Non ho tradito

Page 1

ISBN

€ 18,00

non ho tradito vincenzo de leo, medico patriota

Tra lampeggianti e sirene delle ambulanze in una notte in pieno lockdown da Covid-19, un appassionato di storia di Montalbano Jonico si spinge, ripetendo i versi della Spigolatrice di Sapri, fino a palazzo De Leo. Lì incontra l’ombra del cav. Prospero Rondinelli e insieme, sulla base di una fitta documentazione l’uno e sul filo dei ricordi l’altro, ripercorrono la vita di Vincenzo De Leo – l’anima della rivoluzione del 1848 a Montalbano – incolpato di un presunto tradimento o comunque di un suo sia pur involontario coinvolgimento nel fallimento della spedizione di Pisacane. Con uno stile ritmato e coinvolgente, Non ho tradito di Vincenzo Maida racconta nel dettaglio una vicenda che ancora oggi si presta a numerosi interrogativi.

VINCENZO MAIDA

non ho tradito Vincenzo De Leo, medico patriota

vincenzo maida

Da quel momento tutto quello che avvenne fu solo un rincorrersi di ricordi…

978-88-6960-107-1

9 788869 601071

illustrazioni di mariangela tripaldi


Capitolo 1 Eran trecento: eran giovani e forti, e sono morti! Me ne andavo al mattino a spigolare quando ho visto una barca in mezzo al mare: era una barca che andava a vapore, e alzava una bandiera tricolore. All’isola di Ponza si è fermata, è stata un poco, e poi s’è ritornata; s’è ritornata ed è venuta a terra; sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra. Eran trecento; erano giovani e forti e sono morti! Sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra, ma s’inchinaron per baciar la terra: ad uno ad uno li guardai nel viso: tutti aveano una lagrima ed un sorriso. Li disser ladri usciti dalle tane, ma non portaron via nemmeno un pane; e li sentii mandare un solo grido: «Siam venuti a morir pel nostro lido!» Eran trecento; erano giovani e forti e sono morti! Con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro un giovin camminava innanzi a loro. Mi feci ardita, e, presol per la mano, gli chiesi: «Dove vai, bel capitano?» 5


Guardommi, e mi rispose: «O mia sorella, Vado a morir per la mia Patria bella». Io mi sentii tremare tutto il core, né potei dirgli: «V’aiuti il Signore!» Eran trecento; erano giovani e forti e sono morti! Quel giorno mi scordai di spigolare, e dietro a loro mi misi ad andare: due volte si scontrar con li gendarmi, e l’una e l’altra li spogliar dell’armi. Ma quando fûr della Certosa ai muri, s’udirono a suonar trombe e tamburi; e tra ‘l fumo e gli spari e le scintille piombaron loro addosso più di mille. Eran trecento; erano giovani e forti e sono morti! Eran trecento, e non voller fuggire; parean tremila e vollero morire; ma vollero morir col ferro in mano, e avanti a loro correa sangue il piano. Finché pugnar vid’io, per lor pregai; ma un tratto venni men, né più guardai: io non vedeva più fra mezzo a loro quegli occhi azzurri e quel capelli d’oro Eran trecento; erano giovani e forti e sono morti. Anno 2020: gli auguri per il nuovo anno, le previsioni, gli oroscopi; sembrava un anno che indifferente seguiva a un altro. Trascorse appena un mese dal suo inizio e giunsero le prime avvisaglie che sarebbe stato tragicamente unico, ma nessuno lo comprese subito fino in fondo. Le notizie che arrivavano dalla Cina e che informavano di un intero distretto di 60 milioni di uomini posti agli arresti domiciliari, per contrastare il propa6


garsi di un virus che attaccava i polmoni, sembravano lontane anni luce dalla nostra realtà. In un batter d’ali ci sorprese la stessa sorte. Ancora una volta nella storia dell’uomo, il caso si sposò con la necessità. Fummo segregati in casa da quel virus perfido e invisibile, che colpiva in modo subdolo e inaspettato, senza riguardi per nessuno, ma che si accaniva contro i più deboli. La quotidianità presentò il suo volto tragico con le sirene incessanti delle autoambulanze lombarde, con le immagini delle terapie intensive, con i corpi seminudi intubati, con le teste dentro caschi che cercavano soffi di vita, con i sanitari dentro scafandri subacquei, con un prete che dava l’ultimo saluto a chi aveva lottato invano, lontano da uno sguardo, da una mano, da una carezza di un figlio, di una moglie, di un amico, di un ultimo saluto. Era insostenibile il pensiero che lì c’era mio figlio. Dietro ogni mascherina di quegli eroi moderni vedevo il suo volto, sotto ogni copricapo i suoi capelli, dentro quelle tute trasparenti il suo corpo e osservavo le sue mani che infilavano aghi e amorevolmente tessevano trame di vita o almeno ci provavano. Era in atto una guerra non dichiarata o comunque una lotta terribile contro un nemico inafferrabile e le prime linee erano quelle più esposte, quelle che combattevano in trincea alla distanza di un respiro dalla voracità di quel virus. Era una lotta attimo per attimo che non ammetteva distrazioni, anzi il mostro era più insidioso quando la tensione si allentava e i nuovi guerrieri si liberavano dell’armatura e pensavano: «Per oggi è finita». I media davano notizie che in tanti erano caduti nella sua trappola; il perfido nemico era stato più furbo. E tremavo. 7


Tra quei corpi sulla linea del confine tra la vita e la morte vedevo muoversi quello di mio figlio e impotente mi affidavo al destino. In attesa e in preghiera che tutto avesse termine, fuggii dall’incessante martellamento dei mezzi di comunicazione, dalla crescente ansia che ne derivava e mi rifugiai nel passato. In quei giorni, tra le tante letture, incrociai una poesia, La Spigolatrice di Sapri, che mi fece riemergere il ricordo di un personaggio del mio paese a essa in qualche modo riconducibile. La memoria spesso funziona per associazione. La sua casa è ancora in piedi nella parte vecchia del mio paese, Montalbano Jonico. Al centro del golfo di Taranto, tra la Puglia e la Calabria, lĂŹ dove lo Jonio si curva dentro la terra ferma. Nauseato dalle stantie liturgie televisive, dalla insulsa retorica di improvvisati opinionisti che posti davanti a una telecamera si ergevano a oracoli, esaurite le informazioni medico-scientifiche, che per quanto spesso confuse e contraddittorie, erano le uniche per le quali valesse la pena di perder tempo, mi ubriacai di letture. Finalmente avevo il tempo di leggere documenti del passato che avevo accumulato negli anni, di decodificare la scrittura di alcuni manoscritti di quei nostri antenati, di respirare quelle atmosfere, di riviverle. Mi addormentavo a tarda notte con quei fogli sparsi sul letto e i libri accatastati sul comodino, spesso con gli occhiali ancora inforcati, di cui mi liberavo durante il sonno con provvidenziali gesti inconsapevoli. A volte i sogni amplificano segmenti della nostra vita quotidiana, li distorcono o ci rappresentano improbabili desideri che abbiamo seppellito in qualche angolo della nostra mente. 8


Capitolo 2 Era sera, i versi della Spigolatrice di Sapri mi riecheggiavano ancora nella mente quando una voce interiore mi consigliò di andare a visitare con calma palazzo De Leo. Approfittando del silenzio e del deserto in cui il paese era precipitato, mi sarei incamminato tra strade e vicoli deserti. A tutti era stata imposta la prigione tra le mura domestiche per evitare che il mostro dilagasse, pena pesanti sanzioni civili e penali. Dovevo infrangere la legge ma l’avrei fatto con accortezza, da solo, senza pericolo per gli altri e per me stesso. Studiai il tragitto in ogni minimo dettaglio per evitare di incrociare le forze dell’ordine che sorvegliavano le strade. Guardingo come un ladro, con passo spedito iniziai il percorso. Fu piĂš facile di quanto avessi immaginato. Giunsi davanti al portone di ingresso di palazzo De Leo, salendo a sinistra da Porta Pandosia, in quella lunga via antica del centro storico di Montalbano Jonico. Quella poesia, La Spigolatrice di Sapri, che continuava a martellarmi in testa, era presente in tutti i libri di letteratura che le scuole medie adottavano ai miei tempi. 9


Era un inno al sacrificio della vita per l’amor patrio, lo stesso che in quei tempi pandemici riemerse tra paura, coraggio e vigliaccheria; essa aveva una incredibile forza evocatrice di immagini suggestive, che con il passare degli anni non erano state seppellite nel buco nero della mia memoria. La Spigolatrice di Sapri a scuola dovevamo obbligatoriamente impararla a memoria; era una fatica enorme, ma che ci abituava a esercitarla e allora non sapevo ancora che avesse un qualche legame con il mio paese. In quel palazzo aveva abitato il medico Vincenzo De Leo e la sua numerosa famiglia. Luigi Mercantini, l’autore di quella poesia, era stato ispirato dalla tragica vicenda dello sbarco a Sapri di Carlo Pisacane, un ex militare dalla vita avventurosa, imbevuto delle idee del socialismo utopico e spinto da un feroce sentimento antiborbonico, e dei suoi uomini che erano stati massacrati dai soldati fedeli al Re e dal popolo, convinto, non senza ragioni, che si trattasse di gentaglia, galeotti o avanzi di galera, che avrebbero messo a ferro e fuoco le loro abitazioni. Essi erano stati avvisati dell’imminente sbarco tramite una lettera o una soffiata di un “traditore”. Venne accusato lui, il medico chirurgo montalbanese Vincenzo De Leo, unico prigioniero politico relegato a Ponza, che sull’isola aveva accolto il Pisacane, aiutandolo ad arruolare ergastolani, camorristi e delinquenti di ogni risma liberati dal carcere e a rifornirsi di armi e di cibo, ma non aveva voluto seguirlo in quell’impresa, perché lucidamente la riteneva destinata alla sconfitta, si era altresì convinto che fosse un uomo in quel momento fuori di testa. A incidere sulla sua decisione a desistere era stato anche il suo corpo, troppo appesantito dopo tanti anni di carcere duro. 10


A lui venne dunque attribuito il tradimento che aveva portato alla morte quei “trecento giovani e forti” e Carlo Pisacane, fuggito a Sanza in provincia di Salerno e massacrato dalla folla secondo alcune versioni o suicidatosi secondo altre. Tra quei “trecento giovani” la spigolatrice di Sapri non vide più “quegli occhi azzurri e quei capelli d’oro”! Quell’accusa di tradimento, di delazione, di essere stato la causa di quella carneficina, ripresa e dibattuta dai più importanti organi di informazione dopo l’Unità d’Italia e oggetto di tesi controverse di autorevoli storici, politici e opinion makers dell’epoca, pesò su De Leo e condizionò il resto della sua esistenza. Di quell’antico portone è sopravvissuta una sola anta e quel legno scrostato, mai ristrutturato dopo oltre due secoli, ha visto passare chissà quante generazioni di uomini e tra esse la sua, quella del medico Vincenzo De Leo, uno dei proprietari di quel palazzo. In qualche anfratto o nei fori ancora visibili lasciati dalle borchie in quello sbiadito residuo di portone, devono essersi conservate le immagini del passato, di quella di Vincenzo De Leo, del suo corpo robusto, del suo viso quadrato, come quello del padre, incorniciato da barba e baffi incolti, del suo sguardo volitivo. Lì deve essersi impresso il suo alito, la sua voce, il suo sguardo guerriero e il rumore dei suoi passi pesanti sulle pietre che pavimentano quell’ingresso. Non è accettabile che le vite e le storie degli uomini finiscano nella disperazione del nulla, deve esservi un luogo, degli oggetti dove la loro memoria, invisibile, si fissa in eterno. È stato inventato di tutto, ma la macchina del tempo è ancora un sogno dell’uomo e il suo surrogato sono la memoria, il racconto, la narrazione, i documenti, i manoscritti, l’immaginazione. 11


In quei giorni mi ero immerso anche nella lettura di un romanzo di Gustav Meyrink, Il Golem, che, ambientato nel ghetto di Praga, ci narra di un cappello scambiato nel Duomo di quella città, distrattamente dal protagonista con un altro non suo e tramite il quale egli rivive l’intera vita del suo vecchio proprietario. Quanta verità c’è in quel libro? Solo leggenda o illusione? Tuttavia quella storia tentò di aprire uno squarcio oltre la materia e l’incedere distruttivo del tempo. Avvolto dall’atmosfera magica e inquietante di quella bislacca serata in quell’antico palazzo, alzai gli occhi verso la prima volta in muratura, appena dopo aver varcato il portone d’ingresso. Era buio, ma il chiarore della luna piena lasciava intravedere un martello scolpito in rilievo su di essa, sulla seconda volta, poco più avanti, avrei poi visto in modo più nitido una mano, simboli inequivocabili della “costruzione” e della “fratellanza” massonica. A sinistra, a piano terra, osservai la porta di ingresso di un’abitazione dove avevo trascorso i primi anni della mia infanzia. Abitavo con la mia famiglia in quello che per i montalbanesi era noto come “il portone De Leo”. Da piccolo avevo paura di rimanere da solo in quella casa perché avevo sentito discorrere gli adulti su presunti fantasmi che infestavano quel luogo, di pietre che venivano lanciate dall’alto di quel palazzo sui passanti, ma senza ferirli. L’esistenza poi di quella mano e di quel martello scolpiti sotto le due volte, erano per me simboli sinistri. Adiacente al portone abitava una vecchia, il cui aspetto a noi bambini incuteva terrore – ancor di più se ci sorrideva mostrando l’unico dente centrale della sua bocca rugosa, che era sopravvissuto al logorio del 12


tempo. Attraversavamo quel portone sempre di corsa e con il cuore in gola. Dopo che traslocammo mi rimase sempre impresso un ricordo inquietante e oscuro di quel luogo. Quella sera i pensieri si affastellavano nella mente, a volte più densi altre volte più velati, trasportati e dispersi come le nuvole dalla forza del vento, mentre andavo a destra, attraversando un altro portone, nell’androne di accesso al piano superiore del palazzo, anch’esso divorato dagli anni. Nell’oscurità, in alto sul lato destro, una minuscola lampadina offriva una flebile luce giallognola a un quadro della Madonna di Anglona, che in quello scenario assumeva sembianze demoniache. Sul muro di fronte, una locandina funebre – mai rimossa dagli anni ’50 – rendeva ancor più tetro quell’androne. Salii le scale in quel silenzio cupo e opprimente e mi soffermai sul ballatoio ad ammirare archi e finestre del palazzo e la volta del cielo stellato. Superati gli ingressi e le scale tetre e in penombra mi sembrò di riemergere da un incubo e di aver ritrovato la realtà con animo rasserenato: quel cielo stellato e quel fabbricato con archi e pensiline artistiche mi riconciliarono con il mondo e con la vita. Ma durò pochi attimi quella piacevole sensazione di rientro nella realtà, nel qui e ora, perché quella sera, in quel palazzo deserto la burrascosa esistenza di Vincenzo De Leo mi attraversò improvvisa: in un disordine apparente su ogni pietra vidi impressa un’immagine, in ogni angolo rivivevano le vicende del suo passato, in quell’atmosfera antica tutto riemergeva e tornava alla luce, gli echi di voci di una quotidianità antica, sepolta dal tempo trascorso, risuonavano a volte confusi e incomprensibili, altre volte più limpidi. 13


14


Il tempo e lo spazio si sciolsero come nebbia e la forza del ricordo illuminò anche gli angoli più bui di quel palazzo. Mi sedetti sul muretto del ballatoio, sotto uno dei tre archi in mattoni che si affacciano sulla piazza che porta il suo nome e fu in quel preciso istante che dalla strada risuonò il rumore, come proveniente da un tempo remoto, di passi lenti e pesanti. Fu sufficiente sporgermi di poco per vedere un uomo anziano che incedeva dalla via di fronte senza alcuna fretta. Aveva un portamento regale, era di altezza leggermente al di sopra della media degli uomini del sud; il volto ascetico, affilato e baffuto era lasciato libero da un cappello a falde larghe e da un cappotto a ruota che lo avvolgeva fino al mento e da cui spuntava il collo della camicia, alto e bianco, di un candore indescrivibile, e un papillon nero come la pece che rendeva ancor più luminoso quel collo bianco. Ebbi la sensazione che anche lui, come il rumore dei suoi passi, provenisse da un’altra epoca, un fantasma buono che non mi trasmetteva nulla di inquietante. Quell’uomo varcò poi il portone di ingresso di palazzo De Leo e i suoi passi si udirono ancora più lenti di prima, mentre attraversava l’androne e poi saliva le scale. Sembrava che i suoi piedi faticassero a conquistare i gradini delle scale, procedevano lentamente gradino dopo gradino. Lo attesi in piedi, immobile sul ballatoio. Quando mi fu vicino ci scrutammo con uno sguardo intenso e i suoi occhi fecero svanire un accenno di ansia che mi stava per vincere. Con tre dita della mano destra, il pollice, l’indice e il medio, sollevò leggermente il cappello in se15


gno di saluto e si presentò: «Sono il Cavaliere Prospero Rondinelli. Già assessore alla Cultura di questo Comune tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900. Poi bibliotecario a vita senza alcuna remunerazione, le rendite di alcune proprietà ereditate dai miei genitori bastavano per farmi campare. Discendevo da parte di mio padre da una famiglia di origine fiorentina approdata al sud per questioni politiche e da parte di mia madre dai Troyli de’ Troyli de’ baroni di Scaffort, imparentati con il principe Colonna di Roma. Da più di un secolo sono andato oltre, in quel luogo dove tutto è sintesi e luce e pace. Di questa terra ho narrato le vicende, tutte quelle che ho potuto apprendere utilizzando le fonti più varie. So che coltivi i miei stessi interessi e abbiamo anche condiviso la stessa esperienza di assessore alla Cultura, sia pure in tempi molto diversi; dal mondo dal quale provengo le sensibilità dei viventi ci attraggono come magneti». Rimasi per qualche attimo paralizzato, poi controllai l’emozione e d’un fiato profferii: «Sono a dir poco lusingato della vostra presenza. Ma, come potete immaginare, interloquire con un morto non può lasciarmi indifferente, mi crea un po’ di inquietudine». Don Prospero accennò a un sorriso. «Dovresti essere più preoccupato quando conversi con tanti viventi già morti, li incontri ogni giorno che si trascinano nella vita senza uno scopo, che pensano di essere svegli e vivi ma dormono e sono già morti. Senza una bussola e un orizzonte sono inutili e pericolosi per loro stessi e per gli altri. Essi sono in preda alle più diverse passioni e ai più perversi sentimenti, vivono totalmente soggiogati dai sensi e si cibano di ipocrisia in ogni istante, dicono una cosa, ma ne pensano un’altra. Noi morti “viventi” ormai siamo nella verità e ci è impossibile mentire a noi stessi e agli al16


tri. Me ne sono andato da questo mondo da quasi un secolo, era il 1929, non pretendere che ricordi anche il mese e il giorno, è passato troppo tempo, ma il mio amore per questi luoghi e le testimonianze che ho lasciato sono più vive di prima e io continuo a vivere in esse. Avevo 78 anni, una discreta età allora per congedarsi per sempre dal mondo. Negli ultimi anni della mia vita, mi ero stancato un po’ di tutto e annegavo nel vino e nel rosolio la fatica di vivere. Che Dio benedica quelle sbronze! Avevo un po’ esagerato e il fegato a un certo punto mi presentò il conto.» «Mi avete convinto, mi trovo qui, perché affascinato dalla vicenda umana, politica e storica del medico Vincenzo De Leo che in questo palazzo ha vissutoPur non condividendo alcune sue scelte, non ho potuto fare a meno di apprezzare il suo coraggio, la sua abnegazione, il suo disinteresse, la sua generosità, la profonda convinzione nelle sue idee e la capacità di pagare per esse qualsiasi prezzo, in una parola il suo spirito guerriero.» «Sono stato tra coloro che davanti al suo feretro hanno ricordato la sua figura, la sua vita, la sua personalità, le sue azioni, i suoi patimenti. Vuoi che non lo sappia? Dopo l’Unità d’Italia Vincenzo era molto deluso, anche se continuò a sostenerla; con molto ritardo gli venne conferito il titolo di Cavaliere. Era deluso non solo perché non ebbe i riconoscimenti che meritava, ma anche per alcuni provvedimenti del governo sabaudo», replicò don Prospero. «Per esempio?» gli chiesi. «Lui dal primo momento sognava l’esproprio del latifondo, la quotizzazione delle terre da assegnare ai braccianti e ai contadini. Per queste cose si era battuto sin dal 1848, quando ottenne dai Borboni tale risultato per alcuni terreni demaniali, e invece i Sabaudi inviarono i loro proconsoli che si ritrovarono 17


da un giorno all’altro proprietari di centinaia di ettari e di palazzi sontuosi. Il latifondo non ebbe fine, ma cambiarono solo alcuni padroni. Fu quello, per esempio, che successe alla masseria di Andriace, regalata alla famiglia torinese dei Faraldi. Ottime persone, ma i nostri braccianti? Anche i loro provvedimenti a danno dei cattolici non vennero graditi da Vincenzo che era un convinto credente. Circa duemila anni prima i romani avevano fatto la stessa cosa distruggendo le fattorie della Magna Grecia e come allora non ci ribellammo, perché noi siamo fatti per subire e solo raramente alziamo la testa. Quando accade la nostra rabbia è incontenibile e non conosciamo limiti e ostacoli.» «Insomma, passammo da una schiavitù a un’altra?» «È quello che lui sosteneva, anche se affermava che avevamo raggiunto l’unità nazionale e che non era poca cosa.» «Don Prospero, sono qui perché ho desiderio di rievocare la sua vita avventurosa. Potremmo farlo insieme!» «Credi che sia venuto qui per caso? Dovrai solo perdonare qualche mia stranezza. Ricorda sempre che hai davanti solo un’ombra, un morto “vivente”, la proiezione del mio essere, la mia carcassa umana era ormai malridotta e ora è solo cenere e ossa e non mi curo della sua fine. E dovrai perdonare anche il mio italiano. Come ben comprenderai è un po’ datato, ma non so, non voglio e non posso fare di meglio.» «Dell’italiano ve ne assumerete per intera la responsabilità. Quanto alle stranezze spero che non esageriate: ho ancora i piedi ancora ben piantati per terra, anche se la testa spesso si ostina ad andare per conto suo oltre il presente e le apparenze», gli replicai con un sorriso che don Prospero ricambiò. 18


Da quel momento tutto quello che avvenne fu solo un rincorrersi di ricordi, di aneddoti, di fatti storici o spesso solo di rievocazione di contrasti, invidie e gelosie, di vicende umane liete e tragiche, vere o verosimili. Concordammo che quell’ombra di morto vivente, don Prospero Rondinelli, avrebbe rievocato i fatti veri, le cose che erano o si supponeva che fossero realmente accadute e lasciato alla mia fantasia e alla mia immaginazione di fare qualche incursione tra documenti e avvenimenti vari. «I morti» disse don Prospero «sono realisti e concreti, non hanno più bisogno, come voi, di immaginare e sognare per illudersi e continuare a vivere».

19


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.