, non lo fu finché la sua protetta non si lasciò prendere dai dubbi etici. Aprì la portiera posteriore dell’auto e ne trasse l’attrezzatura che aveva recuperato nelle aree più segrete del laboratorio, quelle a cui lui solo aveva accesso. Aveva deciso di occuparsi di persona del problema perché Liliana Masi era stato un suo errore. Una studiosa brillante, senza dubbio. Ma come donna aveva mostrato di avere troppa coscienza, per sostenere il peso di ciò che lei stessa aveva creato. Quando aveva tentato di ribellarsi, la sola scelta possibile era stata estrometterla dal pro36


getto. Longari portava scolpito nella mente l’ultimo sguardo che la ragazza gli aveva lanciato, prima di soccombere all’anestesia che l’avrebbe trasformata in un’abitante di Capitolium. Angosciato, tradito. Deluso. Scacciò il ricordo e controllò l’orologio. Vi aveva inserito un radiotrasmettitore: se gli fosse accaduto qualcosa, dal laboratorio avrebbero potuto rintracciarlo con quel segnale dato che il sistema video era fuori uso, grazie a Loi. Un altro errore. Gli costava ammetterlo, ma l’esaltazione per i successi ottenuti con le sue ricerche gli aveva fatto sottovalutare quell’uomo. A tutto c’è rimedio, però. E lui era lì per rimediare. In altre circostanze avrebbe assoldato un sicario per risolvere il problema, ma Capitolium era un progetto top secret e non poteva rischiare che altri ficcassero il naso nei suoi affari. Forse avrebbe dovuto portare qualcuno con sé, ma si era lasciato dominare dalla rabbia e aveva agito d’impulso, contrariamente alle sue abitudini. Oramai era troppo tardi per tornare indietro. S’infilò nella tuta di protezione e imbracciò il fucile. Quasi si sorprese di quanto fosse maneggevole e leggero e fu impaziente di mettere alla prova l’efficacia del doppio raggio laser potenziato. Si trattava della sua ultima invenzione: un prototipo studiato espressamente per l’utilizzo in ambiente Capitolium. A prima vista poteva sembrare un normale fucile, come quelli in dotazione ai militari dell’esercito dei Sette. In realtà, le due celle a microfusione, alloggiate in involucri di titanio, erano in grado di generare un fascio di intensità mai vista prima. Longari fece un paio di prove per misurare la rapidità dei propri riflessi. Quell’arma era studiata per viaggiare attraverso lande aperte, come la zona proibita. O per difendersi dalle belve che di tanto in tanto sconfinavano nella città. Prima di quel giorno, il programma prevedeva di far trovare un paio di fucili a doppio raggio ai detenuti per misurarne l’efficacia contro gli abomini della zona morta. Che erano un altro dei suoi maestosi esperimenti. 37


Ne aveva creati due. Mostri ottenuti unendo il DNA dei più pericolosi predatori del pianeta, immessi poi nel sistema Capitolium. I detenuti, privi di armi tecnologiche, avevano dovuto imparare a difendersi dalle bestie geneticamente modificate, sviluppando capacità e reazioni che erano divenute nuovo oggetto per i suoi studi. Longari regolò la cinghia che reggeva il fucile e caricò l’arma, augurandosi di concludere la missione senza incontrare nessuna di quelle creature. Azionò l’apertura del cancello blindato; fece un respiro profondo e varcò la soglia. Il portone si richiuse alle sue spalle con un sordo ronzio, annegandolo in una penombra vermiglia. Benvenuto all’inferno. Longari attese qualche istante affinché gli occhi si abituassero alla luce incerta. Un prato di qualche centinaio di metri, ricoperto da un fitto reticolo di raggi, lo separava dagli edifici. Capitolium. Un brivido tra paura e orgoglio lo percorse, quando le sagome della città si delinearono con più chiarezza. Aveva sempre osservato l’ambientazione dall’esterno e ne conosceva ogni segreto. Ritrovarsi nel suo laboratorio perfetto lo esaltò e lo terrorizzò al tempo stesso. Alzò gli occhi. Sapeva che un’enorme cupola di vetro sovrastava la prigione, ma ciò che i suoi occhi videro non fu altro che un incerto crepuscolo. Non li scorgeva, ma sapeva che c’erano pomelli di bronzo sparsi dappertutto sulla volta e a terra. Erano quelli a suscitare le visioni illusorie, proiettando immagini di una realtà falsata nella mente di ciascun prigioniero, grazie a un complesso sistema di stimoli sensoriali che aveva perfezionato da un’idea della Masi. Con la massima cautela, si avviò attraverso quella che i suoi assistenti avevano ribattezzato “area letale”. Pochi passi e ogni cosa attorno a lui si trasformò. Senza pietà, l’illusione di Capitolium lo ghermì. Non è reale, continuò a ripetersi, mentre i piedi affondavano nella sabbia rossastra e un fastidioso pulviscolo gli entrava del naso, negli occhi, nella bocca. Un verso inumano gli gelò il sangue e una goccia di sudore freddo scivolò giù dalla tempia. Longari fece un lento giro su se stesso, puntando il fucile. 38


Nulla. Attorno a lui c’era solo uno sconfinato deserto. Senza abbassare l’arma, riprese a muoversi verso la città. Per un’ora il dottor Mancini aveva tentato di individuare Longari, inutilmente. «Il professore è scomparso, non riesco a rilevare il segnale del trasmettitore» comunicò con tono rassegnato. Un collega, un paio di scrivanie alla sua destra, confermò. «L’area letale è muta. E senza telecamere non possiamo sapere cosa stia accadendo là dentro.» Spinse un selettore e regolò i comandi, ma non successe niente. «Qui c’è qualcosa!» L’addetto alle trasmissioni radio aprì un interruttore e il laboratorio si riempì di un suono spaventoso. Un ringhio. Un brontolio cupo e minaccioso. «Non può essere Longari» disse Mancini e la sua voce era pregna di un cupo presentimento. «Non penso si tratti di lui» ribatté l’altro. «Spero che fosse ben armato. I mostri dell’area letale sono sfuggiti al controllo.» Non appena Alex innescò il dispositivo, le esplosioni ebbero inizio. Corsero via. Lyl si affrettò a tenere il passo con lui, mentre ogni cosa intorno precipitava nel caos. Una serie di deflagrazioni successive accompagnò la loro fuga attraverso l’edificio. Percorsero un corridoio tra frammenti di macchinari che si sfaldavano e crollavano, sollevati e scagliati intorno a ogni esplosione. «Se veniamo separati, tu vai avanti» la istruì Alex. «Segui la luce fino alla fine. Io ti ritroverò.» Accarezzando in modo lento e ripetitivo la pistola di Alex, poggiata in terra al suo fianco, Kat guardava la zona morta. Il silenzio che saliva dalla distesa sconfinata e polverosa la investì come un’onda; riverberava dalla terra arida e le entrava dentro gli abiti, nel naso, nelle orecchie, fino al cervello, fino al… No, non fino al cuore. Il suo cuore era ormai morto da tempo. 39


Cielo rosso, sole rosso, deserto rosso… Si chiese se anche gli altri percepissero il sapore metallico di quel vuoto rugginoso. Aspirò il vago odore di morte che spirava dal deserto. Non aveva timore che la uccidesse. Non si può uccidere qualcuno due volte. Udì un rumore lieve di passi e li riconobbe. Aveva affinato tutti i sensi, da quando si trovava in quel dannato posto, ed era in grado di indovinare l’identità di ognuno dei suoi compagni da un semplice calpestio. Senza voltarsi, allungò la mano e impugnò l’arma che Lyl le aveva affidato. La strinse al petto. «Dovrai togliermela con la forza, Mur» disse. Lui la raggiunse e sedette al suo fianco. «Non voglio quella pistola» replicò. «Sono venuto a dirti che ci stiamo per muovere. Se il piano di quell’uomo funziona, tra poco sentiremo la prima esplosione e dovremo andare.» «Io non vengo.» Mur tacque per un lunghissimo istante. «Ti prego, Kat, ripensaci. Restare sarebbe un suicidio.» «La storiella di quell’uomo contro le mie cicatrici. Perché dovrei credere a delle false speranze?» «E se quel che dice fosse vero?» Kat si strinse nelle spalle. «Non fa differenza, io resto comunque.» Staccò lo sguardo dall’orizzonte e fissò Mur, dritto negli occhi. «Non so quali siano i tuoi ricordi, ma i miei sono sufficienti a farmi scegliere di restare. A qualsiasi prezzo.» «Morirai.» «Qualunque sia la verità, so che mi hanno già uccisa cento, mille volte, là fuori. Tu sai che esiste un fuori. Credimi, Mur. Questa decisione non cambierà di molto il mio destino.» Lui capì che non l’avrebbe convinta. Si rialzò. «Saremo al posto di guardia, a nord. E partiremo alla prima detonazione.» «Buona fortuna, Mur» lo salutò lei senza guardarlo. «Addio, Kat.» Suo malgrado, Mur si allontanò per raggiungere gli altri. Alex aveva mostrato loro il passaggio da cui lui stesso era entrato in Capitolium. Bastava che lo percorressero a ritroso e li avrebbe condotti al sicuro. Lui e Lyl li avrebbero raggiun40


ti non appena distrutto il sistema di controllo che, a detta dell’uomo, era custodito nel Tempio. Mur seguì alla lettera le indicazioni. Condusse il gruppo in quel punto della città dove le reti erano lacerate e aprivano varchi sulla zona proibita, e si fermò ad attendere la prima esplosione. Gran parte degli edifici attorno a loro era crollata; si nascosero fra le ombre dell’ultimo palazzo prima del recinto metallico che li separava dal deserto radioattivo. Era uno dei posti da cui chi faceva le ronde era solito controllare la piana. L’edificio e quelli limitrofi non avevano il tetto; uno mostrava ancora una parte del muro di facciata, l’altro solo una parete laterale ricoperta di buchi. A pochi passi dal recinto, giaceva il cadavere del mostro ucciso da Alex al suo arrivo, quasi fosse un’orrenda sentinella posta a guardia del varco. Sotto lo sguardo vuoto del suo unico occhio, i fuggitivi si accucciarono contro la muratura grigiastra e aspettarono, in silenzio, stretti gli uni agli altri. Se tra loro c’era qualcuno che dubitava della storia raccontata da Alex, non lo disse. Ognuno di loro fece i conti col proprio passato, durante l’attesa, cercando di recuperare ricordi, di scavare in una memoria la cui sola forma era quella di una fitta nebbia grigiastra. Mur osservò i compagni. Poi lo sguardo si protese sul deserto mortifero da cui, come la voce di un incubo troppo reale, si levò un verso terribile. Tornò a concentrarsi e ad attendere il segnale. Qualsiasi destino, qualsiasi mondo sarebbe stato comunque meglio dell’inferno in cui erano costretti a vagare. Avevano qualcosa in più, adesso. Avevano una speranza. La prima deflagrazione sventrò i giardini attorno al Tempio. Anche a quella distanza, il gruppo in attesa a nord della città fu investito dall’onda d’urto, mentre gocce incandescenti ricadevano ovunque tra frammenti di legno e rami scheggiati. Gli spicchi di piombo che rivestivano la Cupola del Tempio si squagliarono. L’esplosione travolse il colonnato: i primi pilastri caddero e si abbatterono sui più vicini, innescando un effetto devastante. In pochi istanti, della piazza non rimase che un cumulo di macerie fumanti avvolte da una nube di polvere. 41


Da quell’avamposto, pronti a fuggire, Mur e compagni proruppero in un coro unanime di grida semi-soffocate. L’urlo inumano di qualche mostruosa mutazione si levò ancora dalla zona morta, risucchiato subito dal vento. Poi fu di nuovo silenzio. Mur, comandante improvvisato di quel manipolo di disperati, lanciò un’ultima occhiata ai vortici di luce che si agitavano sopra alle rovine del Tempio, spostò lo sguardo sulla linea dell’orizzonte e quando vide la sfera vermiglia spostarsi, come finalmente avesse trovato la forza per sorgere, fece segno agli altri di prepararsi. Si udì un ronzio e oltre la rete metallica, sulla superficie rossastra del deserto, si disegnarono una serie di percorsi. Si sovrapponevano, mutavano direzione, svanivano e ricomparivano. «Andiamo!» ordinò, quando vide distendersi verso di loro la strada che Alex gli aveva detto di prendere. Nessuno si oppose e i fuggiaschi si mossero come fossero un solo corpo. Restarono uniti e avanzarono compatti. Superato il filo spinato, si addentrarono nell’area proibita. Alex aveva spiegato con credibili motivazioni che non ci sarebbe stato alcun pericolo nell’attraversare quello spazio. I ricordi di morte legati alla piana desolata erano falsi, come il deserto stesso. Un’illusione, per quanto vivida e convincente. Mur si guardò alle spalle, per verificare che il gruppo restasse unito, poi tornò a guardare la via. Man mano che procedevano, ogni riferimento spaziale attorno a loro si dissolveva e la strada prendeva forma laddove i passi si posavano. Una tenebra densa li avviluppò, nascondendo il sole malato. Il percorso che dovevano seguire era come una scia luminosa che a tratti bucava l’oscurità. Mur cercò di non perdere il contatto visivo con il filamento di luce che li avrebbe condotti in salvo. Qualcosa sfrecciò accanto a loro, ma nessuno alzò la testa per vedere di cosa si trattasse. Si muovevano come un branco, arrancando nel buio e ignorando i minacciosi brontolii che attraversavano la nebbia. 42


Andarono avanti, per un tempo indefinito, in quello spazio fatto di caos e di frammenti di luce, con il terrore di respirare i miasmi mortali della zona radioattiva. Non accadde nulla di ciò che avevano sempre temuto. Inspiravano, espiravano. Ed erano ancora vivi. A un certo punto, l’aria divenne più lieve e un paesaggio diverso da quello a cui erano abituati si delineò intorno a loro. C’era un muro altissimo, ferito da una spaccatura gigantesca. L’oltrepassarono. Una luce intensa e fastidiosa scivolò su di loro e Mur cominciò a distinguere, almeno in parte, alcuni oggetti. Un lampione. Il muro di un edificio. Un segnale stradale. In lontananza, la sagoma di una cupola. Un cartello. Roma. La nebbia svanì e i ricordi lo travolsero. La porta era crollata a seguito dell’esplosione e ostruiva l’uscita. Alex trascinò Lyl fino al vetro piombato che si affacciava sul parco; non c’erano passaggi visibili. Lei indicò un grosso mobile metallico rovesciato al centro dell’androne. Lo spostarono a fatica, tanto era il peso, ma riuscirono a spingerlo con sufficiente forza contro la vetrata. Ci fu un boato, poi una pioggia di schegge inondò l’oscurità. La luce vermiglia scivolò all’interno del locale mentre i due scavalcavano ciò che restava della finestra, correndo verso il bosco. Non si voltarono a guardare il colonnato che si sbriciolava dietro di loro, accompagnando la fuga con una serie di deflagrazioni. Alex stringeva così forte la mano di Lyl da farle male, ma non la lasciò andare. Corsero fra i sentieri del parco, oscuri e irregolari, in cui le ombre degli alberi deformati si stagliavano accartocciate e contorte. Attraversarono le vie deserte, diretti verso i confini della città. Ci fu, in mezzo al caos, un rumore continuato e acuto, simile a un fischio, seguito da un’esplosione secca. Alex si arrestò e si volse a guardare indietro. Anche Lyl si girò. In fondo alla strada, qualcuno fronteggiava una nuova, mostruosa belva. Uno sguardo glaciale, contornato da una fitta trama di rughe, incrociò il suo e il terrore e l’odio si agitarono 43


dentro di lei senza che riuscisse a controllarli. Si pentì di aver affidato a Kat la pistola. Se l’avesse avuta tra le mani in quel momento, avrebbe sparato. E avrebbe ucciso quell’uomo. Longari era inquieto. Un rumore continuava ad accompagnare i suoi passi. Era come se l’aria fremesse quando lui si muoveva, ma ogni volta che si girava a guardare non c’era altro intorno a lui che un immobile vuoto sabbioso. Raggiunse la città e si inoltrò verso il centro, fra macerie e carcasse metalliche. Il silenzio fu rotto all’improvviso. Un boato, e poi il rombo di una cascata di pietre. Un intero quartiere crollò, come se i palazzi fossero di carta. Il professore imprecò. Loi doveva aver raggiunto la sala di controllo. Si augurò di essere ancora in tempo per fermarlo. Corse verso il Tempio con la sensazione di avere qualcuno – o qualcosa – alle calcagna. Fu costretto ad arrestarsi di fronte al terrificante spettacolo delle colonne di marmo che cadevano una sull’altra, in un inarrestabile effetto domino. Un riflesso lo costrinse ad alzare la testa. Su, in alto, una crepa correva sulla cupola che riproduceva il crepuscolo di Capitolium, e una pioggia di luce chiara essudava dalla fessura, a inondare la città. L’aria fu satura del rombo dei palazzi che rovinavano al suolo e dei colpi secchi del cemento che si spaccava. Il rumore divenne insopportabile, le esplosioni più frequenti e una polvere spessa avvolse ogni cosa, dilagando come una nebbia strisciante fra le strade vuote. I binari spezzati della ferrovia sopraelevata scomparvero in una nube grigiastra, che assorbì le lame di luce spioventi dall’alto. Longari intravide due figure allontanarsi di corsa fra i detriti e si lanciò all’inseguimento. Li aveva quasi raggiunti, quando una forma scura si staccò da una via laterale e gli bloccò la strada. Per la prima volta in vita sua, si pentì di ciò che aveva creato. La bestia aveva denti straordinari. Il cranio era circa della stessa dimensione di quello di un leone, ma i suoi canini misuravano almeno il doppio. Erano ricurvi, con i bordi affilati. 44


Longari fissò l’animale come a volerlo domare con lo sguardo. Una goccia di sudore – una sola, gelida – scivolò giù dalla tempia. Se la creatura lo attaccava, aveva poche speranze di cavarsela: gli avrebbe rotto le ossa del collo con un morso fatale e poi affondato i denti per strappare via la carne. Spianò il fucile e caricò il colpo. Il mostro ringhiò e si spostò sulle zampe robuste, muovendosi in modo lento e silenzioso. Aveva gli artigli retratti, ma lo scienziato non dubitò che fossero pronti a scattare per infilzarlo. Notò con un brivido il colore vivace della bestia. L’aveva ottenuto lui stesso, dotando l’animale di una pericolosa difesa chimica: la pelle secerneva un veleno mortale, di un giallo acceso. Longari non riusciva a prendere la mira, per quanto gli tremavano le mani. Calma, s’impose, e bloccò il fucile. La bestia era a tiro. Ritrovò il suo sangue freddo. Spara, stupido! Schiacciò il pulsante che innescava la microfusione e dalle cellule partì una doppia scarica d’energia. Il raggio azzurrognolo colpì la creatura, che crollò in terra. Si levò un fumo biancastro e uno sfrigolio tremolò nelle orecchie di Longari. Un odore tremendo, come di acido, bruciò su per le narici e gli fece lacrimare gli occhi. Per qualche istante, il professore fu sicuro di aver ucciso il mostro. Ma un ringhio sommesso lo raggelò. L’animale tornò in piedi con un balzo e digrignò i denti. Longari puntò il fucile e si preparò a sparare di nuovo. Alle spalle della mostruosità ringhiante, in fondo alla via, i due individui in fuga si erano fermati. Si volsero all’unisono e incrociarono i suoi occhi. Alessandro Loi lo fissò, ma fu l’altro sguardo a inchiodarlo. Mio Dio! Non l’aveva più vista, dopo che era stata “riprogrammata” e inserita nel sistema Capitolium. Gli fece paura, quella versione aliena di Liliana Masi che lo scrutava, implacabile. La distrazione gli fu fatale. Prima che potesse sparare ancora il doppio raggio, una zampata gli strappò l’arma e lacerò la tuta di protezione. Un dolore sottile e tagliente, come la lama di un rasoio. Il veleno entrò subito in circolo, simile a sangue gelido. Tentò di reagire, ma era come se gambe e braccia fos45


sero diventate all’improvviso di piombo. La belva gli saltò addosso, schiantandolo sull’asfalto, e l’ultima cosa che Longari vide furono due sagome, mano nella mano, che si allontanavano di corsa da quell’inferno. Kat rimase a lungo ferma davanti alla porta, poi si fece coraggio ed entrò nella stanza in penombra. Tirò fuori qualcosa da sotto al letto. Era una vecchia scatola di latta, decorata con buffi disegni per bambini. La poggiò sul letto, accanto all’arma di Alex, e l’aprì. Una alla volta tirò fuori le cose che conteneva e le dispose in ordine sul materasso. Un vecchio libro dalle pagine scollate, un cuore di stoffa colorata, un nastro blu, un sasso levigato, una cartolina sbiadita che ritraeva Capitolium nel suo massimo splendore, uno spelacchiato orso di peluche… Tutti oggetti che aveva raccolto vagando tra gli appartamenti vuoti dopo il Non Ritorno. Pezzi di altre vite che le rendevano più sopportabile l’aver rinunciato volontariamente alla sua. Aveva mentito, fin dall’inizio, sin dal primo momento in cui l’avevano gettata in quel posto infernale. Lei ricordava. Ogni cosa. Ogni. Orribile. Cosa. Per ultimo tirò fuori il carillon. Lo rigirò tra le dita e ne osservò il meccanismo attraverso la vista deformata dalle mutazioni: bastava girare la chiavetta e, al ruotare del tamburo dentellato, una serie di lamelle metalliche iniziavano a vibrare. Ne veniva fuori una melodia, fatta di suoni, profumi e colori di un altro tempo. Di un’altra vita, quella che le era stata negata. Dlin dlin dlon. La musica evocò l’immagine di un uomo. Bruno, forte, affascinante… Sorrideva, ma poi le labbra si curvavano in un ghigno, e la mano si alzava per colpirla. Kat si piegò su se stessa, schiacciata dal dolore e dall’angoscia. Il ritmo prevalse su ogni altra cosa. Dlin dlin dlon. Lo stesso ritmo con cui aveva inferto i colpi, uno per ogni volta che lui l’aveva violata, offesa, picchiata. E il colpo di grazia, per il figlio che non le aveva permesso di avere. 46


Dlin dlin dlon. Kat chiuse gli occhi e strinse a sé l’orso di stoffa. La prima esplosione fece vibrare le pareti. Il carillon non smise di suonare. Ci fu una seconda detonazione. Poi una terza. Kat perse il conto. Posò l’orso sul letto e prese in mano la pistola. Le deflagrazioni erano sempre più vicine. Dlin dlin dlon. Puntò l’arma, lì dove avrebbe dovuto esserci il cuore. Bang. Ci fu un calore, seguito da una luce bianca, e tutto quel che restava di Catherine Jones fu spazzato via assieme ai resti di Capitolium. I polmoni di Lyl erano sul punto di esplodere. Corse, la mano aggrappata a quella di Alex, oltre la recinzione metallica che proteggeva la città, attraverso la polvere e i miasmi della zona proibita, mentre i colori attorno a lei si mescolavano e assumevano tinte dimenticate. Perse la presa: le dita scivolarono via da quelle di Alex e lei rovinò tra le dune. Sotto la guancia, qualcosa di morbido le accarezzò il volto. Sollevò la testa e i colori si confusero. Non era la sabbia della zona morta, ma una carezza soffice e verde che profumava di fresco. Ignorò il morso impietoso che bruciava la schiena e le gambe quando Alex la aiutò a rimettersi in piedi. «Non fermarti adesso!» urlò lui. Si rialzò e il tappeto verdeggiante scomparve, lasciando di nuovo il campo al deserto. Vedeva Alex a malapena, in mezzo alla polvere che vorticava, sollevata da folate di vento in cui riecheggiava il suono lontano delle esplosioni. Lui la sorreggeva perché non cadesse e nella nube di sabbia Lyl riuscì a distinguere i suoi occhi. Si perse nell’avvolgente sensazione di tepore e oscurità e quando lui la strinse in un abbraccio improvviso, colmo di parole non dette, restò lì, sul suo petto, con il solo tumtum del cuore nelle orecchie. Alex la allontanò e le accarezzò i capelli, lasciando scivolare la mano sul viso, con una tenerezza che le velò lo sguardo di lacrime. Poi le afferrò di nuovo la mano: «Andiamo!». Ricominciarono a correre. 47


Squarci di blu ammiccavano dalle crepe nella calotta di vetro. A tratti, la zona morta spariva e ricompariva. La sabbia delle dune era scabra e tagliente, ma quando l’effetto ottico si interrompeva, lasciava il posto a un prato dall’incredibile sfumatura smeraldo. Lyl aveva dolore agli occhi. Bruciavano, ma ancor di più bruciava la consapevolezza di quello che stava accadendo. Ogni passo in quella direzione le gettava addosso un’ondata di dolore. E le restituiva un ricordo. Corse, finché ebbe fiato. Quando anche l’ultimo respiro fu consumato, una foschia biancastra l’avvolse e la trascinò in un luogo incolore, senza tempo né spazio. «Liliana.» La nebbia confusa in cui era immersa, così densa e vischiosa da renderle difficile il risveglio, sfumò dal grigio al bianco, e la luce la colpì attraverso le palpebre chiuse. Ascoltò i suoni e respirò gli odori. Il rombo di un motore. Il latrato lontano di un cane. Un vago profumo di fiori. «Liliana.» La voce la ghermì e la riportò indietro, prima che l’oblio la risucchiasse di nuovo nel grigiore. Ce l’abbiamo fatta. Fu il suo primo pensiero coerente. Subito dopo, però, si pose una domanda: A fare cosa? C’era qualcosa che aveva disperatamente cercato di fare, prima di precipitare in quel nulla viscoso e incolore, ma non ricordava cosa. La sagoma vaga di una sfera sospesa tra il rosso del cielo e il nero della terra si materializzò nella sua mente, e l’angoscia le attanagliò le viscere. La zona proibita! Senza riflettere, riaprì gli occhi. Il deserto arido e rugginoso era scomparso. Si trovava al centro di uno spiazzo, avvolta dalla penombra incerta che precede il sorgere del sole. Alle sue spalle, grigie mura di cemento sembravano aggrapparsi al cielo per non crollare. Aveva ancora nelle orecchie la voce di Alex che le gridava di non fermarsi, nel cuore i sussulti della terra scossa dal crollo degli edifici, nella gola il sapore della polvere. 48


Alex. Il pensiero di lui le solleticò la mente, così intenso, così reale da darle i brividi. Qualcosa ferì i suoi occhi e lacrime calde tracciarono sentieri sul viso sporco di terra. Il sole… Era ancora basso, ma anche così la sua luminosità era troppo forte per le sue iridi delicate. Lyl batté le palpebre. «Ti abituerai di nuovo alla luce» le sussurrò Alex all’orecchio. «Sei al sicuro, ora devi soltanto vivere». Stavolta non sembrava intenzionato a scioglierla dal suo abbraccio. Le fece indossare un paio di occhiali dalle lenti scurissime e subito lei provò sollievo agli occhi. Girò piano la testa e vide gli altri. Mur, Jule, Stan… Pallide statue nei riflessi dell’alba. Anche loro portavano occhiali da sole. Stavano vicini gli uni a gli altri, tenendosi per mano, incapaci di muoversi. Mancava Kat, ma non ebbe la forza di chiedere cosa le fosse successo. Ora doveva pensare solo a se stessa. E ad Alex. Ora devo soltanto vivere. Un flusso di ricordi la sfiorò di nuovo, con la costanza dell’onda che lambisce la battigia. Scivolò via, ma Lyl non cercò di trattenerlo. Non aveva più paura che svanisse nel nulla; adesso era sicura che la memoria sarebbe tornata. Si rilassò e lasciò che l’aria pulita riempisse i polmoni. Poi riparò gli occhi con la mano: guardò la macchia di luce allargarsi sul terreno scuro e svelare sassi, erba… un fiore solitario. Un altro fiore. E un altro. E poi decine, centinaia, migliaia di corolle colorate. Il sole s’innalzò; scivolò piano sopra di loro e come un sipario, scoprì la scena. Una città, avvolta nella sua eterna bellezza, si mostrò a poco a poco. Al centro dell’immensa distesa di edifici, una cupola antica incombeva su un abbraccio di colonne marmoree. Anche il velo che copriva la memoria si sollevò, con la leggerezza di un volo di farfalla. In un solo istante, Liliana ricordò ogni cosa.

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