ISBN
€ 10,00
978-88-6960-062-3
9 788869 600623
Nicola Romeo
Maurizio Romeo, genitore del patron dell’Alfa Nicola, era infatti originario di Montalbano Jonico. Portando alla luce dettagli, documenti storici e riscoprendo alcuni luoghi lucani che in un certo senso sono comprimari nelle vicende della famiglia Romeo, in Nicola Romeo Vincenzo Maida, con la sua penna brillante e precisa, tratteggia un ritratto inedito, umano e professionale, del grande imprenditore e regala, al tempo stesso, una full immersion nella storia di un’auto di successo.
VINCENZO MAIDA
vincenzo maida
Il leggendario marchio automobilistico Alfa Romeo ha radici lucane…
da cirigliano a montalbano jonico, da sant'antimo a milano: le radici lucane dell'alfa romeo
Capitolo 1 L’incubo della pandemia da Coronavirus (Covid-19) sembrava che fosse finito e il sole caldo dell’estate del 2020 diffuse una nuova energia tra spiagge affollate, passeggiate serali e vita notturna. Le terapie intensive si erano svuotate, il numero dei contagi si era notevolmente ridotto, al Sud si era quasi azzerato, si poteva viaggiare e i bagliori della normalità, intravisti nel corso della primavera, erano diventati come la luce accecante dell’estate mediterranea. Nel paese lucano, Montalbano Jonico, come in tutto il Sud Italia, l’infezione da Covid-19 era stata inesistente e i provvedimenti di restrizione erano stati rispettati più per paura che per necessità. Le forze dell’ordine, su input del ministero degli Interni, avevano esagerato: persino sulle spiagge i droni avevano individuato e sanzionato uomini e donne sole. L’unico caso in paese di positività accertata a quell’infezione, è probabile che ve ne fossero stati pochi altri non rilevati, aveva scatenato un vespaio di polemiche. Nei mesi successivi, quando i contagiati si contarono a decine, esse apparvero in tutta la loro irrazionalità. 5
Un’anziana donna era rientrata da Milano senza attendere l’esito del tampone a cui si era volontariamente sottoposta e la positività le era stata comunicata proprio il giorno dopo che era giunta in paese. Erano state prese immediatamente tutte le precauzioni del caso e organizzata un’adeguata assistenza logistica, ma inopinatamente si imbastirono oziose polemiche politiche. Dopo qualche tempo, venne data la notizia che quella novantenne si era negativizzata e chi l’aveva assistita non aveva contratto il virus. L’estate, pur privata di eventi e festeggiamenti che la caratterizzavano da sempre, fu comunque un bel sogno che si consumò rapidamente, donando il desiderio di un nuovo inizio e la speranza della normale ripresa delle attività scolastiche. L’incubo della pandemia venne rimosso, la storia non insegnò nulla e nessun provvedimento efficace fu messo in cantiere in previsione dell’autunno e dell’inverno. Inutile fu il ricordo che la “Spagnola”, nel 1918, nella seconda e nella terza ondata fece più vittime della prima. Il desiderio di tornare definitivamente alla normalità ebbe il sopravvento sulla razionalità, la storia delle pandemie e sui provvedimenti governativi e regionali che, dai banchi a rotelle alle chiusure e aperture cromatiche delle regioni, furono confusi e inadeguati. Le previsioni degli esperti si rivelarono fallaci o incerte e questo incise non poco sul comportamento di tutti. Ripresero i festeggiamenti di matrimoni, compleanni e ricorrenze varie, riaprirono le scuole, milioni di giovani e di famiglie si mossero e verso la fine dell’estate si ebbero i primi segnali che l’incubo si sarebbe di nuovo materializzato al Sud, anche nei piccoli e sperduti paesi. 6
Fummo colti di sorpresa, impreparati e l’imprudenza, o forse solo il caso, fecero dilagare l’infezione dappertutto. A Montalbano Jonico, tra quel pugno di case arroccate su di una collina, interessato da qualche decennio da un massiccio spopolamento, come altri centri collinari, l’allarme scattò dopo un decesso. Un uomo anziano era morto e l’autopsia aveva confermato i sospetti: era affetto da Covid-19. A distanza di qualche giorno, la stessa sorte toccò alla figlia. Si comprese allora che il virus circolava già da qualche tempo ed esso colpiva in modo differente. Vi furono pauci sintomatici, ricoverati in terapia intensiva o nel reparto infettivi, altri morti e tanti positivi asintomatici seminarono il terrore. Gli infettati superarono in totale le 300 unità. Nulla in confronto ai dati della “Spagnola” nel 1918, quando su di una popolazione di circa 4.300 abitanti a infettarsi fu quasi un quarto di essa, con 165 morti. Vi furono più decessi per quella influenza virulenta di quelli causati dalla Prima Guerra Mondiale. Ma erano altri tempi e vi era più impreparazione e anche una diversa capacità di affrontare le sventure e la morte. Paradossalmente, nella seconda ondata della pandemia, le restrizioni furono meno rigide di quelle dell’inverno 2020 e si fece appello al senso di responsabilità di ognuno. Come nel passato inverno, i vicoli, le strade, le piazze, gli angoli bui e deserti del centro storico di quel terrazzo sul golfo di Taranto, che qualcuno si ostina a chiamare “città” in virtù di un provvedimento che il Quirinale non nega a nessuno, neanche a paesi di appena 3.000 abitanti, erano di sera un luogo sicuro dal contagio, per lunghe, interminabili, a volte monotone passeggiate. 7
Lì non si incrociavano più neanche gli aliti dei nostri antenati, ormai spazzati via per sempre dalle folate di vento delle vallate circostanti. Essi potevano rivivere solo nella immaterialità del ricordo e percepiti tra impronunciabili percorsi di comunione spirituale. Con altri conoscenti, ogni sera erano quei luoghi l’alternativa alle mura domestiche che dava sicurezza. Tra di loro particolarmente utile era la presenza saltuaria dell’amico e familiare Pietro Prillo – due dei nostri nonni erano cugini – che da molti anni si occupa per diletto di ricercare in archivi parrocchiali, comunali e di Stato l’origine dei nuclei familiari locali. Erano in tanti a chiedergli di costruire l’albero genealogico delle loro famiglie e lui, con grande pazienza e generosità, provava a soddisfare il desiderio di ognuno di cercare le proprie radici. Alla vigilia delle festività natalizie eravamo in via Manin, già Strada Sant’Angelo prima dell’Unità d’Italia, provenienti da corso Carlo Alberto, già via di San Nicola a Mare, lì dove la strada si allarga di qualche metro, per poi immettersi nella biforcazione di due vicoli, uno che porta davanti alla Palazzotto Quinto, ormai da decenni disabitato, e l’altro in piazza Plebiscito, dove ci sono la cappella quasi diroccata della Madonna della Pietà, Palazzo Brancaccio, dove visse agli inizi del 1800 Ottaviano Rasole, il fondatore della locale massoneria, e in fondo Palazzo BrunoLacava. Mentre i miei compagni di passeggiata commentavano lo scempio di alcune ristrutturazioni lì intorno, come in altre zone del centro storico, e il mancato rispetto della storia di quei luoghi e della conservazione di quel patrimonio architettonico, immaginai il mio paese nel 1500. Risale a quell’epoca, infatti, l’edificazione di alcune case in quel quartiere. 8
A quel tempo il Castello, risalente per alcuni alla guerra di Pirro contro Roma, era ancora in piedi nella parte più alta, su di uno sperone d’argilla, la Tempa del diavolo, di fronte a Craco vecchio, il paese fantasma di cui in lontananza si intravede il campanile della chiesa. Osservare da lì il tramonto nelle serate estive, assume una dimensione onirica. Via Extramurale Mulino era ancora esistente, perimetrata da un muretto in mattoni, essa girava tutt’intorno ai calanchi sul lato sud-ovest. In quelle serate pandemiche, quando transitavamo da quelle parti, era d’obbligo una sosta dirimpetto alla Cattedrale d’Anglona per ammirare in lontananza le luci dei paesi ai confini della Calabria, Policoro, l’antica Eraclea, Valsinni (il paese di Isabella Morra), Rotondella, Colobraro, San Paolo Albanese, San Giorgio Lucano, e poi ancora Aliano, Stigliano, San Mauro Forte, l’incanto della vallata dell’Agri e del fiume argenteo dove trovò la morte Alessandro il Molosso e al di sopra di esso, verso la collina di Anglona, l’area dove Pirro mise in fuga i romani con i barriti dei suoi venti elefanti lanciati in mezzo alla battaglia, come testimoniato anche dai ritrovamenti archeologici. Su via Extramurale Mulino sfociavano alcuni vicoli del borgo medievale, che in un apparente disordine portano tutti nella piazza, dove c’è stato fino al 1743 il vecchio ingresso della Chiesa Madre. Federico II, lo stupor mundi, non a caso scelse questo luogo, che urbanisticamente visto dall’alto sembra un’aquila, per l’unica domus federiciana della provincia di Matera. Alcuni palazzi gentilizi incominciarono a essere edificati nel 1500, giù fino alla seconda cinta muraria e alle porte della Terra e di San Pietro, dove la vista si 9
apre all’intero golfo di Taranto e quindi alle coste calabre e pugliesi. I viaggiatori restavano stupefatti dal panorama che da lì si osserva verso il Mare Jonio e per tanti uomini e donne dei comuni dell’entroterra, ma anche per famiglie provenienti dal Nord Italia, Montalbano Jonico era scelto come luogo di residenza definitiva. Per alcuni decenni è stato infatti paese di immigrazione, poi a partire dai primi anni Ottanta l’emigrazione, che già aveva fatto capolino ai primi del Novecento, verso le Americhe e, negli anni Sessanta, verso il polo industriale del Nord Italia, la Germania e la Svizzera, ha iniziato ininterrottamente a svuotarlo. La denatalità ha aggravato lo spopolamento. In quelle serate pandemiche pensai che, in meno di un paio di secoli, con un accelerata negli ultimi decenni, eravamo stati capaci di rovinare ciò che i nostri antenati avevano conservato per duemila anni o forse anche più. Le frane non erano state solo colpa della natura, noi avevamo contribuito con le selvagge costruzioni sulle pendici dei calanchi, la mancata manutenzione di cisterne abbandonate e di impianti irrigui e fognari realizzati negli anni Trenta dal Fascismo, con l’assenza di un piano urbanistico da far rispettare con intransigenza. Quel palazzo che ci stava di fronte, risalente alla prima metà del 1500 – più esattamente la sua costruzione viene datata intorno al 1540 – era appartenuto ai Guida, una facoltosa e antica famiglia che aveva realizzato con Vittorio Guida nel 1751 anche la cappella di San Leonardo, protettore dei carcerati. Poi i Guida erano stati colpiti dalla sfortuna e infine si erano estinti con gli ultimi esponenti: Lucia Guida e la sorella Rosa. 10
La cappella di San Leonardo era stata successivamente venduta ai Baroni Ferrara, allora proprietari anche del Palazzo Zito Elia, nel cui giardino vi è un pozzo con incisa una data: 1543. Lucia Guida aveva ereditato quel palazzo che stavamo osservando con curiosita poichè al suo interno si conserva un inaspettato mistero: dall’androne, a una profondità modesta, non più di un paio di metri, inizia un ampio cunicolo che conduce fuori dal centro abitato, verso la strada che porta all’attuale cimitero. Nessuno ha mai pensato di scavare per tentare di scoprirne l’origine e comprendere se sia opera dell'uomo o semplicemente uno dei tanti fossati naturali. Nel primo caso bisognerebbe indagare sui motivi per cui venne realizzato, forse una via di fuga per i primi proprietari o solo un canale di scolo in cui far defluire le acque piovane e quelle della cisterna una volta piena. Uno dei miei amici era amante dei motori, aveva una passione smodata per le auto, conosceva tutte le caratteristiche di quelle che andavano per la maggiore ed era informato sui nuovi modelli e i rispettivi consumi. Proprio lui, quando mi vide assorto e pensieroso davanti a quel Palazzo, mi chiese la ragione di quel silenzio. «Se vuoi» gli dissi «vi racconto la storia della famiglia che l’ha abitato, per te che ami i motori sarà una piacevole sorpresa. Ecco! Stavo pensando che la fortuna, la genialità, l’inizio di vicende umane che restano scolpite nella memoria delle generazioni future, la storia del marchio di un’auto di successo che ha ormai superato il secolo, possono originarsi dalle situazioni più disparate e a volta disperate. La causalità e una intuizione geniale di una mente illuminata, possono lasciare un segno indelebile nella vita di 11
una nazione. Da questo portone» conclusi «è iniziata la storia dell’Alfa Romeo e del caratteristico e inconfondibile rombo delle sue auto. Essa andrebbe narrata alle nuove generazioni nelle nostre scuole, perché ha un valore educativo immenso». Lui mi guardò con una espressione stupita, mi diede l’assenso, mentre gli altri ascoltavano attenti, con un atteggiamento di vigile diffidenza. Intuii che si stavano interrogando se fossi sincero o se la pandemia mi stesse mandando fuori di testa. «Molti fatti del passato» aggiunsi «si sono persi, inghiottiti dalla voragine del tempo e ci sarà difficile ricostruirli nella loro verità storica, ma si può provare perchè le vite degli uomini sono attraversate dalle stesse passioni da sempre e non sarà impossibile adattarle ai tempi passati. Grazie a un amico, Pietro Prillo, al quale mi lega l’amore per il passato oltre a una non lontana parentela, appassionato di ricerche sugli alberi genealogici, sono stati rinvenuti documenti importanti e altri ne ho trovati io. Egli nelle prossime serate si aggregherà a noi di tanto in tanto e la sua presenza, vedrete, sarà molto utile e stimolante. Donna Lucia Maria Giuseppa Guida in questa casa era nata il 4 dicembre del 1819, qualche mese prima della sollevazione contro i Borboni del 1920, che coinvolse diversi montalbanesi e che per alcuni di loro si concluse tragicamente nelle carceri di Potenza. Lì morirono, infatti, un Francesco Lomonaco e Pasquale De Michele. Lucia era terza di tre figli. L’avevano preceduta Rosa, nata nel 1806, e Leonardo Maria, nato nel 1815 e morto ancora in fasce. A ventitré anni non si era ancora sposata e per i costumi dell’epoca aveva già superato l’età da matrimonio, che allora era mediamente sotto i vent’anni. 12
Il patrimonio familiare si era ridotto al possesso di quest’unico palazzo, oggi disabitato, e di alcuni terreni agricoli dallo scarso valore produttivo e per i notabili locali lei non rappresentava dunque un grande affare. Lucia non era avvenente, non possedeva una bellezza folgorante, non ammaliava per il suo aspetto. Era bassa di statura e magra (allora si preferivano le donne in carne) aveva labbra sottili, occhi marroni, fronte spaziosa e lineamenti comuni, ma era colta, amava la lettura, soprattutto i libri classici. Aveva imparato presto a cucire e a cucinare e la sua esistenza era interamente dedicata a tenere in ordine le stanze di questo palazzo; a fare conserve e insaccati. Ogni anno, insieme ad altre donne del vicinato, dedicava molto tempo a quest’attività. Il padre di Lucia, don Francesco Antonio Guida di Saverio, era morto nel 1824 quando lei aveva solo cinque anni, dunque era cresciuta con la madre donna Teresa Maresione e la sorella Rosa, tredici anni più grande di lei, che andò in sposa a Michele Laterza, da cui non ebbe figli e rimase vedova giovanissima. Lucia riempiva le sue giornate senza mai annoiarsi, ma spesso pensava al suo futuro e si interrogava su quello che le avrebbe riservato la sorte. Era molto legata ad alcune famiglie del notabilato locale da una antica e profonda amicizia, prime fra tutte alle famiglie Cerulli e De Leo. Il Palazzo MansiCerulli si trova all’inizio di via Manin, a poche decine di metri da qui. La famiglia Cerulli proveniva da Bernalda e possedeva molti terreni, una contrada rurale porta il loro nome. Rosellina Cerulli era stata promessa in sposa a Giovanni De Leo, l’unico dei sette figli di Filippo e di Maria Corino che si sarebbe sposato. Donna Rosellina e donna Lucia si frequentavano assiduamente sin da ragazzine. 13
Alla fine del 1700 Filippo De Leo, padre di Giovanni, era solo un volenteroso contadino e la famiglia Guida non si era risparmiata ad aiutarlo in ogni modo. Quando però la ruota della fortuna girò a loro favore, furono i De Leo a onorare quell’antica amicizia. Sia i De Leo che i Cerulli avevano dunque a cuore la sorte di donna Lucia Guida. Non siamo riusciti ad appurare in quale circostanza un giovane di Cirigliano, Giovanni Egidio Romeo di diciannove anni, avesse conosciuto a Montalbano Laura Misurelli di ventitré anni. É certo, come si evince da un atto di matrimonio rintracciato da Pietro Prillo, che i due il 14 settembre del 1831 si sposarono nella Chiesa Madre del nostro comune. Andarono poi ad abitare a Cirigliano ed ebbero quattro figli: Maria Maddalena Teresa il 28 agosto del 1832, Antonia Maria Maddalena il 20 gennaio del 1835, Leonardo il 27 luglio del 1840 e Antonia Maria Teresa il 19 luglio del 1846 Con tre loro figli (Antonia Maria Teresa non era ancora nata), come ogni anno da quando erano sposati, erano venuti da Cirigliano per i festeggiamenti del santo patrono di Montalbano nel mese di settembre del 1842. Il fratello maggiore di Giovanni, Nicola Romeo, li raggiunse il 22 settembre. Avrebbe pranzato con loro, respirato l’aria di festa in paese e poi sarebbe rientrato a Cirigliano. Fu donna Rosellina Cerulli a invitarli quel giorno a casa sua. Dopo la messa nella Chiesa Madre in onore al Santo Patrono del paese, com’era consuetudine tra le famiglie benestanti, prima di pranzo consumarono insieme dolci gustosi, biscotti e altre leccornie innaffiate dal rosolio fatto in casa. Tra i pochi invitati vi era anche Lucia Guida e la sorella Rosa, già vedova. 14
Nicola Maria Francesco Paolo Romeo, basso di statura, con un fisico scolpito, lesto nei movimenti e dall’eloquio vivace, sprigionava quell’energia e quella voglia di vivere che da tempo mancava in casa Guida. La famiglia Romeo era legata ai De Leo da tanti anni, da quando i fratelli di Giovanni, Ferdinando, Felice e Vincenzo – rispettivamente prete, farmacista e medico – si erano recati a studiare nel collegio di quel comune, avendo come insegnanti dei sacerdoti che erano considerati colti e capaci. La famiglia Romeo a Cirigliano era stata una delle più facoltose e Nicola all’anagrafe era registrato con la professione di “civile”. Da quando il padre Leonardo, per motivi che non siamo stati capaci di appurare, era stato processato e incarcerato a Potenza, dissanguati dal processo del capofamiglia e dalle inevitabili conseguenze sull’equilibrio familiare, non attraversava però un buon momento. Lì Nicola possedeva con i fratelli un’azienda con l’allevamento di ovini e bovini per la produzione di latte e formaggi. Egli era nato il 22 maggio del 1808. Era dunque di undici anni più grande di Lucia Guida. Nicola Romeo dopo quel rinfresco e il pranzo a casa Misurelli sarebbe dunque rientrato a Cirigliano. Lucia Guida e Nicola Romeo quel giorno familiarizzarono e tra i due nacque una naturale simpatia, infatti si salutarono cordialmente con la promessa di non perdersi di vista. Nicola dopo aver raccolto tutte le informazioni possibili su Lucia Guida dai fratelli De Leo, confessò a Giovanni De Leo il suo interesse per la ragazza e disse anche che non gli sarebbe dispiaciuto venirsene a vivere a Montalbano. Giovanni De Leo si assunse l’impegno di parlarne con la sua promessa sposa, donna Rosellina Cerulli, 15
affinché intercedesse presso la sua amica per rappresentarle le intenzioni di Nicola. Dopo il pranzo con il fratello Giovanni Egidio, la cognata Laura Misurelli e sua madre, Nicola Romeo partì a cavallo per Cirigliano. Quando giunse a casa confidò ai fratelli e alle sorelle quella sua intenzione di fidanzamento e di un eventuale trasferimento a Montalbano, Il padre Leonardo di professione “campista”, vale a dire “possessore di campi”, quindi proprietario o possidente, era nato nel 1768 ed era stato l’unico figlio di don Nicola Romeo e di donna Vittoria Sario. Aveva solo sei anni quando don Nicola morì a ventinove anni il 16 ottobre del 1774. Egli era nato a Cirigliano nel 1745. Leonardo aveva ereditato delle cospicue proprietà terrieri e una casa sontuosa lungo la Strada Capolatorre. Aveva sposato Antonia Urgo, anche lei era nata a Cirigliano nel 1776 ed era figlia del massaro Giovanni Urgo e di Giulia Valentino. Leonardo Romeo era detenuto nelle carceri di Potenza. Pietro Prillo ha rintracciato il certificato di morte che lo attesta. Morì, infatti, nel reparto dell’ospedale di Potenza dedicato ai carcerati e considerando che aveva circa settantotto anni, doveva aver commesso qualcosa di grave. La dichiarazione di morte venne attestata da due infermieri dell’ospedale. Donna Antonia Urgo, moglie di Leonardo Romeo e madre di Nicola, era deceduta solo un paio di mesi prima, il 2 luglio del 1842, a sessantasei anni. A tutta la famiglia la sua perdita aveva procurato un dolore enorme. Proprio la sua morte aveva spinto Nicola a tentare di mettere su famiglia e Lucia Guida gli era sembrata la donna giusta per iniziare un nuovo percorso di vita. Nicola era il secondo di sei figli, prima 16
di lui era nata Giulia e dopo di lui erano nati Domenica Maria il 23 maggio del 1811, Giovanni Egidio il 10 ottobre del 1812, Anna il 28 gennaio del 1816, Giuseppe Vincenzo il 26 novembre del 1817 e Anna Angela Maria il 25 gennaio del 1919. Nicola Romeo scrisse una lunga lettera al padre in carcere. Gli parlò di quella ragazza conosciuta a Montalbano, decantò le sue qualità, gli riferì le notizie sulla sua famiglia, i Guida, che aveva appreso da Giovanni De Leo, non gli nascose la differenza di età e lo tranquillizzò sul fatto che, se Lucia Guida avesse accettato la sua proposta di matrimonio e si fosse dovuto trasferire a Montalbano, sarebbe comunque tornato spesso a Cirigliano per non far mancare il suo sostegno ai fratelli e alle sorelle. Nicola durante il giorno non aveva un attimo di pausa. Tra le mille incombenze da assolvere per portare avanti le attività della “masseria” il tempo volava ma tutte le sere davanti all’enorme camino del suo palazzo si sorprendeva a chiedersi se Giovanni De Leo ne avesse parlato con Rosellina Cerulli e se quest’ultima ne avesse a sua volta parlato con Lucia Guida. Quel giorno di San Maurizio, durante quel dialogo conviviale, si era sentito apprezzato da lei ed era fiducioso in una risposta positiva. Passarono diverse settimane senza che ricevesse alcuna notizia. Quando aveva perso ogni speranza e si era rassegnato all’idea che Lucia non sarebbe mai entrata nella sua vita, forse a causa della differenza di età che li separava, finalmente ricevette la visita di Giovanni De Leo, che in compagnia di un suo bracciante si era recato a Cirigliano in calesse. Scaricate alcune ceste di frutta montalbanese, che per ragioni climatiche non poteva essere prodotta a Cirigliano, in special modo le arance, Giovanni De 17
Leo comunicò subito a Nicola che “l’ambasciata” affidata a Rosellina Cerulli aveva avuto un esito positivo. Lucia Guida si era dichiarata disponibile a incontrarlo di nuovo e a parlare di loro e del loro futuro, aveva però detto chiaramente a Rosellina Cerulli che non era disponibile in nessun caso a spostarsi dal suo paese, come aveva fatto Laura Misurelli. Su questo punto sarebbe stata irremovibile. Lucia soffriva il freddo e amava il clima mite di Montalbano. Nicola gli rispose che aveva già messo in conto questa evenienza e ne aveva anche parlato con i familiari. Dopo alcuni giorni venne a Montalbano e si incontrò con Lucia a casa Cerulli. Il colloquio fu cordiale e tutti insieme vennero poi in questo palazzo per conoscere la madre di Lucia Teresa Maresiona e la sorella Rosa. Il periodo di fidanzamento durò esattamente un anno dal giorno in cui si erano conosciuti a casa Cerulli. Le nozze vennero fissate per il 21 settembre del 1843, vigilia del santo patrono di Montalbano, San Maurizio. Quell’anno Nicola alternò lunghe permanenze a Montalbano e rientri a Cirigliano e il giorno del matrimonio tutti i Romeo e gli Urgo, con altri amici di famiglia, parteciparono alla cerimonia nuziale nella Chiesa Madre Santa Maria dell’Episcopio. Lucia Guida godette dell’aiuto delle famiglie De Leo e Cerulli per l’organizzazione del pranzo nuziale, che si tenne in un ampio magazzino di Palazzo Troyli-Leone, nei pressi della Chiesa Madre. Il trasferimento di Nicola Romeo da Cirigliano in questo palazzo che ci sta di fronte, non tradì le attese. Nicola era sempre disponibile e socievole con tutti, anche con il vicinato. Egli si integrò subito nel paese e per tutti fu don Nicola Romeo. 18
Il primo dicembre dell’anno dopo, Lucia Guida diede alla luce un bambino. Qualche giorno dopo la “levatrice” Luisa Ferrante si recò al comune e davanti al sindaco e ufficiale dello stato civile Luigi Izzo, registrò il neonato, a cui venne dato il nome di Maurizio, Francesco Antonio. Nicola Romeo se al primogenito non diede il nome del padre, Leonardo, che si trovava in galera, deve aver avuto delle motivazioni gravi che non conosciamo. Chiamare il primogenito con il nome del proprio genitore, fino a qualche decennio fa, al Sud è stata una regola non scritta che nessuno usava violare. Egli preferì infatti Maurizio, come il santo patrono del paese e Francesco Antonio come il padre defunto di Lucia Guida. Come si usava a quell’epoca, per coloro che nascevano alla fine dell’anno, la registrazione effettiva avvenne il primo gennaio del 1845. Questa circostanza mi ha reso più difficoltosa la ricerca del relativo certificato di nascita nell’archivio comunale. Nei giorni seguenti alla nascita di Maurizio Romeo, da questo portone transitò una processione di visite. Vicini di casa, amici e parenti regalarono di tutto: generi alimentari, gli immancabili colombi per le puerpere, da fare in brodo, un piatto, a dispetto di quello che si è sempre pensato, tutt’altro che leggero da digerire, cuffiette cucite a mano, vestitini per il bambino, che dopo pochi giorni venne fasciato come una mummia. Casa Guida si rianimò e per l’anziana madre di Lucia, la felicità per quella nascita fu immensa. Donna Teresa Maresione morì dopo un paio d’anni. Il parto allora era un evento molto traumatico per le puerpere. La mortalità era molto alta tra i neonati 19
e tra i bambini superava il quaranta per cento; era comunque inferiore a quella del Nord Italia. Solo dopo l’Unità d’Italia il rapporto tra Nord e Sud incominciò a invertirsi. Nei primi giorni di settembre dello stesso anno, il 1845, giunse a don Nicola la notizia che il padre era ricoverato all’ospedale di Potenza, nel reparto riservato ai detenuti. Insieme ai fratelli e alle sorelle organizzò il viaggio verso Potenza. Leonardo Romeo si spense a settantotto anni qualche giorno dopo, il 10 settembre». I miei sodali ascoltavano con interesse e partecipazione, il silenzio e la solitudine che regnava davanti a quel portone, ristrutturato in modo appropriato, favoriva la concentrazione e la mente viaggiava agevolmente a ritroso nel tempo. Rivivemmo insieme quei fatti del passato, con la stessa piacevole sensazione di quando i nonni davanti al camino ci raccontavano le loro storie. Insieme convenimmo che per quella sera poteva bastare. Era solo l’inizio del racconto di una vicenda umana straordinaria, poco conosciuta nel nostro paese e per nulla nostra stessa regione. Mi impegnai a proseguirlo in qualche serata successiva. Ero certo che la pandemia, nonostante l’annunciato arrivo dei vaccini, ci avrebbe ancora concesso tempo da investire tra quei vicoli, nonostante i divieti e le prescrizioni a cui era difficile ormai stare dietro. La prima ondata di infezione pandemica, ci aveva costretto a cambiare le abitudini quotidiane per un tempo relativamente breve, poco più di due mesi; la seconda si preannunciava invece molto più lunga. Vi erano già stati dodici morti in paese ed era del tutto fuori luogo sottolineare che i deceduti fossero 20
affetti da altre patologie, perché se non avessero incontrato quel virus sarebbero rimasti ancora in vita. Ci avviammo silenziosi per far ritorno ognuno nelle rispettive abitazioni, con la promessa di riuscire a scovare nuovi documenti con l'indispensabile collaborazione di Pietro Prillo.
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